«Non siamo evasive sognatrici, siamo il luogo delegato all’evasione del sogno; non siamo individualiste, siamo il luogo e l’oggetto delegato alla recita dell’individualità. Non siamo estranee alla comprensione del capitale, siamo il luogo dove si finge che il capitale non sia giunto», Lidia Campagnano, Donne Immagini, 1976.
Se lo storico ufficiale crede di poter trovare negli archivi tutte le informazioni necessarie per costruire la storia, sostiene Gayatri Chakravorty Spivak [The Rani of Sirmur: An Essay in Reading the Archives, 1985], allora commette un grande errore in quanto è impossibile trovare in quei “depositi di fatti”, fonti e documenti, quel “soggetto silenzioso”, marginalizzato e subordinato, che è stato messo a tacere dalle strutture sociali e dal potere. Nei discorsi coloniali la soggettività del subalterno è stata interamente codificata nell’archivio storico attraverso le norme dei discorsi dominanti e «la testimonianza della coscienza della voce delle donne non appare mai». Occorre decostruire la storiografia, non feticizzare l’archivio e leggerlo per quello che è: un oggetto di rappresentazione del potere. Anche Griselda Pollock, sempre percorrendo una prospettiva simile attraverso la lente femminista parla di “trouble in the archive” e del rischio di un archivio canonizzato perché “quello che noi studiamo come storia non è un’accumulazione del passato, conservato nelle biblioteche per noi al fine dello studio. Ciò che è preservato, conservato e classificato come materiale per lo studio della storia e del patrimonio culturale è stato collocato lì in accordo agli interessi sociali e ai desideri di specifiche classi sociali, culture e generi. La biblioteca e il museo non sono luoghi innocenti della conservazione; sono sempre testi costruiti in accordo agli interessi e ai bisogni di certi gruppi” [Pollock, 2001].
D’altra parte, l’importanza politica del lavoro sugli archivi serve ancora oggi a ricordarci che i femminismi hanno iniziato un processo che non può dirsi concluso fino a quando non si cambia tutto. Se questa storia è la nostra e dobbiamo raccontarla, allora dove possiamo trovare quelle soggettività eccedenti, spesso genderizzate e razzializzate, che non hanno avuto voce o le cui voci non assoggettate sono state cancellate dagli archivi? Dove sono le mie lotte? Proprio dal femminismo sappiamo che non bisogna cercare nelle storie ufficiali, negli archivi istituzionali, nelle pubblicazioni scientifiche o nei media mainstream, dove non troveremmo assolutamente nulla, perché, come diceva Lucy R. Lippard, “Il più grande contributo del femminismo al futuro dell’arte è stato probabilmente proprio il suo mancato contributo al modernismo” [Sweeping Exchanges: The Contribution of Feminism to the Art of the 1970]. Bisogna cercare nei corpi disobbedienti, nelle voci dissidenti: quello che non può essere archiviato (o ciò che è sfuggito agli archivi) è la vera sostanza sovversiva e incatturabile. Gli archivi femministi, dimenticati o soppressi, sono tra gli strumenti che abbiamo per costruire queste contro-storie.
È questo uno degli assunti che emerge dall’Inarchiviabile. L’archivio contro la storia,l’ultimo libro di Marco Scotini, uscito per Meltemi a fine 2022, secondo volume – dopo Asja Lācis: L’agitatrice Rossa, a cura di Andris Brinkmanis – della collana“Geoarchivi”che intende riaprire gli “archivi ribelli” del passato a differenti latitudini e geopolitiche per orientarli verso le sfide del presente, attraverso una serie di titoli volti a un disallineamento dalla storia dell’arte e dall’ontologia modernista, in favore di assemblaggi con il genere, la politica, gli studi postcoloniali e l’ecologia.
L’etimologia del termine archivio deriva dal greco arché, contiene l’inizio e l’ordine: le due sfere semantiche del contare ma anche del raccontare, ogni volta in modo differente. E all’archivio come luogo del principio (della storia e soprattutto della sua istituzionalizzazione) sono stati dedicati numerosi saggi: per Derrida, nel suo mal d’archivio, non esiste nessun potere politico che non passi per l’accesso, il controllo e il comando dell’archivio, dalla relazione tra enunciato e potere di Foucault, alla memoria funzionale e la memoria-deposito di Aleida Assmann, il ruolo del testimone di Agamben, fino alla proliferazione visuale dell’archivio come ready-made o come format artistico ed espositivo. Dal fascicolo di schedatura, l’accumulo di dati e la loro catalogazione, questo slancio si è trasformato in una vera e propria ossessione tassonomica, quella febbre d’archivio (Okwui Enwezor) che ha contagiato il mondo dell’arte, il cui impulso archivistico (Hal Foster) si è diramato attraverso innumerevoli fenomenologie. Il problema dell’archivio non è però la sua immanenza, né la sua esistenza, in quanto complesso documentario e luogo fisico della conservazione al tempo stesso, ma è l’irrigidimento del principio d’ordine.
Lo statuto dell’archivio, ci dice Marco Scotini, assume costitutivamente in sé tutti quei tempi molteplici che la storia non garantisce, anche nell’accezione foucaultiana per cui “non ci è possibile descrivere l’archivio, perché parliamo proprio all’interno delle sue regole, perché è lui che conferisce a ciò che possiamo dire – e a sé stesso, oggetto del nostro discorso – i suoi modi di apparizione, le sue forme di esistenza e di coesistenza, il suo sistema di cumulo, di storicità e di sparizione”. L’archivio sostituisce il concetto di storia – o meglio della storiografia modernista, patriarcale, verticistica e gerarchica.
Già Benjamin aveva espresso un concetto non-cronologico di tempo e il rifiuto della rappresentazione di un tempo-storia secondo moduli fisico-lineari progressivi, per rompere con l’ordine coloniale e logocentrico dello storicismo egemonico e soprattutto perché “la coscienza di far saltare il continuum dell storia è propria delle classi rivoluzionarie nell’attimo della loro azione”. Non erano stati i comunardi a sparare sugli orologi pubblici per fermare il tempo della fabbrica e il dominio dell’oppressione? Perché solo il tempo liberato – potenza produttiva collettiva e momento creativo non disciplinato – è la vera sostanza inarchiviabile. Ed è questo che Scotini intende quando parla di “plasticità del tempo”, di una dimensione discontinua che sfugge alla genealogia lineare del racconto e da cui nasce la moltitudine sociale, quel general intellect – soggettività plurale, molteplice e differente – che prende la parola, si mobilita e che sfida l’autorità e il potere, perché si rifiuta di assumere il punto di vista di coloro che hanno vinto. L’eredità di un’agenda estetico-politica che indaga (da sempre) e passa (adesso) al filo tagliente della critica ogni concetto, eliminando quello che non serve, lanciando avanti quello che girava a vuoto, riabilitando quello che la storia non aveva incluso, in un “tempo-ora” (Jetztzeit), che interpreta prendendo posizione.
Pubblichiamo l’introduzione di Marco Scotini all’intervista con Marcella Campagnano (Milano, 1941) da una delle due sezioni: Crono-dissidenze, insieme a Geo-Archivi, con cui è articolato il volume – in una successione di 17 saggi, quasi dei capitoli “espositivi” che sono veri e propri blocchi teorici, da cui dipartono concatenamenti che rimandano a diversi campi del sapere, finora tenuti alla giusta distanza nel timore che potessero inficiare le sicurezze culturali e le gerarchie sociali della “fiaba modernista” dell’arte.
La pratica artistica di Marcella Campagnano è inseparabile dall’esperienza politica con le compagne dei collettivi femministi milanesi degli anni Settanta, da via Cherubini ai piccoli gruppi di auto-coscienza, ma soprattutto dalla forza e l’urto del movimento di liberazione della donna che gli scritti di Carla Lonzi e Silvia Federici, a differenti temporalità, hanno fenomenizzato. È in questo contesto che l’artista inizia ad assumere il mezzo fotografico per registrare sguardi, manifestazioni, raduni nazionali e internazionali, documentando i momenti attraverso cui la soggettivazione del movimento delle donne afferma le proprie istanze nella capacità di generare soggettività differenziale, opponendosi a politiche di inclusione e di svuotamento dell’agenda femminista.
Marcella
Campagnano, mette in scena (e decostruisce) la teatralità convenzionale a cui
siamo quotidianamente sottoposte attraverso una dis-identificazione dei generi,
come moltiplicazione di una pluralità di identità sessuali eterogenee e di
mondi possibili. Ne L’invenzione del femminile – Ruoli (1974-1980) tra
travestimenti, posture e gestualità emerge la (presunta) femminilità sotto la
regia patriarcale: non un’essenza di cui ogni donna sarebbe naturalmente
portatrice, ma un costrutto sociale e un immaginario sessista e fallocratico
che si traduce in un complesso di norme, rapporti di potere (e sopraffazione)
sui quali il patriarcato giace. Sempre un “inventario visuale eretico” come lo
definisce Scotini, quello dei volti femminili ritratti per le strade milanesi
già negli anni Sessanta della serie Donne per la strada (confluita nel
volume Donne. Immagini del 1976), fino alle registrazioni fotografiche
degli incontri sulla strategia femminista internazionale, che si sono svolti
nell’isola di Femø, nell’agosto del 1974, dove riconfigura, ancora una volta, la
moltiplicazione dei processi di soggettivazione post-identitaria e molecolare, svincolata
da ruoli predefiniti che non vogliono un riconoscimento fondato
sull’uguaglianza ma sulla differenza. Spinte rivoluzionarie che hanno
rovesciato il rapporto repressione-liberazione per sabotare il “corteo
trionfale dei vincitori” e che proprio l’archivio ci ha restituito in tutta la
sua forza, come grimaldello per far saltare quella stessa storia (in una
contro-storia), non più risultato delle azioni patriarcali ma di un carnevale
che si voleva liberazione, elemento creativo, macchina desiderante e potenza.
[Elvira Vannini]
Diecimila “Finzioni”. Ripetizione e femminismo in Marcella Campagnano
“Signorina amante moglie madre casalinga prostituta signora”. Priva di punteggiatura, la tassonomia si ripete all’infinito, senza soluzione di continuità: una riga dopo l’altra, in una gabbia grafica di cinquanta interlinee, tagliata “al vivo” della pagina. Invariata, tale enumerazione orizzontale di attribuzioni non fa che procedere fino alla saturazione del foglio e senza lasciare alcun margine: come in un illimitabile processo di elencazione, un interminabile eccetera.
Di fatto, se il numero ordinato degli elementi risulta finito, infinita è la sua ripetizione. Ecco allora che l’elenco potrebbe apparire come una sorta di testo segnaposto (il noto Lorem ipsum): un blocco di parole illeggibile, dimenticato – forse per sbaglio – da un grafico distratto all’interno della pubblicazione. Ma se il “falso testo” latino volutamente si sottrae alla leggibilità per mettere in evidenza l’impaginato, il significato della nostra classificazione non può sottrarsi all’attenzione di nessuno. Spogliate da ogni commento e ridotte a una giustapposizione elementare e atemporale, le sette nominazioni (pur nelle loro sfumature semantiche) non fanno altro che riaffermare un’unica ed esclusiva designazione: quella che fissa il termine “donna” in una prigione stabile, ad una biografia inalterabile.
La sessualizzazione del soggetto non è soltanto un fattore di discriminazione culturale (se pure a partire da un lontano passato di oppressione). É innanzitutto divisione sociale del lavoro (“moglie madre casalinga”): l’effetto della sua organizzazione materiale. La separazione patriarcale fra uomo e donna, cioè, si misura là dove essa diviene separazione capitalistica. Per cui le donne, storicamente, sono state costrette ad assumere un’identità che ha contrabbandato come essenza (o come natura femminile) tutta una serie di compiti legati al lavoro di riproduzione non remunerato. Così come ad altre mansioni macchiate di infamia, qualora il lavoro avesse contemplato la remunerazione. Ebbene se è vero che la coesistenza delle ingiunzioni discorsive “signorina amante moglie madre ecc.” non fa altro che consolidare la naturalizzazione dell’identità femminile entro un binarismo gerarchico, è altrettanto vero che la sua illimitata ripetizione (come in un mantra) produce un effetto opposto, desemantizzante.
Con la severità radicale e scanzonata del femminismo anni Settanta, questa pagina ritorna più di una volta – e quale intermezzo grafico – all’interno del libro fotografico Donne Immagini di Marcella Campagnano, del 1976 [i]. Un’opera cardine e pionieristica di quegli anni che, visto l’alto livello raggiunto, rischia di ridurre la figura di Campagnano all’autrice di un solo libro e di un solo ciclo fotografico, in esso contenuto: L’invenzione del femminile: Ruoli, del 1974.
Al posto della gabbia grafica della tassonomia precedente qui troviamo una griglia à la Muybridge che inquadra e giustappone, fotogramma dopo fotogramma, una serie infinita di stereotipi femminili in posa di fronte all’obiettivo: la casalinga, l’operaia, la sposa, la colf, la militante della nuova sinistra, la domestica, la modella, la gestante, la sex-worker, la professionista, la monaca. Sguardo in camera, cavalletto fisso, fondale neutro, uguale profondità di campo, stesso rigoroso bianco e nero della stampa, una ripetizione sistematica, un inventario sinottico di ritratti. A questa economia di strumenti fa da contraltare una proliferazione di abiti, accessori, comportamenti, dietro cui si scopre, ciò nonostante, un unico personaggio (o quasi) che coincide con l’artista stessa: il soggetto che fotografa è anche l’oggetto fotografato. C’è tutto un gioco di ruoli che “L’invenzione del femminile” mette in scena, per cui in luogo di una testimonianza fattuale abbiamo a che fare con un teatro di caratteri fittizi.
“Un vestito, dieci vestiti, dieci pettinature, dieci colori per le palpebre, oppure un paio di blue jeans e nessun colore per le palpebre, una pettinatura spettinata… una grande incertezza negli atteggiamenti del corpo, o una ferrea durezza. Un senso di abbandono infantile, una quieta ripetizione di scelte o un’esplicita recita di un ruolo, diecimila ‘finzioni’ e/o diecimila sottili comunicazioni di verità mai raccolte” [ii], scrive Lidia Campagnano nella premessa allo stesso libro. In Marcella Campagnano la teatralizzazione dei ruoli sociali della donna (tra August Sander e la posa da rotocalco fashion), ci restituisce una radicale immagine del femminile tra le tante prodotte, allora, per sottrarsi alla prescrizione del visibile imposta dall’egemonia culturale maschile. La domanda se “Alice possa sfuggire allo specchio” che la tiene prigioniera sembra animare l’intera ricerca fotografica su autorappresentazione e autoriconoscimento che gravita attorno all’area milanese del collettivo femminista di Via Cherubini, prima e della Libreria delle Donne, poi [iii]. Ma ciò che il fortunato ciclo fotografico L’invenzione del femminile porta a evidenza non è una sequenza di immagini di donne ma di donne-immagini, come recita il titolo del libro. Non una sequenza di soggettività autonome ma tutte costruite nell’immagine e attraverso l’immagine. Con un sottile carattere di parodia, la categoria “donne” appare qui l’effetto di una prescrizione di significanti artificiali e non una preesistenza originaria e incontaminata, o qualcosa di fondativo.
La tassonomia visuale e il cast continuamente replicato (teatrale, letteralmente), a cui Marcella Campagnano dà luogo, intervengono sul piano della rappresentazione e su quello delle politiche dell’identità. Operano a livello del significante, dei codici e dei cliché culturali che sono attribuiti alle donne per un’ingiunzione normativa originaria. Qualcosa che poi finisce per agire internamente e autonomamente come mezzo regolativo attraverso cui i soggetti si formano. Le identità, dunque, si strutturano all’interno e non all’esterno della rappresentazione che, come tale, produce gli stessi soggetti che regola e reprime.
La ripetizione è al centro di questa pratica artistica che, a differenza di altri progetti femministi coevi, non intende uscire dal gioco dei significanti o proporne un punto di vista esterno, per poter muovere una critica radicale alle politiche dell’identità. Innanzitutto, Campagnano sa di intervenire all’interno di un processo ripetitivo che è quello che istituisce il ruolo sociale come tale e l’identità costruita. Là dove si definisce una specializzazione dettagliata dei compiti e un repertorio predefinito di atti potenziali, usi e costumi ripetitivi danno origine ad abitudini tanto consolidate da rassomigliare a un istinto naturale, così come a delle nicchie culturali stabili, intrasformabili. Perciò l’identità sessualizzata risulta sempre una costruzione fantasmatica, oltre il fittizio e il reale [iv].
Ancora alla fine degli anni Sessanta, nel fotografare con uno sguardo documentarista e lungo le strade di Milano donne di differente età (bambine o anziane, in gruppi o isolate), Campagnano scopre come dietro questa identità femminile anonima e silenziosa sia all’opera un processo regolato di ripetizione che occulta se stesso e che, in psicologia, prende il nome di coazione a ripetere. Il ciclo L’invenzione del femminile: Ruoli non farà altro che rendere evidente l’impossibilità di una demarcazione tra fantasmatico e reale nel momento in cui anche quest’ultimo si rivela fittizio.
Il ricorso al travestitismo è la diretta affermazione di questa innaturalità fondamentale e la messa in scena dello statuto performativo del naturale stesso. Che Campagnano si serva della ripetizione di immagini per mettere in crisi o decostruire pratiche di ripetizione non deve apparire contraddittorio. Di fronte all’invenzione del femminile viene in mente la successiva teoria del performativo di Judith Butler che tanto insiste sulla ripetizione come destabilizzazione e restituzione delle premesse della politica dell’identità alla loro dimensione fantasmatica. Per cui la ripetizione stessa (in quanto ripetizione sovversiva) permetterebbe di dislocare quelle norme di genere che consentono la stessa ripetizione. Il carattere eminentemente politico de L’invenzione del femminile crediamo non necessiti di ulteriori spiegazioni e giustificazioni.
Il fatto, poi, che Marcella Campagnano abbia sempre raccontato la nascita di questo progetto come di una pratica collettiva sorta negli incontri aperti e informali con amiche pronte a travestirsi e posare di fronte all’obiettivo, non riduce la grande portata culturale che questo lavoro riveste. Sottraendolo alla dimensione dell’arte per posizionarlo all’interno degli spazi e dei gruppi dell’autocoscienza, Campagnano non ha fatto altro che rimanere fedele al discorso lonziano sulla deculturazione [v] come modalità di soggettivazione femminista. Nonostante che, proprio in rapporto alle teorie di Lonzi, i contenuti de I Ruoli finiscano per apparire sempre più come un inventario visuale eretico.
[Marco Scotini]
note:
[i] Marcella Campagnano, Donne Immagini, Moizzi editore, Milano 1976.
[ii] Lidia Campagnano, Ivi, pagine non numerate
[iii] Sui tre epicentri culturali del femminismo italiano degli anni Settanta vedi M. Scotini, The Unexpected Subject. Art and Feminism in Italy, in M. Scotini, R. Perna, “Flash Art” 2019, pp.9-13.
[iv] J. Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Editori Laterza, Bari-Roma 2017. Sull’identità razzializzata vedi invece S. Hall, Chi ha bisogno dell’identità?, In Id. Politiche del quotidiano, Il Saggiatore, Milano 2006.
[v] Cfr. G.Zapperi, Carla Lonzi. Un’arte della vita, DeriveApprodi, Roma 2017. Vedi inoltre I. Lafer, Deculturalize, Museion e Mousse publishing, 2020.
«Non siamo evasive sognatrici, siamo il luogo delegato all’evasione del sogno; non siamo individualiste, siamo il luogo e l’oggetto delegato alla recita dell’individualità. Non siamo estranee alla comprensione del capitale, siamo il luogo dove si finge che il capitale non sia giunto», Lidia Campagnano, Donne Immagini, 1976.
Se lo storico ufficiale crede di poter trovare negli archivi tutte le informazioni necessarie per costruire la storia, sostiene Gayatri Chakravorty Spivak [The Rani of Sirmur: An Essay in Reading the Archives, 1985], allora commette un grande errore in quanto è impossibile trovare in quei “depositi di fatti”, fonti e documenti, quel “soggetto silenzioso”, marginalizzato e subordinato, che è stato messo a tacere dalle strutture sociali e dal potere. Nei discorsi coloniali la soggettività del subalterno è stata interamente codificata nell’archivio storico attraverso le norme dei discorsi dominanti e «la testimonianza della coscienza della voce delle donne non appare mai». Occorre decostruire la storiografia, non feticizzare l’archivio e leggerlo per quello che è: un oggetto di rappresentazione del potere. Anche Griselda Pollock, sempre percorrendo una prospettiva simile attraverso la lente femminista parla di “trouble in the archive” e del rischio di un archivio canonizzato perché “quello che noi studiamo come storia non è un’accumulazione del passato, conservato nelle biblioteche per noi al fine dello studio. Ciò che è preservato, conservato e classificato come materiale per lo studio della storia e del patrimonio culturale è stato collocato lì in accordo agli interessi sociali e ai desideri di specifiche classi sociali, culture e generi. La biblioteca e il museo non sono luoghi innocenti della conservazione; sono sempre testi costruiti in accordo agli interessi e ai bisogni di certi gruppi” [Pollock, 2001].
D’altra parte, l’importanza politica del lavoro sugli archivi serve ancora oggi a ricordarci che i femminismi hanno iniziato un processo che non può dirsi concluso fino a quando non si cambia tutto. Se questa storia è la nostra e dobbiamo raccontarla, allora dove possiamo trovare quelle soggettività eccedenti, spesso genderizzate e razzializzate, che non hanno avuto voce o le cui voci non assoggettate sono state cancellate dagli archivi? Dove sono le mie lotte? Proprio dal femminismo sappiamo che non bisogna cercare nelle storie ufficiali, negli archivi istituzionali, nelle pubblicazioni scientifiche o nei media mainstream, dove non troveremmo assolutamente nulla, perché, come diceva Lucy R. Lippard, “Il più grande contributo del femminismo al futuro dell’arte è stato probabilmente proprio il suo mancato contributo al modernismo” [Sweeping Exchanges: The Contribution of Feminism to the Art of the 1970]. Bisogna cercare nei corpi disobbedienti, nelle voci dissidenti: quello che non può essere archiviato (o ciò che è sfuggito agli archivi) è la vera sostanza sovversiva e incatturabile. Gli archivi femministi, dimenticati o soppressi, sono tra gli strumenti che abbiamo per costruire queste contro-storie.
È questo uno degli assunti che emerge dall’Inarchiviabile. L’archivio contro la storia, l’ultimo libro di Marco Scotini, uscito per Meltemi a fine 2022, secondo volume – dopo Asja Lācis: L’agitatrice Rossa, a cura di Andris Brinkmanis – della collana “Geoarchivi” che intende riaprire gli “archivi ribelli” del passato a differenti latitudini e geopolitiche per orientarli verso le sfide del presente, attraverso una serie di titoli volti a un disallineamento dalla storia dell’arte e dall’ontologia modernista, in favore di assemblaggi con il genere, la politica, gli studi postcoloniali e l’ecologia.
L’etimologia del termine archivio deriva dal greco arché, contiene l’inizio e l’ordine: le due sfere semantiche del contare ma anche del raccontare, ogni volta in modo differente. E all’archivio come luogo del principio (della storia e soprattutto della sua istituzionalizzazione) sono stati dedicati numerosi saggi: per Derrida, nel suo mal d’archivio, non esiste nessun potere politico che non passi per l’accesso, il controllo e il comando dell’archivio, dalla relazione tra enunciato e potere di Foucault, alla memoria funzionale e la memoria-deposito di Aleida Assmann, il ruolo del testimone di Agamben, fino alla proliferazione visuale dell’archivio come ready-made o come format artistico ed espositivo. Dal fascicolo di schedatura, l’accumulo di dati e la loro catalogazione, questo slancio si è trasformato in una vera e propria ossessione tassonomica, quella febbre d’archivio (Okwui Enwezor) che ha contagiato il mondo dell’arte, il cui impulso archivistico (Hal Foster) si è diramato attraverso innumerevoli fenomenologie. Il problema dell’archivio non è però la sua immanenza, né la sua esistenza, in quanto complesso documentario e luogo fisico della conservazione al tempo stesso, ma è l’irrigidimento del principio d’ordine.
Lo statuto dell’archivio, ci dice Marco Scotini, assume costitutivamente in sé tutti quei tempi molteplici che la storia non garantisce, anche nell’accezione foucaultiana per cui “non ci è possibile descrivere l’archivio, perché parliamo proprio all’interno delle sue regole, perché è lui che conferisce a ciò che possiamo dire – e a sé stesso, oggetto del nostro discorso – i suoi modi di apparizione, le sue forme di esistenza e di coesistenza, il suo sistema di cumulo, di storicità e di sparizione”. L’archivio sostituisce il concetto di storia – o meglio della storiografia modernista, patriarcale, verticistica e gerarchica.
Già Benjamin aveva espresso un concetto non-cronologico di tempo e il rifiuto della rappresentazione di un tempo-storia secondo moduli fisico-lineari progressivi, per rompere con l’ordine coloniale e logocentrico dello storicismo egemonico e soprattutto perché “la coscienza di far saltare il continuum dell storia è propria delle classi rivoluzionarie nell’attimo della loro azione”. Non erano stati i comunardi a sparare sugli orologi pubblici per fermare il tempo della fabbrica e il dominio dell’oppressione? Perché solo il tempo liberato – potenza produttiva collettiva e momento creativo non disciplinato – è la vera sostanza inarchiviabile. Ed è questo che Scotini intende quando parla di “plasticità del tempo”, di una dimensione discontinua che sfugge alla genealogia lineare del racconto e da cui nasce la moltitudine sociale, quel general intellect – soggettività plurale, molteplice e differente – che prende la parola, si mobilita e che sfida l’autorità e il potere, perché si rifiuta di assumere il punto di vista di coloro che hanno vinto. L’eredità di un’agenda estetico-politica che indaga (da sempre) e passa (adesso) al filo tagliente della critica ogni concetto, eliminando quello che non serve, lanciando avanti quello che girava a vuoto, riabilitando quello che la storia non aveva incluso, in un “tempo-ora” (Jetztzeit), che interpreta prendendo posizione.
Pubblichiamo l’introduzione di Marco Scotini all’intervista con Marcella Campagnano (Milano, 1941) da una delle due sezioni: Crono-dissidenze, insieme a Geo-Archivi, con cui è articolato il volume – in una successione di 17 saggi, quasi dei capitoli “espositivi” che sono veri e propri blocchi teorici, da cui dipartono concatenamenti che rimandano a diversi campi del sapere, finora tenuti alla giusta distanza nel timore che potessero inficiare le sicurezze culturali e le gerarchie sociali della “fiaba modernista” dell’arte.
La pratica artistica di Marcella Campagnano è inseparabile dall’esperienza politica con le compagne dei collettivi femministi milanesi degli anni Settanta, da via Cherubini ai piccoli gruppi di auto-coscienza, ma soprattutto dalla forza e l’urto del movimento di liberazione della donna che gli scritti di Carla Lonzi e Silvia Federici, a differenti temporalità, hanno fenomenizzato. È in questo contesto che l’artista inizia ad assumere il mezzo fotografico per registrare sguardi, manifestazioni, raduni nazionali e internazionali, documentando i momenti attraverso cui la soggettivazione del movimento delle donne afferma le proprie istanze nella capacità di generare soggettività differenziale, opponendosi a politiche di inclusione e di svuotamento dell’agenda femminista.
Marcella Campagnano, mette in scena (e decostruisce) la teatralità convenzionale a cui siamo quotidianamente sottoposte attraverso una dis-identificazione dei generi, come moltiplicazione di una pluralità di identità sessuali eterogenee e di mondi possibili. Ne L’invenzione del femminile – Ruoli (1974-1980) tra travestimenti, posture e gestualità emerge la (presunta) femminilità sotto la regia patriarcale: non un’essenza di cui ogni donna sarebbe naturalmente portatrice, ma un costrutto sociale e un immaginario sessista e fallocratico che si traduce in un complesso di norme, rapporti di potere (e sopraffazione) sui quali il patriarcato giace. Sempre un “inventario visuale eretico” come lo definisce Scotini, quello dei volti femminili ritratti per le strade milanesi già negli anni Sessanta della serie Donne per la strada (confluita nel volume Donne. Immagini del 1976), fino alle registrazioni fotografiche degli incontri sulla strategia femminista internazionale, che si sono svolti nell’isola di Femø, nell’agosto del 1974, dove riconfigura, ancora una volta, la moltiplicazione dei processi di soggettivazione post-identitaria e molecolare, svincolata da ruoli predefiniti che non vogliono un riconoscimento fondato sull’uguaglianza ma sulla differenza. Spinte rivoluzionarie che hanno rovesciato il rapporto repressione-liberazione per sabotare il “corteo trionfale dei vincitori” e che proprio l’archivio ci ha restituito in tutta la sua forza, come grimaldello per far saltare quella stessa storia (in una contro-storia), non più risultato delle azioni patriarcali ma di un carnevale che si voleva liberazione, elemento creativo, macchina desiderante e potenza.
[Elvira Vannini]
Diecimila “Finzioni”. Ripetizione e femminismo in Marcella Campagnano
“Signorina amante moglie madre casalinga prostituta signora”. Priva di punteggiatura, la tassonomia si ripete all’infinito, senza soluzione di continuità: una riga dopo l’altra, in una gabbia grafica di cinquanta interlinee, tagliata “al vivo” della pagina. Invariata, tale enumerazione orizzontale di attribuzioni non fa che procedere fino alla saturazione del foglio e senza lasciare alcun margine: come in un illimitabile processo di elencazione, un interminabile eccetera.
Di fatto, se il numero ordinato degli elementi risulta finito, infinita è la sua ripetizione. Ecco allora che l’elenco potrebbe apparire come una sorta di testo segnaposto (il noto Lorem ipsum): un blocco di parole illeggibile, dimenticato – forse per sbaglio – da un grafico distratto all’interno della pubblicazione. Ma se il “falso testo” latino volutamente si sottrae alla leggibilità per mettere in evidenza l’impaginato, il significato della nostra classificazione non può sottrarsi all’attenzione di nessuno. Spogliate da ogni commento e ridotte a una giustapposizione elementare e atemporale, le sette nominazioni (pur nelle loro sfumature semantiche) non fanno altro che riaffermare un’unica ed esclusiva designazione: quella che fissa il termine “donna” in una prigione stabile, ad una biografia inalterabile.
La sessualizzazione del soggetto non è soltanto un fattore di discriminazione culturale (se pure a partire da un lontano passato di oppressione). É innanzitutto divisione sociale del lavoro (“moglie madre casalinga”): l’effetto della sua organizzazione materiale. La separazione patriarcale fra uomo e donna, cioè, si misura là dove essa diviene separazione capitalistica. Per cui le donne, storicamente, sono state costrette ad assumere un’identità che ha contrabbandato come essenza (o come natura femminile) tutta una serie di compiti legati al lavoro di riproduzione non remunerato. Così come ad altre mansioni macchiate di infamia, qualora il lavoro avesse contemplato la remunerazione. Ebbene se è vero che la coesistenza delle ingiunzioni discorsive “signorina amante moglie madre ecc.” non fa altro che consolidare la naturalizzazione dell’identità femminile entro un binarismo gerarchico, è altrettanto vero che la sua illimitata ripetizione (come in un mantra) produce un effetto opposto, desemantizzante.
Con la severità radicale e scanzonata del femminismo anni Settanta, questa pagina ritorna più di una volta – e quale intermezzo grafico – all’interno del libro fotografico Donne Immagini di Marcella Campagnano, del 1976 [i]. Un’opera cardine e pionieristica di quegli anni che, visto l’alto livello raggiunto, rischia di ridurre la figura di Campagnano all’autrice di un solo libro e di un solo ciclo fotografico, in esso contenuto: L’invenzione del femminile: Ruoli, del 1974.
Al posto della gabbia grafica della tassonomia precedente qui troviamo una griglia à la Muybridge che inquadra e giustappone, fotogramma dopo fotogramma, una serie infinita di stereotipi femminili in posa di fronte all’obiettivo: la casalinga, l’operaia, la sposa, la colf, la militante della nuova sinistra, la domestica, la modella, la gestante, la sex-worker, la professionista, la monaca. Sguardo in camera, cavalletto fisso, fondale neutro, uguale profondità di campo, stesso rigoroso bianco e nero della stampa, una ripetizione sistematica, un inventario sinottico di ritratti. A questa economia di strumenti fa da contraltare una proliferazione di abiti, accessori, comportamenti, dietro cui si scopre, ciò nonostante, un unico personaggio (o quasi) che coincide con l’artista stessa: il soggetto che fotografa è anche l’oggetto fotografato. C’è tutto un gioco di ruoli che “L’invenzione del femminile” mette in scena, per cui in luogo di una testimonianza fattuale abbiamo a che fare con un teatro di caratteri fittizi.
“Un vestito, dieci vestiti, dieci pettinature, dieci colori per le palpebre, oppure un paio di blue jeans e nessun colore per le palpebre, una pettinatura spettinata… una grande incertezza negli atteggiamenti del corpo, o una ferrea durezza. Un senso di abbandono infantile, una quieta ripetizione di scelte o un’esplicita recita di un ruolo, diecimila ‘finzioni’ e/o diecimila sottili comunicazioni di verità mai raccolte” [ii], scrive Lidia Campagnano nella premessa allo stesso libro. In Marcella Campagnano la teatralizzazione dei ruoli sociali della donna (tra August Sander e la posa da rotocalco fashion), ci restituisce una radicale immagine del femminile tra le tante prodotte, allora, per sottrarsi alla prescrizione del visibile imposta dall’egemonia culturale maschile. La domanda se “Alice possa sfuggire allo specchio” che la tiene prigioniera sembra animare l’intera ricerca fotografica su autorappresentazione e autoriconoscimento che gravita attorno all’area milanese del collettivo femminista di Via Cherubini, prima e della Libreria delle Donne, poi [iii]. Ma ciò che il fortunato ciclo fotografico L’invenzione del femminile porta a evidenza non è una sequenza di immagini di donne ma di donne-immagini, come recita il titolo del libro. Non una sequenza di soggettività autonome ma tutte costruite nell’immagine e attraverso l’immagine. Con un sottile carattere di parodia, la categoria “donne” appare qui l’effetto di una prescrizione di significanti artificiali e non una preesistenza originaria e incontaminata, o qualcosa di fondativo.
La tassonomia visuale e il cast continuamente replicato (teatrale, letteralmente), a cui Marcella Campagnano dà luogo, intervengono sul piano della rappresentazione e su quello delle politiche dell’identità. Operano a livello del significante, dei codici e dei cliché culturali che sono attribuiti alle donne per un’ingiunzione normativa originaria. Qualcosa che poi finisce per agire internamente e autonomamente come mezzo regolativo attraverso cui i soggetti si formano. Le identità, dunque, si strutturano all’interno e non all’esterno della rappresentazione che, come tale, produce gli stessi soggetti che regola e reprime.
La ripetizione è al centro di questa pratica artistica che, a differenza di altri progetti femministi coevi, non intende uscire dal gioco dei significanti o proporne un punto di vista esterno, per poter muovere una critica radicale alle politiche dell’identità. Innanzitutto, Campagnano sa di intervenire all’interno di un processo ripetitivo che è quello che istituisce il ruolo sociale come tale e l’identità costruita. Là dove si definisce una specializzazione dettagliata dei compiti e un repertorio predefinito di atti potenziali, usi e costumi ripetitivi danno origine ad abitudini tanto consolidate da rassomigliare a un istinto naturale, così come a delle nicchie culturali stabili, intrasformabili. Perciò l’identità sessualizzata risulta sempre una costruzione fantasmatica, oltre il fittizio e il reale [iv].
Ancora alla fine degli anni Sessanta, nel fotografare con uno sguardo documentarista e lungo le strade di Milano donne di differente età (bambine o anziane, in gruppi o isolate), Campagnano scopre come dietro questa identità femminile anonima e silenziosa sia all’opera un processo regolato di ripetizione che occulta se stesso e che, in psicologia, prende il nome di coazione a ripetere. Il ciclo L’invenzione del femminile: Ruoli non farà altro che rendere evidente l’impossibilità di una demarcazione tra fantasmatico e reale nel momento in cui anche quest’ultimo si rivela fittizio.
Il ricorso al travestitismo è la diretta affermazione di questa innaturalità fondamentale e la messa in scena dello statuto performativo del naturale stesso. Che Campagnano si serva della ripetizione di immagini per mettere in crisi o decostruire pratiche di ripetizione non deve apparire contraddittorio. Di fronte all’invenzione del femminile viene in mente la successiva teoria del performativo di Judith Butler che tanto insiste sulla ripetizione come destabilizzazione e restituzione delle premesse della politica dell’identità alla loro dimensione fantasmatica. Per cui la ripetizione stessa (in quanto ripetizione sovversiva) permetterebbe di dislocare quelle norme di genere che consentono la stessa ripetizione. Il carattere eminentemente politico de L’invenzione del femminile crediamo non necessiti di ulteriori spiegazioni e giustificazioni.
Il fatto, poi, che Marcella Campagnano abbia sempre raccontato la nascita di questo progetto come di una pratica collettiva sorta negli incontri aperti e informali con amiche pronte a travestirsi e posare di fronte all’obiettivo, non riduce la grande portata culturale che questo lavoro riveste. Sottraendolo alla dimensione dell’arte per posizionarlo all’interno degli spazi e dei gruppi dell’autocoscienza, Campagnano non ha fatto altro che rimanere fedele al discorso lonziano sulla deculturazione [v] come modalità di soggettivazione femminista. Nonostante che, proprio in rapporto alle teorie di Lonzi, i contenuti de I Ruoli finiscano per apparire sempre più come un inventario visuale eretico.
[Marco Scotini]
note:
[i] Marcella Campagnano, Donne Immagini, Moizzi editore, Milano 1976.
[ii] Lidia Campagnano, Ivi, pagine non numerate
[iii] Sui tre epicentri culturali del femminismo italiano degli anni Settanta vedi M. Scotini, The Unexpected Subject. Art and Feminism in Italy, in M. Scotini, R. Perna, “Flash Art” 2019, pp.9-13.
[iv] J. Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Editori Laterza, Bari-Roma 2017. Sull’identità razzializzata vedi invece S. Hall, Chi ha bisogno dell’identità?, In Id. Politiche del quotidiano, Il Saggiatore, Milano 2006.
[v] Cfr. G.Zapperi, Carla Lonzi. Un’arte della vita, DeriveApprodi, Roma 2017. Vedi inoltre I. Lafer, Deculturalize, Museion e Mousse publishing, 2020.