L’attività del collettivo artistico ruangrupa
– che tradotto liberamente significa “spazio artistico” o “forma spaziale” – fondato
a Jakarta nel 2000 e ora alla direzione artistica della prossima documenta
fifteen, si basa su una pratica olistica sociale, spaziale e personale
fortemente connessa alla cultura indonesiana, in cui l’amicizia, la
solidarietà, la sostenibilità e la comunità sono espressioni centrali.
Il lumbung, concetto curatoriale e metodologia assunta per questa sfida globale, è un termine che in Indonesia indica il “granaio” di riso; nei villaggi rurali è un deposito gestito collettivamente, dove il raccolto in eccesso viene immagazzinato per essere distribuito secondo i bisogni della comunità. L’intero evento è stato coordinato attraverso i majelis, un concetto arabo-indonesiano per indicare l’assemblea e l’incontro.
Il lumbung si basa sull’amicizia. In indonesiano sobat significa amico o compagno. La forma plurale è sobat-sobat. L’intervista inizia proprio facendo amicizia. Con il “gioco della palla” segue un lungo e informale giro di presentazioni di tutti i coinvolti: Ajeng Nurul Aini e Mirwan Andan di ruangrupa, Gertrude Flentge del team artistico e Giannina Herion del press office, Elisabetta Bottura, Diego Giannettoni, Elena Marcon e Chiara Meloni in rappresentanza della classe. Solo più tardi ci rendiamo conto di essere finiti in un virtuale warung kopi, un caffè di strada che in Indonesia funziona come centro di interazione sociale. I warung kopis sono spazi sociali caldi, rilassanti e accoglienti, aperti a tutt* per trovare compagnia, parlare, scrivere, leggere, svagarsi o solamente perdere tempo.
Dopo un’ora e un quarto di intensa conversazione, ci sono familiari tutta una serie di termini che compongono il vocabolario della prossima kermesse quinquennale. nongkrong è un’altra espressione gergale indonesiana e significa “uscire insieme”, o “passare del tempo insieme”, quindi l’attività creativa si compone di conversazioni casuali e dello stare insieme ma è anche condivisione di tempo, idee e saperi o cibo: per i ruangrupa il nongkrong è una pratica importante.
Ci raccontano che nel luglio del 1955 quando Arnold Bode diede vita a documenta con l’intenzione di curare la ferita che affliggeva la città di Kassel, ridotta in macerie negli anni della ricostruzione post-bellica, un paio di mesi prima, nell’aprile dello stesso anno, si tenne una conferenza a Bandung, in Indonesia, organizzata dagli Stati dell’Africa e dell’Asia, con l’intento di sanare la ferita inflitta dal colonialismo. Forse ancora oggi queste due temporalità storiche e circostanze geopolitiche torneranno ad allinearsi.
L’intervista ispirata al principio del lumbung è stata pensata ed elaborata collettivamente dalla classe di Allestimento I del primo anno del Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali di Naba – Nuova Accademia di Belle Arti, durante il corso tenuto da Elvira Vannini, strutturato a partire dalle origini di Documenta che, dalla prima edizione con il suo “museo dei 100 giorni”, ha scandito il tempo della storia europea con una concezione espositiva anti-convenzionale, come una macchina del tempo orientata a un’ontologia del presente che, nella pluralità dei format espostivi e di alcune edizioni ormai paradigmatiche e di rottura nella storia dell’istituzione tedesca – da Harald Szeemann a Catherine David e Okwui Enwezor – continua a ricercare un metodo critico per fare delle scelte e aprire nuove prospettive.
Costruire relazioni sociali e mettere in discussione le dinamiche di potere è essenziale per la pratica lumbung attorno alla quale ruangrupa ha creato una cosmogonia di lingue che attraversano le time zones del mondo, superando i confini geopolitici e le barriere sociali, perché il “Tempo è arrivato prima del concetto di Stato”, ci raccontano. È stata una strana conversazione, aperta e informale, in cui sperimentando una diversa e non-gerarchica occupazione creativa (nongkrong) abbiamo incrociato una pluralità di storie e compreso un po’ di più il processo alla base del lavoro collettivo, abbandonando i nostri paradigmi di conoscenza che posizionano l’arte e la cultura dentro un frame modernista ed eurocentrico di riferimento, come modelli all’interno di un programma speculativo di costruzione capitalista. Così, seppur da una posizione autenticamente anti-istituzionale, sbagliamo subito ad usare la parola “sabotaggio” nella prima domanda. Come potrà documenta divenire una struttura di riferimento permanente per l’ecosistema di collettivi in Africa, in Asia e in America Latina? Come potrà divenire meno competitiva ed estrattiva rispetto alle strutture convenzionali?
Instead of sabotaging, what we do is befriending
Elena Marcon: L’assegnazione della direzione artistica ad un collettivo ha generato un punto di apertura necessario nel durevole percorso di documenta, compiendo un passo in avanti nell’accogliere pratiche artistiche “disallineate” rispetto all’apparato artistico dominante, ormai mercificato e atomizzato. In particolare, adottare un approccio partecipativo risulta un’operazione difficilmente praticabile nel panorama italiano — ed estensivamente in quello occidentale — in quanto viziato dall’asimmetria delle strategie economiche e simbolico-culturali: le sperimentazioni collettive che riescono a conquistarsi uno spazio in questo contesto si traducono perlopiù in episodi transitori ed isolati. Pertanto, l’esigenza di considerare modelli e metodologie alternativi emerge in tutta la sua rilevanza, alla quale ruangrupa risponde attuando uno sforzo condiviso, che affianca i valori della solidarietà, della fiducia reciproca e della rigenerazione in una pluralità di ambienti. Tale approccio può essere sintetizzato nella pratica del lumbung, un deposito condiviso di risorse, e applicato in differenti modalità di lavoro per reinventare una struttura di documenta alternativa e sostenibile, al fine di riflettere sulle mobilitazioni del contesto globale contemporaneo. Come intendete inserirvi in questa esperienza? È vostra intenzione sabotarla e riconfigurarla attraverso nuove strategie diffuse, fondate su pratiche processuali, preservando il dialogo con l’eredità storica di documenta?
Mirwan Andan: In primo luogo, vorrei soffermarmi su un termine chiave che è stato adoperato: mi riferisco alla parola “sabotaggio”. È un’espressione controversa che non si accorda né a noi, né alla nostra pratica, né alle modalità attraverso le quali coordiniamo l’intero contesto processuale di documenta quindici. Non ci identifichiamo con essa poiché è un’azione che si riferisce ad una forza superiore che deve essere necessariamente destituita. Al contrario, quando siamo stati chiamati a condividere la nostra proposta per documenta, ciò che abbiamo fatto è stato ricambiare il loro invito, al fine di elaborare insieme quella pratica collaborativa che definiamo per l’appunto “condivisione delle risorse”. Si tratta di un’operazione sviluppata tra ruangrupa per collettivizzare valori e conoscenze. Non si tratta di sabotare, bensì di comunicare e confrontarsi. Dialoghiamo e discutiamo: non è sempre un processo immediato e spesso affrontiamo momenti altalenanti o di tensione , ma in qualche modo il nostro invito a concepire documenta come una risorsa sta funzionando. Possiamo menzionare molteplici esempi in merito: Gertrude potrebbe parlare di come mettiamo in pratica quelli che definiamo collective pot, ed Ajeng può raccontarci di come gestiamo ciò che chiamiamo kiosk, o il modo in cui abbiamo comunicato i nominativi degli artisti.
Gertrude Flentge: Come dice Andan, sicuramente non si tratta di “sabotare”. Ho conosciuto ruangrupa quando lavoravo alla Rijksakademie di arti visive di Amsterdam e le loro attività non hanno mai avuto l’intento di “sabotare”, bensì di adottare un approccio totalmente differente. Ritengo che ognuno di noi abbia dovuto confrontarsi con molteplici grandi istituzioni: una delle principali questioni che bisogna affrontare è la possibilità di costruire qualcosa sul lungo termine. Ci interroghiamo su come documenta possa divenire una struttura di riferimento permanente per l’ecosistema di collettivi in Africa, in Asia e in America Latina, e come possa divenire meno competitiva ed estrattiva rispetto alle strutture convenzionali. Gli artisti con i quali collaboriamo sviluppano una pratica profondamente radicata nel contesto locale e sociale. Nelle grandi esposizioni internazionali, i loro lavori sono spesso decontestualizzati e innestati in un contesto alternativo — che in questo caso specifico è la documenta di Kassel — assumendo quindi un significato differente rispetto a quello originario. Inoltre nulla viene restituito, in termini di risorse. Queste considerazioni rappresentano dei punti di partenza fondamentali per riflettere sulla questione curatoriale, che investiga per l’appunto come documenta possa contribuire alla sostenibilità degli specifici ecosistemi di artisti e delle loro comunità di appartenenza. Immaginare la traslazione del lavoro artistico, che dalla propria località d’origine si inserisce a documenta, come un processo circolare permette di mantenerne il significato, senza doverlo necessariamente adattare per il pubblico tedesco. Nel fare diversamente, si imparano nuove cose e si arricchisce la propria pratica. Abbiamo organizzato l’intera documenta adottando un approccio collaborativo, proprio per risanarne la natura così estrattiva e competitiva: ruangrupa, in quanto collettivo, ha esteso l’invito al team artistico e successivamente ha coinvolto ulteriori gruppi ed artisti. L’intero evento è stato pertanto coordinato in ciò che definiamo majelis, il termine arabo-indonesiano che indica l’assemblea e l’incontro: tutti i partecipanti sono stati raccolti in gruppi più circoscritti per confrontarsi sui rispettivi progetti condividendo, oltre alle risorse, alle cure e alle difficoltà, un collective pot di denaro condiviso. Questo “grande esperimento” ci permette di immaginare questo evento come un apparato rigenerativo per ogni pratica e per ogni comunità, dando vita ai valori corali del lumbung come la generosità e l’umorismo.
Ajeng Nurul Aini: Così come ruangrupa è riuscito a ricreare questo ecosistema a Jakarta, vorremmo estendere questo esperimento ad un contesto ancora più diffuso. Non è certo un tentativo mai messo in pratica, ma abbracciare questa prospettiva a documenta non può che offrire una risposta nuova. In quanto collettivo, spesso ci chiediamo se abbiamo già prodotto un grande cambiamento grazie a questa edizione, tuttavia non cerchiamo per forza di raggiungerlo: potrebbe infatti svilupparsi spontaneamente da ciò che stiamo già facendo. Anche i piccoli passi sono meritevoli di valore e ci permettono di prendere decisioni in modo più sostenibile e condiviso.
Mirwan Andan: Tornando brevemente alla questione del “sabotaggio”, sottolinearne l’inadeguatezza è importante poiché documenta quindici stessa può essere interpretata come una risorsa, storica e partecipativa. Al contempo, ci identifichiamo semplicemente come un gruppo che lavora insieme verso un obiettivo comune: di conseguenza, quando ci è stato proposto di curare documenta, ci siamo posizionati in quell’ambiente con la stessa mentalità. Ecco perché, invece di sabotare, quello che facciamo è stringere amicizia, indipendentemente dall’età o dal contesto di appartenenza. Applichiamo per l’appunto la pratica del lumbung, una risorsa collettiva che rappresenta una parte vitale dell’intero processo. Sabotare significa distruggere, demolire, sfruttare e vandalizzare: ciò che noi facciamo è anzi comunicare, confrontandoci e costruendo relazioni non solo internamente a documenta quindici, ma anche nella città in cui è situata. Per questo motivo abbiamo costruito ruruHaus nel giugno del 2020: volevamo compartecipare all’intero processo interagendo con la vita sociale e culturale della città. Cerchiamo di avere una visione olistica anziché frammentata: è vero che molte persone lavorano ufficialmente all’interno dell’istituzione, ma le azioni più informali e spontanee sono ugualmente produttive. Ogni opportunità è meritevole di essere colta, come ad esempio andare al bar a prendere un drink insieme. Alla fine, tutto è riconducibile al dialogo e all’interazione umana.
Diego Giannettoni: L’utilizzo del termine “sabotaggio” ha aperto uno spazio di conversazione che rivela chiaramente l’intento della vostra pratica. Il significato che gli avevamo attribuito non riguarda il compimento di un’azione di rivolta aggressiva, bensì di operare intellettualmente per destabilizzare e rinnovare una realtà precostituita.
Gertrude Flentge: È interessante notare, in realtà, che le modalità e l’approccio mediante i quali viene veicolato il linguaggio enfatizza come, specialmente se utilizzato in modo improprio, possa produrre visioni ben differenti e talvolta discordanti.
Time, to set free of it
Diego Giannettoni: Rispetto all’argomento che stiamo affrontando, abbiamo individuato una questione che orbita attorno a due visioni divergenti dello stesso fenomeno: mi riferisco al concetto di tempo e alla scelta di identificare i partecipanti in base al fuso orario, anziché alla nazionalità. È la prima volta che vediamo applicato questo approccio così peculiare, soprattutto se paragonato all’idea occidentale di tempo, una convenzione gradualmente imposta durante il colonialismo e successivamente conformata alle fasi produttive del sistema capitalistico. La concezione propria della tradizione indigena è invece estranea a queste influenze: si può intendere il tempo come uno strumento di emancipazione?
Gertrude Flentge: Ci sono molteplici questioni da affrontare: in primo luogo, abbiamo scelto di ricorrere alle diverse fasce orarie per presentare gli artisti, poiché non volevamo ridurre la loro identificazione alla provenienza geografica o alla loro nazionalità. Un’ulteriore questione riguarda la discordanza tra la durata specifica di documenta e il tempo proprio del lumbung. C’è una negoziazione costante, oserei definirla uno scontro, tra queste due continuità temporali. Il nostro intento è infatti quello di stabilire amicizie durature, basate sulla fiducia reciproca, che ovviamente richiedono tempo per rafforzarsi. Le scadenze e l’attività espositiva spesso ostacolano questo processo. È importante riflettere su quando un percorso può essere considerato concluso e quando invece si sta ancora svolgendo. Soprattutto, cerchiamo di comprendere come Kassel si possa integrare a questo divenire: è un quesito che affrontiamo quotidianamente nel nostro lavoro con documenta ma, anche se rappresenta un punto di attrito, è importante risolverlo insieme.
Ajeng Nurul Aini: La scelta di adoperare i fusi orari ha inoltre fornito un supporto anche dal punto di vista pratico. Successivamente all’annuncio nel 2019, abbiamo iniziato ad incontrare nuove persone e ad avviare le nostre ricerche per l’organizzazione di documenta. Purtroppo, il lockdown del marzo 2020 ha ostacolato gli sviluppi del nostro lavoro. Ci siamo quindi serviti di questa relazione con il tempo, per noi imprescindibile, per coordinare al meglio il nostro lavoro collettivo e per facilitare la collaborazione: abbiamo infatti creato delle mini majelis per tutti i membri del lumbung che appartenevano alla medesima fascia oraria, le quali sono divenute estremamente funzionali nel processo.
Mirwan Andan: Ti ringrazio per aver posto questa domanda Diego. Il concetto di fuso orario è una delle idee che stiamo implementando in questa edizione di documenta e ha ricevuto un’ottima accoglienza da diverse persone, te incluso. Ci sono molti punti da trattare. Per prima cosa, sappiamo tutti che la nozione di tempo precede il concetto di Stato: le persone erano coscienti del suo scorrere sin da prima che si affermasse l’idea di nazione. L’identificazione di un paese di provenienza è un prodotto dell’era moderna, ed è proprio per questo che ci interessa lavorare con l’idea di fuso orario in modo concettuale. Secondariamente, nessuno è realmente legato al proprio “paese di origine”. Molte persone hanno trascorso anni vivendo per strada e tuttora lo fanno, cercando di mantenersi e di adottare strategie differenti a seconda del luogo in cui si trovano; è per questo motivo che la loro ubicazione nel tempo presente risulta per noi molto più rilevante. In terzo luogo, molti degli amici con cui abbiamo collaborato provengono da contesti in cui esiste una differente concezione di tempo rispetto alla nostra e a quella di altri collaboratori. Infine, a causa dell’emergenza pandemica e quindi durante il processo di inclusione nel lumbung, siamo stati costretti a usare Zoom per incontrarci, rendendo necessario un adattamento reciproco ai rispettivi fusi orari. Quando si entra nella piattaforma non è necessario esibire documenti che identificano il proprio luogo di provenienza, bisogna avvalersi unicamente di una logica temporale.
Diego Giannettoni: Mi sembra che il nodo del discorso stia proprio in uno spostamento da una prospettiva concreta e spaziale, legata alla geografia, ad un piano più astratto, ma “non così astratto”, come quello del tempo.
Chiara Meloni: In quanto collettivo, ruangrupa si distingue per la sua attitudine corale e dimostra la sua versatilità stringendo nuove alleanze con molteplici iniziative. Questa dimensione collettiva è fondamentale in termini di sostegno e permeabilità nei contesti locali. Ritenete sia possibile mantenere e rispettare questa molteplicità di voci, senza essere categorizzati sistematicamente dai media?
Mirwan Andan: L’ossessione per le categorie è un altro argomento molto affascinante, anche perché si tratta di un riflesso diretto del pensiero occidentale e della sua cultura. La lingua è in questo senso un esempio evidente: è in opera una costante etichettatura di maschile, femminile, no-gender, non-binario, e così via. Immagino che anche nella lingua italiana sia presente questo genere di pronomi. Tali categorie sono invece estranee alla nostra cultura: l’attitudine che ci contraddistingue è quella di modificare il nostro punto di vista per adattarci al contesto delle persone con cui stiamo lavorando, che in questo caso è quello tedesco. Cerchiamo di incontrarci a metà strada, e in questo ci aiuta molto un concetto proprio della lingua tedesca: Ausnahme, che significa “eccezione”. Magari anche nella lingua olandese, o in italiano, esiste lo stesso concetto. Che però rappresenta un’ennesima categoria, giusto?
Chiara Meloni: Sì, la lingua italiana è particolarmente complessa e presenta numerose eccezioni. Se osserviamo l’argomento da un’altra prospettiva, la costante esigenza di ordinarlo appare senz’altro paradossale. Viceversa, questa necessità potrebbe essere la conseguenza di una lingua così ricca di declinazioni e possibilità. Questo aprirebbe ulteriori riflessioni in merito.
Changing is like a huge burden on our shoulders
Elisabetta Bottura: Parlare di categorie mi ha fatto pensare alle questione femminista. Il linguaggio può consolidare e generare ruoli coercitivi. È interessante riflettere da un punto di vista europeo, in particolar modo da un contesto italiano, sul fatto che nella lingua indonesiana non esista questo tipo di classificazione: è un vero e proprio cambiamento di prospettiva. Siamo inoltre veramente entusiasti nel notare una presenza così consistente di artisti e collettivi provenienti da time-zones extra-occidentali, il cui corpo e lavoro intervengono sulle questioni di identità non binaria, problematizzata rispetto al gender, e appartengono all’universo Black, Indigenous, e People of Color e Lesbo, Gay, Bisex, Trans, Queer, Intersex e + all’interno dell’esposizione. In che modo la vostra pratica collettiva coinvolge le comunità e i movimenti di liberazione locali? Pensate che attraverso un evento internazionale come documenta tali pratiche possano definire un cambiamento nell’arte contemporanea occidentale?
Mirwan Andan: Per rispondere a queste domande vorrei partire dall’inizio, quando siamo stati selezionati come direttori di documenta quindici nel 2019. La prima cosa che abbiamo fatto è stato estendere il nostro gruppo invitando alcuni amici provenienti da diversi contesti, da Gertrude Flentge da Amsterdam a Lara Khaldi dalla Palestina, inclusi Ayşe Güleçand, Andrea Linnenkohl da Kassel e Frederikke Hansen dalla Danimarca . Li abbiamo invitati a raggiungerci in Indonesia e a frequentarci per una settimana, così da poter discutere su ciò che avremmo potuto formulare per la prossima documenta. Presto questi cinque amici si sono uniti a noi ed è nato quello che oggi conosciamo come artistic team. La ragione per cui abbiamo deciso di fare tutto questo è che non avevamo mai visitato documenta prima di allora. Dei nove componenti di ruangrupa che attualmente lavorano all’organizzazione,, soltanto uno – farid rakun – aveva visitato l’evento. Sapevamo che si trattasse di un evento organizzato in Germania, nonché una delle attività più prestigiose al mondo. Non avevamo mai pensato di visitarla prima perché eravamo sempre concentrati sulla situazione locale dell’Indonesia, per cercare di mantenere stabilmente il contesto a cui avevamo dato vita. Non è nei nostri intenti produrre un cambiamento applicando la nostra visione. Sinceramente noi non aspiriamo a cambiare nulla: non abbiamo un’ambizione, per quanto ci sforziamo di cercarla. La nostra unica aspirazione è forse proprio quella di trovarne una, inclusa quella di produrre un cambiamento. La nostra pratica consiste fondamentalmente in una conversazione aperta con le persone più fidate riguardo a ciò che più ci appassiona, incoraggiandole a farlo insieme. Non si tratta quindi di generare un cambiamento, perché il “cambiamento” non è altro che un enorme fardello che grava sulle nostre spalle. Aspirare al cambiamento è come un gesto di auto-soffocamento: non vogliamo che questo accada, bensì intendiamo darci sostegno reciproco per tutti gli anni in cui ci sarà possibile farlo. È un concetto che si lega profondamente al lumbung, che è appunto concepito come un processo di sperimentazione continuo per documenta quindici: non è possibile applicarlo nel limitato corso di cento giorni bensì, come affermiamo costantemente, si sviluppa oltre il 2022. Vorrei inoltre aggiungere anche un’ultima riflessione: nel luglio 1955, Arnold Bode diede vita a documenta al fine di rigenerare le ferite del Secondo conflitto mondiale, che aveva ridotto in macerie la città di Kassel. Nell’aprile 1955, solo un paio di mesi prima, si tenne una conferenza a Bandung, in Indonesia, organizzata dagli Stati dell’Africa e dell’Asia, con l’intento di risanare la ferita inflitta dal colonialismo. Possiamo notare quindi come nello stesso anno si tennero due eventi sostanziali: la nascita di documenta e la conferenza di Bandung. Entrambi gli eventi originano dalle medesime intenzioni: la prima per curare la ferita della città, la seconda per risanare quella che affliggeva il mondo. Possiamo considerare l’anno 1955 una pietra miliare nella storia del mondo: una finestra aperta che permette di osservare come la nascita di documenta e la conferenza di Bandung ebbero luogo quasi contemporaneamente.
Diego Giannettoni:Grazie per questa informazione, penso che abbiamo tutti scoperto qualcosa di nuovo! Mentre discutevamo in merito alle categorie ho riflettuto su una considerazione che vorrei aggiungere: ritengo che questa pratica di categorizzazione abbia avuto origine da un preciso evento storico: si tratta della rivoluzione scientifica, un processo che ha largamente contribuito alla nascita dei musei occidentali. Questa tendenza tassonomica, che ad esempio contraddistingue le istituzioni, si è profondamente affermata nell’attitudine coloniale dell’Occidente. La nozione stessa di “museo” è un’idea propriamente occidentale e ciò significa che molte delle istituzioni attive tutt’oggi sono dedite a tale filosofia. Le complessità di questa storia provocano l’utilizzo di un approccio restrittivo nel trattare ciò che ci circonda: dobbiamo riuscire a distaccarci dal passato.
Elena Marcon: Vorrei aggiungere un’ultima riflessione, in particolare riguardo ai termini che abbiamo usato in precedenza — come “sabotaggio” o “cambiamento” — e l’accezione specifica con cui li intendete. Dalla nostra prospettiva, queste parole assumono una connotazione pressoché positiva: il tuo pensiero rispetto a questi due termini ci propone però un ripensamento rispetto all’uso del linguaggio. Le parole hanno un enorme potere e il linguaggio è uno strumento da trattare con estrema cautela. Questo disallineamento ci permette di aprire gli occhi sulle modalità e sui significati che noi stessi attribuiamo alla realtà: per esempio, abbiamo usato “sabotaggio” interpretandolo come un termine provocatorio o “cambiamento” nella valenza positiva che assume dal punto di vista occidentale. Non sempre ciò rispecchiano la realtà: come ha sottolineato Andan, il “cambiamento” è più simile ad un peso che grava sulle nostre spalle. Credo si tratti di uno snodo fondamentale su cui riflettere, e immagino che io e i miei colleghi possiamo concordare su questo.
Mirwan Andan: La nostra mentalità è infatti più vicina alla sperimentazione, che alla conquista forzata di un cambiamento, come abbiamo precedentemente spiegato io e Gertrude. La buona notizia è che documenta rappresenta una piattaforma focalizzata sulle pratiche artistiche, quindi avremo sicuramente l’opportunità di sperimentare.
Ajeng Nurul Aini: Inoltre, come ha raccontato Andan, non si tratta solo di sperimentare ma soprattutto di imparare insieme. Quando cerchiamo di “costruire qualcosa” con i ruangrupa, nelle nostre majelis teniamo sempre in considerazione le risorse disponibili o quelle di cui abbiamo bisogno per sviluppare questa pratica, affinché si possa prolungare nel tempo. Credo che “imparare reciprocamente” siano le parole-chiave essenziali.
Learn from each other
Elena Marcon: In precedenza vi siete soffermati sul ruolo di documenta come risorsa: potremmo definirla come un flusso di ispirazione continua, che raccoglie e rielabora saperi interdisciplinari come una sorta di archivio in perpetuo movimento. È possibile assistere ad un rapporto di restituzione reciproca tra le molteplici edizioni dell’esposizione, dove sono frequentemente rintracciabili gli influssi e le vicinanze concettuali delle personalità che hanno orbitato attorno alla sua struttura. Le edizioni precedenti di documenta sono state per voi fonte di ispirazione?
Gertrude Flentge:Penso dovrebbero essere i ruangrupa a rispondere a questa domanda ma, se posso, vorrei puntualizzare che sono rimasta stupita dalla quantità di esperimenti, particolarmente notevoli, mai realizzati o resi visibili nelle precedenti edizioni di documenta. Questi episodi sono sempre considerati come dei “progetti falliti”, ma in realtà anch’essi potrebbero aver aperto interessanti possibilità. Rispetto a ciò che Ajeng raccontava sulla lentezza del cambiamento e sulle piccole trasformazioni, questo approccio è valido sia per documenta, sia per altre esperienze che abbiamo condiviso. ruangrupa ha di per sé vissuto molte trasformazioni: da collettivo più contenuto, si è poi esteso nella Warehouse, per poi tornare a una dimensione più intima nella Gudskul. Abbiamo successivamente partecipato a molti network insieme, come il RAIN network e l’Arts Collaboratory Network. È chiaro che sono stati attraversati molteplici cambiamenti, ma essi non sono stati indotti dall’ambizione di voler cambiare bensì dall’interesse di imparare. Anche la mia provenienza dall’Olanda coinvolge il processo di cambiamento e mi ripeto quotidianamente “Va bene, stiamo preparando documenta quindici, i suoi cento giorni e le sue cento finalità, e non abbiamo bisogno di conquistare il successo dell’evento. Rappresenta solo un’altra tappa, un altro esperimento, un’altra esperienza.”.
Ajeng Nurul Aini: Questo si relaziona, per esempio, anche a un dialogo avuto con un artista qui a documenta fifteen, che si sente decisamente sotto pressione e ritiene che ci occorrerebbe molto più tempo per fare tutto ciò che abbiamo pensato di creare. Io penso che tutto ciò sia proprio parte del processo e che ogni progetto avviato non richieda di essere concluso in cento giorni, ma che possa proseguire anche successivamente. Le persone potrebbero non assistere a qualcosa di concluso ma che, al contrario, si prolungherà oltre il termine della manifestazione.
Mirwan Andan: Ritengo che le precedenti edizioni siano state dei punti di riferimento imprescindibili, da cui abbiamo largamente appreso e assorbito fin dallo studio dalla sua prima comparsa nel 1955, grazie alla quale abbiamo scoperto l’esistenza dell’assemblea in Indonesia di cui parlavo in precedenza. La suggestione più importante che abbiamo ricevuto è lo sperimentare qualcosa di differente e di mai ipotizzato prima. La scelta di annunciare il nome degli artisti partecipanti in una modalità specifica origina proprio dall’esperienza raccolta nello studio delle precedenti edizioni. Abbiamo collaborato con Asphalt, un giornale locale distribuito solo in tre città — Kassel, Göttingen e Hannover — edito e venduto in strada dalle persone senzatetto. Abbiamo annunciato gli artisti mediante questo giornale, non in un ristorante lussuoso con le telecamere puntate addosso. Quando lo abbiamo proposto ai membri del board curatoriale di documenta, hanno accettato questa idea così come hanno accolto la proposta di associare i nomi dei collettivi e degli artisti ad una fascia oraria, anziché con la nazione da cui provengono. Queste ipotesi sono state influenzate proprio dalla lettura delle esperienze precedenti, noi abbiamo ricercato ciò che non si è mai verificato e, come diceva Ajeng prima, poiché riteniamo che l’immaginazione possa provenire da qualunque luogo e in qualunque tempo, esploriamo tutto ciò che possiamo imparare. Apprendiamo dalle edizioni che si sono già svolte, dalle istituzioni, dalle persone con cui veniamo a contatto, così come loro imparano dal nostro modo di lavorare. E questo processo si svolgerà durante i cento giorni di esposizione, ma andrà oltre questo, oltre il 2022. Infine, poiché provenite dal contesto italiano, vorrei concludere raccontandovi un avvenimento che ritengo significativo: negli anni ’60, uno dei padri fondatori dell’Indonesia, il presidente Sukarno, utilizzava spesso l’espressione “vivere pericoloso” (pronuncia in italiano, “vivere pericoloso”), indicando un periodo burrascoso al quale seguirà una violenta rivoluzione politica. Per me, al contrario, realizzare e organizzare documenta non ha nulla a che fare con il “vivere pericoloso”, bensì con “living in adjustment” (vivere in adattamento) o con “living in happiness” (vivere serenamente), o ancora con “years of living by collaborating and learning from each other” (gli anni in cui imparare gli uni dagli altri e collaborare gli uni con gli altri).
L’intervista è stata condotta da Elisabetta Bottura, Diego Giannettoni, Elena Marcon e Chiara Meloni, che hanno tradotto il testo con la supervisione di Sofia Schartner.
L’attività del collettivo artistico ruangrupa – che tradotto liberamente significa “spazio artistico” o “forma spaziale” – fondato a Jakarta nel 2000 e ora alla direzione artistica della prossima documenta fifteen, si basa su una pratica olistica sociale, spaziale e personale fortemente connessa alla cultura indonesiana, in cui l’amicizia, la solidarietà, la sostenibilità e la comunità sono espressioni centrali.
Il lumbung, concetto curatoriale e metodologia assunta per questa sfida globale, è un termine che in Indonesia indica il “granaio” di riso; nei villaggi rurali è un deposito gestito collettivamente, dove il raccolto in eccesso viene immagazzinato per essere distribuito secondo i bisogni della comunità. L’intero evento è stato coordinato attraverso i majelis, un concetto arabo-indonesiano per indicare l’assemblea e l’incontro.
Il lumbung si basa sull’amicizia. In indonesiano sobat significa amico o compagno. La forma plurale è sobat-sobat. L’intervista inizia proprio facendo amicizia. Con il “gioco della palla” segue un lungo e informale giro di presentazioni di tutti i coinvolti: Ajeng Nurul Aini e Mirwan Andan di ruangrupa, Gertrude Flentge del team artistico e Giannina Herion del press office, Elisabetta Bottura, Diego Giannettoni, Elena Marcon e Chiara Meloni in rappresentanza della classe. Solo più tardi ci rendiamo conto di essere finiti in un virtuale warung kopi, un caffè di strada che in Indonesia funziona come centro di interazione sociale. I warung kopis sono spazi sociali caldi, rilassanti e accoglienti, aperti a tutt* per trovare compagnia, parlare, scrivere, leggere, svagarsi o solamente perdere tempo.
Dopo un’ora e un quarto di intensa conversazione, ci sono familiari tutta una serie di termini che compongono il vocabolario della prossima kermesse quinquennale. nongkrong è un’altra espressione gergale indonesiana e significa “uscire insieme”, o “passare del tempo insieme”, quindi l’attività creativa si compone di conversazioni casuali e dello stare insieme ma è anche condivisione di tempo, idee e saperi o cibo: per i ruangrupa il nongkrong è una pratica importante.
Ci raccontano che nel luglio del 1955 quando Arnold Bode diede vita a documenta con l’intenzione di curare la ferita che affliggeva la città di Kassel, ridotta in macerie negli anni della ricostruzione post-bellica, un paio di mesi prima, nell’aprile dello stesso anno, si tenne una conferenza a Bandung, in Indonesia, organizzata dagli Stati dell’Africa e dell’Asia, con l’intento di sanare la ferita inflitta dal colonialismo. Forse ancora oggi queste due temporalità storiche e circostanze geopolitiche torneranno ad allinearsi.
L’intervista ispirata al principio del lumbung è stata pensata ed elaborata collettivamente dalla classe di Allestimento I del primo anno del Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali di Naba – Nuova Accademia di Belle Arti, durante il corso tenuto da Elvira Vannini, strutturato a partire dalle origini di Documenta che, dalla prima edizione con il suo “museo dei 100 giorni”, ha scandito il tempo della storia europea con una concezione espositiva anti-convenzionale, come una macchina del tempo orientata a un’ontologia del presente che, nella pluralità dei format espostivi e di alcune edizioni ormai paradigmatiche e di rottura nella storia dell’istituzione tedesca – da Harald Szeemann a Catherine David e Okwui Enwezor – continua a ricercare un metodo critico per fare delle scelte e aprire nuove prospettive.
Costruire relazioni sociali e mettere in discussione le dinamiche di potere è essenziale per la pratica lumbung attorno alla quale ruangrupa ha creato una cosmogonia di lingue che attraversano le time zones del mondo, superando i confini geopolitici e le barriere sociali, perché il “Tempo è arrivato prima del concetto di Stato”, ci raccontano. È stata una strana conversazione, aperta e informale, in cui sperimentando una diversa e non-gerarchica occupazione creativa (nongkrong) abbiamo incrociato una pluralità di storie e compreso un po’ di più il processo alla base del lavoro collettivo, abbandonando i nostri paradigmi di conoscenza che posizionano l’arte e la cultura dentro un frame modernista ed eurocentrico di riferimento, come modelli all’interno di un programma speculativo di costruzione capitalista. Così, seppur da una posizione autenticamente anti-istituzionale, sbagliamo subito ad usare la parola “sabotaggio” nella prima domanda. Come potrà documenta divenire una struttura di riferimento permanente per l’ecosistema di collettivi in Africa, in Asia e in America Latina? Come potrà divenire meno competitiva ed estrattiva rispetto alle strutture convenzionali?
Elena Marcon: L’assegnazione della direzione artistica ad un collettivo ha generato un punto di apertura necessario nel durevole percorso di documenta, compiendo un passo in avanti nell’accogliere pratiche artistiche “disallineate” rispetto all’apparato artistico dominante, ormai mercificato e atomizzato. In particolare, adottare un approccio partecipativo risulta un’operazione difficilmente praticabile nel panorama italiano — ed estensivamente in quello occidentale — in quanto viziato dall’asimmetria delle strategie economiche e simbolico-culturali: le sperimentazioni collettive che riescono a conquistarsi uno spazio in questo contesto si traducono perlopiù in episodi transitori ed isolati. Pertanto, l’esigenza di considerare modelli e metodologie alternativi emerge in tutta la sua rilevanza, alla quale ruangrupa risponde attuando uno sforzo condiviso, che affianca i valori della solidarietà, della fiducia reciproca e della rigenerazione in una pluralità di ambienti. Tale approccio può essere sintetizzato nella pratica del lumbung, un deposito condiviso di risorse, e applicato in differenti modalità di lavoro per reinventare una struttura di documenta alternativa e sostenibile, al fine di riflettere sulle mobilitazioni del contesto globale contemporaneo. Come intendete inserirvi in questa esperienza? È vostra intenzione sabotarla e riconfigurarla attraverso nuove strategie diffuse, fondate su pratiche processuali, preservando il dialogo con l’eredità storica di documenta?
Mirwan Andan: In primo luogo, vorrei soffermarmi su un termine chiave che è stato adoperato: mi riferisco alla parola “sabotaggio”. È un’espressione controversa che non si accorda né a noi, né alla nostra pratica, né alle modalità attraverso le quali coordiniamo l’intero contesto processuale di documenta quindici. Non ci identifichiamo con essa poiché è un’azione che si riferisce ad una forza superiore che deve essere necessariamente destituita. Al contrario, quando siamo stati chiamati a condividere la nostra proposta per documenta, ciò che abbiamo fatto è stato ricambiare il loro invito, al fine di elaborare insieme quella pratica collaborativa che definiamo per l’appunto “condivisione delle risorse”. Si tratta di un’operazione sviluppata tra ruangrupa per collettivizzare valori e conoscenze. Non si tratta di sabotare, bensì di comunicare e confrontarsi. Dialoghiamo e discutiamo: non è sempre un processo immediato e spesso affrontiamo momenti altalenanti o di tensione , ma in qualche modo il nostro invito a concepire documenta come una risorsa sta funzionando. Possiamo menzionare molteplici esempi in merito: Gertrude potrebbe parlare di come mettiamo in pratica quelli che definiamo collective pot, ed Ajeng può raccontarci di come gestiamo ciò che chiamiamo kiosk, o il modo in cui abbiamo comunicato i nominativi degli artisti.
Gertrude Flentge: Come dice Andan, sicuramente non si tratta di “sabotare”. Ho conosciuto ruangrupa quando lavoravo alla Rijksakademie di arti visive di Amsterdam e le loro attività non hanno mai avuto l’intento di “sabotare”, bensì di adottare un approccio totalmente differente. Ritengo che ognuno di noi abbia dovuto confrontarsi con molteplici grandi istituzioni: una delle principali questioni che bisogna affrontare è la possibilità di costruire qualcosa sul lungo termine. Ci interroghiamo su come documenta possa divenire una struttura di riferimento permanente per l’ecosistema di collettivi in Africa, in Asia e in America Latina, e come possa divenire meno competitiva ed estrattiva rispetto alle strutture convenzionali. Gli artisti con i quali collaboriamo sviluppano una pratica profondamente radicata nel contesto locale e sociale. Nelle grandi esposizioni internazionali, i loro lavori sono spesso decontestualizzati e innestati in un contesto alternativo — che in questo caso specifico è la documenta di Kassel — assumendo quindi un significato differente rispetto a quello originario. Inoltre nulla viene restituito, in termini di risorse. Queste considerazioni rappresentano dei punti di partenza fondamentali per riflettere sulla questione curatoriale, che investiga per l’appunto come documenta possa contribuire alla sostenibilità degli specifici ecosistemi di artisti e delle loro comunità di appartenenza. Immaginare la traslazione del lavoro artistico, che dalla propria località d’origine si inserisce a documenta, come un processo circolare permette di mantenerne il significato, senza doverlo necessariamente adattare per il pubblico tedesco. Nel fare diversamente, si imparano nuove cose e si arricchisce la propria pratica. Abbiamo organizzato l’intera documenta adottando un approccio collaborativo, proprio per risanarne la natura così estrattiva e competitiva: ruangrupa, in quanto collettivo, ha esteso l’invito al team artistico e successivamente ha coinvolto ulteriori gruppi ed artisti. L’intero evento è stato pertanto coordinato in ciò che definiamo majelis, il termine arabo-indonesiano che indica l’assemblea e l’incontro: tutti i partecipanti sono stati raccolti in gruppi più circoscritti per confrontarsi sui rispettivi progetti condividendo, oltre alle risorse, alle cure e alle difficoltà, un collective pot di denaro condiviso. Questo “grande esperimento” ci permette di immaginare questo evento come un apparato rigenerativo per ogni pratica e per ogni comunità, dando vita ai valori corali del lumbung come la generosità e l’umorismo.
Ajeng Nurul Aini: Così come ruangrupa è riuscito a ricreare questo ecosistema a Jakarta, vorremmo estendere questo esperimento ad un contesto ancora più diffuso. Non è certo un tentativo mai messo in pratica, ma abbracciare questa prospettiva a documenta non può che offrire una risposta nuova. In quanto collettivo, spesso ci chiediamo se abbiamo già prodotto un grande cambiamento grazie a questa edizione, tuttavia non cerchiamo per forza di raggiungerlo: potrebbe infatti svilupparsi spontaneamente da ciò che stiamo già facendo. Anche i piccoli passi sono meritevoli di valore e ci permettono di prendere decisioni in modo più sostenibile e condiviso.
Mirwan Andan: Tornando brevemente alla questione del “sabotaggio”, sottolinearne l’inadeguatezza è importante poiché documenta quindici stessa può essere interpretata come una risorsa, storica e partecipativa. Al contempo, ci identifichiamo semplicemente come un gruppo che lavora insieme verso un obiettivo comune: di conseguenza, quando ci è stato proposto di curare documenta, ci siamo posizionati in quell’ambiente con la stessa mentalità. Ecco perché, invece di sabotare, quello che facciamo è stringere amicizia, indipendentemente dall’età o dal contesto di appartenenza. Applichiamo per l’appunto la pratica del lumbung, una risorsa collettiva che rappresenta una parte vitale dell’intero processo. Sabotare significa distruggere, demolire, sfruttare e vandalizzare: ciò che noi facciamo è anzi comunicare, confrontandoci e costruendo relazioni non solo internamente a documenta quindici, ma anche nella città in cui è situata. Per questo motivo abbiamo costruito ruruHaus nel giugno del 2020: volevamo compartecipare all’intero processo interagendo con la vita sociale e culturale della città. Cerchiamo di avere una visione olistica anziché frammentata: è vero che molte persone lavorano ufficialmente all’interno dell’istituzione, ma le azioni più informali e spontanee sono ugualmente produttive. Ogni opportunità è meritevole di essere colta, come ad esempio andare al bar a prendere un drink insieme. Alla fine, tutto è riconducibile al dialogo e all’interazione umana.
Diego Giannettoni: L’utilizzo del termine “sabotaggio” ha aperto uno spazio di conversazione che rivela chiaramente l’intento della vostra pratica. Il significato che gli avevamo attribuito non riguarda il compimento di un’azione di rivolta aggressiva, bensì di operare intellettualmente per destabilizzare e rinnovare una realtà precostituita.
Gertrude Flentge: È interessante notare, in realtà, che le modalità e l’approccio mediante i quali viene veicolato il linguaggio enfatizza come, specialmente se utilizzato in modo improprio, possa produrre visioni ben differenti e talvolta discordanti.
Diego Giannettoni: Rispetto all’argomento che stiamo affrontando, abbiamo individuato una questione che orbita attorno a due visioni divergenti dello stesso fenomeno: mi riferisco al concetto di tempo e alla scelta di identificare i partecipanti in base al fuso orario, anziché alla nazionalità. È la prima volta che vediamo applicato questo approccio così peculiare, soprattutto se paragonato all’idea occidentale di tempo, una convenzione gradualmente imposta durante il colonialismo e successivamente conformata alle fasi produttive del sistema capitalistico. La concezione propria della tradizione indigena è invece estranea a queste influenze: si può intendere il tempo come uno strumento di emancipazione?
Gertrude Flentge: Ci sono molteplici questioni da affrontare: in primo luogo, abbiamo scelto di ricorrere alle diverse fasce orarie per presentare gli artisti, poiché non volevamo ridurre la loro identificazione alla provenienza geografica o alla loro nazionalità. Un’ulteriore questione riguarda la discordanza tra la durata specifica di documenta e il tempo proprio del lumbung. C’è una negoziazione costante, oserei definirla uno scontro, tra queste due continuità temporali. Il nostro intento è infatti quello di stabilire amicizie durature, basate sulla fiducia reciproca, che ovviamente richiedono tempo per rafforzarsi. Le scadenze e l’attività espositiva spesso ostacolano questo processo. È importante riflettere su quando un percorso può essere considerato concluso e quando invece si sta ancora svolgendo. Soprattutto, cerchiamo di comprendere come Kassel si possa integrare a questo divenire: è un quesito che affrontiamo quotidianamente nel nostro lavoro con documenta ma, anche se rappresenta un punto di attrito, è importante risolverlo insieme.
Ajeng Nurul Aini: La scelta di adoperare i fusi orari ha inoltre fornito un supporto anche dal punto di vista pratico. Successivamente all’annuncio nel 2019, abbiamo iniziato ad incontrare nuove persone e ad avviare le nostre ricerche per l’organizzazione di documenta. Purtroppo, il lockdown del marzo 2020 ha ostacolato gli sviluppi del nostro lavoro. Ci siamo quindi serviti di questa relazione con il tempo, per noi imprescindibile, per coordinare al meglio il nostro lavoro collettivo e per facilitare la collaborazione: abbiamo infatti creato delle mini majelis per tutti i membri del lumbung che appartenevano alla medesima fascia oraria, le quali sono divenute estremamente funzionali nel processo.
Mirwan Andan: Ti ringrazio per aver posto questa domanda Diego. Il concetto di fuso orario è una delle idee che stiamo implementando in questa edizione di documenta e ha ricevuto un’ottima accoglienza da diverse persone, te incluso. Ci sono molti punti da trattare. Per prima cosa, sappiamo tutti che la nozione di tempo precede il concetto di Stato: le persone erano coscienti del suo scorrere sin da prima che si affermasse l’idea di nazione. L’identificazione di un paese di provenienza è un prodotto dell’era moderna, ed è proprio per questo che ci interessa lavorare con l’idea di fuso orario in modo concettuale. Secondariamente, nessuno è realmente legato al proprio “paese di origine”. Molte persone hanno trascorso anni vivendo per strada e tuttora lo fanno, cercando di mantenersi e di adottare strategie differenti a seconda del luogo in cui si trovano; è per questo motivo che la loro ubicazione nel tempo presente risulta per noi molto più rilevante. In terzo luogo, molti degli amici con cui abbiamo collaborato provengono da contesti in cui esiste una differente concezione di tempo rispetto alla nostra e a quella di altri collaboratori. Infine, a causa dell’emergenza pandemica e quindi durante il processo di inclusione nel lumbung, siamo stati costretti a usare Zoom per incontrarci, rendendo necessario un adattamento reciproco ai rispettivi fusi orari. Quando si entra nella piattaforma non è necessario esibire documenti che identificano il proprio luogo di provenienza, bisogna avvalersi unicamente di una logica temporale.
Diego Giannettoni: Mi sembra che il nodo del discorso stia proprio in uno spostamento da una prospettiva concreta e spaziale, legata alla geografia, ad un piano più astratto, ma “non così astratto”, come quello del tempo.
Chiara Meloni: In quanto collettivo, ruangrupa si distingue per la sua attitudine corale e dimostra la sua versatilità stringendo nuove alleanze con molteplici iniziative. Questa dimensione collettiva è fondamentale in termini di sostegno e permeabilità nei contesti locali. Ritenete sia possibile mantenere e rispettare questa molteplicità di voci, senza essere categorizzati sistematicamente dai media?
Mirwan Andan: L’ossessione per le categorie è un altro argomento molto affascinante, anche perché si tratta di un riflesso diretto del pensiero occidentale e della sua cultura. La lingua è in questo senso un esempio evidente: è in opera una costante etichettatura di maschile, femminile, no-gender, non-binario, e così via. Immagino che anche nella lingua italiana sia presente questo genere di pronomi. Tali categorie sono invece estranee alla nostra cultura: l’attitudine che ci contraddistingue è quella di modificare il nostro punto di vista per adattarci al contesto delle persone con cui stiamo lavorando, che in questo caso è quello tedesco. Cerchiamo di incontrarci a metà strada, e in questo ci aiuta molto un concetto proprio della lingua tedesca: Ausnahme, che significa “eccezione”. Magari anche nella lingua olandese, o in italiano, esiste lo stesso concetto. Che però rappresenta un’ennesima categoria, giusto?
Chiara Meloni: Sì, la lingua italiana è particolarmente complessa e presenta numerose eccezioni. Se osserviamo l’argomento da un’altra prospettiva, la costante esigenza di ordinarlo appare senz’altro paradossale. Viceversa, questa necessità potrebbe essere la conseguenza di una lingua così ricca di declinazioni e possibilità. Questo aprirebbe ulteriori riflessioni in merito.
Elisabetta Bottura: Parlare di categorie mi ha fatto pensare alle questione femminista. Il linguaggio può consolidare e generare ruoli coercitivi. È interessante riflettere da un punto di vista europeo, in particolar modo da un contesto italiano, sul fatto che nella lingua indonesiana non esista questo tipo di classificazione: è un vero e proprio cambiamento di prospettiva. Siamo inoltre veramente entusiasti nel notare una presenza così consistente di artisti e collettivi provenienti da time-zones extra-occidentali, il cui corpo e lavoro intervengono sulle questioni di identità non binaria, problematizzata rispetto al gender, e appartengono all’universo Black, Indigenous, e People of Color e Lesbo, Gay, Bisex, Trans, Queer, Intersex e + all’interno dell’esposizione. In che modo la vostra pratica collettiva coinvolge le comunità e i movimenti di liberazione locali? Pensate che attraverso un evento internazionale come documenta tali pratiche possano definire un cambiamento nell’arte contemporanea occidentale?
Mirwan Andan: Per rispondere a queste domande vorrei partire dall’inizio, quando siamo stati selezionati come direttori di documenta quindici nel 2019. La prima cosa che abbiamo fatto è stato estendere il nostro gruppo invitando alcuni amici provenienti da diversi contesti, da Gertrude Flentge da Amsterdam a Lara Khaldi dalla Palestina, inclusi Ayşe Güleçand, Andrea Linnenkohl da Kassel e Frederikke Hansen dalla Danimarca . Li abbiamo invitati a raggiungerci in Indonesia e a frequentarci per una settimana, così da poter discutere su ciò che avremmo potuto formulare per la prossima documenta. Presto questi cinque amici si sono uniti a noi ed è nato quello che oggi conosciamo come artistic team. La ragione per cui abbiamo deciso di fare tutto questo è che non avevamo mai visitato documenta prima di allora. Dei nove componenti di ruangrupa che attualmente lavorano all’organizzazione,, soltanto uno – farid rakun – aveva visitato l’evento. Sapevamo che si trattasse di un evento organizzato in Germania, nonché una delle attività più prestigiose al mondo. Non avevamo mai pensato di visitarla prima perché eravamo sempre concentrati sulla situazione locale dell’Indonesia, per cercare di mantenere stabilmente il contesto a cui avevamo dato vita. Non è nei nostri intenti produrre un cambiamento applicando la nostra visione. Sinceramente noi non aspiriamo a cambiare nulla: non abbiamo un’ambizione, per quanto ci sforziamo di cercarla. La nostra unica aspirazione è forse proprio quella di trovarne una, inclusa quella di produrre un cambiamento. La nostra pratica consiste fondamentalmente in una conversazione aperta con le persone più fidate riguardo a ciò che più ci appassiona, incoraggiandole a farlo insieme. Non si tratta quindi di generare un cambiamento, perché il “cambiamento” non è altro che un enorme fardello che grava sulle nostre spalle. Aspirare al cambiamento è come un gesto di auto-soffocamento: non vogliamo che questo accada, bensì intendiamo darci sostegno reciproco per tutti gli anni in cui ci sarà possibile farlo. È un concetto che si lega profondamente al lumbung, che è appunto concepito come un processo di sperimentazione continuo per documenta quindici: non è possibile applicarlo nel limitato corso di cento giorni bensì, come affermiamo costantemente, si sviluppa oltre il 2022. Vorrei inoltre aggiungere anche un’ultima riflessione: nel luglio 1955, Arnold Bode diede vita a documenta al fine di rigenerare le ferite del Secondo conflitto mondiale, che aveva ridotto in macerie la città di Kassel. Nell’aprile 1955, solo un paio di mesi prima, si tenne una conferenza a Bandung, in Indonesia, organizzata dagli Stati dell’Africa e dell’Asia, con l’intento di risanare la ferita inflitta dal colonialismo. Possiamo notare quindi come nello stesso anno si tennero due eventi sostanziali: la nascita di documenta e la conferenza di Bandung. Entrambi gli eventi originano dalle medesime intenzioni: la prima per curare la ferita della città, la seconda per risanare quella che affliggeva il mondo. Possiamo considerare l’anno 1955 una pietra miliare nella storia del mondo: una finestra aperta che permette di osservare come la nascita di documenta e la conferenza di Bandung ebbero luogo quasi contemporaneamente.
Diego Giannettoni:Grazie per questa informazione, penso che abbiamo tutti scoperto qualcosa di nuovo! Mentre discutevamo in merito alle categorie ho riflettuto su una considerazione che vorrei aggiungere: ritengo che questa pratica di categorizzazione abbia avuto origine da un preciso evento storico: si tratta della rivoluzione scientifica, un processo che ha largamente contribuito alla nascita dei musei occidentali. Questa tendenza tassonomica, che ad esempio contraddistingue le istituzioni, si è profondamente affermata nell’attitudine coloniale dell’Occidente. La nozione stessa di “museo” è un’idea propriamente occidentale e ciò significa che molte delle istituzioni attive tutt’oggi sono dedite a tale filosofia. Le complessità di questa storia provocano l’utilizzo di un approccio restrittivo nel trattare ciò che ci circonda: dobbiamo riuscire a distaccarci dal passato.
Elena Marcon: Vorrei aggiungere un’ultima riflessione, in particolare riguardo ai termini che abbiamo usato in precedenza — come “sabotaggio” o “cambiamento” — e l’accezione specifica con cui li intendete. Dalla nostra prospettiva, queste parole assumono una connotazione pressoché positiva: il tuo pensiero rispetto a questi due termini ci propone però un ripensamento rispetto all’uso del linguaggio. Le parole hanno un enorme potere e il linguaggio è uno strumento da trattare con estrema cautela. Questo disallineamento ci permette di aprire gli occhi sulle modalità e sui significati che noi stessi attribuiamo alla realtà: per esempio, abbiamo usato “sabotaggio” interpretandolo come un termine provocatorio o “cambiamento” nella valenza positiva che assume dal punto di vista occidentale. Non sempre ciò rispecchiano la realtà: come ha sottolineato Andan, il “cambiamento” è più simile ad un peso che grava sulle nostre spalle. Credo si tratti di uno snodo fondamentale su cui riflettere, e immagino che io e i miei colleghi possiamo concordare su questo.
Mirwan Andan: La nostra mentalità è infatti più vicina alla sperimentazione, che alla conquista forzata di un cambiamento, come abbiamo precedentemente spiegato io e Gertrude. La buona notizia è che documenta rappresenta una piattaforma focalizzata sulle pratiche artistiche, quindi avremo sicuramente l’opportunità di sperimentare.
Ajeng Nurul Aini: Inoltre, come ha raccontato Andan, non si tratta solo di sperimentare ma soprattutto di imparare insieme. Quando cerchiamo di “costruire qualcosa” con i ruangrupa, nelle nostre majelis teniamo sempre in considerazione le risorse disponibili o quelle di cui abbiamo bisogno per sviluppare questa pratica, affinché si possa prolungare nel tempo. Credo che “imparare reciprocamente” siano le parole-chiave essenziali.
Elena Marcon: In precedenza vi siete soffermati sul ruolo di documenta come risorsa: potremmo definirla come un flusso di ispirazione continua, che raccoglie e rielabora saperi interdisciplinari come una sorta di archivio in perpetuo movimento. È possibile assistere ad un rapporto di restituzione reciproca tra le molteplici edizioni dell’esposizione, dove sono frequentemente rintracciabili gli influssi e le vicinanze concettuali delle personalità che hanno orbitato attorno alla sua struttura. Le edizioni precedenti di documenta sono state per voi fonte di ispirazione?
Gertrude Flentge:Penso dovrebbero essere i ruangrupa a rispondere a questa domanda ma, se posso, vorrei puntualizzare che sono rimasta stupita dalla quantità di esperimenti, particolarmente notevoli, mai realizzati o resi visibili nelle precedenti edizioni di documenta. Questi episodi sono sempre considerati come dei “progetti falliti”, ma in realtà anch’essi potrebbero aver aperto interessanti possibilità. Rispetto a ciò che Ajeng raccontava sulla lentezza del cambiamento e sulle piccole trasformazioni, questo approccio è valido sia per documenta, sia per altre esperienze che abbiamo condiviso. ruangrupa ha di per sé vissuto molte trasformazioni: da collettivo più contenuto, si è poi esteso nella Warehouse, per poi tornare a una dimensione più intima nella Gudskul. Abbiamo successivamente partecipato a molti network insieme, come il RAIN network e l’Arts Collaboratory Network. È chiaro che sono stati attraversati molteplici cambiamenti, ma essi non sono stati indotti dall’ambizione di voler cambiare bensì dall’interesse di imparare. Anche la mia provenienza dall’Olanda coinvolge il processo di cambiamento e mi ripeto quotidianamente “Va bene, stiamo preparando documenta quindici, i suoi cento giorni e le sue cento finalità, e non abbiamo bisogno di conquistare il successo dell’evento. Rappresenta solo un’altra tappa, un altro esperimento, un’altra esperienza.”.
Ajeng Nurul Aini: Questo si relaziona, per esempio, anche a un dialogo avuto con un artista qui a documenta fifteen, che si sente decisamente sotto pressione e ritiene che ci occorrerebbe molto più tempo per fare tutto ciò che abbiamo pensato di creare. Io penso che tutto ciò sia proprio parte del processo e che ogni progetto avviato non richieda di essere concluso in cento giorni, ma che possa proseguire anche successivamente. Le persone potrebbero non assistere a qualcosa di concluso ma che, al contrario, si prolungherà oltre il termine della manifestazione.
Mirwan Andan: Ritengo che le precedenti edizioni siano state dei punti di riferimento imprescindibili, da cui abbiamo largamente appreso e assorbito fin dallo studio dalla sua prima comparsa nel 1955, grazie alla quale abbiamo scoperto l’esistenza dell’assemblea in Indonesia di cui parlavo in precedenza. La suggestione più importante che abbiamo ricevuto è lo sperimentare qualcosa di differente e di mai ipotizzato prima. La scelta di annunciare il nome degli artisti partecipanti in una modalità specifica origina proprio dall’esperienza raccolta nello studio delle precedenti edizioni. Abbiamo collaborato con Asphalt, un giornale locale distribuito solo in tre città — Kassel, Göttingen e Hannover — edito e venduto in strada dalle persone senzatetto. Abbiamo annunciato gli artisti mediante questo giornale, non in un ristorante lussuoso con le telecamere puntate addosso. Quando lo abbiamo proposto ai membri del board curatoriale di documenta, hanno accettato questa idea così come hanno accolto la proposta di associare i nomi dei collettivi e degli artisti ad una fascia oraria, anziché con la nazione da cui provengono. Queste ipotesi sono state influenzate proprio dalla lettura delle esperienze precedenti, noi abbiamo ricercato ciò che non si è mai verificato e, come diceva Ajeng prima, poiché riteniamo che l’immaginazione possa provenire da qualunque luogo e in qualunque tempo, esploriamo tutto ciò che possiamo imparare. Apprendiamo dalle edizioni che si sono già svolte, dalle istituzioni, dalle persone con cui veniamo a contatto, così come loro imparano dal nostro modo di lavorare. E questo processo si svolgerà durante i cento giorni di esposizione, ma andrà oltre questo, oltre il 2022. Infine, poiché provenite dal contesto italiano, vorrei concludere raccontandovi un avvenimento che ritengo significativo: negli anni ’60, uno dei padri fondatori dell’Indonesia, il presidente Sukarno, utilizzava spesso l’espressione “vivere pericoloso” (pronuncia in italiano, “vivere pericoloso”), indicando un periodo burrascoso al quale seguirà una violenta rivoluzione politica. Per me, al contrario, realizzare e organizzare documenta non ha nulla a che fare con il “vivere pericoloso”, bensì con “living in adjustment” (vivere in adattamento) o con “living in happiness” (vivere serenamente), o ancora con “years of living by collaborating and learning from each other” (gli anni in cui imparare gli uni dagli altri e collaborare gli uni con gli altri).
L’intervista è stata condotta da Elisabetta Bottura, Diego Giannettoni, Elena Marcon e Chiara Meloni, che hanno tradotto il testo con la supervisione di Sofia Schartner.
Immagine di copertina: ruangrupa, f.l.t.r. Daniella Fitria Praptono, Julia Sarisetiati, Ade Darmawan, farid rakun, Iswanto Hartono, Mirwan Andan, Reza Afisina, Indra Ameng, friend, Ajeng Nurul Aini, 2019, Photo: Saleh Husein.