Conversazione con Jesal Kapadia, Mattia Pellegrini e Giorgia Frisardi.
Una ricerca visuale sulla convergenza delle lotte e l’ecologia della cura accompagna il secondo capitolo di She has no land but she keeps sheep, opera-filmica di natura errante e imprevista che sarà proiettata venerdì 23 settembre durante il Festival 5 di DeriveApprodi– “Chi lavora è perduto” che si svolge a Bologna dal 22 al 25 settembre, in collaborazione con la libreria. Input e la rivista online «Machina» presso la Casa di Quartiere Scipione dal Ferro. Un viaggio tra la natura del Prospect Park di New York dove Jesal Kapadia e Silvia Federici si incontrano regolarmente, la foresta sacra di Assisi e la grotta in cui visse San Francesco, fino agli scorci boschivi delle montagne dell’Himalaya dove una comunità di monaci buddisti ha avviato uno sciopero della fame per impedire che la costruzione di una diga distruggesse la montagna sacra: così la resistenza delle popolazioni indigene contro l’espropriazione coloniale in America Latina, le insurrezioni contadine in India e in altre parti del Sud globale, insieme a quelle che vengono chiamate “sacrifice zones”, sono al centro del progetto, aree geografiche distrutte dall’inquinamento, dall’economia estrattivista e gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici e ambientali in atto, spesso abitate da minoranze e popolazioni subordinate che si trasformano in comunità resistenti e che lottano per affermare la giustizia sociale, la vita contro la sopraffazione dello sviluppo economico.
La crisi ecologica di cui l’emergenza pandemica è stata espressione, e i
differenti gradi di vulnerabilità a questa emergenza, dipendono dalle
diseguaglianze che passano attraverso le linee della classe, razza, della
marginalità e del genere.
She has no land but she keeps sheep pone l’urgenza di politicizzare l’ecologia radicale e la cura nelle nostre società, che oggi coincide sempre di più con il dominio di corpi e territori, con il sacrificio di terre e vite; lo sfruttamento del lavoro produttivo e riproduttivo, del lavoro domestico e di cura imposto alle donne (invisibilizzato, subordinato, naturalizzato) è stato espropriato dal capitalismo insieme alla natura e alla biosfera, tanto quanto, in passato, hanno fatto la colonizzazione e la schiavitù, così da permettere all’Occidente di costruire la propria egemonia e accumulare le proprie ricchezze. Occorre mettere al centro della lotta femminista la riappropriazione della ricchezza sociale, intercettare alleanze e assemblaggi che possono aprire a conflittualità e spazi di convergenza politica, nella direzione immediatamente antagonista dei commons, in cui i processi di soggettivazione prendono forma e generano percorsi di resistenza e regimi comunitari: non separare la lotta contro il capitale dal problema della riproduzione delle nostre vite, dal controllo dei corpi.
Mattia, Jesal quando si
sono incrociate le vostre scie?
Mattia: The Story began long time ago, è la frase che apre questa ricerca, nella prima
immagine della sua introduzione a, ricerca e studio che è anche il
tentativo di comprendere cosa significa incontrarsi, cosa significa una
collisione tra corpi, mondi, insurrezioni.
Se dovessimo
rispondere però con le regole di un tempo lineare, di un prima che precede un
dopo, il nostro incontro è avvenuto in uno dei tanti Sud del mondo.
L’occasione è stata quella
della prima edizione delle Free Home University, all’interno di How to live together? con Ayreen
Anastas e Rene
Gabri, il 16 Beaver Group e tante altre amiche. Un momento straordinario,
magico, che ha segnato una traiettoria e prodotto una metamorfosi.
Da lì
abbiamo iniziato un lungo percorso insieme, un movimento incessante che ci ha
permesso di entrare in contatto con molti mondi, umani e non umani, traccia e
corpo della nostra ricerca in She has no land but she keeps sheep.
Jesal: L’idea di lavorare insieme è nata organicamente, così come la possibilità di viaggiare e abitare un tempo comune è diventata una forma di vita. Abbiamo cominciato a filmare e a tenere traccia del nostro spostarci. All’inizio immaginandolo come un diario, segnando il tempo tra comuni, spazi di vita collettiva, case, residenze auto-organizzate, occupazioni, vari contesti artistici e incontri organizzati da e con; così come a New York City dove Silvia Federici (e George Caffentzis) vivono, e con cui ha sede il gruppo di donne chiamato Feminist Research on Violence. I primi tentativi di intrecciare i filmati del diario in un’opera-filmica concettuale sono avvenuti grazie a questo gruppo femminista e, quasi nello stesso periodo, grazie all’invito a partecipare a Sensibile Comune alla Galleria Nazionale di Roma durante il ciclo di conferenze C-17.
She has no land but she keeps sheep / chapter two è un lavoro filmico non
ortodosso, sia nel formato che nel linguaggio, piuttosto funziona come un
archivio di immagini costitutivamente recalcitranti all’ordine
del montaggio o all’archiviazione. Come riattivate ogni volta questo
archivio di soggettività incatturabili?
Jesal e Mattia: La prima traccia in forma
cartacea apparse sulla parete di dove abitavamo ad Harlem. Un tentativo di
sceneggiatura, una genealogia visiva che ci permettesse di creare innanzitutto
un dialogo tra noi che inizialmente avevamo difficoltà nel poter comunicare in
un linguaggio comune e provenivamo da tradizioni molto differenti. Da subito la
dimensione quotidiana prendeva forma. Un modo per segnare il tempo, i passaggi,
le relazioni, le modalità di abitare in una prospettiva di rottura profonda con
il presente. Ma anche modalità di conflitto, per confliggere innanzitutto con
noi stessi. Ecco quindi che ogni volta che torniamo a mettere mano in quel
magma di immagini-in-movimento qualche cosa di sorprendente accade: i tempi si
sovrappongono, lo spazio si frantuma, quelle luci e quei lampi ci dicono sempre
qualcosa di altro da sé. È in questo senso sia una ricerca geografica che un’indagine
sul ricordo, sulle sue possibili metamorfosi, sia singolari che collettive. Un
momento di cesura così profondo che continua a costruirsi anche adesso che ci
siamo in qualche modo fermati.
Questo materiale ha
comunque dato vita a tre frammenti abbastanza diversi tra loro: Introduzione a She
has no land but she keeps sheep, il primo e il secondo capitolo – legati
sicuramente da una forma recalcitrante della tecnica, del buon metodo di
fare un film, e l’incontro con soggettività incatturabili.
Per questo è emozionante
parlare del processo di realizzazione della nostra opera-filmica, di natura
errante, imprevista che ogni volta riesce a produrre un certo piacere nel riattivarla.
Ciò che finiamo per mostrare è il risultato diretto di molte amicizie, alcune
delle quali si stanno ancora svolgendo, altre si stanno rinnovando e altre
ancora continuano a sorprenderci. Senza questi amici nulla di tutto ciò sarebbe
stato possibile. Consideriamo questa opera-filmica come un archivio vivente,
che usa il proprio sonar per mostrarsi nel film. In questo momento siamo in
piena guerra, e rivediamo le riprese fatte nei viaggi sulle montagne armene e
ci sentiamo così vicini e solidali con i nostri amici in quel paese. Le
geografie, i luoghi sono in costante trasformazione. Ed anche le lotte che vi
si innervano.
Gli alberi di Assisi, la grotta dove visse Francesco, entrano nel mezzo di questo secondo capitolo di She has no land, così come Santa Sara a Saint Marie de la Mer è presente nel primo. Ora, il monaco che ha fatto lo sciopero della fame a Gangtok, nel Sikkim, ci ha parlato di nuovo delle montagne e dei fiumi distrutti in tutto il mondo, non solo in Himalaya, così abbiamo deciso di chiudere questo capitolo, per ora, con la sua intervista. Non c’è quindi alcuna sceneggiatura, ma ricerca, studio, tentativo di collisione con le pratiche altre riguardo la terra, i movimenti anticapitalisti, gli scioperi femministi, ed è tutto in questa narrazione balbettante – splendidamente intrecciata dal canto lalleggiato di Giorgia.
Realizzato durante il
confinamento questo secondo capitolo filmico si apre con un messaggio di
supporto di Silvia Federici e George Caffentzis per Oliver de Marcellus, un
compagno arrestato, e si chiude con la resistenza, attraverso lo sciopero della
fame, per la costruzione di una diga contro la violenza delle politiche
estrattive che hanno colpito tante aree del sud del mondo. La pedagogia
radicale, il lavoro comunitario, le rivendicazioni per la terra e l’intersezionalità
delle lotte sono tra le urgenze che richiamate in questi attraversamenti…
Mattia: Queste sono sicuramente tra le urgenze che proviamo ad affrontare. Nel primo capitolo ci eravamo concentrati invece nell’incontro con Nicola Valentino e dell’Archivio di scritture scrizioni e arte ir-ritata di Sensibili alle foglie, nel diario dal manicomio di Lia Traverso, quindi, la questione della reclusione, del carcere, della psichiatria, fino ad arrivare al rito di Santa Sara a Saintes Maries de la Mer, spingendoci verso l’argotico. Ricordo la sensazione di spaesamento nel tornare sui quei frammenti proprio mentre eravamo confinati, sorvegliati, obbligati a non muoversi, a seimila chilometri di distanza. Prendersi del tempo per ritornare in quel fiume mai uguale a se stesso portava lo studio e la riflessione là dove prima non avremmo potuto trovarle; proprio perché in quel momento avveniva uno svelamento: il nostro stato di pura dipendenza dell’ambiente metropolitano iniziò ad apparire come uno stato di debolezza suicida.
Ci siamo imposti l’immersione
ed eccoci improvvisamente errare tra autrici e autori, tra le prassi che
silenziosamente, e con grande difficoltà, provano a sopravvivere a questo
presente.
C’erano poi
altri mostri da affrontare che poneva tutto sotto un’altra ottica.
Jesal: Entrambi avevamo un
profondo desiderio di collocare le lotte che avevamo davanti a noi in un
contesto più ampio – dal movimento delle piazze e della Primavera araba nel
2011, agli scioperi degli insegnanti nello zocalo di Oaxaca nel 2006, e poi le
proteste di Shaheen bagh a Delhi nel 2019… fino ai riot dopo l’omicidio di
George Floyd.
Poiché il nostro film prima di
tutto non è veramente un film, ma una raccolta di frammenti, come se
fosse fatto di cocci, di pezzi, di rottami e come può dire un archeologo ci
diciamo: “un frammento può contenere molti segreti”.
Il materiale
che mostriamo alla fine è aperto alla metamorfosi, in base al contesto in cui
siamo portati ma questi segreti giocano tra luci ed ombre e appaiono quando
meno ce lo aspettiamo.
Ed è così che siamo arrivati a entrambi i capitoli durante la pandemia, spinti da amiche che ci hanno incoraggiato a realizzare e condividere il nostro lavoro, in un momento di immenso isolamento, perdita e dolore, quando enormi pezzi del nostro tessuto comunitario erano stati erosi, non solo alcune parti iniziavano a mancare, ma interi mondi così attentamente costruiti e tenuti insieme stavano scomparendo. Facciamo eco alla nostra amica Carla Bottiglieri: “Riparare un po’ del tessuto comune dei nostri respiri”. Abbiamo pensato a come “essere vicini”, “be nearby”, come direbbe Trin T. Minh-ha, sia con l’intensità e la carica trasformatrice che il virus portava con sé, sia con la pienezza del desiderio di rafforzare il tessuto relazionale intorno a noi; poiché lo spazio collettivo, come di ogni singolarità, ha sempre bisogna di cura.
Tra nuove abitudini di conversazione e nuovi modi di curare le distanze, abbiamo cercato di montare alcune di queste immagini in un flusso, tenuti insieme dai nostri legami invisibili. Come nella parte del film Memoria, di Apichatpong Weerasethakul, quando il personaggio di Hernan tocca la pietra e sentiamo i ricordi fuoriuscire. Allo stesso modo il nostro hard-drive continua a pulsare ogni volta che lo tocchiamo…
Jesal nomina all’inizio
la storia di Savitribai Phule, considerata la madre del femminismo indiano; i
movimenti delle donne sono stati, in India, implicati fin da subito e a
differenza di quelli occidentali nel discorso ecologico (penso al movimento
Chipko, forse il caso più noto, guidato da donne). Ho trovato questa poesia di
Kamla Bhasin (tra le fondatrici di Kali for Women, la prima casa editrice
femminista in India) che mi sembra richiamare la vostra attitudine: quale
reenchantment è ancora possibile?
Jesal: Quello che mi piace è che
nella parola “re-incanto” c’è una mise en abyme sonora – nella parola “canto”,
nell’urlo, nel rifiuto, si sentono voci e si vedono immagini di persone contro
l’oppressione di ogni tipo, in tutto il mondo – come sia tutto concentrato in
quell’unica parola, che può essere animata da chiunque si colleghi a una lotta
anticoloniale e anticapitalista. È anche il titolo del libro di Silvia, Renchanting
the World, un grido per uno sciopero femminista internazionale, basato sui
principi del commoning. Le forze contro di noi sono così forti in questo
momento, eppure ci si organizza in tutti i modi possibili. Ci si organizza per
chiedere risarcimenti climatici ai Paesi più ricchi del mondo a causa delle
devastazioni causate dalle inondazioni – ad esempio in Pakistan; i contadini
indiani occupano le autostrade, bloccando la viabilità per un anno intero in
Punjab per chiedere la conservazione comunitaria delle risorse; le femministe
di Ni Una Menos in Argentina e in Cile, Las Tesis, che raggiungono le
femministe negli Stati Uniti per parlare del diritto all’aborto; molti esempi
stimolanti di ciò che si può fare se ci uniamo… eppure molto resta da fare.
Possiamo ancora sentire le voci delle donne e degli studenti nei campus universitari in India, che cantano queste parole di Azaadi… libertà, liberazione. È bello che tu abbia citato le parole di Kamala Bhasin, che si è ispirata alle donne pakistane che hanno cantato quello slogan contro il loro Stato oppressivo, e mi piace quanto siano contagiose queste parole di liberazione, che trascendono i confini… perché la lotta contro il patriarcato è al centro della lotta anticapitalista, e risuona ovunque. Penso ora alla canzone che la nostra amica LaToya Manly-Spain ci ha insegnato a cantare a Castiglione d’Otranto, su Yemoja, la dea del fiume e del mare, protettrice delle donne, a seconda della parte dell’Africa da cui si proviene.
Mattia: Vorrei usare questa
occasione per ricordare attraverso i suoi versi una grandissima poeta e
scrittrice Mariella Mehr: la sua storia, la violenza subita dal popolo Jenish
in Svizzera, la sua resistenza e la potenza delle sue parole ci mettono di
fronte ad un possibile re-incanto.
Spesso canta il lupo nel
mio sangue e allora l’anima mia si apre
in una lingua
straniera.
Luce, dico allora, luce di
lupo,
dico, e che non venga
nessuno a tagliarmi i capelli.
E a proposito di re-incanto vi è un libro, oltre a quello di Silvia, a cui tentiamo particolarmente e che crediamo sia importante avere sotto mano in questi anni così violenti. Le Favole del Reincanto di Stefania Consigliere, edito da DeriveApprodi, pone una critica pungente del moderno, una critica a quel soggetto autonomo e razionale che la modernità ci impone come unico soggetto possibile e di cui con grande difficoltà un certo mondo prova a fare i conti. Una critica alla scienza, al progresso, all’omogenizzazione dell’esperienza, al colonialismo. Questo per dire che ci sono anche i libri, le autrici, i sogni, le parole che continuano questo lavoro di continua messa in discussione; anche le immagini si nutrono di incontri imprevedibili.
Tra gli assi di lotta di un
ecofemminismo decoloniale, oltre alle battaglie ambientaliste, per la giustizia
sociale, la politicizzazione della cura, il diritto alla terra contro il
sistema patriarcale capitalista (e coloniale) c’è sicuramente la convinzione
che l’oggettivazione, lo sfruttamento e la distruzione
della natura non saranno mai superati senza affrontare la strutturale
espropriazione del lavoro delle donne. Come trasformare il sistema-mondo da una
prospettiva ecofemminista?
Jesal: Corpo-territorio – questo
è ciò che abbiamo imparato dalle donne e dagli uomini indigeni in lotta – in
molte parti dell’America Latina, il concetto di corpo-territorio… dove il tuo
corpo è la prima cosa che difendi, ma è inestricabilmente connesso con la
terra. Questo è ciò che è stato appreso anche dal popolo Lepcha nel Sikkim,
dove tutti hanno intrapreso uno sciopero della fame per non essere sfollati
dalla loro terra ancestrale, ma anche per protestare contro la costruzione di
mega progetti idroelettrici, e in quella stessa occasione si sono ritrovati a
far rivivere la loro lingua che stava scomparendo e i loro rituali e cerimonie
che hanno impedito alla tribù di frammentarsi ulteriormente. È la lotta contro
l’estrazione delle risorse, l’avvelenamento dei fiumi, l’estrazione mineraria –
e allo stesso tempo la costruzione di altri modi di vivere sganciandosi dalle
relazioni con il capitale. Come ci ricordano le compagne e gli amici del CCRA
in California, dobbiamo far rivivere la pratica della milpa, sia in contesti
rurali che urbani, e sviluppare con più forza i nostri strumenti di
convivialità.
Si tratta quindi di andare
oltre il femminismo di Stato, oltre la divisione delle categorie di genere,
casta, classe, razza, sesso – e tutte quelle cose non belle che ci tolgono il
piacere di riunirci e ci legano alla forma-Stato. Per costruire un clima
favorevole alla nascita di un nuovo movimento dobbiamo preparare il terreno e
piantare i semi.
La sequenza di immagini è
intervallata dal canto di Giorgia. Come possono le voci dai margini parlare e
come il linguaggio può essere uno strumento di lotta? O meglio, come diceva
bell hooks, i nostri discorsi incarnano non solo parole di lotta ma anche di
dolore – il dolore dell’oppressione. Quale è il ruolo della voce di
Giorgia?
Giorgia: Quando ho avuto il
privilegio di scavare tra le immagini raccolte da Jesal e Mattia ero in piena
crisi psicotica.
E ho provato
sollievo.
Era così dolcemente
conturbante che si fossero presi il tempo per collezionarsi un’immaginazione
tanto altra, eretica, metafisica.
Mi hanno proposto di
pensare al suono per questo capitolo della loro opera e io avevo appena subìto
(e non è verbo scelto retoricamente) una radioterapia proprio al collo, mio
strumento prediletto di emanazioni vocali e spinte del mantice.
Come raccolgono ricordi a
forma di cura, così la preparazione poetica della proposta mi ha permesso,
disabilitata, di accedere ad una qualche forma imprevista.
La prima intuizione era
quella di cantarlo tutto, il film, con molte voci, delle dolci armonie che
risuonassero dinamiche e onnipresenti, belle. Poi di notte, andando a
riprendere la luna con Mattia, quando il dolore a tutto il corpo era così forte
da non riuscire neanche a pensarla, la notte, figuriamoci a dirla, le parole di
Adrienne Rich – questa è la lingua dell’oppressore, ma ho bisogno di
parlarti – mi hanno con violenza rivitalizzata nel ricordo delle voci
cantate, che hanno sempre detto nel suono, libere dal senso significante, le
voci da “donna di cortile”, quelle delle “donne di servizio” che hanno fatto la
storia della libertà vocale femminile; Giovanna Daffini, Rosa Balistreri, le
sorelle Noran, Giovanna Marini e tutta la comunità che ha costruito intorno a
lei e le donne tutte che hanno canticchiato tracciando nuove traiettorie
immaginifiche.
Voci dal margine per
antonomasia, perché conservano nelle loro peculiari modalità canore
quello che mi piace pensare essere dei residui stregonici, per dirla con Musica
Strega di Meri Franco Lai, voci insentibili, talmente autentiche da risultare
scandalose. Voci che hanno cantato quando avresti dovuto soffrire, invece
cantavi, per lenire il dolore, per raccontarlo dal liminare lontanissimo della
vita del lavoro riproduttivo, costante, paziente e violento nei testi e nelle
voci altissime cantate da occhi spiritati dalla rabbia del margine.
Quindi una voce
piccolissima, un canto cantato, a bocca serrata perché anche l’aria che passa tra
i denti, può far soffrire certi corpi.
Un canto in potenza, che canta a dispetto con il silenzio. Un canto lalleggio che canto ancor prima che sapessi dire.
Ode al corpo danzante è un testo atipico e molto bello di Silvia Federici che hai pubblicato su “La terra trema”: «La nostra lotta deve quindi iniziare con la riappropriazione del corpo, la rivalutazione e riscoperta della sua capacità di resistenza, e la celebrazione dei suoi poteri, individuali e collettivi. La danza è centrale a questa riappropriazione». Il dominio sul corpo è strumento capitalista di controllo e di asservimento al pari della sottomissione delle terre e di quanto queste producono.
Come riappropriarsi di
corpi e di terre, di bisogni e di desideri che sono – per questo motivo –
materia prima indispensabile? E soprattutto quale il vostro rapporto con il
sistema artistico che, seguendo analisi credo ampiamente condivise, è
espressione paradigmatica e governamentale dell’artwashing e della matrice
neoliberale di ruoli, condotte e funzioni creative, che spesso si muovono
seguendo una funzionalità capitalistica e di mercato. Come sopravvivete a
questo con le vostre ricerche?
Mattia: L’almanacco de La Terra
Trema è un progetto editoriale unico, un trimestrale cartaceo a cui teniamo
molto. Quando abbiamo parlato a Silvia Federici del nostro desiderio di
pubblicare un suo testo lei ci ha proposto due scritti al tempo ancora non
tradotti in italiano: In Praise of the Dancing Body e On Joyful
Militancy.
Seppur la questione di una
militanza gioiosa è questione fondamentale anche tra noi quello che Silvia
tracciava in Ode a un corpo danzante toccava profondamente le tematiche de L’almanacco.
Nello stesso numero, che è il n.9, pubblicammo anche un estratto da Fukushima &
ses invisibles di
Sabu Kohso. Entrambi i testi mostrano la violenza neoliberista attraverso la
distruzione dell’ecosistema e la torsione sul corpo. Un corpo sempre più costruito,
disabilitato, incapace di connettersi alle sue molteplici possibilità di
espressione.
Ci sembrano
due scritti fondamentali su cui tornare, consapevoli che non ci sono risposte
definitive ma linee di traiettoria, tracce possibili da affettare e da cui essere
affetti.
A proposito di sistema
arte, dirottando Undercommons possiamo dire: L’unica relazione possibile
con il mondo dell’arte oggi è una relazione criminale.
“La storia di un potere è
anche quella delle lotte per rovesciarlo” è la nostra traccia per la serata
dedicata all’arte al Festival 5 di DeriveApprodi – Chi lavora è perduto: come
possono le rappresentazioni artistiche, i linguaggi, gli sguardi e gli
immaginari contro-egemonici parlare con una tale potenza da rompere quella
maschera che la Escrava Anastácia è costretta a indossare, di cui ci parla
Grada Kilomba in Memorie
della Piantagione, che non è solo una metafora del progetto coloniale
europeo ma anche uno strumento di tortura e mutismo per silenziare le voci
minoritarie e subalterne?
Jesal e Mattia: Sappiamo bene il ruolo che
il mondo dell’arte e gli “artisti” detengono nel neoliberismo. Sappiamo che è
punta di diamante, avamposto privilegiato. Ci sono possibilità di rottura, ci
sono isole di disordine, portando le parole di Heiner Müller, a cui
possiamo attingere e in cui vogliamo passare la maggior parte del tempo. Nel
presente che ci è dato sembra non esserci possibilità oltre la sconfitta ma il
desiderio di rompere la maschera, di far saltare il dominio per abitare un
altro presente qui e ora non ci abbandona.
Scriviamo da casablu – che non è solo uno spazio fisico dove hanno soggiornato molte amiche e dove vive She has no land, ma è anche uno luogo immaginale, di apertura verso… una casa sicura, un rifugio dove si curano molte intensità e dove l’arte, la musica, la scrittura, la poesia, il cibo, il vino, sono tutti preparati con la comprensione e la consapevolezza che la lotta contro il sessismo e la militarizzazione, l’abilismo e il razzismo, il cambiamento climatico e la finanziarizzazione sono tutte lotte inseparabili, e questo è l’elemento più importante per noi oggi, mentre pensiamo alla domanda – come vivremo in mezzo a una e molte guerre?.
Non vogliamo vivere in
case, spazi o progetti che ci separano gli uni dagli altri. Ci piace quello che
hanno detto Fred Moten e Stefano Harney… “to make nothing out of something”,
e a questo aggiungiamo le parole di Ben Morea, “more sound, less structure”.
Possiamo vivere e fare arte in modo diverso. Perché la guarigione e la cura di
sé e
dell’altro possono stare al centro delle nostre pratiche.
Per non perdere questo momento, per riorganizzarci comunitariamente, per ri-comunalizzare senza lo stato e riorganizzare le nostre relazioni reciproche.
Jesal Kapadia
Artista nata a Mumbai e basata a Brooklyn, si dà alla cura con e tra le amiche, questa è la base, il minimo, in cui le forme di guarigione diventano strumento conviviale, dove lungo il percorso si realizzano film collettivi, le immagini e le parole emergono come atti di ribellione contro la natura divisiva dell’opera. Dal 2001 al 2015, ha co-curato la sezione artistica per Rethinking Marxism (a journal of economics, culture and society) e ha collaborato con Feminist Research on Violence Collective di New York e Healing Collective. Insegna spesso per lavoro, scavando a fondo nelle aule, consapevole che sotto l’università ci sono i commons, che l’università è stata costruita sui commons.
Mattia Pellegrini
Artista. In Sickness and Study, scritto con Giorgia Frisardi, lo colloca
nel presente.
È redattore della rivista trimestrale L’Almanacco de La Terra Trema.
Manifesto Brutal e She has no land but she keeps sheep sono al centro della
sua ricerca.
È una poeta, performer e attivista transfemminista. Nasce a Roma nel 1988. Studia il sudore. Appassionata di fermento politico e lotta al patriarcato sviluppa il suo linguaggio in performance e altre espressioni multiformi in un unico viaggio alla ricerca del dettaglio sorprendente. “Lucida Rabbia” è la sua prima raccolta di poesie edita da Erga Edizioni/Habanero nel 2018.
Conversazione con Jesal Kapadia, Mattia Pellegrini e Giorgia Frisardi.
Una ricerca visuale sulla convergenza delle lotte e l’ecologia della cura accompagna il secondo capitolo di She has no land but she keeps sheep, opera-filmica di natura errante e imprevista che sarà proiettata venerdì 23 settembre durante il Festival 5 di DeriveApprodi – “Chi lavora è perduto” che si svolge a Bologna dal 22 al 25 settembre, in collaborazione con la libreria. Input e la rivista online «Machina» presso la Casa di Quartiere Scipione dal Ferro. Un viaggio tra la natura del Prospect Park di New York dove Jesal Kapadia e Silvia Federici si incontrano regolarmente, la foresta sacra di Assisi e la grotta in cui visse San Francesco, fino agli scorci boschivi delle montagne dell’Himalaya dove una comunità di monaci buddisti ha avviato uno sciopero della fame per impedire che la costruzione di una diga distruggesse la montagna sacra: così la resistenza delle popolazioni indigene contro l’espropriazione coloniale in America Latina, le insurrezioni contadine in India e in altre parti del Sud globale, insieme a quelle che vengono chiamate “sacrifice zones”, sono al centro del progetto, aree geografiche distrutte dall’inquinamento, dall’economia estrattivista e gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici e ambientali in atto, spesso abitate da minoranze e popolazioni subordinate che si trasformano in comunità resistenti e che lottano per affermare la giustizia sociale, la vita contro la sopraffazione dello sviluppo economico.
La crisi ecologica di cui l’emergenza pandemica è stata espressione, e i differenti gradi di vulnerabilità a questa emergenza, dipendono dalle diseguaglianze che passano attraverso le linee della classe, razza, della marginalità e del genere.
She has no land but she keeps sheep pone l’urgenza di politicizzare l’ecologia radicale e la cura nelle nostre società, che oggi coincide sempre di più con il dominio di corpi e territori, con il sacrificio di terre e vite; lo sfruttamento del lavoro produttivo e riproduttivo, del lavoro domestico e di cura imposto alle donne (invisibilizzato, subordinato, naturalizzato) è stato espropriato dal capitalismo insieme alla natura e alla biosfera, tanto quanto, in passato, hanno fatto la colonizzazione e la schiavitù, così da permettere all’Occidente di costruire la propria egemonia e accumulare le proprie ricchezze. Occorre mettere al centro della lotta femminista la riappropriazione della ricchezza sociale, intercettare alleanze e assemblaggi che possono aprire a conflittualità e spazi di convergenza politica, nella direzione immediatamente antagonista dei commons, in cui i processi di soggettivazione prendono forma e generano percorsi di resistenza e regimi comunitari: non separare la lotta contro il capitale dal problema della riproduzione delle nostre vite, dal controllo dei corpi.
Mattia, Jesal quando si sono incrociate le vostre scie?
Mattia: The Story began long time ago, è la frase che apre questa ricerca, nella prima immagine della sua introduzione a, ricerca e studio che è anche il tentativo di comprendere cosa significa incontrarsi, cosa significa una collisione tra corpi, mondi, insurrezioni.
Se dovessimo rispondere però con le regole di un tempo lineare, di un prima che precede un dopo, il nostro incontro è avvenuto in uno dei tanti Sud del mondo.
L’occasione è stata quella della prima edizione delle Free Home University, all’interno di How to live together? con Ayreen Anastas e Rene Gabri, il 16 Beaver Group e tante altre amiche. Un momento straordinario, magico, che ha segnato una traiettoria e prodotto una metamorfosi.
Da lì abbiamo iniziato un lungo percorso insieme, un movimento incessante che ci ha permesso di entrare in contatto con molti mondi, umani e non umani, traccia e corpo della nostra ricerca in She has no land but she keeps sheep.
Jesal: L’idea di lavorare insieme è nata organicamente, così come la possibilità di viaggiare e abitare un tempo comune è diventata una forma di vita. Abbiamo cominciato a filmare e a tenere traccia del nostro spostarci. All’inizio immaginandolo come un diario, segnando il tempo tra comuni, spazi di vita collettiva, case, residenze auto-organizzate, occupazioni, vari contesti artistici e incontri organizzati da e con; così come a New York City dove Silvia Federici (e George Caffentzis) vivono, e con cui ha sede il gruppo di donne chiamato Feminist Research on Violence. I primi tentativi di intrecciare i filmati del diario in un’opera-filmica concettuale sono avvenuti grazie a questo gruppo femminista e, quasi nello stesso periodo, grazie all’invito a partecipare a Sensibile Comune alla Galleria Nazionale di Roma durante il ciclo di conferenze C-17.
She has no land but she keeps sheep / chapter two è un lavoro filmico non ortodosso, sia nel formato che nel linguaggio, piuttosto funziona come un archivio di immagini costitutivamente recalcitranti all’ordine del montaggio o all’archiviazione. Come riattivate ogni volta questo archivio di soggettività incatturabili?
Jesal e Mattia: La prima traccia in forma cartacea apparse sulla parete di dove abitavamo ad Harlem. Un tentativo di sceneggiatura, una genealogia visiva che ci permettesse di creare innanzitutto un dialogo tra noi che inizialmente avevamo difficoltà nel poter comunicare in un linguaggio comune e provenivamo da tradizioni molto differenti. Da subito la dimensione quotidiana prendeva forma. Un modo per segnare il tempo, i passaggi, le relazioni, le modalità di abitare in una prospettiva di rottura profonda con il presente. Ma anche modalità di conflitto, per confliggere innanzitutto con noi stessi. Ecco quindi che ogni volta che torniamo a mettere mano in quel magma di immagini-in-movimento qualche cosa di sorprendente accade: i tempi si sovrappongono, lo spazio si frantuma, quelle luci e quei lampi ci dicono sempre qualcosa di altro da sé. È in questo senso sia una ricerca geografica che un’indagine sul ricordo, sulle sue possibili metamorfosi, sia singolari che collettive. Un momento di cesura così profondo che continua a costruirsi anche adesso che ci siamo in qualche modo fermati.
Questo materiale ha comunque dato vita a tre frammenti abbastanza diversi tra loro: Introduzione a She has no land but she keeps sheep, il primo e il secondo capitolo – legati sicuramente da una forma recalcitrante della tecnica, del buon metodo di fare un film, e l’incontro con soggettività incatturabili.
Per questo è emozionante parlare del processo di realizzazione della nostra opera-filmica, di natura errante, imprevista che ogni volta riesce a produrre un certo piacere nel riattivarla. Ciò che finiamo per mostrare è il risultato diretto di molte amicizie, alcune delle quali si stanno ancora svolgendo, altre si stanno rinnovando e altre ancora continuano a sorprenderci. Senza questi amici nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile. Consideriamo questa opera-filmica come un archivio vivente, che usa il proprio sonar per mostrarsi nel film. In questo momento siamo in piena guerra, e rivediamo le riprese fatte nei viaggi sulle montagne armene e ci sentiamo così vicini e solidali con i nostri amici in quel paese. Le geografie, i luoghi sono in costante trasformazione. Ed anche le lotte che vi si innervano.
Gli alberi di Assisi, la grotta dove visse Francesco, entrano nel mezzo di questo secondo capitolo di She has no land, così come Santa Sara a Saint Marie de la Mer è presente nel primo. Ora, il monaco che ha fatto lo sciopero della fame a Gangtok, nel Sikkim, ci ha parlato di nuovo delle montagne e dei fiumi distrutti in tutto il mondo, non solo in Himalaya, così abbiamo deciso di chiudere questo capitolo, per ora, con la sua intervista. Non c’è quindi alcuna sceneggiatura, ma ricerca, studio, tentativo di collisione con le pratiche altre riguardo la terra, i movimenti anticapitalisti, gli scioperi femministi, ed è tutto in questa narrazione balbettante – splendidamente intrecciata dal canto lalleggiato di Giorgia.
Realizzato durante il confinamento questo secondo capitolo filmico si apre con un messaggio di supporto di Silvia Federici e George Caffentzis per Oliver de Marcellus, un compagno arrestato, e si chiude con la resistenza, attraverso lo sciopero della fame, per la costruzione di una diga contro la violenza delle politiche estrattive che hanno colpito tante aree del sud del mondo. La pedagogia radicale, il lavoro comunitario, le rivendicazioni per la terra e l’intersezionalità delle lotte sono tra le urgenze che richiamate in questi attraversamenti…
Mattia: Queste sono sicuramente tra le urgenze che proviamo ad affrontare.
Nel primo capitolo ci eravamo concentrati invece nell’incontro con Nicola Valentino e dell’Archivio di scritture scrizioni e arte ir-ritata di Sensibili alle foglie, nel diario dal manicomio di Lia Traverso, quindi, la questione della reclusione, del carcere, della psichiatria, fino ad arrivare al rito di Santa Sara a Saintes Maries de la Mer, spingendoci verso l’argotico.
Ricordo la sensazione di spaesamento nel tornare sui quei frammenti proprio mentre eravamo confinati, sorvegliati, obbligati a non muoversi, a seimila chilometri di distanza.
Prendersi del tempo per ritornare in quel fiume mai uguale a se stesso portava lo studio e la riflessione là dove prima non avremmo potuto trovarle; proprio perché in quel momento avveniva uno svelamento: il nostro stato di pura dipendenza dell’ambiente metropolitano iniziò ad apparire come uno stato di debolezza suicida.
Ci siamo imposti l’immersione ed eccoci improvvisamente errare tra autrici e autori, tra le prassi che silenziosamente, e con grande difficoltà, provano a sopravvivere a questo presente.
C’erano poi altri mostri da affrontare che poneva tutto sotto un’altra ottica.
Jesal: Entrambi avevamo un profondo desiderio di collocare le lotte che avevamo davanti a noi in un contesto più ampio – dal movimento delle piazze e della Primavera araba nel 2011, agli scioperi degli insegnanti nello zocalo di Oaxaca nel 2006, e poi le proteste di Shaheen bagh a Delhi nel 2019… fino ai riot dopo l’omicidio di George Floyd.
Poiché il nostro film prima di tutto non è veramente un film, ma una raccolta di frammenti, come se fosse fatto di cocci, di pezzi, di rottami e come può dire un archeologo ci diciamo: “un frammento può contenere molti segreti”.
Il materiale che mostriamo alla fine è aperto alla metamorfosi, in base al contesto in cui siamo portati ma questi segreti giocano tra luci ed ombre e appaiono quando meno ce lo aspettiamo.
Ed è così che siamo arrivati a entrambi i capitoli durante la pandemia, spinti da amiche che ci hanno incoraggiato a realizzare e condividere il nostro lavoro, in un momento di immenso isolamento, perdita e dolore, quando enormi pezzi del nostro tessuto comunitario erano stati erosi, non solo alcune parti iniziavano a mancare, ma interi mondi così attentamente costruiti e tenuti insieme stavano scomparendo. Facciamo eco alla nostra amica Carla Bottiglieri: “Riparare un po’ del tessuto comune dei nostri respiri”. Abbiamo pensato a come “essere vicini”, “be nearby”, come direbbe Trin T. Minh-ha, sia con l’intensità e la carica trasformatrice che il virus portava con sé, sia con la pienezza del desiderio di rafforzare il tessuto relazionale intorno a noi; poiché lo spazio collettivo, come di ogni singolarità, ha sempre bisogna di cura.
Tra nuove abitudini di conversazione e nuovi modi di curare le distanze, abbiamo cercato di montare alcune di queste immagini in un flusso, tenuti insieme dai nostri legami invisibili. Come nella parte del film Memoria, di Apichatpong Weerasethakul, quando il personaggio di Hernan tocca la pietra e sentiamo i ricordi fuoriuscire. Allo stesso modo il nostro hard-drive continua a pulsare ogni volta che lo tocchiamo…
Jesal nomina all’inizio la storia di Savitribai Phule, considerata la madre del femminismo indiano; i movimenti delle donne sono stati, in India, implicati fin da subito e a differenza di quelli occidentali nel discorso ecologico (penso al movimento Chipko, forse il caso più noto, guidato da donne). Ho trovato questa poesia di Kamla Bhasin (tra le fondatrici di Kali for Women, la prima casa editrice femminista in India) che mi sembra richiamare la vostra attitudine: quale reenchantment è ancora possibile?
Jesal: Quello che mi piace è che nella parola “re-incanto” c’è una mise en abyme sonora – nella parola “canto”, nell’urlo, nel rifiuto, si sentono voci e si vedono immagini di persone contro l’oppressione di ogni tipo, in tutto il mondo – come sia tutto concentrato in quell’unica parola, che può essere animata da chiunque si colleghi a una lotta anticoloniale e anticapitalista. È anche il titolo del libro di Silvia, Renchanting the World, un grido per uno sciopero femminista internazionale, basato sui principi del commoning. Le forze contro di noi sono così forti in questo momento, eppure ci si organizza in tutti i modi possibili. Ci si organizza per chiedere risarcimenti climatici ai Paesi più ricchi del mondo a causa delle devastazioni causate dalle inondazioni – ad esempio in Pakistan; i contadini indiani occupano le autostrade, bloccando la viabilità per un anno intero in Punjab per chiedere la conservazione comunitaria delle risorse; le femministe di Ni Una Menos in Argentina e in Cile, Las Tesis, che raggiungono le femministe negli Stati Uniti per parlare del diritto all’aborto; molti esempi stimolanti di ciò che si può fare se ci uniamo… eppure molto resta da fare.
Possiamo ancora sentire le voci delle donne e degli studenti nei campus universitari in India, che cantano queste parole di Azaadi… libertà, liberazione. È bello che tu abbia citato le parole di Kamala Bhasin, che si è ispirata alle donne pakistane che hanno cantato quello slogan contro il loro Stato oppressivo, e mi piace quanto siano contagiose queste parole di liberazione, che trascendono i confini… perché la lotta contro il patriarcato è al centro della lotta anticapitalista, e risuona ovunque. Penso ora alla canzone che la nostra amica LaToya Manly-Spain ci ha insegnato a cantare a Castiglione d’Otranto, su Yemoja, la dea del fiume e del mare, protettrice delle donne, a seconda della parte dell’Africa da cui si proviene.
Mattia: Vorrei usare questa occasione per ricordare attraverso i suoi versi una grandissima poeta e scrittrice Mariella Mehr: la sua storia, la violenza subita dal popolo Jenish in Svizzera, la sua resistenza e la potenza delle sue parole ci mettono di fronte ad un possibile re-incanto.
Spesso canta il lupo nel mio sangue e allora l’anima mia si apre
in una lingua straniera.
Luce, dico allora, luce di lupo,
dico, e che non venga nessuno a tagliarmi i capelli.
E a proposito di re-incanto vi è un libro, oltre a quello di Silvia, a cui tentiamo particolarmente e che crediamo sia importante avere sotto mano in questi anni così violenti.
Le Favole del Reincanto di Stefania Consigliere, edito da DeriveApprodi, pone una critica pungente del moderno, una critica a quel soggetto autonomo e razionale che la modernità ci impone come unico soggetto possibile e di cui con grande difficoltà un certo mondo prova a fare i conti.
Una critica alla scienza, al progresso, all’omogenizzazione dell’esperienza, al colonialismo.
Questo per dire che ci sono anche i libri, le autrici, i sogni, le parole che continuano questo lavoro di continua messa in discussione; anche le immagini si nutrono di incontri imprevedibili.
Tra gli assi di lotta di un ecofemminismo decoloniale, oltre alle battaglie ambientaliste, per la giustizia sociale, la politicizzazione della cura, il diritto alla terra contro il sistema patriarcale capitalista (e coloniale) c’è sicuramente la convinzione che l’oggettivazione, lo sfruttamento e la distruzione della natura non saranno mai superati senza affrontare la strutturale espropriazione del lavoro delle donne. Come trasformare il sistema-mondo da una prospettiva ecofemminista?
Jesal: Corpo-territorio – questo è ciò che abbiamo imparato dalle donne e dagli uomini indigeni in lotta – in molte parti dell’America Latina, il concetto di corpo-territorio… dove il tuo corpo è la prima cosa che difendi, ma è inestricabilmente connesso con la terra. Questo è ciò che è stato appreso anche dal popolo Lepcha nel Sikkim, dove tutti hanno intrapreso uno sciopero della fame per non essere sfollati dalla loro terra ancestrale, ma anche per protestare contro la costruzione di mega progetti idroelettrici, e in quella stessa occasione si sono ritrovati a far rivivere la loro lingua che stava scomparendo e i loro rituali e cerimonie che hanno impedito alla tribù di frammentarsi ulteriormente. È la lotta contro l’estrazione delle risorse, l’avvelenamento dei fiumi, l’estrazione mineraria – e allo stesso tempo la costruzione di altri modi di vivere sganciandosi dalle relazioni con il capitale. Come ci ricordano le compagne e gli amici del CCRA in California, dobbiamo far rivivere la pratica della milpa, sia in contesti rurali che urbani, e sviluppare con più forza i nostri strumenti di convivialità.
Si tratta quindi di andare oltre il femminismo di Stato, oltre la divisione delle categorie di genere, casta, classe, razza, sesso – e tutte quelle cose non belle che ci tolgono il piacere di riunirci e ci legano alla forma-Stato. Per costruire un clima favorevole alla nascita di un nuovo movimento dobbiamo preparare il terreno e piantare i semi.
La sequenza di immagini è intervallata dal canto di Giorgia. Come possono le voci dai margini parlare e come il linguaggio può essere uno strumento di lotta? O meglio, come diceva bell hooks, i nostri discorsi incarnano non solo parole di lotta ma anche di dolore – il dolore dell’oppressione. Quale è il ruolo della voce di Giorgia?
Giorgia: Quando ho avuto il privilegio di scavare tra le immagini raccolte da Jesal e Mattia ero in piena crisi psicotica.
E ho provato sollievo.
Era così dolcemente conturbante che si fossero presi il tempo per collezionarsi un’immaginazione tanto altra, eretica, metafisica.
Mi hanno proposto di pensare al suono per questo capitolo della loro opera e io avevo appena subìto (e non è verbo scelto retoricamente) una radioterapia proprio al collo, mio strumento prediletto di emanazioni vocali e spinte del mantice.
Come raccolgono ricordi a forma di cura, così la preparazione poetica della proposta mi ha permesso, disabilitata, di accedere ad una qualche forma imprevista.
La prima intuizione era quella di cantarlo tutto, il film, con molte voci, delle dolci armonie che risuonassero dinamiche e onnipresenti, belle. Poi di notte, andando a riprendere la luna con Mattia, quando il dolore a tutto il corpo era così forte da non riuscire neanche a pensarla, la notte, figuriamoci a dirla, le parole di Adrienne Rich – questa è la lingua dell’oppressore, ma ho bisogno di parlarti – mi hanno con violenza rivitalizzata nel ricordo delle voci cantate, che hanno sempre detto nel suono, libere dal senso significante, le voci da “donna di cortile”, quelle delle “donne di servizio” che hanno fatto la storia della libertà vocale femminile; Giovanna Daffini, Rosa Balistreri, le sorelle Noran, Giovanna Marini e tutta la comunità che ha costruito intorno a lei e le donne tutte che hanno canticchiato tracciando nuove traiettorie immaginifiche.
Voci dal margine per antonomasia, perché conservano nelle loro peculiari modalità canore quello che mi piace pensare essere dei residui stregonici, per dirla con Musica Strega di Meri Franco Lai, voci insentibili, talmente autentiche da risultare scandalose. Voci che hanno cantato quando avresti dovuto soffrire, invece cantavi, per lenire il dolore, per raccontarlo dal liminare lontanissimo della vita del lavoro riproduttivo, costante, paziente e violento nei testi e nelle voci altissime cantate da occhi spiritati dalla rabbia del margine.
Quindi una voce piccolissima, un canto cantato, a bocca serrata perché anche l’aria che passa tra i denti, può far soffrire certi corpi.
Un canto in potenza, che canta a dispetto con il silenzio. Un canto lalleggio che canto ancor prima che sapessi dire.
Ode al corpo danzante è un testo atipico e molto bello di Silvia Federici che hai pubblicato su “La terra trema”: «La nostra lotta deve quindi iniziare con la riappropriazione del corpo, la rivalutazione e riscoperta della sua capacità di resistenza, e la celebrazione dei suoi poteri, individuali e collettivi. La danza è centrale a questa riappropriazione». Il dominio sul corpo è strumento capitalista di controllo e di asservimento al pari della sottomissione delle terre e di quanto queste producono.
Come riappropriarsi di corpi e di terre, di bisogni e di desideri che sono – per questo motivo – materia prima indispensabile? E soprattutto quale il vostro rapporto con il sistema artistico che, seguendo analisi credo ampiamente condivise, è espressione paradigmatica e governamentale dell’artwashing e della matrice neoliberale di ruoli, condotte e funzioni creative, che spesso si muovono seguendo una funzionalità capitalistica e di mercato. Come sopravvivete a questo con le vostre ricerche?
Mattia: L’almanacco de La Terra Trema è un progetto editoriale unico, un trimestrale cartaceo a cui teniamo molto. Quando abbiamo parlato a Silvia Federici del nostro desiderio di pubblicare un suo testo lei ci ha proposto due scritti al tempo ancora non tradotti in italiano: In Praise of the Dancing Body e On Joyful Militancy.
Seppur la questione di una militanza gioiosa è questione fondamentale anche tra noi quello che Silvia tracciava in Ode a un corpo danzante toccava profondamente le tematiche de L’almanacco. Nello stesso numero, che è il n.9, pubblicammo anche un estratto da Fukushima & ses invisibles di Sabu Kohso. Entrambi i testi mostrano la violenza neoliberista attraverso la distruzione dell’ecosistema e la torsione sul corpo. Un corpo sempre più costruito, disabilitato, incapace di connettersi alle sue molteplici possibilità di espressione.
Ci sembrano due scritti fondamentali su cui tornare, consapevoli che non ci sono risposte definitive ma linee di traiettoria, tracce possibili da affettare e da cui essere affetti.
A proposito di sistema arte, dirottando Undercommons possiamo dire: L’unica relazione possibile con il mondo dell’arte oggi è una relazione criminale.
“La storia di un potere è anche quella delle lotte per rovesciarlo” è la nostra traccia per la serata dedicata all’arte al Festival 5 di DeriveApprodi – Chi lavora è perduto: come possono le rappresentazioni artistiche, i linguaggi, gli sguardi e gli immaginari contro-egemonici parlare con una tale potenza da rompere quella maschera che la Escrava Anastácia è costretta a indossare, di cui ci parla Grada Kilomba in Memorie della Piantagione, che non è solo una metafora del progetto coloniale europeo ma anche uno strumento di tortura e mutismo per silenziare le voci minoritarie e subalterne?
Jesal e Mattia: Sappiamo bene il ruolo che il mondo dell’arte e gli “artisti” detengono nel neoliberismo. Sappiamo che è punta di diamante, avamposto privilegiato. Ci sono possibilità di rottura, ci sono isole di disordine, portando le parole di Heiner Müller, a cui possiamo attingere e in cui vogliamo passare la maggior parte del tempo. Nel presente che ci è dato sembra non esserci possibilità oltre la sconfitta ma il desiderio di rompere la maschera, di far saltare il dominio per abitare un altro presente qui e ora non ci abbandona.
Scriviamo da casablu – che non è solo uno spazio fisico dove hanno soggiornato molte amiche e dove vive She has no land, ma è anche uno luogo immaginale, di apertura verso… una casa sicura, un rifugio dove si curano molte intensità e dove l’arte, la musica, la scrittura, la poesia, il cibo, il vino, sono tutti preparati con la comprensione e la consapevolezza che la lotta contro il sessismo e la militarizzazione, l’abilismo e il razzismo, il cambiamento climatico e la finanziarizzazione sono tutte lotte inseparabili, e questo è l’elemento più importante per noi oggi, mentre pensiamo alla domanda – come vivremo in mezzo a una e molte guerre?.
Non vogliamo vivere in case, spazi o progetti che ci separano gli uni dagli altri. Ci piace quello che hanno detto Fred Moten e Stefano Harney… “to make nothing out of something”, e a questo aggiungiamo le parole di Ben Morea, “more sound, less structure”. Possiamo vivere e fare arte in modo diverso. Perché la guarigione e la cura di sé e dell’altro possono stare al centro delle nostre pratiche.
Per non perdere questo momento, per riorganizzarci comunitariamente, per ri-comunalizzare senza lo stato e riorganizzare le nostre relazioni reciproche.
Jesal Kapadia
Artista nata a Mumbai e basata a Brooklyn, si dà alla cura con e tra le amiche, questa è la base, il minimo, in cui le forme di guarigione diventano strumento conviviale, dove lungo il percorso si realizzano film collettivi, le immagini e le parole emergono come atti di ribellione contro la natura divisiva dell’opera. Dal 2001 al 2015, ha co-curato la sezione artistica per Rethinking Marxism (a journal of economics, culture and society) e ha collaborato con Feminist Research on Violence Collective di New York e Healing Collective. Insegna spesso per lavoro, scavando a fondo nelle aule, consapevole che sotto l’università ci sono i commons, che l’università è stata costruita sui commons.
Mattia Pellegrini
Artista. In Sickness and Study, scritto con Giorgia Frisardi, lo colloca nel presente.
È redattore della rivista trimestrale L’Almanacco de La Terra Trema.
Manifesto Brutal e She has no land but she keeps sheep sono al centro della sua ricerca.
Parte del suo studio è archiviato in agitazioni.org
Giorgia Frisardi
È una poeta, performer e attivista transfemminista. Nasce a Roma nel 1988. Studia il sudore. Appassionata di fermento politico e lotta al patriarcato sviluppa il suo linguaggio in performance e altre espressioni multiformi in un unico viaggio alla ricerca del dettaglio sorprendente. “Lucida Rabbia” è la sua prima raccolta di poesie edita da Erga Edizioni/Habanero nel 2018.