Sembra siano passati un centinaio di anni dalla domanda posta da Linda Nochlin “Perché non ci sono state grandi donne artiste?” nel suo saggio omonimo apparso su ARTNews (Why have there been no great women artists?). In effetti è quasi un altro secolo (1971) la cui scomparsa è stata segnata dalla risonanza e dall’entusiasmo nel salutare il nuovo millennio. Una volta attenuata la frenesia, l’anno 2000 è diventato molto più simile a un piagnucolio, fino a quando le molteplici esplosioni del settembre 2001 hanno ridefinito il passaggio al nuovo secolo, risuonando fino ad oggi.
Lettera di Nancy Spero a Lucy R. Lippard, 29 ottobre, 1971.
Avanzare la questione inevitabile “Che cosa, o dove, è l’arte femminista nel 2015?” (N.d.R. anno di stesura del testo) implica che la domanda e il progetto siano entrambi superati. Ci si potrebbe trovare su un terreno instabile, esaminando risposte ambivalenti e contrarie. Come molti sostengono, sia la politica che le pratiche femministe sono ormai trascorse e una certa ingenuità connota il quesito del 2015.
Tuttavia, i dibattiti che infuriavano in Occidente negli anni ’70, sull’esclusione delle donne dalla storia dell’arte e il sessismo strutturale della maggior parte delle discipline accademiche, potrebbero convincerci che il punto di vista di Peggy Phelan sia ancora attuale: “Il femminismo è la convinzione che il genere è stato, e continua ad esserlo, una categoria fondamentale per l’organizzazione della cultura. Inoltre, il modello di quella organizzazione di solito favorisce gli uomini rispetto alle donne” [i].
Negli anni in cui storiche dell’arte femminista come Griselda Pollack, Rozsika Parker, Lucy R. Lippard, tra le altre, denunciavano le ideologie patriarcali incorporate nella storia dell’arte, le loro indagini teoriche erano inconsapevolmente, eppure curiosamente, collegate agli eventi che si stavano svolgendo in Pakistan.
Sarwar & Salima, 1970. Photo di Rashida Reza.
Nel 1983, quando sedici donne artiste di Lahore si sedettero per redigere e firmare il Women Artists Manifesto, erano a malapena coscienti delle battaglie in cui le storiche dell’arte femminista erano impegnate. Per quelle femministe occidentali, l’insegnamento della storia dell’arte non era semplicemente una questione di “aggiungere” le donne nella storia dell’arte, ma un attacco molto più radicale alla visione eurocentrica maschile dei canoni dell’arte e delle istituzioni artistiche.
Uno dei primi gruppi emersi nel movimento delle donne negli anni ’70 in Occidente è stato il Women’s Workshop of the Artists Union a Londra che così riassume la visione delle complesse questioni che le riguardavano: “Abbiamo formato un collettivo di donne artiste per la nostra situazione/condizione comune. Condividiamo problemi analoghi, se non identici, di isolamento; sia da altre donne artiste che dall’isolamento generale degli artisti in una società estranea all’attività creativa collettiva”. [ii]
Poster per 13 Women Artists, 117–119 Prince Street, New York, 1972.
L’isolamento dalle altre artiste era dovuto al fatto che poche donne si collocavano nella sottocategoria di “artiste donne” e si battevano timorose per il femminismo. In gran parte aderivano al sistema di valori dominante che sosteneva le basi patriarcali delle istituzioni e dei protocolli dell’arte. La nozione di “genio” ha continuato a essere specifica di genere.
L’insoddisfazione nei confronti del discorso artistico, la pedagogia prevalente nelle scuole d’arte, le politiche di gallerie e musei hanno provocato accese discussioni e l’azione di altre donne artiste. Le famose (o famigerate) “gorilla girls”, vestite con abiti neri e maschere da gorilla, si sono esibite in serate inaugurali di musei, esposizioni, opening di gallerie e speakeraggio nei campus universitari di tutti gli Stati Uniti per creare uno scompiglio durante eventi tranquilli. Il clima politico in Nord America e in Europa è stato senza dubbio un catalizzatore. Il movimento per i diritti civili, le dimostrazioni contro la guerra in Vietnam e le proteste studentesche del 1968 in Europa hanno generato un periodo di disordini sociali, agitazione politica e violento attivismo di strada.
Gli scritti di Simone de Beauvoir, in particolare l’apparizione de Il secondo sesso, che ha attraversato il mondo con la sua traduzione inglese nel 1953, proclamavano un nuovo approccio al genere e alle differenze. Annunciavano che la differenza era “costruita” e non “naturale”, aprendo così la strada per rovesciare innumerevoli “apple carts”. Femministe in Europa, Nord America e Australia hanno iniziato a creare collettivi, organizzare esposizioni, scambiarsi idee e rivendicare la propria partecipazione negli spazi pubblici.
Il primo programma accademico dedicato alla creazione di arte da parte delle donne, incorporando principi rivolti all’agenda politica femminista, fu avviato da Judy Chicago a Fresno, in California, nel 1971 e successivamente in collaborazione con Mariam Schapiro, al Cal Art California, nel 1972.
cover del catalodo di Womanhouse, disegnata da Sheila DeBretville for, 1972.
Ventiquattro donne hanno ristrutturato una casa a Los Angeles nel 1972 per trasformarla in una installazione/esposizione intitolata Womanhouse. Si trattava, in primo luogo, di un commento sul sistema delle gallerie commerciali che era inospitale e sfavorevole per le donne artiste e, in secondo luogo, una mossa per dissolvere i confini tra lo spazio domestico e quello espositivo pubblico. La mostra Womanhouse includeva lavori realizzati con cosmetici, biancheria intima e assorbenti, che hanno scioccato e provocato un pubblico non solo locale che tuttavia si presentò in gran numero per vedere i lavori esibiti. Questo desiderio di stupire e sconcertare ha definito l’arte femminista negli anni ’70.
Il coinvolgimento di Nancy Spero nel movimento contro la guerra del Vietnam negli anni ’60 ha coinvolto la sua pratica con un più ampio attivismo politico. Insieme ad altre donne artiste, si è concentrata sulla produzione dell’opera, sulle “cose che contano”. Sensibile alla “natura di genere della guerra”, Spero ha usato frammenti di testo ingranditi, stampati a mano, insieme ad estratti di rapporti di Amnesty International sulla tortura delle donne in Sud Africa e Sud America. Molti anni dopo, ha lavorato sui muri nelle strade cariche di conflitto a Belfast, nell’Irlanda del Nord. Nancy Spero è stata anche determinante nella fondazione di W.A.R. (Women Artists in Revolution) e A.I.R. (Artists in Residence), la prima galleria di sole donne a gestione cooperativa fondata nel 1972 a New York.
Judy Chicago, Studio per Virginia Woolf, daThe Dinner Party, 1978.
Gran parte delle immagini e del focus sull’arte femminista negli anni ’70 era incentrato sul corpo. L’ambiziosa installazione collaborativa di Judy Chicago The Dinner Party (assemblata nel 1970-1979) attirò l’attenzione sull’estetica di un canone emergente. Questa installazione, che ha girato il mondo da allora, vista da migliaia di persone sin dalla sua istituzione (alcuni dicono, la più ampia audience al mondo) ha scatenato una tempesta di polemiche e controversie. Le posizioni intorno a un tavolo da pranzo di piatti in ceramica squisitamente decorati, con delle vulve ricamate e rese meticolosamente icastiche, si esibivano per l’analisi e la messa in discussione critica del contenuto.
Judy Chicago, The Dinner Party, lavoro di cucito in soffitta, 1977.
Le pratiche domestiche “femminili” come il ricamo, il macramé, la realizzazione di abiti erano adesso esaltate e valorizzate. L’idea dell’“essenza” dell’immagine come componente universale e costante nel lavoro dell’artista donna, ha acquisito credibilità, insieme a una crescente consapevolezza che mentre l’atto di celebrare l’identità e l’esperienza di vita delle donne era esteticamente piacevole, poteva però inciampare nella trappola dell’essenzializzazione della femminilità. Si è capito che enfatizzare eccessivamente quegli aspetti dell’esperienza femminile, che erano stati soppressi in una società dominata dagli uomini, poteva ridurre il genere femminile esclusivamente al suo sé biologico.
Insieme a questo, la tendenza della pratica artistica a incoraggiare le abilità “femminili” poteva anche diventare riduttiva, se non osservata nel contesto delle condizioni di vita delle donne e delle loro diverse storie e posizioni. L’indagine accurata di questo aspetto della femminilità era inevitabile, dal momento che poteva incarnare una sottomissione nascosta al posto del suo intento emancipativo originario. Come postulato da Griselda Pollack “le instabili geografie del femminismo devono essere prese in considerazione in ogni storia dell’arte femminista”. [iii]
poster Where We At Collective. Black Women Artists, Cookin’ and Smokin‘, 1972.
Sebbene l’attenzione sul corpo e le successive trasformazioni nel contenuto e nella forma fossero il segno di uno sviluppo dinamico nei discorsi teorici accompagnati dalla pratica artistica, restavano alcune domande preoccupanti. L’ingresso delle donne di colore e di artisti non occidentali, nei dibattiti in corso, ha evidenziato il tenore del discorso femminista. Nel 1980, una mostra intitolata Dialectics of Isolation: An Exhibition of Third World Women Artists of the U.S. presso A.I.R. Gallery a New York ha dimostrato ciò che le donne di colore avevano sentito a lungo. L’artista cubana Ana Mendieta, curatrice dell’esposizione, notava nel catalogo che “il femminismo americano è fondamentalmente un movimento della classe media bianca”. [iv]
Il movimento delle donne artiste in Gran Bretagna, tuttavia, era strettamente allineato con i sindacati e la loro lotta politica. La fine degli anni ’70 e ’80 sono stati un momento in cui tutti gli aspetti di genere, classe, colore e accessibilità, hanno informato l’agenda artistica femminista, rompendo le barriere e allargando le discussioni.
In Pakistan, ad oggi, l’arte è l’esempio di come sia ancora forte il legame tra le donne, l’istruzione e il movimento femminile nel paese. Negli anni ’80, durante il regime repressivo del generale Zia ul Haq, numerose artiste e leader culturali si riunirono per formare il movimento Women’s Action Forum. I manifesti, gli slogan, il movimento stesso vivevano grazie all’energia di poetesse, musiciste, artiste, avvocatesse e attiviste. Questa tradizione è rimasta viva. Da allora le donne hanno sempre rappresentato l’avanguardia nell’arte contemporanea, senza paura di riflettere e rappresentare temi con una forte connotazione socio-politica. Le istituzioni e i consigli d’arte, i dipartimenti d’arte universitaria, le gallerie, le curatele sono principalmente in mano alle donne: questo è di certo un fenomeno raro per qualsiasi paese. Per un paese musulmano poi, questa è una situazione unica.
Salima Hashmi, Zones of Dreams, 1996.
immagine tratta da Salima Hashmi Archive, in Asia Art Archive [https://aaa.org.hk/en/collection/search/archive/salima-hashmi-archive]
Il Women’s Action Forum era infatti una ampia organizzazione basata su gruppi di donne. Anche se sarebbe scorretto definire questa lotta “femminista” nel senso accettato del termine, c’erano molte confluenze. Le arti e la letteratura in Pakistan alimentavano il movimento delle donne in modo distinto, inglobando le posizioni femministe in modo ampio e autonomo.
Ciò non significa che i dibattiti e le divisioni che hanno polarizzato le teoriche femministe, le storie e le pratiche del Nord non si rispecchiassero in certi modi, nei gruppi femministi in Pakistan.
Tuttavia, le donne artiste, il cui contributo all’evoluzione dell’immaginario, dei processi e della pedagogia maturati al tempo del Generale Zia ul Haq, continuarono a ispirarsi consapevolmente al loro radicalismo. Hanno compreso in profondità il senso delle lotte per la loro vita e il loro lavoro. Tra queste c’erano Durriya Kazi, Summaya Durrani, Nahid Raza, Mehr Afroze, Lalarukh, Naazish Ata Ullah, Salima Hashmi, Nilofer Akmut e nella generazione successiva Naiza Khan, Aisha Khalid, Laila Rehman, Sabina Gillani, Tazeen Qayum, Shahzia Sikandar, Masooma Syed, Farida Batool, Hamra Abbas e molte altre.
cover del libro di Salima Hashmi, Unveiling the Visible: Lives and Works of Women Artists of Pakistan, 2003.
Mentre in Occidente, il corpo femminile e la sua rappresentazione da parte degli uomini venivano contestati dalle femministe, il corpo femminile ha avuto una differente posizione nel contesto pakistano. Si trovava al centro dell’agenda politica dello Stato pakistano che rivendicava la proprietà della sessualità femminile e anche la sua apparenza. Lo Chaador era un simbolo di soffocamento e oppressione, mascherato come protezione.
Così l’umorismo nero, la derisione e il disprezzo, di natura nettamente diversa, a quella del Nord, erano lo spirito che animava l’arte delle donne pakistane. Il contesto culturale ha indirizzato il lessico che è stato sfumato e spesso ambiguo. C’era un desiderio deliberato di esplorare l'”innominabile”. C’erano, e continuano ad esserci, correnti sotterranee sovversive e atti di ribellione nascosti nel lavoro delle donne artiste.
Il corpo è ancora il luogo della ribellione, la cui copertura – o il suo svelamento – è fertile, ambivalente e complicata. La maggior parte delle artiste è riluttante ad etichettare il proprio lavoro come “femminista”, essendo più a proprio agio nel descrivere se stesse come chi “lavora sui problemi delle donne”. Ciò non sorprende, considerando che l’arte e la critica femministe sono circolate soprattutto dagli anni ’80. Ci sono stati dibattiti molto coinvolgenti sulla cultura popolare, le pratiche artistiche marginali e le collaborazioni, che hanno contribuito a rovesciare le comode gerarchie della storia dell’arte e della teoria.
La mostra di venticinque donne pakistane, intitolata An Intelligent Rebellion: Women Artists of Pakistan, che ha girato la Gran Bretagna ed è stata esposta a Parigi (1994-1996), ha dimostrato il pluralismo del lavoro delle donne e la sua potente auto-rappresentazione.
La mostra Woman scape, allestita ad Alhamra nel 1995, per celebrare una conferenza e un seminario sulle donne, comprendeva il lavoro di donne artiste, artigiane e studentesse che si mescolavano in modo profondo, significativo e animato. Quasi due decenni dopo, il lavoro delle donne professioniste comprende molteplici richieste estetiche che affrontano labirintiche le pressioni sociali e anche investigazioni personali su forma, mezzo e significato.
Negli anni ’80, le artiste donne come altre professioniste creative si sono trovate sotto l’ombrello del femminismo senza nominarlo. Le donne hanno adottato queste strategie come parte di una lotta più ampia. “Oggi queste posizioni radicali e di rottura sono accettate, perché il mondo contemporaneo è molto diverso”, osserva Naazish Ataullah, il cui lavoro comprende aspetti relativi all’invecchiamento e alla perdita. Un’artista più giovane, Farida Batool, riflette sul fatto che le artiste donne si sono distaccate dalla nozione di femminismo, ma non si rendono conto che il loro lavoro continua a rimanere intrappolato nella complicazione di essere una donna nella società pakistana. Possono, di fatto, aver ceduto il diritto di parlare con la propria voce.
Mentre le storiche e critiche d’arte femminista hanno trasformato il corso delle discipline artistiche per tutto il tempo a venire, l’etichetta è costretta dal proprio marchio. Un percorso tortuoso deve essere adottato per riaprire la discussione sullo spazio occupato dalle donne. Le loro vite possono essere marginalmente cambiate, le loro aspirazioni maturate e rafforzate, ma questo è sufficiente?
Ogni giorno assistiamo a notizie di maggiore violenza, discriminazione e stati di negligenza. E proprio qui, non molto lontano da noi, a Dir, nel nord del Pakistan, in una recente elezione, delle 47.000 elettrici donne registrate, nessuna è andata a votare il 30 aprile 2015. La causa femminista attende l’artista.
[traduzione Elvira Vannini]
Salima Hashmi è artista e scrittrice femminista. Dean della School of Visual Arts & Design alla Beaconhouse National University, Lahore (Pakistan).
Nel 1983 ha scritto e firmato insieme a 15 artiste donne Women Artists of Pakistan Manifesto, che è stato recentemente pubblicato da Penguin Books all’interno del volume Why Are We ‘Artists’? 100 World Art Manifestos. Il manifesto era una protesta contro la pervasiva misoginia. Consapevole del clima politico pakistano, la scrittura di Salima Hashmi dà uguale peso all’agenda femminista, alle questioni estetiche e all’eredità del transnazionalismo, indaga la situazione sociale, le leggi oppressive, non solo contro il genere ma contro le minoranze, supportando attraverso l’arte la lotta delle donne e l’ottenimento della democrazia.
Sheba Chhachhi, Sathyarani – Anti Dowry Demonstration, Delhi, 1980.
Il testo è apparso in artnowpakistan con il titolo di Guerrillla Girls: Feminist Art Then and Now: [http://www.artnowpakistan.com/guerrilla-girls-feminist-art-then-and-now/]
[i] Peggy Phelan, “Survey” in Helena Reckitt (a cura di), Art and Feminism, Phaidon, London, New York, 2001.
[ii] Spare Rib, July 1974, no: 29.
[iii] Griselda Pollock, Generation and Geographies in the Visual Arts: Feminist Readings, Routledge London, New York, 1996.
[iv] citazione di Peggy Phelan nel suo saggio ‘Survey’ in in Helena Reckitt (a cura di), Art and Feminism, Phaidon, London, New York, 2001.
Lorna Simpson, Rodeo Caldonia, da sinistra a destra, Alva Rogers, Sandye Wilson, Candace Hamilton, Derin Young, Lisa Jones, alla protesta degli Art Workers Coalition, Whitney Museum, 1971.
Sembra siano passati un centinaio di anni dalla domanda posta da Linda Nochlin “Perché non ci sono state grandi donne artiste?” nel suo saggio omonimo apparso su ARTNews (Why have there been no great women artists?). In effetti è quasi un altro secolo (1971) la cui scomparsa è stata segnata dalla risonanza e dall’entusiasmo nel salutare il nuovo millennio. Una volta attenuata la frenesia, l’anno 2000 è diventato molto più simile a un piagnucolio, fino a quando le molteplici esplosioni del settembre 2001 hanno ridefinito il passaggio al nuovo secolo, risuonando fino ad oggi.
Lettera di Nancy Spero a Lucy R. Lippard, 29 ottobre, 1971.
Avanzare la questione inevitabile “Che cosa, o dove, è l’arte femminista nel 2015?” (N.d.R. anno di stesura del testo) implica che la domanda e il progetto siano entrambi superati. Ci si potrebbe trovare su un terreno instabile, esaminando risposte ambivalenti e contrarie. Come molti sostengono, sia la politica che le pratiche femministe sono ormai trascorse e una certa ingenuità connota il quesito del 2015.
Tuttavia, i dibattiti che infuriavano in Occidente negli anni ’70, sull’esclusione delle donne dalla storia dell’arte e il sessismo strutturale della maggior parte delle discipline accademiche, potrebbero convincerci che il punto di vista di Peggy Phelan sia ancora attuale: “Il femminismo è la convinzione che il genere è stato, e continua ad esserlo, una categoria fondamentale per l’organizzazione della cultura. Inoltre, il modello di quella organizzazione di solito favorisce gli uomini rispetto alle donne” [i].
Negli anni in cui storiche dell’arte femminista come Griselda Pollack, Rozsika Parker, Lucy R. Lippard, tra le altre, denunciavano le ideologie patriarcali incorporate nella storia dell’arte, le loro indagini teoriche erano inconsapevolmente, eppure curiosamente, collegate agli eventi che si stavano svolgendo in Pakistan.
Sarwar & Salima, 1970. Photo di Rashida Reza.
Nel 1983, quando sedici donne artiste di Lahore si sedettero per redigere e firmare il Women Artists Manifesto, erano a malapena coscienti delle battaglie in cui le storiche dell’arte femminista erano impegnate. Per quelle femministe occidentali, l’insegnamento della storia dell’arte non era semplicemente una questione di “aggiungere” le donne nella storia dell’arte, ma un attacco molto più radicale alla visione eurocentrica maschile dei canoni dell’arte e delle istituzioni artistiche.
Uno dei primi gruppi emersi nel movimento delle donne negli anni ’70 in Occidente è stato il Women’s Workshop of the Artists Union a Londra che così riassume la visione delle complesse questioni che le riguardavano: “Abbiamo formato un collettivo di donne artiste per la nostra situazione/condizione comune. Condividiamo problemi analoghi, se non identici, di isolamento; sia da altre donne artiste che dall’isolamento generale degli artisti in una società estranea all’attività creativa collettiva”. [ii]
Poster per 13 Women Artists, 117–119 Prince Street, New York, 1972.
L’isolamento dalle altre artiste era dovuto al fatto che poche donne si collocavano nella sottocategoria di “artiste donne” e si battevano timorose per il femminismo. In gran parte aderivano al sistema di valori dominante che sosteneva le basi patriarcali delle istituzioni e dei protocolli dell’arte. La nozione di “genio” ha continuato a essere specifica di genere.
L’insoddisfazione nei confronti del discorso artistico, la pedagogia prevalente nelle scuole d’arte, le politiche di gallerie e musei hanno provocato accese discussioni e l’azione di altre donne artiste. Le famose (o famigerate) “gorilla girls”, vestite con abiti neri e maschere da gorilla, si sono esibite in serate inaugurali di musei, esposizioni, opening di gallerie e speakeraggio nei campus universitari di tutti gli Stati Uniti per creare uno scompiglio durante eventi tranquilli. Il clima politico in Nord America e in Europa è stato senza dubbio un catalizzatore. Il movimento per i diritti civili, le dimostrazioni contro la guerra in Vietnam e le proteste studentesche del 1968 in Europa hanno generato un periodo di disordini sociali, agitazione politica e violento attivismo di strada.
Gli scritti di Simone de Beauvoir, in particolare l’apparizione de Il secondo sesso, che ha attraversato il mondo con la sua traduzione inglese nel 1953, proclamavano un nuovo approccio al genere e alle differenze. Annunciavano che la differenza era “costruita” e non “naturale”, aprendo così la strada per rovesciare innumerevoli “apple carts”. Femministe in Europa, Nord America e Australia hanno iniziato a creare collettivi, organizzare esposizioni, scambiarsi idee e rivendicare la propria partecipazione negli spazi pubblici.
Il primo programma accademico dedicato alla creazione di arte da parte delle donne, incorporando principi rivolti all’agenda politica femminista, fu avviato da Judy Chicago a Fresno, in California, nel 1971 e successivamente in collaborazione con Mariam Schapiro, al Cal Art California, nel 1972.
cover del catalodo di Womanhouse, disegnata da Sheila DeBretville for, 1972.
Ventiquattro donne hanno ristrutturato una casa a Los Angeles nel 1972 per trasformarla in una installazione/esposizione intitolata Womanhouse. Si trattava, in primo luogo, di un commento sul sistema delle gallerie commerciali che era inospitale e sfavorevole per le donne artiste e, in secondo luogo, una mossa per dissolvere i confini tra lo spazio domestico e quello espositivo pubblico. La mostra Womanhouse includeva lavori realizzati con cosmetici, biancheria intima e assorbenti, che hanno scioccato e provocato un pubblico non solo locale che tuttavia si presentò in gran numero per vedere i lavori esibiti. Questo desiderio di stupire e sconcertare ha definito l’arte femminista negli anni ’70.
Il coinvolgimento di Nancy Spero nel movimento contro la guerra del Vietnam negli anni ’60 ha coinvolto la sua pratica con un più ampio attivismo politico. Insieme ad altre donne artiste, si è concentrata sulla produzione dell’opera, sulle “cose che contano”. Sensibile alla “natura di genere della guerra”, Spero ha usato frammenti di testo ingranditi, stampati a mano, insieme ad estratti di rapporti di Amnesty International sulla tortura delle donne in Sud Africa e Sud America. Molti anni dopo, ha lavorato sui muri nelle strade cariche di conflitto a Belfast, nell’Irlanda del Nord. Nancy Spero è stata anche determinante nella fondazione di W.A.R. (Women Artists in Revolution) e A.I.R. (Artists in Residence), la prima galleria di sole donne a gestione cooperativa fondata nel 1972 a New York.
Judy Chicago, Studio per Virginia Woolf, daThe Dinner Party, 1978.
Gran parte delle immagini e del focus sull’arte femminista negli anni ’70 era incentrato sul corpo. L’ambiziosa installazione collaborativa di Judy Chicago The Dinner Party (assemblata nel 1970-1979) attirò l’attenzione sull’estetica di un canone emergente. Questa installazione, che ha girato il mondo da allora, vista da migliaia di persone sin dalla sua istituzione (alcuni dicono, la più ampia audience al mondo) ha scatenato una tempesta di polemiche e controversie. Le posizioni intorno a un tavolo da pranzo di piatti in ceramica squisitamente decorati, con delle vulve ricamate e rese meticolosamente icastiche, si esibivano per l’analisi e la messa in discussione critica del contenuto.
Judy Chicago, The Dinner Party, lavoro di cucito in soffitta, 1977.
Le pratiche domestiche “femminili” come il ricamo, il macramé, la realizzazione di abiti erano adesso esaltate e valorizzate. L’idea dell’“essenza” dell’immagine come componente universale e costante nel lavoro dell’artista donna, ha acquisito credibilità, insieme a una crescente consapevolezza che mentre l’atto di celebrare l’identità e l’esperienza di vita delle donne era esteticamente piacevole, poteva però inciampare nella trappola dell’essenzializzazione della femminilità. Si è capito che enfatizzare eccessivamente quegli aspetti dell’esperienza femminile, che erano stati soppressi in una società dominata dagli uomini, poteva ridurre il genere femminile esclusivamente al suo sé biologico.
Insieme a questo, la tendenza della pratica artistica a incoraggiare le abilità “femminili” poteva anche diventare riduttiva, se non osservata nel contesto delle condizioni di vita delle donne e delle loro diverse storie e posizioni. L’indagine accurata di questo aspetto della femminilità era inevitabile, dal momento che poteva incarnare una sottomissione nascosta al posto del suo intento emancipativo originario. Come postulato da Griselda Pollack “le instabili geografie del femminismo devono essere prese in considerazione in ogni storia dell’arte femminista”. [iii]
poster Where We At Collective. Black Women Artists, Cookin’ and Smokin‘, 1972.
Sebbene l’attenzione sul corpo e le successive trasformazioni nel contenuto e nella forma fossero il segno di uno sviluppo dinamico nei discorsi teorici accompagnati dalla pratica artistica, restavano alcune domande preoccupanti. L’ingresso delle donne di colore e di artisti non occidentali, nei dibattiti in corso, ha evidenziato il tenore del discorso femminista. Nel 1980, una mostra intitolata Dialectics of Isolation: An Exhibition of Third World Women Artists of the U.S. presso A.I.R. Gallery a New York ha dimostrato ciò che le donne di colore avevano sentito a lungo. L’artista cubana Ana Mendieta, curatrice dell’esposizione, notava nel catalogo che “il femminismo americano è fondamentalmente un movimento della classe media bianca”. [iv]
Il movimento delle donne artiste in Gran Bretagna, tuttavia, era strettamente allineato con i sindacati e la loro lotta politica. La fine degli anni ’70 e ’80 sono stati un momento in cui tutti gli aspetti di genere, classe, colore e accessibilità, hanno informato l’agenda artistica femminista, rompendo le barriere e allargando le discussioni.
In Pakistan, ad oggi, l’arte è l’esempio di come sia ancora forte il legame tra le donne, l’istruzione e il movimento femminile nel paese. Negli anni ’80, durante il regime repressivo del generale Zia ul Haq, numerose artiste e leader culturali si riunirono per formare il movimento Women’s Action Forum. I manifesti, gli slogan, il movimento stesso vivevano grazie all’energia di poetesse, musiciste, artiste, avvocatesse e attiviste. Questa tradizione è rimasta viva. Da allora le donne hanno sempre rappresentato l’avanguardia nell’arte contemporanea, senza paura di riflettere e rappresentare temi con una forte connotazione socio-politica. Le istituzioni e i consigli d’arte, i dipartimenti d’arte universitaria, le gallerie, le curatele sono principalmente in mano alle donne: questo è di certo un fenomeno raro per qualsiasi paese. Per un paese musulmano poi, questa è una situazione unica.
Salima Hashmi, Zones of Dreams, 1996.
immagine tratta da Salima Hashmi Archive, in Asia Art Archive [https://aaa.org.hk/en/collection/search/archive/salima-hashmi-archive]
Ciò non significa che i dibattiti e le divisioni che hanno polarizzato le teoriche femministe, le storie e le pratiche del Nord non si rispecchiassero in certi modi, nei gruppi femministi in Pakistan.
Tuttavia, le donne artiste, il cui contributo all’evoluzione dell’immaginario, dei processi e della pedagogia maturati al tempo del Generale Zia ul Haq, continuarono a ispirarsi consapevolmente al loro radicalismo. Hanno compreso in profondità il senso delle lotte per la loro vita e il loro lavoro. Tra queste c’erano Durriya Kazi, Summaya Durrani, Nahid Raza, Mehr Afroze, Lalarukh, Naazish Ata Ullah, Salima Hashmi, Nilofer Akmut e nella generazione successiva Naiza Khan, Aisha Khalid, Laila Rehman, Sabina Gillani, Tazeen Qayum, Shahzia Sikandar, Masooma Syed, Farida Batool, Hamra Abbas e molte altre.
cover del libro di Salima Hashmi, Unveiling the Visible: Lives and Works of Women Artists of Pakistan, 2003.
Mentre in Occidente, il corpo femminile e la sua rappresentazione da parte degli uomini venivano contestati dalle femministe, il corpo femminile ha avuto una differente posizione nel contesto pakistano. Si trovava al centro dell’agenda politica dello Stato pakistano che rivendicava la proprietà della sessualità femminile e anche la sua apparenza. Lo Chaador era un simbolo di soffocamento e oppressione, mascherato come protezione.
Così l’umorismo nero, la derisione e il disprezzo, di natura nettamente diversa, a quella del Nord, erano lo spirito che animava l’arte delle donne pakistane. Il contesto culturale ha indirizzato il lessico che è stato sfumato e spesso ambiguo. C’era un desiderio deliberato di esplorare l'”innominabile”. C’erano, e continuano ad esserci, correnti sotterranee sovversive e atti di ribellione nascosti nel lavoro delle donne artiste.
Il corpo è ancora il luogo della ribellione, la cui copertura – o il suo svelamento – è fertile, ambivalente e complicata. La maggior parte delle artiste è riluttante ad etichettare il proprio lavoro come “femminista”, essendo più a proprio agio nel descrivere se stesse come chi “lavora sui problemi delle donne”. Ciò non sorprende, considerando che l’arte e la critica femministe sono circolate soprattutto dagli anni ’80. Ci sono stati dibattiti molto coinvolgenti sulla cultura popolare, le pratiche artistiche marginali e le collaborazioni, che hanno contribuito a rovesciare le comode gerarchie della storia dell’arte e della teoria.
La mostra di venticinque donne pakistane, intitolata An Intelligent Rebellion: Women Artists of Pakistan, che ha girato la Gran Bretagna ed è stata esposta a Parigi (1994-1996), ha dimostrato il pluralismo del lavoro delle donne e la sua potente auto-rappresentazione.
La mostra Woman scape, allestita ad Alhamra nel 1995, per celebrare una conferenza e un seminario sulle donne, comprendeva il lavoro di donne artiste, artigiane e studentesse che si mescolavano in modo profondo, significativo e animato. Quasi due decenni dopo, il lavoro delle donne professioniste comprende molteplici richieste estetiche che affrontano labirintiche le pressioni sociali e anche investigazioni personali su forma, mezzo e significato.
Negli anni ’80, le artiste donne come altre professioniste creative si sono trovate sotto l’ombrello del femminismo senza nominarlo. Le donne hanno adottato queste strategie come parte di una lotta più ampia. “Oggi queste posizioni radicali e di rottura sono accettate, perché il mondo contemporaneo è molto diverso”, osserva Naazish Ataullah, il cui lavoro comprende aspetti relativi all’invecchiamento e alla perdita. Un’artista più giovane, Farida Batool, riflette sul fatto che le artiste donne si sono distaccate dalla nozione di femminismo, ma non si rendono conto che il loro lavoro continua a rimanere intrappolato nella complicazione di essere una donna nella società pakistana. Possono, di fatto, aver ceduto il diritto di parlare con la propria voce.
Mentre le storiche e critiche d’arte femminista hanno trasformato il corso delle discipline artistiche per tutto il tempo a venire, l’etichetta è costretta dal proprio marchio. Un percorso tortuoso deve essere adottato per riaprire la discussione sullo spazio occupato dalle donne. Le loro vite possono essere marginalmente cambiate, le loro aspirazioni maturate e rafforzate, ma questo è sufficiente?
Ogni giorno assistiamo a notizie di maggiore violenza, discriminazione e stati di negligenza. E proprio qui, non molto lontano da noi, a Dir, nel nord del Pakistan, in una recente elezione, delle 47.000 elettrici donne registrate, nessuna è andata a votare il 30 aprile 2015. La causa femminista attende l’artista.
[traduzione Elvira Vannini]
Salima Hashmi è artista e scrittrice femminista. Dean della School of Visual Arts & Design alla Beaconhouse National University, Lahore (Pakistan).
Nel 1983 ha scritto e firmato insieme a 15 artiste donne Women Artists of Pakistan Manifesto, che è stato recentemente pubblicato da Penguin Books all’interno del volume Why Are We ‘Artists’? 100 World Art Manifestos. Il manifesto era una protesta contro la pervasiva misoginia. Consapevole del clima politico pakistano, la scrittura di Salima Hashmi dà uguale peso all’agenda femminista, alle questioni estetiche e all’eredità del transnazionalismo, indaga la situazione sociale, le leggi oppressive, non solo contro il genere ma contro le minoranze, supportando attraverso l’arte la lotta delle donne e l’ottenimento della democrazia.
Sheba Chhachhi, Sathyarani – Anti Dowry Demonstration, Delhi, 1980.
Il testo è apparso in artnowpakistan con il titolo di Guerrillla Girls: Feminist Art Then and Now: [http://www.artnowpakistan.com/guerrilla-girls-feminist-art-then-and-now/]
[i] Peggy Phelan, “Survey” in Helena Reckitt (a cura di), Art and Feminism, Phaidon, London, New York, 2001.
[ii] Spare Rib, July 1974, no: 29.
[iii] Griselda Pollock, Generation and Geographies in the Visual Arts: Feminist Readings, Routledge London, New York, 1996.
[iv] citazione di Peggy Phelan nel suo saggio ‘Survey’ in in Helena Reckitt (a cura di), Art and Feminism, Phaidon, London, New York, 2001.
Lorna Simpson, Rodeo Caldonia, da sinistra a destra, Alva Rogers, Sandye Wilson, Candace Hamilton, Derin Young, Lisa Jones, alla protesta degli Art Workers Coalition, Whitney Museum, 1971.