Cosa vuol dire art-washing? Fa parte della stessa categoria di termini da cui deriva il ben più noto green-washing e il suo significato non si differenzia molto: art-washing è un tipo di washing culturale, è una forma di soft power che descrive il modo in cui l’arte può essere usata come strumento per distogliere l’attenzione, legittimare le azioni negative di organizzazioni, governi o individui. A maggior ragione l’arte contemporanea, considerata come una (presunta) forza innovatrice, portatrice di libertà e spirito critico, viene usata per accumulare potere simbolico e dimostrare un’apertura da parte regimi autocratici [i].
Un caso particolarmente noto di protesta è il fenomeno di Strike MoMA.Il movimento, nato nel 2021, si oppone alla filantropia tossica e le sue politiche che hanno istituito il museo fin dalle sue origini. In una lettera aperta 150 artistз e lavoratorз dell’arte affermano:
“Dobbiamo seriamente pensare ad un’uscita collettiva dal coinvolgimento dell’arte nella filantropia tossica e nelle strutture di oppressione, per far sì che non portiamo avanti la stessa conversazione ancora e ancora, un membro del consiglio alla volta. Questo pensiero può portare all’azione solo una volta che diciamo chiaramente: non ci serve questo denaro. I musei e le altre istituzioni dell’arte devono conseguire dei modelli alternativi, delle strutture di cooperazione, delle iniziative di restituzione delle terre, di riparazione e idee ulteriori che costituiscano un approccio abolizionista delle arti e del mecenatismo, per far sì che si riallineino con i principi egalitari che ci hanno portato all’arte in prima istanza.”
L’arte
utilizzata sì come alfabetizzazione culturale ma anche come manovra politica. L’istituzione-
arte assiste a una moltiplicazione di biennali e mostre con temi come la
questione razziale, il genere o l’ecologia e per quanto possa essere diventata
più diversificata ed inclusiva si tratta spesso di una questione perlopiù
estetica. Le sue strutture, i meccanismi interni, sono rimasti gli stessi,
invariati: utilizzare un processo di anti-conflittualità e auto-assoluzione per
portare l’arte ad essere ancora un sistema autocratico, efficiente nel
ripetersi di gerarchie sociali, ordine e relazioni di potere. È necessario riorientare,
decostruire completamente e veramente l’arte, creando un quadro di spazio e
tempo al di fuori delle logiche coloniali che hanno dominato la modernità e che
continuano, incontrastate, oggi.
“No al mito secondo cui produrre arte liberamente richieda un assoggettamento alle condizioni sociali del museo per il bisogno di denaro, di risorse, di riconoscimento. Sì allз partigianз dell’arte. Sì all’arte come cultura dei movimenti sociali. Sì all’estetica basata sulla lotta. Sì all’arte per l’arte, se ciò significa che possiamo creare e cospirare per liberarci, qualunque sia il nostro stile, la nostra scuola, il nostro medium.”
Scioperare per liberarsi dalla staticità: تحرُّر (taḥarrur) “liberarsi” in arabo. Arte e politica si intrecciano, come istituzioni e come strutture interne. A partire da questi presupposti, sorge un quesito: durante i periodi di conflitto e di tensione tra Stati, che posizione può (e dovrebbe) assumere un evento culturale come la Biennale di Venezia? Attraverso l’analisi della storia della kermesse lagunare, sono emersi tre momenti specifici:
Il primo, durante l’apartheid in Sudafrica: istituito nel 1948 rimase in vigore fino agli inizi degli anni Novanta. La biennale si unì al movimento di boicottaggio internazionale e rifiutò la partecipazione di artisti e rappresentanti del paese.
Il
secondo, nella scorsa edizione del 2022, la Biennale fornì una piattaforma di sostegno
agli artisti ucraini, simboleggiando la solidarietà nei confronti dell’Ucraina.
In contemporanea, l’evento vide il ritiro degli artisti russi, che fu accettato
dalla commissione.
Il terzo, il più recente, la controversa decisione del governo e degli organizzatori di accettare la partecipazione di Israele, nonostante il genocidio in atto e i numerosi appelli di ANGA (Art Not Genocide Alliance), a partire dalla petizione No Genocide Pavilion at the Venice Biennale, che ha raccolto migliaia di firme tra artisti, curatori e figure del mondo dell’arte.
La Biennale di Venezia e l’apartheid: una storia di silenzi e contraddizioni
L’apartheid è stato un sistema di segregazione razziale istituito dal 1948 al 1991 dal Partito Nazionale in Sudafrica. Salito al potere dopo le elezioni di quell’anno, il Partito Nazionale, espressione della minoranza bianca afrikaner, tradusse in pratica le sue ideologie basate sulla supremazia bianca e sulla separazione razziale. Le sue politiche discriminatorie plasmarono tutti gli aspetti della vita sudafricana, creando un sistema di segregazione forzata, discriminazione sistematica e oppressione che ha avuto un impatto devastante sulla maggioranza nera del paese.
Nel mondo dell’arte e del contesto culturale globale, l’apartheid suscitò una reazione di profonda indignazione. Questo moto di protesta portò all’estromissione del Sud Africa da molti contesti politici, sportivi e culturali, inclusa la Biennale di Venezia, nel periodo compreso tra il 1968 e il 1993. Nonostante queste prese di posizione, l’approccio della Biennale nei confronti dell’apartheid è stato moderato e debole. Un esempio emblematico, la mostra del 1966, con cui Ernest Mancoba rappresentò il Sud Africa a Venezia. Sebbene la presenza di un artista africano abbia portato attenzione sul tema dell’apartheid in un contesto dominato da uomini bianchi, l’artista venne ammesso con opere che non si esprimevano in maniera esplicita contro il regime caratterizzato dalla segregazione raziale imposto dal Partito Nazionale.
Nel 1968, il Sud Africa venne estromesso dalla Biennale di Venezia a causa delle sue politiche giustamente ritenute crudeli e deumanizzanti, ma ad oggi rimane l’interrogativo: sarebbe successo se altre associazioni influenti a livello globale non si fossero dette contrarie? Si trattava di una reazione genuina o generata dalla corrente di sdegno che si era diffusa nelle istituzioni culturali? Nel 1990, il presidente F.W. de Klerk iniziò un processo di riforma che portò alla liberazione di Nelson Mandela e alla fine delle leggi dell’apartheid. Le prime elezioni multirazziali si tennero nel 1994, con la vittoria dell’ANC e l’elezione di Nelson Mandela come primo presidente nero del Sudafrica. Il 1993 fu l’anno in cui il Sud Africa fu riammesso alla Biennale di Venezia, a seguito dell’elezione del Partito Democratico. L’evento si svolse in un contesto europeista e tradizionale. Sebbene l’attenzione fosse rivolta alla tematica del “globale”, la reazione nei confronti della liberazione del Sudafrica fu a dir poco tiepida. Venne scelto, infatti, come rappresentante di quella nazione William Kentridge, che narrava la sua visione dell’apartheid da un punto di vista privilegiato, essendo lui un artista potente e molto riconosciuto.
Coco Fusco, nella sua lettera agli artisti africani, riuscì a riassumere perfettamente questa dinamica problematica tipica sistema dell’arte (e non solo) in una singola frase: “Le istituzioni dominanti possono mantenere il controllo egemonico dei mezzi anche appoggiando il linguaggio dell’inclusione” [ii]. Al contrario, l’approccio della Biennale di Johannesburg, tenutasi nel 1994 nella città omonima, fu totalmente diverso. Si mostrò come una Biennale caotica, tanto da essere definita da Candice Breitz come “Una cacofonia artistica anche difficile da sviluppare secondo i piani iniziali” [iii]; in molti, infatti, si lamentarono che non aderisse agli standard di qualità che caratterizzavano Venezia. Non proponeva una visione univoca sulla questione, bensì un insieme di voci diverse, riflettendo una pluralità di esperienze e prospettive. L’idea era quella di lasciare che il visitatore si costruisse liberamente un’idea di Africa. Mentre la Biennale di Venezia ha spesso mantenuto un approccio prudente e controllato, quella di Johannesburg si è distinta per la sua autenticità e per la capacità di dare spazio a una molteplicità di narrazioni, rappresentando un vero e proprio punto di svolta nel mondo dell’arte contemporanea post-apartheid. Oltre a concentrarsi sull’eredità della segregazione razziale, la Biennale di Johannesburg ha affrontato anche una vasta gamma di altri temi sociali e politici rilevanti per il Sudafrica e il continente africano nel suo complesso. Tra questi, l’identità e il post-colonialismo, esplorando temi come la razza, l’etnia, la nazionalità, il genere, lo sfruttamento, la disuguaglianza e la migrazione.
La Biennale di Johannesburg non è stata solo una mostra d’arte, ma anche un luogo di incontro e di riflessione per artisti, curatori, critici e intellettuali provenienti da tutto il mondo. Le edizioni del 1995 e 1997 hanno avuto un impatto duraturo sul panorama artistico sudafricano e internazionale, contribuendo a definire l’arte contemporanea africana e a farla conoscere a un pubblico più ampio. Purtroppo, quella del 1997, sarà l’ultima edizione della Biennale di Johannesburg a causa della scarsità di fondi. Tuttavia, la sua eredità continua a ispirare artisti e attivisti in tutto il continente africano.
Art-washing e soft power
culturale: il caso del conflitto Russo-Ucraino
Nel 2007 lo stratega militare Frank Hoffman coniò il concetto di Hybrid Warfare all’interno del suo libro Conflict in the 21st Century: The Rise of the Hybrid Wars. Si tratta di un nuovo e differente tipo di conflittualità tra Stati che non si esprime attraverso lo scontro tradizionale, ma si sviluppa attraverso atti asimmetrici di guerriglia non dichiarata: cyber-attacchi, false notizie, diplomazia, foraggiamento di rivolte per destituire governi di paesi avversari e interventi nascosti nelle elezioni estere. Lo strumento principale di questa modalità bellica è l’espressione del soft power: del potere costituito attraverso le pratiche di art-washing e di diplomazia culturale.
Questi fenomeni di artecrazia [iv] si articolano in esercizi di autoassoluzione dai crimini compiuti e di reputation laundering agli occhi e al giudizio del pubblico generalista. Questo viene fatto soprattutto attraverso la collusione con istituti finanziari, le istituzioni del mondo dell’arte e la creazione di rapporti culturali per il consolidamento di relazioni di potere politico. Tutto ciò avviene all’interno di una congiuntura contemporanea nella quale c’è un totale riassorbimento e sussunzione della criticabilità. Durante la Biennale del 2022 è stato inaugurato This is Ukraine: Defending Freedom @ Venice 2022, un evento collaterale del padiglione ucraino, finanziato dalla Viktor Pinchuk Foundation, organizzazione culturale guidata dall’oligarca ucraino Viktor Pinchuk, presso la Scuola Grande della Misericordia. Viktor Pinchuk rappresenta un esempio chiaro di filantropia tossica, di come il mondo dell’arte sia spesso sfruttato e distorto da individui influenti e oligarchi miliardari in cerca di migliorare la propria reputazione e mantenere un’immagine positiva di fronte al pubblico. Nato a Kyiv nel 1960, Viktor Pinchuk è un imprenditore ucraino laureato in metallurgia. Ha fondato la Interpipe Company, diventata una delle principali produttrici di tubi in acciaio in Ucraina durante le privatizzazioni post-sovietiche. Pinchuk detiene anche un monopolio sui media in Ucraina, controllando i principali sei canali televisivi (STB, ICTV, Novyi Kanal, M1, M2, QTV) e i primi tre canali radio del paese.
Dopo l’omicidio del giornalista d’inchiesta Georgiy Gongadze nel 2000, evento che scatenò una crisi politica e sollevò preoccupazioni sullo stato dei diritti umani e della libertà di stampa in Ucraina, Viktor Pinchuk cercò di migliorare la sua immagine pubblica e quella di suo suocero, il presidente Leonid Kuchma, implicato nello scandalo. Pinchuk avviò numerose iniziative filantropiche attraverso la Viktor Pinchuk Foundation, fondata nel 2006, concentrando i suoi sforzi su progetti educativi, scientifici, culturali e umanitari. Questo impegno filantropico è stato visto da molti proprio come un tentativo di reputation laundering, cercando di distanziarsi dalle controversie politiche e di promuovere un’immagine di responsabilità sociale e contributo positivo alla società ucraina. Le principali partecipazioni di Viktor Pinchuk nel mondo dell’arte includono il sostegno attraverso la sua Viktor Pinchuk Foundation e il PinchukArtCentre. Attraverso queste ha organizzato mostre e eventi collaterali alla Biennale di Venezia, come il Future Generation Art Prize @ Venice, che promuove artisti emergenti internazionali. Pinchuk ha anche sostenuto il Padiglione Ucraino e altri progetti che hanno aumentato la visibilità dell’arte contemporanea ucraina a livello globale.
Nel 2024, la Russia ha ceduto il suo padiglione nazionale inutilizzato alla Biennale di Venezia alla Bolivia. L’elegante edificio verde nei Giardini di Venezia sarebbe rimasto chiuso, poiché la Russia non partecipa all’evento per il secondo anno consecutivo dall’invasione dell’Ucraina nel 2022. Questa edizione ospita invece una mostra di 25 artisti che rappresentano lo Stato Plurinazionale della Bolivia, intitolata Qhip Nayra Uñtasis Sarnaqapxañani – looking to the futurepast, we are treading forward (Guardando al futuro-passato, ci muoviamo in avanti). Gli organizzatori hanno dichiarato: “Il padiglione ha l’opportunità di essere nei Giardini, l’area espositiva più prestigiosa della Biennale, grazie alla Federazione Russa, che ha creduto nell’importanza, qualità e contenuti del nostro progetto.” [v] È forse un caso che questa notizia arrivi a pochi mesi dalla corsa della Russia e di altre superpotenze mondiali per accedere alle ricche riserve di litio della Bolivia, stimate in circa 23 milioni di tonnellate. Lo scorso anno, la Bolivia ha firmato un contratto con la russa Uranium One Group, principale estrattore di terre rare russo. Questa situazione, come l’artista boliviana María Galindo ha denunciato nei giorni dell’opening, è esemplare dell’art-washing, dove la presupposta partecipazione culturale maschera politiche economiche, estrattiviste e coloniali.
ANGA e il Genocide
Pavilion
L’esposizione
proposta all’interno del padiglione israeliano alla Biennale di Venezia 2024,
intitolata (M)otherland, esplora temi legati alla maternità, alla salute
delle donne e alla tecnologia medica. Il lavoro dell’artista Ruth Patir
utilizza figurine femminili antiche in contesti moderni come studi medici e
macchine per ecografie, riflettendo la sua esperienza personale con la
mutazione genetica BRCA2, che aumenta il rischio di cancro al seno e alle
ovaie. La sua arte include registrazioni dei suoi appuntamenti medici e
rappresenta la pressione sociale e medica che ha sentito per preservare la
possibilità di diventare madre.
Così
mentre Israele presenta in una vetrina espositiva il “padiglione della
fertilità” e riflette sulla maternità, più di 13.000 bambini sono stati massacrati
da parte del suo esercito durante il genocidio in Palestina, oltre alla distruzione
dell’accesso alle cure riproduttive e alle strutture mediche di Gaza che
obbliga le donne palestinesi ad avere parti cesarei senza anestesia e partorire
per strada.
Prima e durante l’apertura della Biennale, l’Art Not Genocide Alliance (ANGA), un’alleanza internazionale di artisti e operatori culturali, ha lanciato un appello per chiedere l’esclusione di Israele dalla Biennale, con la convinzione che la sua partecipazione legittimi le politiche genocidarie a Gaza. Tuttavia, l’allora ministro della Cultura italiano, Gennaro Sangiuliano, rispose con fermezza, affermando che tale richiesta fosse “inaccettabile, oltre che vergognosa”, affermando il diritto di Israele di esprimere la propria arte, soprattutto in un momento di grande sofferenza per il suo popolo: “La Biennale d’arte di Venezia sarà sempre uno spazio di libertà, di incontro e di dialogo e non uno spazio di censura e intolleranza.”
L’appello
di ANGA per l’esclusione di Israele – che al tempo dell’opening era sotto
processo presso la Corte Internazionale di Giustizia per genocidio contro il
popolo palestinese e oggi la Corte penale internazionale (CPI) dell’Aja ha spiccato
un mandato di cattura per Netanyahu – è stato firmato da quasi 24.000 persone a
partire dal 26 febbraio 2024.
Se, storicamente, la Biennale ha escluso Stati che praticavano l’apartheid (Sudafrica, 1968-1993), è stata solidale con le nazioni oppresse (Cile, 1974) e ha denunciato pubblicamente Paesi coinvolti in aggressioni militari illegali (Russia, 2022), Israele non dovrebbe fare eccezione. La cultura e l’arte non sono, e non possono, per loro stessa natura, essere neutrali rispetto a una situazione geopolitica drammatica. Secondo le regole della Biennale, tutti i Paesi riconosciuti dalla Repubblica Italiana possono partecipare autonomamente, pertanto non è stata presa in considerazione alcuna petizione per escludere Israele o altri paesi dalla Biennale. Il primo giorno di inaugurazione per la stampa della Biennale c’è stata una significativa protesta: artisti e attivisti pro-Palestina si sono radunati davanti ai padiglioni di Israele e degli Stati Uniti, distribuendo volantini con la scritta “No Death in Venice – No to the Genocide Pavilion” scanditi da slogan contro le politiche genocidiarie.
La contestazione, pacifica ma ben organizzata, ha attirato l’attenzione dei media e dei visitatori della Biennale, ma non ha aperto un dibattito pubblico sulla questione. La solidarietà internazionale e le pressioni degli operatori artistici internazionali hanno però portato a una ritirata del team artistico israeliano. Contrariamente alle loro affermazioni però il padiglione non è stato chiuso definitivamente. L’artista e i curatori hanno deciso di chiudere semplicemente le porte di vetro del padiglione, trasformandolo in una vetrina molto visibile: una trovata pubblicitaria opportunistica con un tempismo insincero. Israele è ancora rappresentato a Venezia e l’opera è ancora in Biennale. Risulta quindi inutile applaudire gesti vuoti di questo genere, programmati per ottenere la massima copertura da parte della stampa, lasciando che le opere video siano visibili al pubblico, mentre i palestinesi continuano ad essere sterminati. Le mobilitazioni di Anga hanno dimostrato come le tensioni politiche internazionali possano emergere anche in contesti culturali come la Biennale di Venezia. L’arte non può essere isolata dalla realtà politico-sociale, ma può diventare un potente veicolo per il dibattito e la consapevolezza su questioni globali urgenti.
ANGA è testimone degli oltre 44.000 palestinesi uccisi a Gaza, degli oltre 76.000 feriti e delle decine di migliaia di presunti morti che rimangono intrappolati sotto le macerie delle loro case. 1,7 milioni di persone, l’85% della popolazione di Gaza, sono state sfollate. 1,1 milioni tra gli abitanti di Gaza rischiano la carestia immediata, imposta deliberatamente da Israele, che continua a bloccare gli aiuti alla popolazione. La presenza ufficiale di Israele alla Biennale squalifica qualsiasi discussione su uguaglianza, giustizia e libertà, nell’arte come nella vita. Si tratta di una presa in giro della Biennale; Non si può godere dell’arte, non si può fare business, durante un genocidio; L’arte può aspettare, le vite umane no – scandiscono gli slogan di Anga disseminati tra i padiglioni nazionali e la mostra centrale. Da un lato Israele commette crimini di guerra sistematici e su vasta scala e ha praticato un regime di apartheid, dall’altro rappresenta la Nazione al più prestigioso evento artistico internazionale. Questa simultaneità serve a normalizzarne le azioni e a renderle accettabili; una vera e propria operazione di art-washing. Le azioni di Israele dovrebbero giustamente renderlo uno Stato paria. Quando il mondo dell’arte accoglie Israele a braccia aperte alla Biennale, Israele si assicura di essere considerato civile e colto. Il mondo dell’arte è quindi complice del genocidio quando rimane in silenzio, quando accetta la rappresentanza di Israele come inevitabile.
Questa situazione solleva importanti questioni sull’intersezione tra arte, politica e diritti umani. La Biennale di Venezia, come piattaforma culturale internazionale, ha il potenziale di influenzare il dibattito globale, ma deve anche affrontare le sfide e le critiche che emergono da queste complesse dinamiche geopolitiche. È fondamentale riconoscere che la libertà di espressione artistica è un valore fondamentale che deve essere difeso. Tuttavia, è altrettanto essenziale ascoltare e riflettere sulle voci che si levano contro le ingiustizie. Non essendo quello palestinese uno Stato riconosciuto dall’Italia, non è possibile avere la presenza di un padiglione dedicato, nonostante questo in passato ci sono stati eventi “collaterali”, come quello organizzato dal Palestine Museum US nel 2022. Dei 331 artisti che partecipano alla Biennale di quest’anno, due sono palestinesi, Dana Awartani, Samia Halaby, oltre a Khaled Jarrar in Disobedience Archive. Molti dei partecipanti hanno messo in risalto la Palestina nelle loro opere e installazioni.
Sebbene
il padiglione israeliano per la Biennale Arte 2024 non sia stato
definitivamente chiuso, lo scorso 7 giugno è stata annunciata l’esclusione del
padiglione di Israele per la Biennale Architettura 2025.
Testi di Edoardo Bonacina, Francesca Di Caro, Alessandra Di Rito, Irene Lainati, Barbara Lo Presti.
I contributi sono stati elaborati come momento conclusivo del corso di Museologia tenuto da Elvira Vannini con gli artisti e curatori del 2^ anno del Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali di Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.
Note
[i]
Cfr. Anselm Franke, Nida
Ghouse, Paz Guevara and Antonia Majaca, Parapolitics. Cultural Freedom and
the Cold War, Sternberg Press, 2021.
[ii]
Coco Fusco, Lettera agli artisti africani, in Africus:
Johannesburg Biennale, catalogo della mostra, Greater Johannesburg
Transitional Metropolitan Council,1995.
[iii] Candice Breitz, The first Johannesburg Biennale:
Work in progress, in “Third Text”, vol.9, n.31, pp.89-94,
1995.
[iv] cfr. Marco Scotini, Artecrazia.
Macchine espositive e governo dei pubblici, DeriveApprodi, Roma, 2021.
Cosa vuol dire art-washing? Fa parte della stessa categoria di termini da cui deriva il ben più noto green-washing e il suo significato non si differenzia molto: art-washing è un tipo di washing culturale, è una forma di soft power che descrive il modo in cui l’arte può essere usata come strumento per distogliere l’attenzione, legittimare le azioni negative di organizzazioni, governi o individui. A maggior ragione l’arte contemporanea, considerata come una (presunta) forza innovatrice, portatrice di libertà e spirito critico, viene usata per accumulare potere simbolico e dimostrare un’apertura da parte regimi autocratici [i].
Un caso particolarmente noto di protesta è il fenomeno di Strike MoMA. Il movimento, nato nel 2021, si oppone alla filantropia tossica e le sue politiche che hanno istituito il museo fin dalle sue origini. In una lettera aperta 150 artistз e lavoratorз dell’arte affermano:
“Dobbiamo seriamente pensare ad un’uscita collettiva dal coinvolgimento dell’arte nella filantropia tossica e nelle strutture di oppressione, per far sì che non portiamo avanti la stessa conversazione ancora e ancora, un membro del consiglio alla volta. Questo pensiero può portare all’azione solo una volta che diciamo chiaramente: non ci serve questo denaro. I musei e le altre istituzioni dell’arte devono conseguire dei modelli alternativi, delle strutture di cooperazione, delle iniziative di restituzione delle terre, di riparazione e idee ulteriori che costituiscano un approccio abolizionista delle arti e del mecenatismo, per far sì che si riallineino con i principi egalitari che ci hanno portato all’arte in prima istanza.”
L’arte utilizzata sì come alfabetizzazione culturale ma anche come manovra politica. L’istituzione- arte assiste a una moltiplicazione di biennali e mostre con temi come la questione razziale, il genere o l’ecologia e per quanto possa essere diventata più diversificata ed inclusiva si tratta spesso di una questione perlopiù estetica. Le sue strutture, i meccanismi interni, sono rimasti gli stessi, invariati: utilizzare un processo di anti-conflittualità e auto-assoluzione per portare l’arte ad essere ancora un sistema autocratico, efficiente nel ripetersi di gerarchie sociali, ordine e relazioni di potere. È necessario riorientare, decostruire completamente e veramente l’arte, creando un quadro di spazio e tempo al di fuori delle logiche coloniali che hanno dominato la modernità e che continuano, incontrastate, oggi.
“No al mito secondo cui produrre arte liberamente richieda un assoggettamento alle condizioni sociali del museo per il bisogno di denaro, di risorse, di riconoscimento. Sì allз partigianз dell’arte. Sì all’arte come cultura dei movimenti sociali. Sì all’estetica basata sulla lotta. Sì all’arte per l’arte, se ciò significa che possiamo creare e cospirare per liberarci, qualunque sia il nostro stile, la nostra scuola, il nostro medium.”
Scioperare per liberarsi dalla staticità: تحرُّر (taḥarrur) “liberarsi” in arabo. Arte e politica si intrecciano, come istituzioni e come strutture interne. A partire da questi presupposti, sorge un quesito: durante i periodi di conflitto e di tensione tra Stati, che posizione può (e dovrebbe) assumere un evento culturale come la Biennale di Venezia? Attraverso l’analisi della storia della kermesse lagunare, sono emersi tre momenti specifici:
Il primo, durante l’apartheid in Sudafrica: istituito nel 1948 rimase in vigore fino agli inizi degli anni Novanta. La biennale si unì al movimento di boicottaggio internazionale e rifiutò la partecipazione di artisti e rappresentanti del paese.
Il secondo, nella scorsa edizione del 2022, la Biennale fornì una piattaforma di sostegno agli artisti ucraini, simboleggiando la solidarietà nei confronti dell’Ucraina. In contemporanea, l’evento vide il ritiro degli artisti russi, che fu accettato dalla commissione.
Il terzo, il più recente, la controversa decisione del governo e degli organizzatori di accettare la partecipazione di Israele, nonostante il genocidio in atto e i numerosi appelli di ANGA (Art Not Genocide Alliance), a partire dalla petizione No Genocide Pavilion at the Venice Biennale, che ha raccolto migliaia di firme tra artisti, curatori e figure del mondo dell’arte.
La Biennale di Venezia e l’apartheid: una storia di silenzi e contraddizioni
L’apartheid è stato un sistema di segregazione razziale istituito dal 1948 al 1991 dal Partito Nazionale in Sudafrica. Salito al potere dopo le elezioni di quell’anno, il Partito Nazionale, espressione della minoranza bianca afrikaner, tradusse in pratica le sue ideologie basate sulla supremazia bianca e sulla separazione razziale. Le sue politiche discriminatorie plasmarono tutti gli aspetti della vita sudafricana, creando un sistema di segregazione forzata, discriminazione sistematica e oppressione che ha avuto un impatto devastante sulla maggioranza nera del paese.
Nel mondo dell’arte e del contesto culturale globale, l’apartheid suscitò una reazione di profonda indignazione. Questo moto di protesta portò all’estromissione del Sud Africa da molti contesti politici, sportivi e culturali, inclusa la Biennale di Venezia, nel periodo compreso tra il 1968 e il 1993. Nonostante queste prese di posizione, l’approccio della Biennale nei confronti dell’apartheid è stato moderato e debole. Un esempio emblematico, la mostra del 1966, con cui Ernest Mancoba rappresentò il Sud Africa a Venezia. Sebbene la presenza di un artista africano abbia portato attenzione sul tema dell’apartheid in un contesto dominato da uomini bianchi, l’artista venne ammesso con opere che non si esprimevano in maniera esplicita contro il regime caratterizzato dalla segregazione raziale imposto dal Partito Nazionale.
Nel 1968, il Sud Africa venne estromesso dalla Biennale di Venezia a causa delle sue politiche giustamente ritenute crudeli e deumanizzanti, ma ad oggi rimane l’interrogativo: sarebbe successo se altre associazioni influenti a livello globale non si fossero dette contrarie? Si trattava di una reazione genuina o generata dalla corrente di sdegno che si era diffusa nelle istituzioni culturali? Nel 1990, il presidente F.W. de Klerk iniziò un processo di riforma che portò alla liberazione di Nelson Mandela e alla fine delle leggi dell’apartheid. Le prime elezioni multirazziali si tennero nel 1994, con la vittoria dell’ANC e l’elezione di Nelson Mandela come primo presidente nero del Sudafrica. Il 1993 fu l’anno in cui il Sud Africa fu riammesso alla Biennale di Venezia, a seguito dell’elezione del Partito Democratico. L’evento si svolse in un contesto europeista e tradizionale. Sebbene l’attenzione fosse rivolta alla tematica del “globale”, la reazione nei confronti della liberazione del Sudafrica fu a dir poco tiepida. Venne scelto, infatti, come rappresentante di quella nazione William Kentridge, che narrava la sua visione dell’apartheid da un punto di vista privilegiato, essendo lui un artista potente e molto riconosciuto.
Coco Fusco, nella sua lettera agli artisti africani, riuscì a riassumere perfettamente questa dinamica problematica tipica sistema dell’arte (e non solo) in una singola frase: “Le istituzioni dominanti possono mantenere il controllo egemonico dei mezzi anche appoggiando il linguaggio dell’inclusione” [ii]. Al contrario, l’approccio della Biennale di Johannesburg, tenutasi nel 1994 nella città omonima, fu totalmente diverso. Si mostrò come una Biennale caotica, tanto da essere definita da Candice Breitz come “Una cacofonia artistica anche difficile da sviluppare secondo i piani iniziali” [iii]; in molti, infatti, si lamentarono che non aderisse agli standard di qualità che caratterizzavano Venezia. Non proponeva una visione univoca sulla questione, bensì un insieme di voci diverse, riflettendo una pluralità di esperienze e prospettive. L’idea era quella di lasciare che il visitatore si costruisse liberamente un’idea di Africa. Mentre la Biennale di Venezia ha spesso mantenuto un approccio prudente e controllato, quella di Johannesburg si è distinta per la sua autenticità e per la capacità di dare spazio a una molteplicità di narrazioni, rappresentando un vero e proprio punto di svolta nel mondo dell’arte contemporanea post-apartheid. Oltre a concentrarsi sull’eredità della segregazione razziale, la Biennale di Johannesburg ha affrontato anche una vasta gamma di altri temi sociali e politici rilevanti per il Sudafrica e il continente africano nel suo complesso. Tra questi, l’identità e il post-colonialismo, esplorando temi come la razza, l’etnia, la nazionalità, il genere, lo sfruttamento, la disuguaglianza e la migrazione.
La Biennale di Johannesburg non è stata solo una mostra d’arte, ma anche un luogo di incontro e di riflessione per artisti, curatori, critici e intellettuali provenienti da tutto il mondo. Le edizioni del 1995 e 1997 hanno avuto un impatto duraturo sul panorama artistico sudafricano e internazionale, contribuendo a definire l’arte contemporanea africana e a farla conoscere a un pubblico più ampio. Purtroppo, quella del 1997, sarà l’ultima edizione della Biennale di Johannesburg a causa della scarsità di fondi. Tuttavia, la sua eredità continua a ispirare artisti e attivisti in tutto il continente africano.
Art-washing e soft power culturale: il caso del conflitto Russo-Ucraino
Nel 2007 lo stratega militare Frank Hoffman coniò il concetto di Hybrid Warfare all’interno del suo libro Conflict in the 21st Century: The Rise of the Hybrid Wars. Si tratta di un nuovo e differente tipo di conflittualità tra Stati che non si esprime attraverso lo scontro tradizionale, ma si sviluppa attraverso atti asimmetrici di guerriglia non dichiarata: cyber-attacchi, false notizie, diplomazia, foraggiamento di rivolte per destituire governi di paesi avversari e interventi nascosti nelle elezioni estere. Lo strumento principale di questa modalità bellica è l’espressione del soft power: del potere costituito attraverso le pratiche di art-washing e di diplomazia culturale.
Questi fenomeni di artecrazia [iv] si articolano in esercizi di autoassoluzione dai crimini compiuti e di reputation laundering agli occhi e al giudizio del pubblico generalista. Questo viene fatto soprattutto attraverso la collusione con istituti finanziari, le istituzioni del mondo dell’arte e la creazione di rapporti culturali per il consolidamento di relazioni di potere politico. Tutto ciò avviene all’interno di una congiuntura contemporanea nella quale c’è un totale riassorbimento e sussunzione della criticabilità. Durante la Biennale del 2022 è stato inaugurato This is Ukraine: Defending Freedom @ Venice 2022, un evento collaterale del padiglione ucraino, finanziato dalla Viktor Pinchuk Foundation, organizzazione culturale guidata dall’oligarca ucraino Viktor Pinchuk, presso la Scuola Grande della Misericordia. Viktor Pinchuk rappresenta un esempio chiaro di filantropia tossica, di come il mondo dell’arte sia spesso sfruttato e distorto da individui influenti e oligarchi miliardari in cerca di migliorare la propria reputazione e mantenere un’immagine positiva di fronte al pubblico. Nato a Kyiv nel 1960, Viktor Pinchuk è un imprenditore ucraino laureato in metallurgia. Ha fondato la Interpipe Company, diventata una delle principali produttrici di tubi in acciaio in Ucraina durante le privatizzazioni post-sovietiche. Pinchuk detiene anche un monopolio sui media in Ucraina, controllando i principali sei canali televisivi (STB, ICTV, Novyi Kanal, M1, M2, QTV) e i primi tre canali radio del paese.
Dopo l’omicidio del giornalista d’inchiesta Georgiy Gongadze nel 2000, evento che scatenò una crisi politica e sollevò preoccupazioni sullo stato dei diritti umani e della libertà di stampa in Ucraina, Viktor Pinchuk cercò di migliorare la sua immagine pubblica e quella di suo suocero, il presidente Leonid Kuchma, implicato nello scandalo. Pinchuk avviò numerose iniziative filantropiche attraverso la Viktor Pinchuk Foundation, fondata nel 2006, concentrando i suoi sforzi su progetti educativi, scientifici, culturali e umanitari. Questo impegno filantropico è stato visto da molti proprio come un tentativo di reputation laundering, cercando di distanziarsi dalle controversie politiche e di promuovere un’immagine di responsabilità sociale e contributo positivo alla società ucraina. Le principali partecipazioni di Viktor Pinchuk nel mondo dell’arte includono il sostegno attraverso la sua Viktor Pinchuk Foundation e il PinchukArtCentre. Attraverso queste ha organizzato mostre e eventi collaterali alla Biennale di Venezia, come il Future Generation Art Prize @ Venice, che promuove artisti emergenti internazionali. Pinchuk ha anche sostenuto il Padiglione Ucraino e altri progetti che hanno aumentato la visibilità dell’arte contemporanea ucraina a livello globale.
Nel 2024, la Russia ha ceduto il suo padiglione nazionale inutilizzato alla Biennale di Venezia alla Bolivia. L’elegante edificio verde nei Giardini di Venezia sarebbe rimasto chiuso, poiché la Russia non partecipa all’evento per il secondo anno consecutivo dall’invasione dell’Ucraina nel 2022. Questa edizione ospita invece una mostra di 25 artisti che rappresentano lo Stato Plurinazionale della Bolivia, intitolata Qhip Nayra Uñtasis Sarnaqapxañani – looking to the futurepast, we are treading forward (Guardando al futuro-passato, ci muoviamo in avanti). Gli organizzatori hanno dichiarato: “Il padiglione ha l’opportunità di essere nei Giardini, l’area espositiva più prestigiosa della Biennale, grazie alla Federazione Russa, che ha creduto nell’importanza, qualità e contenuti del nostro progetto.” [v] È forse un caso che questa notizia arrivi a pochi mesi dalla corsa della Russia e di altre superpotenze mondiali per accedere alle ricche riserve di litio della Bolivia, stimate in circa 23 milioni di tonnellate. Lo scorso anno, la Bolivia ha firmato un contratto con la russa Uranium One Group, principale estrattore di terre rare russo. Questa situazione, come l’artista boliviana María Galindo ha denunciato nei giorni dell’opening, è esemplare dell’art-washing, dove la presupposta partecipazione culturale maschera politiche economiche, estrattiviste e coloniali.
ANGA e il Genocide Pavilion
L’esposizione proposta all’interno del padiglione israeliano alla Biennale di Venezia 2024, intitolata (M)otherland, esplora temi legati alla maternità, alla salute delle donne e alla tecnologia medica. Il lavoro dell’artista Ruth Patir utilizza figurine femminili antiche in contesti moderni come studi medici e macchine per ecografie, riflettendo la sua esperienza personale con la mutazione genetica BRCA2, che aumenta il rischio di cancro al seno e alle ovaie. La sua arte include registrazioni dei suoi appuntamenti medici e rappresenta la pressione sociale e medica che ha sentito per preservare la possibilità di diventare madre.
Così mentre Israele presenta in una vetrina espositiva il “padiglione della fertilità” e riflette sulla maternità, più di 13.000 bambini sono stati massacrati da parte del suo esercito durante il genocidio in Palestina, oltre alla distruzione dell’accesso alle cure riproduttive e alle strutture mediche di Gaza che obbliga le donne palestinesi ad avere parti cesarei senza anestesia e partorire per strada.
Prima e durante l’apertura della Biennale, l’Art Not Genocide Alliance (ANGA), un’alleanza internazionale di artisti e operatori culturali, ha lanciato un appello per chiedere l’esclusione di Israele dalla Biennale, con la convinzione che la sua partecipazione legittimi le politiche genocidarie a Gaza. Tuttavia, l’allora ministro della Cultura italiano, Gennaro Sangiuliano, rispose con fermezza, affermando che tale richiesta fosse “inaccettabile, oltre che vergognosa”, affermando il diritto di Israele di esprimere la propria arte, soprattutto in un momento di grande sofferenza per il suo popolo: “La Biennale d’arte di Venezia sarà sempre uno spazio di libertà, di incontro e di dialogo e non uno spazio di censura e intolleranza.”
L’appello di ANGA per l’esclusione di Israele – che al tempo dell’opening era sotto processo presso la Corte Internazionale di Giustizia per genocidio contro il popolo palestinese e oggi la Corte penale internazionale (CPI) dell’Aja ha spiccato un mandato di cattura per Netanyahu – è stato firmato da quasi 24.000 persone a partire dal 26 febbraio 2024.
Se, storicamente, la Biennale ha escluso Stati che praticavano l’apartheid (Sudafrica, 1968-1993), è stata solidale con le nazioni oppresse (Cile, 1974) e ha denunciato pubblicamente Paesi coinvolti in aggressioni militari illegali (Russia, 2022), Israele non dovrebbe fare eccezione. La cultura e l’arte non sono, e non possono, per loro stessa natura, essere neutrali rispetto a una situazione geopolitica drammatica. Secondo le regole della Biennale, tutti i Paesi riconosciuti dalla Repubblica Italiana possono partecipare autonomamente, pertanto non è stata presa in considerazione alcuna petizione per escludere Israele o altri paesi dalla Biennale. Il primo giorno di inaugurazione per la stampa della Biennale c’è stata una significativa protesta: artisti e attivisti pro-Palestina si sono radunati davanti ai padiglioni di Israele e degli Stati Uniti, distribuendo volantini con la scritta “No Death in Venice – No to the Genocide Pavilion” scanditi da slogan contro le politiche genocidiarie.
La contestazione, pacifica ma ben organizzata, ha attirato l’attenzione dei media e dei visitatori della Biennale, ma non ha aperto un dibattito pubblico sulla questione. La solidarietà internazionale e le pressioni degli operatori artistici internazionali hanno però portato a una ritirata del team artistico israeliano. Contrariamente alle loro affermazioni però il padiglione non è stato chiuso definitivamente. L’artista e i curatori hanno deciso di chiudere semplicemente le porte di vetro del padiglione, trasformandolo in una vetrina molto visibile: una trovata pubblicitaria opportunistica con un tempismo insincero. Israele è ancora rappresentato a Venezia e l’opera è ancora in Biennale. Risulta quindi inutile applaudire gesti vuoti di questo genere, programmati per ottenere la massima copertura da parte della stampa, lasciando che le opere video siano visibili al pubblico, mentre i palestinesi continuano ad essere sterminati. Le mobilitazioni di Anga hanno dimostrato come le tensioni politiche internazionali possano emergere anche in contesti culturali come la Biennale di Venezia. L’arte non può essere isolata dalla realtà politico-sociale, ma può diventare un potente veicolo per il dibattito e la consapevolezza su questioni globali urgenti.
ANGA è testimone degli oltre 44.000 palestinesi uccisi a Gaza, degli oltre 76.000 feriti e delle decine di migliaia di presunti morti che rimangono intrappolati sotto le macerie delle loro case. 1,7 milioni di persone, l’85% della popolazione di Gaza, sono state sfollate. 1,1 milioni tra gli abitanti di Gaza rischiano la carestia immediata, imposta deliberatamente da Israele, che continua a bloccare gli aiuti alla popolazione. La presenza ufficiale di Israele alla Biennale squalifica qualsiasi discussione su uguaglianza, giustizia e libertà, nell’arte come nella vita. Si tratta di una presa in giro della Biennale; Non si può godere dell’arte, non si può fare business, durante un genocidio; L’arte può aspettare, le vite umane no – scandiscono gli slogan di Anga disseminati tra i padiglioni nazionali e la mostra centrale. Da un lato Israele commette crimini di guerra sistematici e su vasta scala e ha praticato un regime di apartheid, dall’altro rappresenta la Nazione al più prestigioso evento artistico internazionale. Questa simultaneità serve a normalizzarne le azioni e a renderle accettabili; una vera e propria operazione di art-washing. Le azioni di Israele dovrebbero giustamente renderlo uno Stato paria. Quando il mondo dell’arte accoglie Israele a braccia aperte alla Biennale, Israele si assicura di essere considerato civile e colto. Il mondo dell’arte è quindi complice del genocidio quando rimane in silenzio, quando accetta la rappresentanza di Israele come inevitabile.
Questa situazione solleva importanti questioni sull’intersezione tra arte, politica e diritti umani. La Biennale di Venezia, come piattaforma culturale internazionale, ha il potenziale di influenzare il dibattito globale, ma deve anche affrontare le sfide e le critiche che emergono da queste complesse dinamiche geopolitiche. È fondamentale riconoscere che la libertà di espressione artistica è un valore fondamentale che deve essere difeso. Tuttavia, è altrettanto essenziale ascoltare e riflettere sulle voci che si levano contro le ingiustizie. Non essendo quello palestinese uno Stato riconosciuto dall’Italia, non è possibile avere la presenza di un padiglione dedicato, nonostante questo in passato ci sono stati eventi “collaterali”, come quello organizzato dal Palestine Museum US nel 2022. Dei 331 artisti che partecipano alla Biennale di quest’anno, due sono palestinesi, Dana Awartani, Samia Halaby, oltre a Khaled Jarrar in Disobedience Archive. Molti dei partecipanti hanno messo in risalto la Palestina nelle loro opere e installazioni.
Sebbene il padiglione israeliano per la Biennale Arte 2024 non sia stato definitivamente chiuso, lo scorso 7 giugno è stata annunciata l’esclusione del padiglione di Israele per la Biennale Architettura 2025.
Testi di Edoardo Bonacina, Francesca Di Caro, Alessandra Di Rito, Irene Lainati, Barbara Lo Presti.
I contributi sono stati elaborati come momento conclusivo del corso di Museologia tenuto da Elvira Vannini con gli artisti e curatori del 2^ anno del Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali di Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.
Note
[i] Cfr. Anselm Franke, Nida Ghouse, Paz Guevara and Antonia Majaca, Parapolitics. Cultural Freedom and the Cold War, Sternberg Press, 2021.
[ii] Coco Fusco, Lettera agli artisti africani, in Africus: Johannesburg Biennale, catalogo della mostra, Greater Johannesburg Transitional Metropolitan Council,1995.
[iii] Candice Breitz, The first Johannesburg Biennale: Work in progress, in “Third Text”, vol.9, n.31, pp.89-94, 1995.
[iv] cfr. Marco Scotini, Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici, DeriveApprodi, Roma, 2021.
[v] Il Padiglione russo ospita la Bolivia, Il sole 24ore, art economy, 21 marzo, 2024.