Sabotare la biennale: istruzioni per l’uso

La Biennale di Venezia è considerata la più autorevole (e potente) macchina espositiva del mondo globalizzato che, più di altre manifestazioni su larga scala, ha incarnato lo spirito del secolo [i], le tendenze artistiche internazionali, le politiche sociali e culturali più in voga. Basta rivolgere lo sguardo al passato, ai modelli culturali di alcune Biennali storiche, in particolare le edizioni del 1968, del 1974 e del 1976, per capire come fossero realmente segnate da quegli smottamenti sociali che hanno fatto dell’arte un campo di soggettivazione politica. Confrontando queste ultime con le mostre contemporanee sorgono delle domande: che ruolo svolge oggi la Biennale? Considerando la tendenza del mondo dell’arte a mascherare l’elitarismo con l’art washing, è possibile una contestazione reale all’interno di questo sistema?

“La Biennale per i ricchi”, contestazioni degli studenti contro la Biennale di Venezia, 1968.

Il ‘68 è un anno di svolta per la cultura mondiale; in Europa molte città diventano teatro di grandi proteste studentesche e operaie che hanno richiesto notevoli cambiamenti sociali. Nel luglio di quell’anno, Rinascita [ii] pubblica nel suo supplemento Il Contemporaneo un’inchiesta sulle istituzioni culturali contestate. Tra queste compare la Biennale di Venezia: l’accusa parte dall’assunto che durante il ventennio fascista la Biennale sia diventata materializzazione diretta del regime e che da allora né lo statuto né la modalità di ammissione degli artisti siano mai cambiate, diventando simbolo della società borghese e classista. A distanza di pochi giorni dall’inaugurazione della mostra, gli studenti occupano gli atenei e scendono in piazza a manifestare, facendo circolare dei volantini dal titolo Il manifesto degli studenti, operai e intellettuali rivoluzionari per il boicottaggio della BiennaleOccupiamo la Biennale. L’incipit recita:

“L’occupazione della biennale deve esprimere il rifiuto della cultura di classe da parte degli intellettuali e degli artisti e di denuncia, verso le masse, del ruolo classista ed oppressivo dell’arte nella società borghese. […] La cultura rivoluzionaria è per le larghe masse popolari una potente arma rivoluzionaria. Prepara ideologicamente il terreno prima della rivoluzione” [iii].

Venezia, 1968. Proteste studentesche in piazza San Marco, XXXIV Esposizione Biennale Internazionale d’Arte, Venezia 1968, foto di Ugo Mulas.

La tensione è alta e il rischio di scontri violenti è nell’aria. Si pensa di rimandare l’inaugurazione al pubblico generalista ma la realtà economica locale e la pressione esterna della commissione statunitense insistono per non compromettere il notevole flusso turistico [iv]. Nel tumulto di quei giorni di dissenso, arrivano le prime dimissioni e gli artisti iniziano ad inviare telegrammi per ritirare le loro opere. Il 18 giugno le proteste giovanili in Piazza San Marco vengono represse brutalmente con le cariche della polizia; nel mentre l’occupazione e gli scontri dei Giardini da parte delle forze armate ottengono una grandissima risonanza, anche grazie alle famose foto di Ugo Mulas e Gianni Berengo Gardin, portando le testate giornalistiche a rinominare l’evento “La Biennale del manganello”.

Proteste alla Biennale di Venezia del 1968.
Mobilitazioni degli studenti alla Biennale di Venezia del 1968.

In sostegno ai manifestanti, gli artisti presenti all’esposizione girano i propri quadri verso le pareti, “voltando le spalle” alla Biennale. Alcuni scrivono sul retro delle opere “La Biennale è fascista” [v], mentre molti padiglioni decidono di non aprire [vi]. Figura di spicco è il compositore Luigi Nono, il cui impegno politico e culturale ne fanno un testimone eccezionale delle contestazioni veneziane, al punto da assurgere da eroe di quei giorni, protagonista delle pagine dei giornali in cui molti fotografi lo ritraggono.

Gastone Novelli gira le tele come segno di protesta, Biennale di Venezia, 18 giugno 1968.
Gastone Novelli scrive «La Biennale è fascista» dietro una sua opera alla Biennale di Venezia del 1968.

Le contestazioni si concludono il 22 giugno: in seguito al fallimento della giuntura tra il movimento studentesco e le proteste operaie di Porto Marghera, molti dei manifestanti abbandonano la laguna. In quella data, poco prima dell’effettiva apertura al pubblico generalista, la commissione giudicante del premio passa in rassegna i padiglioni. Luigi Nono ed Emilio Vedova guidano un ultimo corteo di studenti di fronte al padiglione degli Stati Uniti al grido “Vietnam libero!”. Nel frattempo, al passaggio della commissione, tutti gli artisti che avevano voltato o coperto le proprie opere per protesta e solidarietà agli studenti, le rivoltano o le scoprono per poter concorrere al premio. Questo avvenimento è illuminante per comprendere come le istituzioni siano riuscite a riassorbire efficacemente tutti gli artisti che avevano partecipato alle contestazioni. Ricordiamo infatti come le prime manifestazioni studentesche, che protestavano genericamente contro lo statuto fascista della Biennale, si concentravano soprattutto sulla proposta di abolire i premi, visti come espressione del potere capitalista. Le proteste falliscono nel momento in cui gli artisti voltano le opere e riconoscono di avere bisogno del riconoscimento del sistema: rileggendo a posteriori questi avvenimenti è doveroso guardare al riflusso del sistema dell’arte dell’epoca per poter comprendere quello contemporaneo.

Contestazioni degli studenti contro la Biennale di Venezia in piazza San Marco, Venezia,1968.

A conclusione di questa edizione, il Comune di Venezia propone un seminario dal titolo Una nuova Biennale: contestazioni e proposte a cui presenziano noti artisti e critici del momento. In quest’occasione, Nono è fra i primi firmatari della petizione Documento per la costituzione di un comitato d’azione, il cui testo si apre con una sentenza: “La Biennale è morta. Da molti anni non era più un centro vivo della produzione e di diffusione della cultura. […] Il problema di oggi è uno solo: seppellire questo cadavere.” [vii]

Nel contesto del cosiddetto lungo ‘68 italiano (durato fino al ‘77), si giunge all’elaborazione del Piano quadriennale di massima delle attività e delle manifestazioni del 1973, al fine di rivoluzionare l’identità della Biennale e le sue pratiche espositive. La Biennale di Venezia, dunque, diventa un cadavere da riesumare e rinnovare.

Banner della Biennale del 1974: Libertà al Cile.
Manifesto Per una cultura democratica e antifascista, Biennale, 1974.

La Biennale per una cultura democratica e antifascista è il titolo scelto per l’edizione del ’74 [viii]. La promozione di una cultura democratica, sperimentale e aperta al confronto sono le basi del nuovo assetto della Biennale, con l’obiettivo di ricollocarla nel dibattito artistico internazionale: la scelta tematica risulta essenziale per trasformarla in un’istituzione di ricerca e sperimentazione.

Nel panorama internazionale, il caso del Cile assume un ruolo centrale: l’11 settembre 1973 il presidente Salvador Allende viene destituito con un colpo di stato dall’esercito guidato dal generale Pinochet. Siccome il golpe cileno è il caso più attuale e impattante di repressione di una cultura democratica, la Biennale apre con il convegno internazionale a Palazzo Ducale Testimonianze contro il fascismo, dove intervengono numerosi fuoriusciti cileni, artisti, intellettuali e politici internazionali; vengono inoltre invitati come ospiti d’onore Hortensia Allende [ix] e i politici del governo di Unità Popolare.

Tendone in piazza Candiani a Mestre durante la Biennale del 1974.
Manifesto Testimonianze contro il fascismo, 1974.

Il giorno dopo l’inaugurazione, il 6 Ottobre, attraverso le manifestazioni “Libertà al Cile” vengono aperte le diverse attività programmate, che durano fino al 15 Novembre; queste investono i campi del cinema, della musica, del teatro, della fotografia e della pittura. Si tengono, inoltre, numerosi incontri, riunioni e dibattiti fra esponenti delle culture e della politica antifascista cilena ed il pubblico veneziano. Di particolare impatto sono i cinque numeri del settimanale Libertà al Cile [x], che riflettono sui mutevoli obiettivi della Biennale e sul suo interesse per la comunicazione, evidenziando la volontà di raggiungere un pubblico più ampio, decentralizzando la mostra.

Mustafa Abu Ali, Tall El Zaatar – La Collina del Timo, 1977, still da video.

Gli interventi artistici organizzati dalla Biennale di Venezia nel 1976 in solidarietà con le vittime del massacro di Tall El Zaatar, dimostrano ancora una volta che la Biennale non è sempre stata neutrale a questioni politiche. Tall El Zaatar, dall’arabo “la collina del timo”, era un campo profughi di circa 30.000 persone situato in Libano e che ospitava prevalentemente rifugiati palestinesi. Durante la guerra civile libanese i falangisti iniziano ad assediare il campo, fino alla sua completa distruzione dopo 52 giorni di assedio. Mustafa Abu Ali, membro dell’Istituto cinematografico palestinese, dopo un lungo viaggio, riesce a portare in Italia le pellicole utilizzate da cinematografi palestinesi e arabi durante l’assedio di Tall El Zaatar. La povertà e le ingiustizie che i rifugiati palestinesi hanno dovuto affrontare erano state documentate e grazie all’aiuto del Partito Comunista Italiano, le pellicole riescono ad essere sviluppate, così da far nascere un vero e proprio film. I rapporti con la sinistra italiana non finiscono qui. Nell’ottobre del 1976, la municipalità di Venezia, la Biennale di Venezia e Lotta Continua invitano alcuni collettivi artistici a realizzare delle azioni e degli interventi in solidarietà con le vittime di Tall El Zaatar. Sparsi fra Veneto e Toscana, sono compresi interventi sui pavimenti delle piazze, dibattiti, proiezioni audiovisive e visione di documentari, per sensibilizzare la popolazione sulla questione palestinese.

Azione pubblica per Tel al-Zaatar, Mestre, a cura di L’Arcicoda, Collectif de peintres des pays arabes e Collectif des peintres antifascistes, Biennale di Venezia, settembre 1976.
Azione pubblica per Tel al-Zaatar, Mestre, a cura di L’Arcicoda, Collectif de peintres des pays arabes e Collectif des peintres antifascistes, Biennale di Venezia, settembre 1976.

Il testo fin qui presentato si apre con delle domande circa la possibilità di contestazione reale all’interno del sistema dell’arte e una presa di consapevolezza della graduale depoliticizzazione delle Biennali a partire dall’analisi dei tre casi studio del passato. Assistiamo alla costante sussunzione e neutralizzazione di qualsiasi tipo di sabotaggio da parte del mondo dell’arte ufficiale: da qui deriva l’esigenza di costruire un Padiglione del Dissenso che possa raccogliere l’eredità e le modalità di boicottaggio del ‘68, del ‘74 e del ‘76 e metterle a servizio delle istanze contemporanee.

“Sia nella società civile che nell’ambito artistico delle Biennali stesse non si assiste più – salvo rari casi, come la nascita di ANGA [xi] – a tentativi di rottura; ci siamo chiesti come sarebbe oggi un Padiglione del Dissenso, che prenda spunto dalle contestazioni degli anni sopracitati.

È paradossale, ma le istanze portate avanti in passato restano all’ordine del giorno: leggiamo sui manifesti della Biennale del ‘68 “Biennale poliziotta”, “Biennale fascista”, “Occupazione totale della Biennale”, “Alla Biennale il più grande padiglione è riservato alla polizia”. Oggi, entrando ai Giardini della 60. edizione della Biennale, troviamo uomini in servizio militare passeggiare a difesa di un padiglione che simboleggia la prevaricazione e la distruzione totale dell’intero popolo palestinese.

Spazi delle manifestazioni durante la Biennale del 1974: Libertà al Cile.

Il display prende spunto da una struttura pubblicitaria realizzata per la Biennale del ‘74, interamente dedicata al Cile, al cui interno sono stati inseriti documenti sugli episodi di rottura, istruzioni su come perpetrare questo sabotaggio, oggetti di vario genere che possano essere utilizzati come strumenti di lotta. Il motivo conduttore è la necessità di portare avanti pratiche di contestazione che hanno tutt’altro che esaurito il proprio significato, parallelismi tra istanze passate e presenti.” [xii]

Padiglione del Dissenso di Faini, Noviello, Martina, Pellegrino, Sanders e Spoto, 21 giugno 2024, Naba, Milano, foto di Edoardo Bonacina.
Padiglione del Dissenso, foto di Edoardo Bonacina.
Padiglione del Dissenso, foto di Edoardo Bonacina.
Padiglione del Dissenso, foto di Edoardo Bonacina.
Padiglione del Dissenso di Faini, Noviello, Martina, Pellegrino, Sanders e Spoto

Siccome la Biennale, e il mondo dell’arte per estensione, è un cadavere riesumato, un sistema che si appropria delle politiche reali per renderle mero contenuto estetico, ora più che mai è necessario affermare la propria posizione in quanto artisti, curatori, intellettuali, studenti e cittadini. Non possiamo più permettere la passiva registrazione dei rapporti di forza che intercorrono nelle politiche mondiali: bisogna fermare il riflusso con azioni collettive di rottura, contestazione e sabotaggio, dobbiamo ripoliticizzare le nostre pratiche. Se essere radicali significa comprendere le cose alla radice [xiii], il Padiglione del Dissenso non è un semplice re-enactment di pratiche antagoniste ormai storicizzate ma una chiamata all’azione concreta, collettiva e radicale.

Ora e per sempre, Palestina libera!

Padiglione del Dissenso, foto di Edoardo Bonacina.
Padiglione del Dissenso, foto di Edoardo Bonacina.

Ricerche, testi e display a cura di Nicola Faini, Daniela Noviello, Alessandra Martina, C. Sidonie Pellegrino, Kamil Sanders e Claudia Spoto.

I contributi sono stati elaborati come momento conclusivo del corso di Museologia tenuto da Elvira Vannini con gli artisti e curatori del 2^ anno del Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali di Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.

Padiglione del Dissenso di Faini, Noviello, Martina, Pellegrino, Sanders e Spoto
Padiglione del Dissenso di Faini, Noviello, Martina, Pellegrino, Sanders e Spoto
Padiglione del Dissenso di Faini, Noviello, Martina, Pellegrino, Sanders e Spoto

Note

[i] Dal termine tedesco ‘zeitgeist’, espressione adottata nella storiografia filosofica otto-novecentesca, per indicare la tendenza culturale predominante in una determinata epoca.

[ii] Rivista del Partito Comunista Italiano.

[iii] La frase finale è una citazione da un famoso discorso di Mao. Il volantino è conservato all’Università Ca’ Foscari, Fondo Dorigo, Archivio personale, Iuvenilia D, b. 24.

[iv] “Basta col disordine. Biennale occupata turismo in malora”, in: Il Gazzettino, 14 giugno 1968.

[v] Gastone Novelli

[vi] Padiglione della Francia e Padiglione della Svezia.

[vii] Documento per la costituzione di un comitato di azione, firmatari: Luigi Pestalozza, Boris Porena (a titolo personale), Luigi Nono, Vittorio Basaglia, Bruno Schacherl, Duilio Morosini, Dario Micacchi, Ennio Calabria, Ugo Pirro, Girolamo Federici, Giorgio Zecchi, Giulio Obici, Giorgio Trentin, Mario Gardella (Comitato politico di fabbrica ITALSIDER Genova), Vincenzo Eulisse, Guidi Correali, Lia Finzi Federici, Mario Osetta (operaio ACNIL), Arnaldo Momo, Tullio Vietri, Rodolfo Calzavara (Commissione interna SIRMA), Ivano Perini (operaio MONTEDISON), Cornaglia Pietro (Cantiere BREDA), Alberto Gianquinto, Pietro Mainardis, Sara Tagliapietra Momo. Venezia, 17 novembre 1968 in La Biennale di Venezia, ASAC, Fondo storico, Arti Visive, busta 154; pubblicato in: La Biennale di Venezia. Rassegna delle Arti contemporanee, 64-65, gennaio-giugno 1969, p. 21.

[viii] M. Martini, La Biennale di Venezia 1968-1978: la rivoluzione incompiuta.

[ix] Moglie del presidente ucciso da Pinochet.

[x] R. Munsell, Libertà al Cile: Alternative Media and Art as Information at the 1974 Venice Biennial, pp.44-61.

[xi] Art Not Genocide Alliance, movimento nato in occasione della 60esima edizione della Biennale di Venezia in opposizione all’apertura del Padiglione Israele.

[xii] Estratto dal comunicato stampa del Padiglione del Dissenso

[xiii] K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, 1843 – nota espressione ripresa anche nei comizi dei Black Panther, soprattutto da Angela Davis


Manifesto Sabotare la Biennale: Istruzioni per l’uso

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