La
ripubblicazione dell’opera di Carla Lonzi arriva come una «festa» e a questa
festa voglio prendere parte senza nessuna esitazione nevrotica in stile
morettiano. Nelle feste c’è sempre il delizioso rischio che qualcosa scivoli
dal lato dell’imprevisto e disordini anche una ripetitiva recita sociale. Ma
l’imprevisto va aiutato e bisogna che gli si prepari il terreno. E
possibilmente lo si fa insieme.
L’irriducibilità dell’eredità di Rivolta femminile è lo strumentario teorico-pratico che ci aiuta tuttora a identificare le riuscite apparenti o strategiche: le citazioni patinate e la noia delle passerelle che non ci hanno mai accontentate, quando non ci hanno fatto perfino storcere il naso.
Lavorare all’imprevisto implica la migliore delle rinunce: quella a incasellare dati e a sistemare gli scaffali, ha a che fare più con una forma di improduttività e con il vedere finalmente germogliare qualcosa lì dove non ci si aspettava preservando l’indolenza di chi rivolge lo sguardo oltre le fatiche di esibizione e restauro del già noto.
Quello che devo al femminismo è la potenza di riuscire ancora a distrarmi dal lavoro culturale ed è in questa distrazione che mi accorgo che sto già lavorando a qualcos’altro: la profetica «deculturizzazione» di Carla Lonzi o la decolonizzazione di tutto questo sapere. Mentre ritardo una consegna o mollo la presa nello sforzo tecnicistico di un lessico appropriato, qualcosa si sta liberando da qualche altra parte. L’entrata nei mondi asfissianti della cultura, che per me ha coinciso con qualche soddisfazione accademica, mi appare come quello che nel Manifesto di Rivolta viene definito «il principio in base al quale l’egemone continua a condizionare il non-egemone». Tutte le volte in cui mi sono logorata o sono uscita mortificata nel tentativo di ridurmi a un registro scientifico o a una forma adeguata e oggetto di esaminazione, ho scoperto, e anche grazie a Lonzi e alle compagne, che il problema non ero io. Oggi lo rivendico con pochi diritti e molta speranza. E quando dico «io» sono attraversata da una serie di voci e di esperienze.
L’eccedenza
è quella che il sapere occidentale-eurocentrico continua a scartare e a
de-legittimare in funzione della sua conservazione e con criteri di valutazione
che interessano l’ingiunzione alla razionalità, la dis-incarnazione e la
riproposizione di gerarchie in nome di una fede cartesiana.
«Ci piace, dopo millenni, inserirci a questo titolo nel mondo progettato da altri? Ci pare gratificante partecipare alla grande sconfitta dell’uomo?», così scrive Lonzi all’inizio di Sputiamo su Hegel. La creazione dell’altr*, cioè il processo di differenziazione da un’identità che si auto-legittima come normativa, consente l’esercizio del potere e una concessione di tolleranza a costo di un’assimilazione privativa che lascia intatte le gerarchie e silenziate le dissidenze. Allora una ri-valorizzazione delle differenze non può che comportare il rifiuto radicale della cultura come istituzione.
Il patriarcato è la forma di colonialismo che ha relegato la donna a un ruolo subalterno e le ha concesso un’«uguaglianza formale» e innocua al mantenimento del suo ordine interno; per queste e altre ragioni il femminismo incontra le questioni colonialiste e non esaurisce la sua causa senza avere estirpato la radice dei funzionamenti gerarchici e avere completato «la messa in discussione del potere» in tutte le sue figurazioni. Questo comporta da parte del femminismo una revisione continua delle sue stesse istanze affinché si ri-operi dove un privilegio si attiva nel tentativo di disattivarne altri e dove una norma si istituisce. La dogmatizzazione, che pertiene a molte delle narrazioni e degli (ab)usi del lascito lonziano, non può che fare un torto allo spirito fortemente antidogmatico del suo pensiero.
L’aspetto più efficace dell’attività di Lonzi è proprio il disfacimento delle modalità di pensiero e dei linguaggi considerati come già colonizzati dal potere (patriarcale). La formazione di un soggetto collettivo e lo scardinamento dell’autorevolezza come fondamento epistemico che si intuiscono nelle relazioni di Rivolta e si inscrivono nella forma-manifesto sono già un esercizio di decolonizzazione del sapere (di «deculturizzazione») che non può passare in secondo piano come spesso avviene. La scrittura si fa politica quando recupera l’affettività censurata dalla separazione gerarchica di mente e corpo, così Lonzi, adoperando una scrittura che nasce nella fluidità degli scambi interpersonali e che sfugge a depositarsi nella concettualizzazione e nella sistemazione risolutiva dei dati, rimette in tensione il corpo. È la sottrazione alla scientificità puntale del lessico e alle concatenazioni del discorso a inscrivere nel testo l’intermittenza della pulsionalità.
Ciò
che è respinto dal colonizzatore come inappropriato e non conforme alla
neutralità della narrazione in nome della quale si perpetuano le predazioni,
questa immissione del corpo nel corpus, quest’uso non elettivo della
ragione ai danni delle emozioni, vengono rigiocati dalle femministe di Rivolta
per provocare l’irruzione sulla scena del mondo di quel «soggetto
imprevisto» che coincide con il sovvertimento dello status quo e con la
rottura di qualsiasi logica gerarchizzante.
Così in Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile Lonzi anticipa il sovvertimento delle modalità gerarchiche della creazione nella modalità relazionale. L’«altra creatività» ha ragione di esistere solo nell’incontro e sgancia la donna dal ruolo subalterno di spettatrice o musa, correndo il rischio dell’«assenza» per avventurarsi in spazi non ancora colonizzati o, quantomeno, per operare esercizi di decolonialità in quelli abituali.
Quando il femminismo si rifugia nelle fortezze accademiche, si fa affare per poche, si cristallizza nelle forme della normatività, parla il linguaggio esatto degli esperti o quello pubblicitario, reitera verticalizzazioni, sta replicando la stessa violenza colonizzatrice di cui si è dichiarato avversario in principio.
Questa
ripubblicazione, di cui mi concedo il sospetto della trovata commerciale, può
essere un invito a strappare l’eredità di Lonzi e di Rivolta femminile ai
salotti imborghesiti e alle stanze solo per sé per discuterne nelle forme e nei
contesti più disparati, anche osceni, affinché si dischiudano nuovi significati
e nuove strategie di stare al mondo.
Se la conoscenza non ci ha mai salvat*, l’invenzione forse può farlo.
di Melania Moltelo.
La ripubblicazione dell’opera di Carla Lonzi arriva come una «festa» e a questa festa voglio prendere parte senza nessuna esitazione nevrotica in stile morettiano. Nelle feste c’è sempre il delizioso rischio che qualcosa scivoli dal lato dell’imprevisto e disordini anche una ripetitiva recita sociale. Ma l’imprevisto va aiutato e bisogna che gli si prepari il terreno. E possibilmente lo si fa insieme.
L’irriducibilità dell’eredità di Rivolta femminile è lo strumentario teorico-pratico che ci aiuta tuttora a identificare le riuscite apparenti o strategiche: le citazioni patinate e la noia delle passerelle che non ci hanno mai accontentate, quando non ci hanno fatto perfino storcere il naso.
Lavorare all’imprevisto implica la migliore delle rinunce: quella a incasellare dati e a sistemare gli scaffali, ha a che fare più con una forma di improduttività e con il vedere finalmente germogliare qualcosa lì dove non ci si aspettava preservando l’indolenza di chi rivolge lo sguardo oltre le fatiche di esibizione e restauro del già noto.
Quello che devo al femminismo è la potenza di riuscire ancora a distrarmi dal lavoro culturale ed è in questa distrazione che mi accorgo che sto già lavorando a qualcos’altro: la profetica «deculturizzazione» di Carla Lonzi o la decolonizzazione di tutto questo sapere. Mentre ritardo una consegna o mollo la presa nello sforzo tecnicistico di un lessico appropriato, qualcosa si sta liberando da qualche altra parte. L’entrata nei mondi asfissianti della cultura, che per me ha coinciso con qualche soddisfazione accademica, mi appare come quello che nel Manifesto di Rivolta viene definito «il principio in base al quale l’egemone continua a condizionare il non-egemone». Tutte le volte in cui mi sono logorata o sono uscita mortificata nel tentativo di ridurmi a un registro scientifico o a una forma adeguata e oggetto di esaminazione, ho scoperto, e anche grazie a Lonzi e alle compagne, che il problema non ero io. Oggi lo rivendico con pochi diritti e molta speranza. E quando dico «io» sono attraversata da una serie di voci e di esperienze.
L’eccedenza è quella che il sapere occidentale-eurocentrico continua a scartare e a de-legittimare in funzione della sua conservazione e con criteri di valutazione che interessano l’ingiunzione alla razionalità, la dis-incarnazione e la riproposizione di gerarchie in nome di una fede cartesiana.
«Ci piace, dopo millenni, inserirci a questo titolo nel mondo progettato da altri? Ci pare gratificante partecipare alla grande sconfitta dell’uomo?», così scrive Lonzi all’inizio di Sputiamo su Hegel. La creazione dell’altr*, cioè il processo di differenziazione da un’identità che si auto-legittima come normativa, consente l’esercizio del potere e una concessione di tolleranza a costo di un’assimilazione privativa che lascia intatte le gerarchie e silenziate le dissidenze. Allora una ri-valorizzazione delle differenze non può che comportare il rifiuto radicale della cultura come istituzione.
Il patriarcato è la forma di colonialismo che ha relegato la donna a un ruolo subalterno e le ha concesso un’«uguaglianza formale» e innocua al mantenimento del suo ordine interno; per queste e altre ragioni il femminismo incontra le questioni colonialiste e non esaurisce la sua causa senza avere estirpato la radice dei funzionamenti gerarchici e avere completato «la messa in discussione del potere» in tutte le sue figurazioni. Questo comporta da parte del femminismo una revisione continua delle sue stesse istanze affinché si ri-operi dove un privilegio si attiva nel tentativo di disattivarne altri e dove una norma si istituisce. La dogmatizzazione, che pertiene a molte delle narrazioni e degli (ab)usi del lascito lonziano, non può che fare un torto allo spirito fortemente antidogmatico del suo pensiero.
L’aspetto più efficace dell’attività di Lonzi è proprio il disfacimento delle modalità di pensiero e dei linguaggi considerati come già colonizzati dal potere (patriarcale). La formazione di un soggetto collettivo e lo scardinamento dell’autorevolezza come fondamento epistemico che si intuiscono nelle relazioni di Rivolta e si inscrivono nella forma-manifesto sono già un esercizio di decolonizzazione del sapere (di «deculturizzazione») che non può passare in secondo piano come spesso avviene. La scrittura si fa politica quando recupera l’affettività censurata dalla separazione gerarchica di mente e corpo, così Lonzi, adoperando una scrittura che nasce nella fluidità degli scambi interpersonali e che sfugge a depositarsi nella concettualizzazione e nella sistemazione risolutiva dei dati, rimette in tensione il corpo. È la sottrazione alla scientificità puntale del lessico e alle concatenazioni del discorso a inscrivere nel testo l’intermittenza della pulsionalità.
Ciò che è respinto dal colonizzatore come inappropriato e non conforme alla neutralità della narrazione in nome della quale si perpetuano le predazioni, questa immissione del corpo nel corpus, quest’uso non elettivo della ragione ai danni delle emozioni, vengono rigiocati dalle femministe di Rivolta per provocare l’irruzione sulla scena del mondo di quel «soggetto imprevisto» che coincide con il sovvertimento dello status quo e con la rottura di qualsiasi logica gerarchizzante.
Così in Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile Lonzi anticipa il sovvertimento delle modalità gerarchiche della creazione nella modalità relazionale. L’«altra creatività» ha ragione di esistere solo nell’incontro e sgancia la donna dal ruolo subalterno di spettatrice o musa, correndo il rischio dell’«assenza» per avventurarsi in spazi non ancora colonizzati o, quantomeno, per operare esercizi di decolonialità in quelli abituali.
Quando il femminismo si rifugia nelle fortezze accademiche, si fa affare per poche, si cristallizza nelle forme della normatività, parla il linguaggio esatto degli esperti o quello pubblicitario, reitera verticalizzazioni, sta replicando la stessa violenza colonizzatrice di cui si è dichiarato avversario in principio.
Questa ripubblicazione, di cui mi concedo il sospetto della trovata commerciale, può essere un invito a strappare l’eredità di Lonzi e di Rivolta femminile ai salotti imborghesiti e alle stanze solo per sé per discuterne nelle forme e nei contesti più disparati, anche osceni, affinché si dischiudano nuovi significati e nuove strategie di stare al mondo.
Se la conoscenza non ci ha mai salvat*, l’invenzione forse può farlo.
Melania Moltelo