il tuo percorso artistico è costellato di riferimenti e risonanze con alcune delle esperienze che mi hanno formata, la performance è una di queste, ma anche i movimenti sociali, il cinema, il femminismo
e
vorrei proprio partire dagli ultimi due, cinema e femminismo, per arrivare al
primo, il performativo,
e
introdurre un altro elemento ovvero lo spazio
il performativo e lo spazio sono universi del politico che non preesistono l’uno all’altro e come “territori praticati” hanno necessariamente una dimensione temporale
nei
tuoi lavori performativi, ai quali ho partecipato nel corso degli anni, questo
rapporto di esistenza è
fondante
quando mi hai parlato dei tuoi film l’altro giorno all’università, delle manifestazioni femministe in Messico, sono andata a vedere alcuni estratti del tuo lavoro “Si Pudiera Desear Algo” ho pensato che già molte filosofe della performance hanno scritto sulla relazione tra il radunarsi in uno spazio e la sua immediata discorsività politica
ma quello che mi interessa chiederti è come questa temporalità dell’esistenza tra le piattaforme del nostro vivere e i corpi produce, genera altri spazi di esistenza
vado in
Messico per un congresso ed incontro alcune persone che iniziano a parlarmi di
ciò che stanno facendo delle ricercatrici di lì
in quel
momento in Messico era molto discusso il caso delle sparizioni dei quarantatre
student* normalistas
mi spiegano
quindi il sistema-violenza che sta supportando il narcotraffico di Stato e nel
farlo parlano del “sujetos endriagos” un termine di Sayak Valencia che viene
dalla parola dragones, draghi e indica soggetti
mostruosi che usano la morte come mezzo per ottenere fini economici, ma anche
per mantenere le divisioni di genere
e allora mi
metto a pensare a questo movimento che gli è contemporaneo, quello di Non Una
Di Meno, alle manifestazioni enormi in Cile, in Argentina che già cominciavano
anche in Messico
a questa
battaglia che si stava dando in quel momento
e senza
saper bene perché, quando mi metto ad osservare gli slogan e ascoltare le cose
che cantano, come la famosa canzone di LasTesis “un violador en tu camino”
immediatamente mi sovvengono cose che ho letto, non solamente di Kollontaj ma
anche di altre scrittrici femministe del passato che affermano che la rivolta
femminista non si basa sulla conquista dell’uguaglianza fra uomo e donna ma è
una rivolta che consiste nel cambiare tutto, non è una riforma ma una
rivoluzione, come sostiene Rosa Luxemburg in “Riforma sociale o Rivoluzione?”
giusto dopo
tre mesi essere stata in Messico, iniziò il confinamento, le manifestazioni
continuarono e le persone con cui ero in contatto mi mandarono registrazioni e
informazioni su fatti che si stavano aggravando
in quel momento mi sembrò ci fosse una reale appropriazione dello spazio pubblico che oltretutto produceva una reazione molto violenta del governo del nuovo presidente, Manuel Lopez Obrador, il quale si suppone essere di sinistra e progressista, tuttavia quando le manifestanti iniziano con le azioni dirette, come dipingere i monumenti di rosa, concentrandosi soprattutto sugli aspetti più patriarcali della Repubblica, il presidente, comincia a parlare di terrorismo e invita le attiviste a protestare in silenzio
le
manifestanti, a queste affermazioni, si moltiplicano e con loro si riproducono
le azioni dirette, così che il governo sguinzaglia la polizia, ma dato che non
fa un bell’effetto vedere nelle foto un poliziotto uomo arrestare e picchiare
una donna, allora dispiega donne poliziotte
e lì succede
una cosa molto interessate
le
manifestanti iniziano questi canti di protesta rivolgendosi alle poliziotte
“mujer policìa a tì tambìen te violan/ policìa escucha tus hijas estan en la
lucha…”
si appellano
a loro per affermare “state qui in nome dello stato, che a sua volta abusa di
voi” si appellano a questa solidarietà di classe e di genere più che alla
solidarietà di corpi repressivi
tutto questo mi interessa molto e mi ricorda un’altra rivoluzione, quella che si dice funzioni quando l’esercito si mette dalla parte de* manifestant* e mi ricorda La corazzata Potëmkin e altri accadimenti del passato, così tutto si contamina con la memoria di Kollontaj e delle rivoluzionarie di inizio secolo e questa è in parte la connessione che provo a fare in questo film
come
accennavo prima, nelle tue performance, lo spazio e i corpi esistono, nelle
loro possibilità espressive, in relazione tra loro
per esempio, la tua mostra al Mattatoio di Roma, “Conosco un labirinto che è una linea retta”, a cui ho partecipato come performer, è stata concepita come un dispositivo che si attivava solo quando c’erano corpi all’interno
tale dispositivo era a sua volta generato da tracce di possibilità, c’è un’idea di spazio che non è più un luogo vissuto dal corpo, ma generato da esso, più che una domanda è un collegamento alle tue metodologie di ricerca
per me è molto chiaro che quando mi avvicino alla performance ha a che
fare con una sorta di rivolta contro l’idea di arte come qualcosa di
immutabile, che permane sempre uguale, indirizzata a tutte le persone
questo è quello che mi avevano insegnato alla scuola d’arte: una grande
opera si vede indirizzata a tutti i tipi di pubblico e tutti i tipi di pubblico
devono vedere lo stesso in questa grande opera che deve mantenersi immutabile
in uno spazio bianco, uno spazio, diciamo, che non interferisca con la
percezione dell’opera
un’idea che sorge dalla distinzione fra arte e vita, per la quale quando
si entra in uno spazio d’arte istituzionale, sia una galleria o un museo, si
entra come in un limbo, nel quale esisti solo tu e lo spazio bianco e l’opera
d’arte
evidentemente la vita non finisce nello spazio artistico, ci sono
molteplici interessi, molteplici forme di oppressione, mi disturba molto
pensare che un’opera d’arte parifichi tutto il mondo, che tutto il mondo abbia
lo stesso background, gli stessi bagagli esperienziali e conoscitivi che
permettono di interpretare un’opera d’arte, quando evidentemente si tratta di
un’idea edificata su parametri enormemente determinati ed europei
e poi questa idea che l’opera rimanga immutabile è chiaramente falsa in
quanto soggetta a multipli processi di deterioramento e d’interpretazione
allora la performance ha davvero a che fare con l’affermazione degli
infiniti fattori che intervengono nella percezione dell’arte e del politico
implicato in tali fattori
la prima performance che ho prodotto si chiamava Proxy e consisteva in una performer dentro
uno spazio delimitato da una telecamera che la riprendeva, quando però entravi
nello spazio espositivo potevi percepire la sua presenza come fosse un’altra
visitatrice della mostra e potevi renderti conto dell’eccezionalità di questa
persona solo quando tu stessa entravi in un’eccezionalità di durata e ti
concedevi più tempo di quello che si suppone una persona dovrebbe stare di
fronte a un’opera d’arte
ecco quindi io concepisco la performance, come un’occupazione dello spazio e anche come coscienza di come cambia la percezione di una circostanza in questo spazio e come, a sua volta, cambia la percezione dello spazio stesso allora penso alla performance come ricerca e allo stesso tempo come dispositivo che fa emergere i multipli fattori che intervengono nella percezione di un’opera
l’altro giorno ti ho chiesto di LaSal, quello spazio a
Barcellona, inaugurato da un gruppo di femministe che lo convertì in bar, biblioteca
e casa editrice intorno al 1977, dopo la caduta di Franco
ci sono date diverse su LaSal tutte che si riferiscono a una nascita del collettivo dopo il franchismo ma alcuni rumors parlano di un movimento cospirativo del collettivo anche durante la dittatura…
proprio di recente mi hanno incaricata di occuparmi delle pubblicazioni
di Kollontaj dandomi il contatto di LaSal, per una mostra che si terrà a
Barcellona sulle dissidenze durante il franchismo
ancora non ho avuto modo di parlare con loro, ma quello che già so è che
quando loro iniziano l’attività, non hanno idea del fatto che già esiste una
traduzione di Kollontaj nella Repubblica, o meglio, intuiscono che c’era
qualcosa, ma non sono a conoscenza di tutto il lavoro che si fece durante la
Repubblica, di traduzione e distribuzione
questo perché sono nate nel deserto culturale degli anni ’50 dove non
c’era assolutamente niente in Spagna e tuttavia l’eredità della Repubblica continuò
in altri paesi, come il Messico e la Francia, dove migrarono gran parte
d’intellettuali e lì continuarono con relativa libertà a lavorare e scrivere
Paloma Polo che ha lavorato a un film sulle compagne dei prigionieri
politici, mi ha raccontato che moltissima gente repubblicana, quando se ne va
dalla Spagna, lo fa letteralmente correndo
quando cadono Valencia e Barcellona, passando la frontiera con la Francia
per un pelo, vengono poi sistemat^ in campi di concentramento arrangiati nella
spiaggia
il governo francese non era pronto per affrontare il loro arrivo, non
avevano nulla, non morirono grazie alla solidarietà delle persone dei paesi
limitrofi
molt^ di loro si mettono in contatto con il partito comunista francese e
iniziano a collaborare quando prende piede l’occupazione tedesca, attivandosi
nella resistenza con l’idea che, dopo la vittoria degli alleati, anche Franco
cadrà
vinta la guerra da parte degli alleati, Franco non
cade, al contrario si stringe a braccetto con Eisenhower, il quale, di fatto,
dà il via libera al governo franchista…
ecco allora c’è un sentimento di tradimento e una
disillusione infinita che almeno all’inizio influenza tutto lo sviluppo di una
letteratura e di un pensiero rivoluzionario progressista
tutto questo è molto
documentato nelle lettere di quell’epoca
faccio un salto per parlare di un tuo lavoro che m’interessa
molto…
quando penso alla città, una delle prime cose che mi vengono
in mente sono i bar, penso a trovare dei bar dove studiare e scrivere, penso
alle amiche che lavorano quasi esclusivamente nei bar, con te, se non fosse per
la pandemia, ora staremmo parlando in un bar, ecc…
d’altra parte, c’è pochissima letteratura su bar e donne, più
in America legata ai movimenti Lgbtqia+, ma in Europa il bar rimane, almeno
nelle narrazioni principali, il luogo del dopolavoro maschile
le donne nei bar sono spesso ritratte come vittime di abusi
il che è un dato di realtà ma c’è qualcos’altro
come nel caso del Messico e della presenza delle donne nelle
strade, anche i bar stanno diventando spazi che cambiano la loro morfologia
attraverso i corpi e attraverso le discorsività che si generano
dico questo
per introdurre un tuo lavoro “El Cafè de las Voces”
per questo progetto, hai creato una sorta di cartografia dei
caffè/bar delle voci
spazi di immaginazione radicale, temporalità in cui
decostruzione e ricostruzione avvengono parimenti sul piano della performance
artistica e della pratica sociale
un bar che diventa una casa che diventa un’istituzione e un’istituzione che diventa una casa e qui le dicotomie legate allo spazio e al suo “presunto” funzionamento si frantumanomi piacerebbe che parlassi un po’ di questo, mettendo in relazione questa spazialità del bar/caffetteria con il tuo lavoro artistico
come tutte le cose anche questa è capitata per casualità e poi è andata
aumentando, in realtà è una cosa che già esiste e io, per dirla tutta, la
sintonizzo per darle una sembianza
questo succede quando stavo in Olanda
mi ricordo che una notte a Utrecht ero in un bar e vidi un poster dove
dicevano “i mercoledì Caffè delle Voci” e a quell’epoca non avevo macchina
fotografica né nulla del genere
mi contattarono poi per un’esposizione ad Amburgo che aveva come tema
“la malattia come metafora” e, come sai, io arrivo dagli studi basagliani,
dalla rottura dell’idea di manicomio, dalle parate di Marco Cavallo
pensavo a questa cosa della malattia come metafora, al fatto che c’è da
demedicalizzare la malattia
mi sono quindi messa a riflettere sul caffè delle voci e facendo un po’
di ricerca, ho scoperto che corrispondeva a un movimento nato in Olanda negli
anni ’80, periodo a cui apparteneva anche il poster che avevo visto, e che
aveva avuto origine da uno psichiatra che si chiamava Marius Romme
lui aveva una paziente la quale non era d’accordo nel considerare le
voci come sintomo psicotico, cosa che fanno nella maggior parte dei posti e il
tutto consiste in annegarti nelle medicine per non sentirle e tuttavia c’era
moltissima gente religiosa che sosteneva di parlare con dio e nessuno aveva
nulla in contrario, era socialmente accettato, poteva essere sospettoso se
dicevi che dio ti parlava, ma se eri monaca sembrava più o meno ok, se eri
casalinga era un po’ meno ok, sta di fatto che lo stigma del sentire le voci
era socialmente mediato e poteva essere una cosa molto normale o una cosa
terrificante in relazione allo stato sociale della persona
così crearono un programma televisivo nel quale chiedevano a varie
persone se sentivano le voci e di raccontarne le circostanze
si scoprì che c’era moltissima gente che le sentiva, ciò nonostante
convivevano con loro senza farne parola
alcun^ avevano una relazione molto affettuosa con queste voci e non
volevano nella maniera più assoluta che se ne andassero
da lì si sviluppa in maniera molto veloce in Inghilterra e in Danimarca questo progetto di Hearing Voices Networks, molto forte, molto potente, connesso direttamente alla tradizione basagliana che parla soprattutto di diritti civili per i quali si considera che non è ammissibile far entrare una persona in un’istituzione totale dove, alla fine, perde tutto.
pertanto Hearing Voices Network è un movimento per i diritti
civili che tiene assieme esperti e terapeuti ma anche amic^ e famigliari, in
modo tale che queste persone non perdano i loro contatti sociali, che possano
mantenere un lavoro e una forma di indipendenza economica
decisi di ricreare il Caffè che avevo visto negli anni ’90 però con
tutte queste trame di cui ho scoperto l’esistenza
il “Café de las Voces” avviene in un vero bar-caffè dove allo stesso
tempo si unisce gente per leggere poesie o per ascoltare musica … ed è organizzato
sempre in collaborazione con realtà associative che si occupano di mutualismo
io cerco di sparire il più possibile, considerando le difficoltà dello
sparire quando stai nel circuito dell’arte, però ecco il vantaggio di questo
progetto è la sua natura collaborativa fra struttura di lotta sociale e
associazione che sta dentro il circuito artistico espositivo o dei festival,
d’ogni modo uno scenario dove l’incontro si demedicalizza
questo è quello che interessa alle associazioni coinvolte, ovvero non operare in un contesto terapeutico
mi sembra un buon momento per introdurre un tema…
ho iniziato a lavorare con te nel 2011, quando rappresentavi
la Spagna alla Biennale di Venezia, nel padiglione spagnolo dei Giardini
il padiglione si intitolava “L’inadeguato” e ricordo ancora
che una delle ragioni di quel titolo era il tuo sentimento di inadeguatezza nel
rappresentare la Spagna
quella frase mi è rimasta in mente, pure io mi sentivo come se fossi finita lì per caso
(ride) sì si chiama “Sindrome dell’impostora”
esattamente
per varie ragioni legate alla mia storia in questa città, mi
sentivo finalmente accettata in una terra straniera, non parlo della Spagna ma
di uno spazio con una grande scritta all’entrata che diceva “The Inadequate”
ed è molto interessante come questo sentimento comune, che
non era né rappresentativo né identificativo, era invece un intreccio di
esperienze che a sua volta intrecciava biografie a biografie, una vicinanza che
non sapevamo nemmeno di avere, ed era qualcosa che accadeva anche all’interno
del padiglione con le biografie che hai tessuto assieme
volevo introdurre questa questione dell’inadeguatezza che
entra nel tuo lavoro performativo da varie direzioni, da varie porte, da
diverse prospettive
c’è molto da negoziare durante le tue performance tra il dato e il non dato, e il non dato si presta spesso a equivoci, a cambi di programma imprevisti, a domande inappropriate, persino ad affetti e umori non attesi…
sì, mi fai pensare a una citazione di Anna Daneri che viene da Erving
Goffman, ora la trovo…
“What does ‘inadequate’ mean? In this respect, we refer to the following quote by Erving Goffman in Encounters (1961): ‘To be awkward or unkempt, to talk or move wrongly, is to be a dangerous giant, a destroyer of worlds. As every psychotic and comic ought to know, any accurately improper move can poke through the thin sleeve of immediate reality”.
credo che tutti questi equivoci, inadeguatezze, abbiano una funzione politica…anche in riposta ad alcune istituzioni davvero molto indisponenti che si aspettano qualcosa di preciso da te e tu invece di contro decidi di “mancare all’appuntamento”
è così…penso alle tue performance in cui ho lavorato come la “Sfinge”, ma anche ai “Due Pianeti” al “Piccolo Oggetto ‘a” e al “Labirinto della Libertà Femminile”
vorrei che mi parlassi, anche attraverso la tua ricerca sul femminismo e sulle esistenze ai margini, di questo “inciampare” nel linguaggio, nelle relazioni, nello spazio, che però come dicevi ha una funzione politica ed è profondamente generativo
allora, per fare un po’ di storia su come le cose succedono, quando
finisco la scuola d’arte, mi viene chiesto spesso di partecipare a esposizioni
di donne e questo mi ha sempre dato molto fastidio perché sono modi di far
riforma senza rivoluzione…
così che molte cose iniziano da una profonda
irritazione un fastidio che va crescendo assieme alla presa di coscienza dei
micro-machismi costanti e quotidiani
quando inizio a insegnare sono quella che Sara Ahmed
descrive come una killjoy
questo è qualcosa che mi motiva a lavorare in maniera
più esplicita, sono sempre
stata interessata ai margini, agli aspetti non collocabili dell’esistenza, a
quello che non quadrava nel sistema, tutto questo è sempre stato al centro del
mio lavoro, la questione del femminismo intersezionale… ma con il tempo si fa
più esplicito e più chiaro
molto importanti per me sono stati i movimenti sudamericani, Non Una di
Meno è un accadimento rilevante… perché c’è anche da dire che sussiste molto
disincanto politico fra quelle della mia generazione, per moltissimo tempo non
mi riconoscevo in niente
però a un certo punto mi vedevo più in una vita attiva proprio perché c’era
qualcosa in cui mi riconoscevo di nuovo che risale alla crisi del 2008 e che
trova il suo carattere specificatamente femminista nel 2015, io penso che i
movimenti del 2015 arrivino da quella crisi, dove appunto le donne e le
soggettività più vulnerabili ne hanno fatto maggiormente le spese, come in
tutte le crisi…
mentre mi parlavi pensavo a una tua frase connessa al film “Si Pudiera Desear Algo” in cui dici che la delusione delle donne legata alla promessa fatta loro dalla rivoluzione è rimasta troppo a lungo inattuata, e mi chiedo se questo sentimento di disincanto sia in qualche modo in relazione con il sentirsi sempre fuori posto…
negli ultimi quattro anni leggendo le lettere di Rosa Luxemburg,
Alexandra Kollontaj, ma anche gli scambi fra le donne delle Black Panters c’è
un momento in cui il disincanto arriva
in Kollontaj si può leggere chiaramente questo momento in cui si rende
conto, in una riunione del comitato, che non la fanno parlare, che non c’è
alcun interesse per quello che dica, allora capisce che il vento è cambiato,
che fra lei e il partito non c’è più comunanza e che con grandissima tristezza
le strade si devono dividere
questo è un momento che si ripete in moltissime donne che ho letto, per
esempio da poco ho scoperto di Yoyes, una militante di ETA
lei prova ad uscire dall’organizzazione, va in Messico a studiare
sociologia, legge Kollontaj, inizia a scrivere con moltissimo talento, poi va a
vivere al sud della Francia, ha un figlio
Yoyes pensa che con l’amnistia potrà ritornare a vivere nei Paesi
Baschi, nel suo paese con sua madre e la sua famiglia, e di fatto ci ritorna
però proprio nella piazza di quel paese, i suoi stessi compagni le
sparano alla testa e la uccidono, pensando che avesse ricevuto la amnistia per
aver parlato con la polizia
la cosa è abbastanza brutale, perché l’ammazzano davanti al figlio
piccolo… in quel momento la percezione dei baschi e delle basche rispetto a ETA
cambia
insomma nelle sue lettere, Yoyes parla con moltissima lucidità del suo
disincanto, di come non fosse permesso avere una prospettiva che si
allontanasse neanche di pochissimo dai dogmi dell’organizzazione
non è tanto quindi un disincanto legato a quello in cui credeva, che
continuava ad essere lo stesso, bensì una disillusione nel rendersi conto che
quelli con cui stava l’hanno abbandonata
e allora quando ti lasciano vivere, come nel caso di Kollontaj, ti dedichi a una specie di resistenza silenziosa e lenta, come una specie di combustione lenta, pensando nel futuro, avendo un orizzonte, perché la cosa molto interessante di questi racconti è che sempre trovi il punto in cui sta scritto “mi leggeranno” “nel futuro questo avrà una certa importanza”, in tutte le lettere c’è la questione del “perché” e “per chi” scrivo e questo per me è molto emozionante
Roberta Da Soller è un’attivista, attrice, performer e ricercatrice che vive e lavora a
Venezia isola e terraferma. Fa parte di S.a.L.E. Docks, uno spazio laboratorio
di riflessione e azione politica nell’ambito dell’arte contemporanea. È
dottoranda presso l’università IUAV di Venezia con una ricerca sull’abitare
femminista. Dal 2013 ad oggi ha lavorato come attrice in diversi film: Fra
due Battiti di S. Usardi (2020), Effetto Domino (2019)
di A. Rossetto, Il Miracolo di N. Ammanniti, F. Munzi, L.
Pellegrini (serie TV, 2018), La sedia della felicità di Carlo
Mazzacurati (2014), Piccola Patria di A. Rossetto (2013). Come
performer ha collaborato con l’artista Dora García durante la Biennale d’Arte
di Venezia 2011 e 2015 e nel 2021 all’interno della personale dal titolo Conosco
un labirinto che è una linea retta al Mattatoio di Roma. Ha svolto
parte della ricerca sulle pratiche performative a Bruxelles assieme a Peter
Aers, Melissa Mebesoone, Oshin Albrecht e Mauro Sommavilla.
Dora García è un’artista, insegnante e ricercatrice che vive e lavora a Barcellona e Oslo. Come artista, ha partecipato a numerose mostre d’arte internazionali, tra cui Münster Skulptur Projekte (2007), Biennale di Venezia (2011, 2013, 2015), Biennale di Sydney (2008) Biennale di San Paolo (2010), Documenta 13 (2012) Biennale di Gwangju (2016), osloBiennalen, Art Encounters Timisoara, e AICHI Triennale (2019). Nel 2021 ha sviluppato progetti presso Fotogalleriet Oslo, Netwerk Aalst, oltre che al Mattatoio di Roma e per il festival Colomboskope, Sri Lanka. Il suo lavoro è in gran parte performativo e si occupa di questioni legate alla comunità e all’individualità nella società contemporanea, esplorando il potenziale politico di posizioni marginali, rendendo omaggio a personaggi eccentrici e antieroi, che sono stati spesso al centro dei suoi progetti cinematografici, come The Deviant Majority (2010), The Joycean Society (2013) e Segunda Vez (2018).
di Roberta Da Soller.
il tuo percorso artistico è costellato di riferimenti e risonanze con alcune delle esperienze che mi hanno formata, la performance è una di queste, ma anche i movimenti sociali, il cinema, il femminismo
e vorrei proprio partire dagli ultimi due, cinema e femminismo, per arrivare al primo, il performativo,
e introdurre un altro elemento ovvero lo spazio
il performativo e lo spazio sono universi del politico che non preesistono l’uno all’altro e come “territori praticati” hanno necessariamente una dimensione temporale
nei tuoi lavori performativi, ai quali ho partecipato nel corso degli anni, questo rapporto di esistenza è fondante
quando mi hai parlato dei tuoi film l’altro giorno all’università, delle manifestazioni femministe in Messico, sono andata a vedere alcuni estratti del tuo lavoro “Si Pudiera Desear Algo” ho pensato che già molte filosofe della performance hanno scritto sulla relazione tra il radunarsi in uno spazio e la sua immediata discorsività politica
ma quello che mi interessa chiederti è come questa temporalità dell’esistenza tra le piattaforme del nostro vivere e i corpi produce, genera altri spazi di esistenza
vado in Messico per un congresso ed incontro alcune persone che iniziano a parlarmi di ciò che stanno facendo delle ricercatrici di lì
in quel momento in Messico era molto discusso il caso delle sparizioni dei quarantatre student* normalistas
mi spiegano quindi il sistema-violenza che sta supportando il narcotraffico di Stato e nel farlo parlano del “sujetos endriagos” un termine di Sayak Valencia che viene dalla parola dragones, draghi e indica soggetti mostruosi che usano la morte come mezzo per ottenere fini economici, ma anche per mantenere le divisioni di genere
e allora mi metto a pensare a questo movimento che gli è contemporaneo, quello di Non Una Di Meno, alle manifestazioni enormi in Cile, in Argentina che già cominciavano anche in Messico
a questa battaglia che si stava dando in quel momento
e senza saper bene perché, quando mi metto ad osservare gli slogan e ascoltare le cose che cantano, come la famosa canzone di LasTesis “un violador en tu camino” immediatamente mi sovvengono cose che ho letto, non solamente di Kollontaj ma anche di altre scrittrici femministe del passato che affermano che la rivolta femminista non si basa sulla conquista dell’uguaglianza fra uomo e donna ma è una rivolta che consiste nel cambiare tutto, non è una riforma ma una rivoluzione, come sostiene Rosa Luxemburg in “Riforma sociale o Rivoluzione?”
giusto dopo tre mesi essere stata in Messico, iniziò il confinamento, le manifestazioni continuarono e le persone con cui ero in contatto mi mandarono registrazioni e informazioni su fatti che si stavano aggravando
in quel momento mi sembrò ci fosse una reale appropriazione dello spazio pubblico che oltretutto produceva una reazione molto violenta del governo del nuovo presidente, Manuel Lopez Obrador, il quale si suppone essere di sinistra e progressista, tuttavia quando le manifestanti iniziano con le azioni dirette, come dipingere i monumenti di rosa, concentrandosi soprattutto sugli aspetti più patriarcali della Repubblica, il presidente, comincia a parlare di terrorismo e invita le attiviste a protestare in silenzio
le manifestanti, a queste affermazioni, si moltiplicano e con loro si riproducono le azioni dirette, così che il governo sguinzaglia la polizia, ma dato che non fa un bell’effetto vedere nelle foto un poliziotto uomo arrestare e picchiare una donna, allora dispiega donne poliziotte
e lì succede una cosa molto interessate
le manifestanti iniziano questi canti di protesta rivolgendosi alle poliziotte “mujer policìa a tì tambìen te violan/ policìa escucha tus hijas estan en la lucha…”
si appellano a loro per affermare “state qui in nome dello stato, che a sua volta abusa di voi” si appellano a questa solidarietà di classe e di genere più che alla solidarietà di corpi repressivi
tutto questo mi interessa molto e mi ricorda un’altra rivoluzione, quella che si dice funzioni quando l’esercito si mette dalla parte de* manifestant* e mi ricorda La corazzata Potëmkin e altri accadimenti del passato, così tutto si contamina con la memoria di Kollontaj e delle rivoluzionarie di inizio secolo e questa è in parte la connessione che provo a fare in questo film
come accennavo prima, nelle tue performance, lo spazio e i corpi esistono, nelle loro possibilità espressive, in relazione tra loro
per esempio, la tua mostra al Mattatoio di Roma, “Conosco un labirinto che è una linea retta”, a cui ho partecipato come performer, è stata concepita come un dispositivo che si attivava solo quando c’erano corpi all’interno
tale dispositivo era a sua volta generato da tracce di possibilità, c’è un’idea di spazio che non è più un luogo vissuto dal corpo, ma generato da esso, più che una domanda è un collegamento alle tue metodologie di ricerca
per me è molto chiaro che quando mi avvicino alla performance ha a che fare con una sorta di rivolta contro l’idea di arte come qualcosa di immutabile, che permane sempre uguale, indirizzata a tutte le persone
questo è quello che mi avevano insegnato alla scuola d’arte: una grande opera si vede indirizzata a tutti i tipi di pubblico e tutti i tipi di pubblico devono vedere lo stesso in questa grande opera che deve mantenersi immutabile in uno spazio bianco, uno spazio, diciamo, che non interferisca con la percezione dell’opera
un’idea che sorge dalla distinzione fra arte e vita, per la quale quando si entra in uno spazio d’arte istituzionale, sia una galleria o un museo, si entra come in un limbo, nel quale esisti solo tu e lo spazio bianco e l’opera d’arte
evidentemente la vita non finisce nello spazio artistico, ci sono molteplici interessi, molteplici forme di oppressione, mi disturba molto pensare che un’opera d’arte parifichi tutto il mondo, che tutto il mondo abbia lo stesso background, gli stessi bagagli esperienziali e conoscitivi che permettono di interpretare un’opera d’arte, quando evidentemente si tratta di un’idea edificata su parametri enormemente determinati ed europei
e poi questa idea che l’opera rimanga immutabile è chiaramente falsa in quanto soggetta a multipli processi di deterioramento e d’interpretazione
allora la performance ha davvero a che fare con l’affermazione degli infiniti fattori che intervengono nella percezione dell’arte e del politico implicato in tali fattori
la prima performance che ho prodotto si chiamava Proxy e consisteva in una performer dentro uno spazio delimitato da una telecamera che la riprendeva, quando però entravi nello spazio espositivo potevi percepire la sua presenza come fosse un’altra visitatrice della mostra e potevi renderti conto dell’eccezionalità di questa persona solo quando tu stessa entravi in un’eccezionalità di durata e ti concedevi più tempo di quello che si suppone una persona dovrebbe stare di fronte a un’opera d’arte
ecco quindi io concepisco la performance, come un’occupazione dello spazio e anche come coscienza di come cambia la percezione di una circostanza in questo spazio e come, a sua volta, cambia la percezione dello spazio stesso allora penso alla performance come ricerca e allo stesso tempo come dispositivo che fa emergere i multipli fattori che intervengono nella percezione di un’opera
l’altro giorno ti ho chiesto di LaSal, quello spazio a Barcellona, inaugurato da un gruppo di femministe che lo convertì in bar, biblioteca e casa editrice intorno al 1977, dopo la caduta di Franco
ci sono date diverse su LaSal tutte che si riferiscono a una nascita del collettivo dopo il franchismo ma alcuni rumors parlano di un movimento cospirativo del collettivo anche durante la dittatura…
proprio di recente mi hanno incaricata di occuparmi delle pubblicazioni di Kollontaj dandomi il contatto di LaSal, per una mostra che si terrà a Barcellona sulle dissidenze durante il franchismo
ancora non ho avuto modo di parlare con loro, ma quello che già so è che quando loro iniziano l’attività, non hanno idea del fatto che già esiste una traduzione di Kollontaj nella Repubblica, o meglio, intuiscono che c’era qualcosa, ma non sono a conoscenza di tutto il lavoro che si fece durante la Repubblica, di traduzione e distribuzione
questo perché sono nate nel deserto culturale degli anni ’50 dove non c’era assolutamente niente in Spagna e tuttavia l’eredità della Repubblica continuò in altri paesi, come il Messico e la Francia, dove migrarono gran parte d’intellettuali e lì continuarono con relativa libertà a lavorare e scrivere
Paloma Polo che ha lavorato a un film sulle compagne dei prigionieri politici, mi ha raccontato che moltissima gente repubblicana, quando se ne va dalla Spagna, lo fa letteralmente correndo
quando cadono Valencia e Barcellona, passando la frontiera con la Francia per un pelo, vengono poi sistemat^ in campi di concentramento arrangiati nella spiaggia
il governo francese non era pronto per affrontare il loro arrivo, non avevano nulla, non morirono grazie alla solidarietà delle persone dei paesi limitrofi
molt^ di loro si mettono in contatto con il partito comunista francese e iniziano a collaborare quando prende piede l’occupazione tedesca, attivandosi nella resistenza con l’idea che, dopo la vittoria degli alleati, anche Franco cadrà
vinta la guerra da parte degli alleati, Franco non cade, al contrario si stringe a braccetto con Eisenhower, il quale, di fatto, dà il via libera al governo franchista…
ecco allora c’è un sentimento di tradimento e una disillusione infinita che almeno all’inizio influenza tutto lo sviluppo di una letteratura e di un pensiero rivoluzionario progressista tutto questo è molto documentato nelle lettere di quell’epoca
faccio un salto per parlare di un tuo lavoro che m’interessa molto…
quando penso alla città, una delle prime cose che mi vengono in mente sono i bar, penso a trovare dei bar dove studiare e scrivere, penso alle amiche che lavorano quasi esclusivamente nei bar, con te, se non fosse per la pandemia, ora staremmo parlando in un bar, ecc…
d’altra parte, c’è pochissima letteratura su bar e donne, più in America legata ai movimenti Lgbtqia+, ma in Europa il bar rimane, almeno nelle narrazioni principali, il luogo del dopolavoro maschile
le donne nei bar sono spesso ritratte come vittime di abusi
il che è un dato di realtà ma c’è qualcos’altro
come nel caso del Messico e della presenza delle donne nelle strade, anche i bar stanno diventando spazi che cambiano la loro morfologia attraverso i corpi e attraverso le discorsività che si generano
dico questo per introdurre un tuo lavoro “El Cafè de las Voces”
per questo progetto, hai creato una sorta di cartografia dei caffè/bar delle voci
spazi di immaginazione radicale, temporalità in cui decostruzione e ricostruzione avvengono parimenti sul piano della performance artistica e della pratica sociale
un bar che diventa una casa che diventa un’istituzione e un’istituzione che diventa una casa e qui le dicotomie legate allo spazio e al suo “presunto” funzionamento si frantumanomi piacerebbe che parlassi un po’ di questo, mettendo in relazione questa spazialità del bar/caffetteria con il tuo lavoro artistico
come tutte le cose anche questa è capitata per casualità e poi è andata aumentando, in realtà è una cosa che già esiste e io, per dirla tutta, la sintonizzo per darle una sembianza
questo succede quando stavo in Olanda
mi ricordo che una notte a Utrecht ero in un bar e vidi un poster dove dicevano “i mercoledì Caffè delle Voci” e a quell’epoca non avevo macchina fotografica né nulla del genere
mi contattarono poi per un’esposizione ad Amburgo che aveva come tema “la malattia come metafora” e, come sai, io arrivo dagli studi basagliani, dalla rottura dell’idea di manicomio, dalle parate di Marco Cavallo
pensavo a questa cosa della malattia come metafora, al fatto che c’è da demedicalizzare la malattia
mi sono quindi messa a riflettere sul caffè delle voci e facendo un po’ di ricerca, ho scoperto che corrispondeva a un movimento nato in Olanda negli anni ’80, periodo a cui apparteneva anche il poster che avevo visto, e che aveva avuto origine da uno psichiatra che si chiamava Marius Romme
lui aveva una paziente la quale non era d’accordo nel considerare le voci come sintomo psicotico, cosa che fanno nella maggior parte dei posti e il tutto consiste in annegarti nelle medicine per non sentirle e tuttavia c’era moltissima gente religiosa che sosteneva di parlare con dio e nessuno aveva nulla in contrario, era socialmente accettato, poteva essere sospettoso se dicevi che dio ti parlava, ma se eri monaca sembrava più o meno ok, se eri casalinga era un po’ meno ok, sta di fatto che lo stigma del sentire le voci era socialmente mediato e poteva essere una cosa molto normale o una cosa terrificante in relazione allo stato sociale della persona
così crearono un programma televisivo nel quale chiedevano a varie persone se sentivano le voci e di raccontarne le circostanze
si scoprì che c’era moltissima gente che le sentiva, ciò nonostante convivevano con loro senza farne parola
alcun^ avevano una relazione molto affettuosa con queste voci e non volevano nella maniera più assoluta che se ne andassero
da lì si sviluppa in maniera molto veloce in Inghilterra e in Danimarca questo progetto di Hearing Voices Networks, molto forte, molto potente, connesso direttamente alla tradizione basagliana che parla soprattutto di diritti civili per i quali si considera che non è ammissibile far entrare una persona in un’istituzione totale dove, alla fine, perde tutto.
pertanto Hearing Voices Network è un movimento per i diritti civili che tiene assieme esperti e terapeuti ma anche amic^ e famigliari, in modo tale che queste persone non perdano i loro contatti sociali, che possano mantenere un lavoro e una forma di indipendenza economica
decisi di ricreare il Caffè che avevo visto negli anni ’90 però con tutte queste trame di cui ho scoperto l’esistenza
il “Café de las Voces” avviene in un vero bar-caffè dove allo stesso tempo si unisce gente per leggere poesie o per ascoltare musica … ed è organizzato sempre in collaborazione con realtà associative che si occupano di mutualismo
io cerco di sparire il più possibile, considerando le difficoltà dello sparire quando stai nel circuito dell’arte, però ecco il vantaggio di questo progetto è la sua natura collaborativa fra struttura di lotta sociale e associazione che sta dentro il circuito artistico espositivo o dei festival, d’ogni modo uno scenario dove l’incontro si demedicalizza
questo è quello che interessa alle associazioni coinvolte, ovvero non operare in un contesto terapeutico
mi sembra un buon momento per introdurre un tema…
ho iniziato a lavorare con te nel 2011, quando rappresentavi la Spagna alla Biennale di Venezia, nel padiglione spagnolo dei Giardini
il padiglione si intitolava “L’inadeguato” e ricordo ancora che una delle ragioni di quel titolo era il tuo sentimento di inadeguatezza nel rappresentare la Spagna
quella frase mi è rimasta in mente, pure io mi sentivo come se fossi finita lì per caso
(ride) sì si chiama “Sindrome dell’impostora”
esattamente
per varie ragioni legate alla mia storia in questa città, mi sentivo finalmente accettata in una terra straniera, non parlo della Spagna ma di uno spazio con una grande scritta all’entrata che diceva “The Inadequate”
ed è molto interessante come questo sentimento comune, che non era né rappresentativo né identificativo, era invece un intreccio di esperienze che a sua volta intrecciava biografie a biografie, una vicinanza che non sapevamo nemmeno di avere, ed era qualcosa che accadeva anche all’interno del padiglione con le biografie che hai tessuto assieme
volevo introdurre questa questione dell’inadeguatezza che entra nel tuo lavoro performativo da varie direzioni, da varie porte, da diverse prospettive
c’è molto da negoziare durante le tue performance tra il dato e il non dato, e il non dato si presta spesso a equivoci, a cambi di programma imprevisti, a domande inappropriate, persino ad affetti e umori non attesi…
sì, mi fai pensare a una citazione di Anna Daneri che viene da Erving Goffman, ora la trovo…
“What does ‘inadequate’ mean? In this respect, we refer to the following quote by Erving Goffman in Encounters (1961): ‘To be awkward or unkempt, to talk or move wrongly, is to be a dangerous giant, a destroyer of worlds. As every psychotic and comic ought to know, any accurately improper move can poke through the thin sleeve of immediate reality”.
credo che tutti questi equivoci, inadeguatezze, abbiano una funzione politica…anche in riposta ad alcune istituzioni davvero molto indisponenti che si aspettano qualcosa di preciso da te e tu invece di contro decidi di “mancare all’appuntamento”
è così…penso alle tue performance in cui ho lavorato come la “Sfinge”, ma anche ai “Due Pianeti” al “Piccolo Oggetto ‘a” e al “Labirinto della Libertà Femminile”
vorrei che mi parlassi, anche attraverso la tua ricerca sul femminismo e sulle esistenze ai margini, di questo “inciampare” nel linguaggio, nelle relazioni, nello spazio, che però come dicevi ha una funzione politica ed è profondamente generativo
allora, per fare un po’ di storia su come le cose succedono, quando finisco la scuola d’arte, mi viene chiesto spesso di partecipare a esposizioni di donne e questo mi ha sempre dato molto fastidio perché sono modi di far riforma senza rivoluzione…
così che molte cose iniziano da una profonda irritazione un fastidio che va crescendo assieme alla presa di coscienza dei micro-machismi costanti e quotidiani
quando inizio a insegnare sono quella che Sara Ahmed descrive come una killjoy
questo è qualcosa che mi motiva a lavorare in maniera più esplicita, sono sempre stata interessata ai margini, agli aspetti non collocabili dell’esistenza, a quello che non quadrava nel sistema, tutto questo è sempre stato al centro del mio lavoro, la questione del femminismo intersezionale… ma con il tempo si fa più esplicito e più chiaro
molto importanti per me sono stati i movimenti sudamericani, Non Una di Meno è un accadimento rilevante… perché c’è anche da dire che sussiste molto disincanto politico fra quelle della mia generazione, per moltissimo tempo non mi riconoscevo in niente
però a un certo punto mi vedevo più in una vita attiva proprio perché c’era qualcosa in cui mi riconoscevo di nuovo che risale alla crisi del 2008 e che trova il suo carattere specificatamente femminista nel 2015, io penso che i movimenti del 2015 arrivino da quella crisi, dove appunto le donne e le soggettività più vulnerabili ne hanno fatto maggiormente le spese, come in tutte le crisi…
mentre mi parlavi pensavo a una tua frase connessa al film “Si Pudiera Desear Algo” in cui dici che la delusione delle donne legata alla promessa fatta loro dalla rivoluzione è rimasta troppo a lungo inattuata, e mi chiedo se questo sentimento di disincanto sia in qualche modo in relazione con il sentirsi sempre fuori posto…
negli ultimi quattro anni leggendo le lettere di Rosa Luxemburg, Alexandra Kollontaj, ma anche gli scambi fra le donne delle Black Panters c’è un momento in cui il disincanto arriva
in Kollontaj si può leggere chiaramente questo momento in cui si rende conto, in una riunione del comitato, che non la fanno parlare, che non c’è alcun interesse per quello che dica, allora capisce che il vento è cambiato, che fra lei e il partito non c’è più comunanza e che con grandissima tristezza le strade si devono dividere
questo è un momento che si ripete in moltissime donne che ho letto, per esempio da poco ho scoperto di Yoyes, una militante di ETA
lei prova ad uscire dall’organizzazione, va in Messico a studiare sociologia, legge Kollontaj, inizia a scrivere con moltissimo talento, poi va a vivere al sud della Francia, ha un figlio
Yoyes pensa che con l’amnistia potrà ritornare a vivere nei Paesi Baschi, nel suo paese con sua madre e la sua famiglia, e di fatto ci ritorna
però proprio nella piazza di quel paese, i suoi stessi compagni le sparano alla testa e la uccidono, pensando che avesse ricevuto la amnistia per aver parlato con la polizia
la cosa è abbastanza brutale, perché l’ammazzano davanti al figlio piccolo… in quel momento la percezione dei baschi e delle basche rispetto a ETA cambia
insomma nelle sue lettere, Yoyes parla con moltissima lucidità del suo disincanto, di come non fosse permesso avere una prospettiva che si allontanasse neanche di pochissimo dai dogmi dell’organizzazione
non è tanto quindi un disincanto legato a quello in cui credeva, che continuava ad essere lo stesso, bensì una disillusione nel rendersi conto che quelli con cui stava l’hanno abbandonata
e allora quando ti lasciano vivere, come nel caso di Kollontaj, ti dedichi a una specie di resistenza silenziosa e lenta, come una specie di combustione lenta, pensando nel futuro, avendo un orizzonte, perché la cosa molto interessante di questi racconti è che sempre trovi il punto in cui sta scritto “mi leggeranno” “nel futuro questo avrà una certa importanza”, in tutte le lettere c’è la questione del “perché” e “per chi” scrivo e questo per me è molto emozionante
Roberta Da Soller è un’attivista, attrice, performer e ricercatrice che vive e lavora a Venezia isola e terraferma. Fa parte di S.a.L.E. Docks, uno spazio laboratorio di riflessione e azione politica nell’ambito dell’arte contemporanea. È dottoranda presso l’università IUAV di Venezia con una ricerca sull’abitare femminista. Dal 2013 ad oggi ha lavorato come attrice in diversi film: Fra due Battiti di S. Usardi (2020), Effetto Domino (2019) di A. Rossetto, Il Miracolo di N. Ammanniti, F. Munzi, L. Pellegrini (serie TV, 2018), La sedia della felicità di Carlo Mazzacurati (2014), Piccola Patria di A. Rossetto (2013). Come performer ha collaborato con l’artista Dora García durante la Biennale d’Arte di Venezia 2011 e 2015 e nel 2021 all’interno della personale dal titolo Conosco un labirinto che è una linea retta al Mattatoio di Roma. Ha svolto parte della ricerca sulle pratiche performative a Bruxelles assieme a Peter Aers, Melissa Mebesoone, Oshin Albrecht e Mauro Sommavilla.
Dora García è un’artista, insegnante e ricercatrice che vive e lavora a Barcellona e Oslo. Come artista, ha partecipato a numerose mostre d’arte internazionali, tra cui Münster Skulptur Projekte (2007), Biennale di Venezia (2011, 2013, 2015), Biennale di Sydney (2008) Biennale di San Paolo (2010), Documenta 13 (2012) Biennale di Gwangju (2016), osloBiennalen, Art Encounters Timisoara, e AICHI Triennale (2019). Nel 2021 ha sviluppato progetti presso Fotogalleriet Oslo, Netwerk Aalst, oltre che al Mattatoio di Roma e per il festival Colomboskope, Sri Lanka. Il suo lavoro è in gran parte performativo e si occupa di questioni legate alla comunità e all’individualità nella società contemporanea, esplorando il potenziale politico di posizioni marginali, rendendo omaggio a personaggi eccentrici e antieroi, che sono stati spesso al centro dei suoi progetti cinematografici, come The Deviant Majority (2010), The Joycean Society (2013) e Segunda Vez (2018).