testi di Alessia Baranello, Federico Bianchini, Maria Carla Forina, Arianna Tremolanti.
Chi può parlare? Di cosa possiamo parlare? Cosa succede quando parliamo? È intorno a queste domande che ruota la pratica artistica e accademica di Grada Kilomba. Nel suo volume Memorie della Piantagione. Episodi di razzismo quotidiano, affronta il razzismo come realtà psicologica e traumatica dal punto di vista dellə oppressə.
Lo studio del razzismo di genere [i] e la specificità dei suoi effetti la lega alla pioniera bell hooks. In loro più che in chiunque altro la domanda “sono vittima di razzismo o di sessismo?” emerge come solco storico per i nuovi femminismi intersezionali. Il realismo nell’arte Black, la costruzione della femminilità nera, il suicidio per divenire soggettə e la decolonizzazione dei saperi sono alcuni dei temi che portano l’autrice portoghese a dialogare con Elogio del Margine.
“Improvvisamente, delle voci dalla strada mi gridarono: ‘Nera!’”[ii]: modelli mediatici di rappresentazione della sessualità femminile nera.
Nella sala ovale del parigino Palais de la Porte Dorée – monumento alle conquiste coloniali francesi eretto nel 1931 – facevano da sfondo alle poltrone in pelle color ebano marocchina e alle scrivanie intarsiate d’avorio gli affreschi art decò di Louis Bouquet, dove Veneri Nere danzavano al suono della lira di Apollo, in un rigoglioso paesaggio naturale.
La rappresentazione pittorica in questione, dove il corpo femminile nero ipersessualizzato è immerso in un contesto di infantilizzazione, persiste come prodotto dell’immaginario coloniale e si attualizza nel ritratto mediatico dell”Alterità”.
Il risultato di questo processo secolare è una sessualità femminile nera che vive nel “primato dell’essere guardata”, assorbita dallo sguardo bianco che “disseziona”[iii], e guidata da quella che Du Bois chiama “doppia coscienza”[iv]: il guardarsi sempre attraverso gli occhi degli altri.
Marc Allégret in collaborazione con André Gide, Voyage au Congo, 1927.
Sul solco tracciato da Du Bois e Fanon [v], Kilomba parla di norma bianca come agente primario per la definizione della soggettività femminile nera e afferma: “Le donne Nere si ritrovano solo in terza persona, parlano di sé stesse solo attraverso la descrizione di donne bianche (…) descrivendo la norma per evidenziare la propria marginalità rispetto a essa.”[vi]
In sostanza, si tratta di una rilettura intersezionale di John Berger, ovvero dell’interiorizzazione, da parte delle donne nere, del “sorvegliante”[vii] bianco.
In Elogio del Margine, bell hooks parla della coesistenza di due prevalenti stereotipi, prodotti dal patriarcato bianco, in cui la sessualità femminile nera risulta mediaticamente inscritta.
Il primo è quello profondamente radicato nell’ immaginario statunitense della mammy: fedele, protettiva e desessualizzata schiava domestica. L’abbiamo vista stringere il corpetto di Rossella O’Hara in Via col Vento, era la cuoca della piantagione ne La Capanna dello Zio Tom e sorrideva su tutte le confezioni di pastella per pancakes marchiate Aunt Jemima. Della sua liberazione ha poi parlato l’artista afroamericana Bettye Saar nel 1972. Nel suo assemblage, il sorriso caricaturale di Aunt Jemima incorniciava una mammy diversa, che in una mano stringeva una scopa, nell’altra un fucile.
Betye Saar, The Liberation of Aunt Jemima, 1972. Berkeley Art Museum and Pacific Film Archive, Berkeley, California.
“Poiché il sessismo delega alle donne il compito di creare l’ambiente domestico e di provvedere ad esso, è stato soprattutto grazie alle donne nere se il focolare domestico si è costruito come spazio di cura e nutrimento da contrapporre alla feroce, disumana realtà dell’oppressione razzista, della dominazione sessista.”[viii]
bell hooks rivendica lo stereotipo, leggendo un atto di resistenza nella memoria della madre di Frederick Douglass – bracciante nera che riusciva a vegliare sul figlio solo di notte, dopo aver lavorato tutto il giorno per una famiglia bianca. D’altra parte, Grada Kilomba ne parla in termini di alienazione e di silenziamento dei “danni psicologici prodotti dal razzismo quotidiano”[ix].
Nell’immaginario della “superdonna dalla pelle scura”[x] – matriarca creatrice di siti domestici di resistenza – Kilomba legge una soggettività femminile Nera generata sempre in relazione alla “pigra e autocommiserante” controparte bianca.
Il secondo modello mediatico attribuito alle donne nere è quello opposto della Jezebel. Promiscua, predatrice e selvaggia, “incarna quegli aspetti che la società bianca ha represso e trasformato in tabù, ovvero l’aggressività e la sessualità”[xi].
Carrie Mae Weems, Portrait of a Woman Who Has Fallen from Grace and into the Hands of Evil, 1988.
In quel “mezzo di comunicazione controllato dal patriarcato bianco”[xii] che è il mondo dello spettacolo, bell hooks rintraccia l’insaziabile Jezebel, ad esempio, nell’immagine pubblica animalesca e sessualmente esplosiva di Tina Turner, quella plasmata dall’immaginario pornografico – perfettamente conforme alle rappresentazioni della femminilità nera da un punto di vista suprematista bianco – dell’ex-consorte Ike Turner.
La “donna selvaggia personale”[xiii] di Ike aveva abiti succinti e una folta criniera bionda da leonessa. “La biondezza la lega all’immaginario della giungla e nello stesso tempo contribuisce a sostenere l’estetica razzista in base alla quale i capelli biondi – quelli delle donne bianche-più bianche – sono l’epitome della bellezza”[xiv].
I capelli, insieme alle natiche, sono uno dei principali marcatori dell’Alterità sessuale nera. I capelli afro di Alicia – una delle donne afro-discendenti intervistate nel volume di Kilomba – vengono insistentemente toccati e accarezzati, diversi dalla norma bianca. È per questo che, tra le pagine patinate delle riviste di moda, la “Brigitte Bardot nera” Naomi Campbell “cede i suoi ‘naturali’ capelli in cambio di parrucche bionde o treccine di lunghezza variabile”[xv].
Se la super-donna nera idealizzata si autodefinisce per opposizione alla controparte bianca, nei “territori del bello” è la conformità a canoni estetici caucasici a regolare la rappresentazione. Le modelle nere – che bell hooks individua come solitamente birazziali o dalla pelle molto chiara, dai capelli biondi o castano chiaro nel 1998 – “pur nella loro attraente ‘differenza’ devono somigliare alle bianche, se vogliono essere considerate realmente belle.”[xvi]
Così gridava nel 1978 Victoria Santa Cruz:
“Mi stirai i capelli, mi misi la cipria sul viso,
ma nei miei lombi risuonava sempre la stessa parola:
Nera! Nera! Nera!”[xvii]
Victoria Santa Cruz, Me Gritaron Negra (They shouted black at me), 1978, still da video.
“Non è che non abbiamo parlato: le nostre voci sono state sistematicamente squalificate”[xviii]: Realismo, capitalismo e margine.
«il Black Arts Movement ha cominciato a liquidare tutte le forme di produzione culturale afroamericane che non si conformano col movimento, poiché l’arte doveva servire ai neri e alla lotta alla liberazione […]. L’incoraggiamento di un’estetica che non separasse gli stili di vita dalla produzione artistica era importante per i pensatori neri che si occupavano di strategie di decolonizzazione […]. Per il pubblico di massa [infatti], realismo e naturalismo sono più accessibili»[xix]
Estraneità e opposizione fondano l’emersione di un’arte per la resistenza nera negli Stati Uniti degli anni Sessanta e Settanta. Il Black Arts Movement fa da principale riferimento teorico ed estetico del nuovo canone artistico, che per essere veicolo delle istanze della lotta di liberazione si gioca nel segno di una totale opposizione alla tradizione bianca occidentale, la quale, nello stesso periodo, virava su posizioni astratte e concettuali. A scapito della libertà creativa, per bell hooks, l’estetica nera degli anni Sessanta si barrica su posizioni prescrittive. Solo il realismo, la concretezza delle forme e del contenuto avrebbe potuto parlare alle masse, costruire coscienza politica rivoluzionaria. Opposizione quindi, e poi volontà di rimanere estranei e inappetibili per l’uditorio bianco. Ma, continua l’autrice, «una visione estetica ristretta e restrittiva tende a marginalizzare qualsiasi prodotto artistico innovativo» mentre il razzismo, che l’arte nera vuole combattere, dovrebbe essere «un problema dei bianchi almeno quanto lo è dei neri». Abbandonare quindi la camicia stretta del nazionalismo in modo che la produzione culturale nera abbia un «significato autentico anche per un pubblico di bianchi»[xx] .
L’estetica realista dell’arte nera all’attenzione del pubblico bianco in realtà ci è poi entrata a pieno titolo e cavalca ora i mercati occidentali. Amoako Boafo, Kara Walker, Ibrahim Mahama, solo per citarne alcunə, parlano delle condizioni materiali ed esistenziali delle comunità nere da cui provengono senza troppa retorica, e trovano ampio posto nelle gallerie, nelle grandi fiere, nelle biennali, e in non pochi salotti di collezionistə bianchə. È possibile costruire una risposta a questa apparente contraddizione partendo dalle parole di Kilomba, riportando la prospettiva su chi, dal centro, avrebbe ricevuto i messaggi dai margini.
Frida Orupabo, Baby in belly, 2020.
Se infatti l’(auto)rappresentazione è il mezzo, l’ascolto rappresenta il fine ineludibile, essendo l’ascoltatore in ultima istanza a decretare la legittimità e il valore di ogni narrazione. All’ascolto c’era infatti lo sguardo coloniale che, nel suo sodalizio col capitale, si posa più volentieri su tutto quello che si mostra per ciò che è: la chiarezza formale gli offre disponibilità interpretativa e consumo visivo illimitato, confinato su una dimensione superficiale, retinica, tutto volto a un afferramento dell’oggetto di tipo predatorio[xxi]. Il realismo visivo risponde pienamente, anzi facilita, la necessità classificatoria dello sguardo coloniale, che di fronte al prodotto figurativo esplicito può immediatamente indicarne la provenienza culturale e quindi l’appartenenza a un sistema di valori, riconducendo ogni cosa al posto (subalterno) che gli compete. Così l’opera dell’artista nerə non è solo un’opera ma è simbolo della nerezza intera.
Qualcosa di molto simile è spiegato da Kilomba attraverso l’esperienza di Kathleen, la seconda donna intervistata: in una classe di studentə tedeschə, ovvero «inclusa in uno spazio di esclusione» Kathleen è soprattutto una rappresentante di tuttə lə esclusə; in un processo di totale identificazione ed essenzializzazione, Kathleen è la razza stessa. Che poi l’identificazione venga fatta nel segno dell’amore per l’esotico anziché in quello dell’odio, indica solo che il linguaggio coloniale ha mutato i suoi sintagmi ma non il suo paradigma. Il centro culturale in cui lə artistə Nerə si inseriscono, funziona dunque secondo le logiche di quello che Olu Oguibe definisce un ‘gioco della differenza’[xxii] in cui è chiesto loro di parlare incessantemente della propria alterità, non assomigliare a nessunə o assomigliare a Frida Kahlo.
«Razza e voyeurismo» continua Kilomba, il pubblico vuole «sentire una storia veramente esotica, in cui le [sue] fantasie coloniali sull’altrə che arriva da lontano tornano a vivere»[xxiii]. Lə soggettə Nerə insomma, ispezionatə dall’esterno come un feticcio, può esistere solo attraverso un’immagine alienata di sé stessə [xxiv]. Seppur Kilomba parla in riferimento a esperienze di razzismo esperite a livello intimo e quotidiano nella vita delə soggettə Nerə, il paragone col razzismo operato nei confronti dei prodotti culturali Neri quando veicolati da un’estetica realista o naturalista, è stringente. In entrambi i casi infatti lo sguardo coloniale si scaglia sulla superficie, sulla forma visibile, sull’evidenza della diversità della pelle e dei capelli, sulle stoffe, sulle capanne sullo sfondo.
Araya Rasdjarmrearnsook, Two Planets: Millet’s The Gleaners and the Thai Farmers, 2008, single-channel video, 14min 43sec. Courtesy of the artist and Tyler Rollins Fine Art, New York.
Ma se il mercato bianco ha accolto ben volentieri le forme più riconoscibili dell’arte nera militante, che fine ha fatto il messaggio rivoluzionario che quella si portava dietro?
Torniamo allora all’iniziale considerazione secondo cui il centro non è solo bianco e patriarcale ma è anche capitalista. La possibilità rivoluzionaria, capace di intervenire nella storia, è una particolare condizione permessa, secondo Hannah Arendt, da un’apparizione imprevista di un soggetto che irrompe nella sfera pubblica, unico luogo dove questo manifestarsi ricade nell’intreccio già esistente delle storie e delle narrazioni altrui, con esiti, ancora una volta, imprevisti.
Questa apparizione, come una seconda nascita, avviene ogni qual volta l’uomo* prende l’iniziativa di parlare e agire senza alcuna utilità né finalità, ma solo in quanto atto di soggettivazione, l’affermazione di un esserci, un rivelarsi al mondo. È questa caratteristica che distingue la praxis dalla poiesis, il non produrre fini né opere particolari. Opere o fini sono infatti i prodotti che derivano da attività legate alle necessità, a condizioni di non-libertà attinenti al lavoro.
Per Arendt, azione e discorso sono dunque possibili solo nella sfera pubblica-politica, laddove l’uomo accede agendo e parlando, svincolato una volta per tutte dalle necessità, attività prepolitiche, svolte per mezzo della violenza o del lavoro. Ma poi, prosegue Arendt, il capitalismo ha reso la sfera pubblica una sfera privata allargata, emancipando le attività economiche dalla loro naturale collocazione nella sfera privata (l’oikia, la casa, da cui il termine economia discende) e ponendole al centro del tempo libero e dei rapporti umani. La moderna emancipazione del lavoro ha così elevato l’attività lavorativa a rapporto sociale, facendo degli uomini degli eguali solo in quanto consumatori [xxv]. Esemplare in tal senso che nella storia della diaspora nera, la casa e la dimensione domestica, i luoghi della privatezza per antonomasia, abbiano rappresentato «un sito cruciale per organizzare, formare la solidarietà politica»[xxvi] mentre l’uscita da quella e l’incursione nel centro significava entrare nell’ordine della schiavitù.
La profezia di bell hooks si è così avverata in una forma ironicamente peggiore: l’estetica realista dell’arte nera non è stata affatto marginalizzata dall’attenzione del pubblico bianco, ma piuttosto innalzata e adorata, fintanto che è stato possibile trasformarla in merce esotica e venderla, trascinandosi appresso anche il suo messaggio rivoluzionario. Se l’azione politica non è possibile nel centro, dove vigono i rapporti economici, bisognerà forse tornare a riconsiderare «il margine come un sito di resistenza e possibilità, di apertura radicale e di creatività»[xxvii].
Mickalene Thomas, Why Can’t We Just Sit Down And Talk It Over, screenprint, 2006.
“Quindi è meglio parlare ricordandoci che non siamo mai state destinate a sopravvivere”[xxviii]: suicidio e divenire soggetto.
“Nel 1992, poco prima del mio ultimo anno di liceo, mia madre si è suicidata. (…) In realtà non aveva problemi ad avere amiche bianche o altro, non era una separatista, ma aveva bisogno che la società in cui si trovava la rispecchiasse e semplicemente non lo faceva.”[xxix]
Seguendo la traccia del racconto che Kathleen fa della madre, Kilomba affronta il tema del suicidio delle donne nere. Da una parte, il gesto viene definito come un “omicidio bianco”, ricondotto all’isolamento sociale e professionale che interessa la doppia oppressione – razziale e di genere – delle donne nere. Quello che l’Io nega nel suicidio con una violenza senza precedenti è il corpo, il luogo dell’alterità e del razzismo strutturale e istituzionale, in una parola, quotidiano. Isolamento e stigma corporale, però, non possono spiegare tutte le declinazioni del fenomeno, che appare come vero e proprio pattern storico.
Data la connessione tra razzismo e morte, il suicidio diventa “la visualizzazione, la performance della condizione dellə soggettə Nerə in una società bianca”, dove “l’invisibilità viene portata in scena”[xxx]. In quest’ottica, il gesto appare come estrema e ultima possibilità di autoaffermazione della soggettività nera, da annoverare tra le strategie individuate da Kilomba per “divenire soggetto”[xxxi]. In bell hooks, il soggetto è la voce nera che non ha bisogno di essere definita in termini di alterità, di opposizione rispetto all’altro bianco. Se fino ad ora, per dirla con Fanon, ciò che viene chiamata “anima Nera” è stata una costruzione del bianco, bell hooks propone un’auto costruzione della propria realtà, identità, storia, attraverso la pratica artistica e letteraria [xxxii].
Aggiunge Kilomba che l’intero fenomeno del razzismo è stato teorizzato sempre con un focus sullə l’oppressorə, sullə razzistə e non sullə razzializzatə. Con Paul Mecheril l’autrice propone uno spostamento verso la prospettiva dellə “soggettə che prende parola” e che si definisce su tre livelli: politico, sociale e individuale. Il razzismo di genere viola sistematicamente ognuna di queste sfere, nella vita della madre di Kathleen come in quella di molte altre donne nere. Da qui, l’atto di ripresa estremo delle tre dimensioni, tramite l’annullamento del Sé.
La riflessione sul suicidio dimostra la sua trasversalità manifestandosi chiaramente nelle pratiche di artiste vicine alle istanze femministe postcoloniali. In Self-portrait with blood (1973), un lavoro fotografico della cubana Ana Mendieta, l’artista si ritrae col volto intriso di sangue che diviene simbolo del rinnovamento e della riappropriazione della propria soggettività dopo la morte, come in una resurrezione cristiana. Da qui, Fisher individua nell’autrice un culto della morte, che è anche un culto del ritrovamento della vita[xxxiii].
C’è uno specifico oggetto-concetto nella storia della diaspora che svela l’intersecazione di cause sociali, storiche e individuali dietro i suicidi sistematici delle donne nere: la maschera di Escrava Anastacia. Santa del popolo e ispirazione politica, la forse-principessa rappresenta tutt’ora nel mondo africano e afro diasporico la più eroica delle resistenze, quella che interessa la presa di parola. È obbligata a indossare un pesante collare di ferro, una maschera che le impedisce di parlare. Silenziamento, quindi, legato a una negazione ancora più estrema: per i proprietari delle piantagioni infatti la maschera traforata serviva anche a impedire il suicidio dei neri schiavizzati tramite l’ingestione di sporcizia. Il suicidio domestico delle donne nere emerge in questo senso come una sorta di re-enactment dell’esperienza coloniale, una riproprosizione della relazione dicotomica schiava-padrona. È il trauma storico a legare le due forme di suicidio: “improvvisamente il colonialismo diviene un’esperienza reale” e “si vive il presente come se ci si trovasse nel passato”[xxxiv]. L’oppressione razziale diventa soprattutto un processo di continuità discorsiva e scenica.
“L’unico luogo in cui i neri non si ribellano è nei libri scritti dai bianchi”[xxxv]: decolonizzare il sapere accademico.
Escrava Anastácia, disegno di Jacques Arago, 1817-1818.
Il silenziamento della subalterna ai danni di Escrava Anastacia è lo stesso che Kilomba racconta di aver subito in prima persona, all’interno dell’Università. In quanto studiosa nera, in un ambiente accademico prevalentemente bianco, è costretta a operare in un ordine neocoloniale. Da un lato, deve “performare la razza”. Inclusa in uno spazio di esclusione, la studentessa nera deve incarnare una fantasia di perfezionismo verso il pubblico bianco, “una fantasia che non fa altro che alimentare l’idea di servitù”[xxxvi]. Per Kathleen, il fatto di essere l’unica studentessa nera della classe significava avere la responsabilità di rappresentare la nerezza, dover dimostrare che lei, e “tutte le altre come lei”, erano altrettanto intelligenti, se non addirittura più intelligenti, delle studentesse bianche. “Bisogna” infatti “essere almeno tre volte meglio di qualsiasi persona bianca per esserne pari” racconta.
D’altra parte, anche quando il mito della perfezione si realizza, il discorso nero viene squalificato. Interessante ma non scientifico, troppo soggettivo, personale, emotivo: così una collega bianca commenta la produzione accademica di Kilomba nel secondo Capitolo del libro. “Tu si che sovrainterpreti”. La donna la avverte: il suo punto di vista è una distorsione della realtà. La scena ricorda il video Free, White and 21 (1980), dove Howardena Pindell recita due ruoli nella triangolazione [xxxvii] che caratterizza gli episodi di razzismo quotidiano: da un lato la donna nera, l’artista che racconta la sistematicità del razzismo, dall’altra la femminista bianca che porta la vittima a dubitare dei suoi stessi ricordi, operando gaslighting, per delegittimarli. La maschera di Escrava Anastacia si ripropone in diversi termini storici ed esce dal suo stato di invisibilità, per riportare a galla il trauma, la memoria della piantagione.
Howardena Pindell, Free, White and 21, Video still, 1980. Courtesy of the artist and Garth Greenan Gallery, New York.
Howardena Pindell, Free, White and 21, Video still, 1980. Courtesy of the artist and Garth Greenan Gallery, New York
Come decolonizzare quindi il mito della neutralità del sapere accademico?
Il merito del testo di Kilomba è proprio quello di rompere definitivamente con l’illusione di un’unica Verità fabbricata dallə studiosə bianchə e supportata solamente dal fatto che il loro discorso, essendo dominante, diventa facilmente paradigma, punto nevralgico per tutte le altre narrazioni. Contrariamente al sapere tradizionale, gli studi postcoloniali, come quelli queer e femministi hanno messo in campo l’idea di prospettiva situata [xxxviii]: il nominare il luogo e il tempo da cui si scrive, il fare del personale il politico. Per dirla con Lorde, “la prospettiva situata è consapevolmente parziale, ma in quanto tale mette in discussione il modello universalista del punto di vista neutro, dietro al quale i soggetti dominanti mascherano di verità assoluta la propria visione del mondo”[xxxix].
Studiare un fenomeno non da un punto di vista di soggetta distaccata ma di soggettività consapevole è stata una traccia operativa per Frantz Fanon, tanto quanto per bell hooks e altrə studiosə postcolonialə. Tra questi Paul Mecheril, da cui Kilomba riprende il metodo dello study-up per le interviste. In sostanza, si tratta di fare ricerca alla pari, relazionandosi con persone della stessa condizione, classe sociale ed età, con cui si possano condividere delle esperienze, qualcosa che è stato fortemente incoraggiato da gruppi di autocoscienza come l’embrionale Rivolta Femminile di Lonzi, Accardi e Banotti.
In bell hooks l’idea di sapere situato emerge come critica all’essenzialismo del postmoderno, che propone una rinuncia ai confini di razza, genere, classe e altro, che, seppur teoricamente rilevante, non rispecchia per l’autrice le attuali condizioni storiche. Per studiosə nerə abbandonare la differenza significherebbe abbandonare la propria identità, la propria voce di soggetto, appena o non ancora acquistata. Le critiche del postmodernismo al concetto di “soggetto” emergono, infatti, proprio nel momento storico in cui molti gruppi oppressi e silenziati sentono per la prima volta di avere una voce. In altre parole, “è facile rinunciare all’identità quando se ne ha una”[xxxx].
L’autrice statunitense propone, quindi, “una rottura critica con la nozione di “autorità” come “padronanza di” che si rifletta negli stili di scrittura e nella scelta dei contenuti: per esempio, la scelta di firmarsi privandosi delle lettere maiuscole, oppure la mancanza di un apparato bibliografico.
Grada Kilomba, The Desire Project, 2015-2016, still da video. Courtesy l’artista e São Paulo Bienal.
La prima volta che Kilomba visita la biblioteca universitaria della Freie di Berlino, l’impiegata la ammonisce dicendo che è “solo per studenti”. In The Desire Project, una trilogia di video presentata nel 2016 alla Biennale di San Paolo, Kilomba scrive su monitor “I am seen as a body that cannot produce knowledge”: è vista come un corpo che non può produrre conoscenza.
Mary Douglas sottolinea a questo proposito la riluttanza ad avere persone nere negli spazi bianchi [xxxxi]: la segregazione universitaria rievoca quella abitativa dei “ghetti”. Appena dal margine raggiungono il centro, soprattutto se in ruoli e in posizioni a cui non era previsto che accedessero (per esempio quello di accademicə) lə segregatə diventano sporchə e contagiosə. Anche per bell hooks il centro era il luogo dove difficilmente si poteva entrare, dove arrivare per lavorare ma non per vivere, a condizione di permanere il meno possibile.
Ma se dove c’è oppressione, c’è sempre resistenza, il margine può diventare una fucina dove forgiare un nuovo tipo di produzione di sapere: “In questo spazio critico possiamo immaginare domande che non avrebbero potuto essere immaginate prima, possiamo porre domande mai poste”[xxxxii]. In sostanza, spesso è proprio dalle feritoie della maschera che si può parlare con una potenza senza precedenti.
Grada Kilomba, O barco/La barca, Installazione alla Boca Biennal, 2021, Lisbona. Foto: Bruno Simao.
Il testo è stato scritto in occasione di Imparare a trasgredire. Omaggio a bell hooks, momento conclusivo del corso teorico di Allestimento II, tenuto da Elvira Vannini con gli artisti e curatori del 2^ anno del Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali di Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e incentrato sul ruolo delle esposizioni nelle politiche di rappresentazione transculturale attraverso narrative femministe e postcoloniali.
note
[i]Il “razzismo di genere” fa riferimento all’impatto simultaneo l’oppressione razziale e di genere hanno sulle esperienze delle donne nere.
[ii] Victoria Santa Cruz, Me Gritaron Negra. They shouted black at me, 1978, video.
[iii] Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, 1952. “Già gli sguardi bianchi, i soli veri, mi dissezionano.” pp. 114-115.
[iv] W.E.B. Du Bois, The Souls of Black Folk, 1903.
[v] Sandro Mezzadra, Questione di sguardi. Du Bois e Fanon, 2013. Nel saggio, Mezzadra mette in scena un dialogo tra W.E.B. Du Bois e Frantz Fanon e rilegge le loro teorie attraverso John Berger, da cui riprende il titolo (John Berger, Questione di sguardi, 1972).
[vi] Grada Kilomba, Memorie dalla Piantagione, 2021, p. 191.
[vii] John Berger, Questione di sguardi, 1972.
[viii] bell hooks, Elogio del Margine, 1998, p. 26.
[ix] Grada Kilomba, Memorie della Piantagione, 2021, p. 189.
[x] ibidem
[xi] ivi, p. 34.
[xii] bell hooks, Elogio del Margine, 1998, p. 82.
[xiii] ibidem
[xiv] ivi, p. 83.
[xv] ivi, p. 90.
[xvi] ibidem
[xvii] Victoria Santa Cruz, Me Gritaron Negra. They shouted black at me, 1978, (video).
[xviii] G. Kilomba, Memorie della Piantagione, 2021, p. 47.
[xix] bell hooks, Elogio del margine, 1998, pp. 53-58.
[xx] ibidem, pp. 57-58.
[xxi] Sulla nozione di ‘sguardo coloniale’ o ‘predatorio’ cfr. U. Fracassa, il testo visibile, Giulio Perrone Editore, 2021.
[xxii] Cfr. O. Oguibe, The culture game, University of Minnesota Press, 2003.
[xxiii] G. Kilomba, Memorie della piantagione, 2021, p. 110.
[xxiv] Sul processo di spersonalizzazione, cfr. F. Fanon, (1964) trad. it. Scritti politici. Per la rivoluzione africana, Volume I, Roma, DeriveApprodi, 2006, p. 63.
[xxv] H. Arendt, Vita Activa, (1958), Bompiani, 2019.
[xxvi] bell hooks, Elogio del margine, 1998, p. 33.
[xxvii] G. Kilomba, Memorie della piantagione, 2021, p. 63.
[xxviii] libera traduzione da A. Lorde, A Litany For Survival in “The Collected Poems of Audre Lorde”, 1978, di cui si riporta il testo originale: “So it is better to speak remembering we were never meant to survive”.
[xxix] G. Kilomba, Memorie della Piantagione, 2021, p. 184.
[xxx] ivi, p. 185
[xxxi] ivi, p. 68.
[xxxii] bell hooks, Elogio del margine, 1998, p. 152.
[xxxiii] P. Fisher, Ana Mendieta: Body Tracks, exhibition catalogue, Kunstmuseum Luzern 2002, pag. 87
[xxxiv] G. Kilomba, Memorie della Piantagione, 2021 p.155.
[xxxv] C.L.R. James, The Black Jacobins: Toussaint l’Ouverture and the San Domingo Revolution, 1938, Secker & Warburg Ltd.
[xxxvi] G. Kilomba, Memorie della Piantagione, 2021, p. 228.
[xxxvii] Per triangolazione si intende una dinamica tipica degli episodi di razzismo quotidiano, dove c’è colui/lei che enuncia il razzismo, quellə che lo subisce, e un pubblico bianco che osserva passivo. “A causa della sua funzione repressiva, la costellazione triangolare delle persone Nere come sole e di quelle bianche come collettivo permette il compimento del razzismo quotidiano” (Kilomba, p. 130).
[xxxviii] Una posizione che in Italia troviamo negli scritti di Carla Lonzi. Anche Donna Haraway parla di sapere situati, sostenendo che tutti i discorsi provengono da un luogo e un tempo specifici, che vanno dichiarati.
[xxxix] A. Lorde 2014, pp. 120-121 citata in Marie Moïse, Il femminismo Nero, in Introduzione ai Femminismi, AA.VV., a cura di Anna Curcio, DeriveApprodi, Roma, 2019, p.33.
[xxxx] b. hooks, Elogio del Margine, 1998, pp. 19-20.
testi di Alessia Baranello, Federico Bianchini, Maria Carla Forina, Arianna Tremolanti.
Chi può parlare? Di cosa possiamo parlare? Cosa succede quando parliamo? È intorno a queste domande che ruota la pratica artistica e accademica di Grada Kilomba. Nel suo volume Memorie della Piantagione. Episodi di razzismo quotidiano, affronta il razzismo come realtà psicologica e traumatica dal punto di vista dellə oppressə.
Lo studio del razzismo di genere [i] e la specificità dei suoi effetti la lega alla pioniera bell hooks. In loro più che in chiunque altro la domanda “sono vittima di razzismo o di sessismo?” emerge come solco storico per i nuovi femminismi intersezionali. Il realismo nell’arte Black, la costruzione della femminilità nera, il suicidio per divenire soggettə e la decolonizzazione dei saperi sono alcuni dei temi che portano l’autrice portoghese a dialogare con Elogio del Margine.
Nella sala ovale del parigino Palais de la Porte Dorée – monumento alle conquiste coloniali francesi eretto nel 1931 – facevano da sfondo alle poltrone in pelle color ebano marocchina e alle scrivanie intarsiate d’avorio gli affreschi art decò di Louis Bouquet, dove Veneri Nere danzavano al suono della lira di Apollo, in un rigoglioso paesaggio naturale.
Louis Bouquet, Afrique noire, inizialmente intitolato “Apollon et sa muse négresse”, Palais de la Porte Dorée, precedentemente Musée des Colonies, oggi Musée de l’Immigration, 1931. Le salon ovale di Paul Reynaud, foto Lorenzö © Palais de la Porte Dorée.
La rappresentazione pittorica in questione, dove il corpo femminile nero ipersessualizzato è immerso in un contesto di infantilizzazione, persiste come prodotto dell’immaginario coloniale e si attualizza nel ritratto mediatico dell”Alterità”.
Il risultato di questo processo secolare è una sessualità femminile nera che vive nel “primato dell’essere guardata”, assorbita dallo sguardo bianco che “disseziona”[iii], e guidata da quella che Du Bois chiama “doppia coscienza”[iv]: il guardarsi sempre attraverso gli occhi degli altri.
Marc Allégret in collaborazione con André Gide, Voyage au Congo, 1927.
Sul solco tracciato da Du Bois e Fanon [v], Kilomba parla di norma bianca come agente primario per la definizione della soggettività femminile nera e afferma: “Le donne Nere si ritrovano solo in terza persona, parlano di sé stesse solo attraverso la descrizione di donne bianche (…) descrivendo la norma per evidenziare la propria marginalità rispetto a essa.”[vi]
In sostanza, si tratta di una rilettura intersezionale di John Berger, ovvero dell’interiorizzazione, da parte delle donne nere, del “sorvegliante”[vii] bianco.
In Elogio del Margine, bell hooks parla della coesistenza di due prevalenti stereotipi, prodotti dal patriarcato bianco, in cui la sessualità femminile nera risulta mediaticamente inscritta.
Il primo è quello profondamente radicato nell’ immaginario statunitense della mammy: fedele, protettiva e desessualizzata schiava domestica. L’abbiamo vista stringere il corpetto di Rossella O’Hara in Via col Vento, era la cuoca della piantagione ne La Capanna dello Zio Tom e sorrideva su tutte le confezioni di pastella per pancakes marchiate Aunt Jemima. Della sua liberazione ha poi parlato l’artista afroamericana Bettye Saar nel 1972. Nel suo assemblage, il sorriso caricaturale di Aunt Jemima incorniciava una mammy diversa, che in una mano stringeva una scopa, nell’altra un fucile.
Betye Saar, The Liberation of Aunt Jemima, 1972. Berkeley Art Museum and Pacific Film Archive, Berkeley, California.
“Poiché il sessismo delega alle donne il compito di creare l’ambiente domestico e di provvedere ad esso, è stato soprattutto grazie alle donne nere se il focolare domestico si è costruito come spazio di cura e nutrimento da contrapporre alla feroce, disumana realtà dell’oppressione razzista, della dominazione sessista.”[viii]
bell hooks rivendica lo stereotipo, leggendo un atto di resistenza nella memoria della madre di Frederick Douglass – bracciante nera che riusciva a vegliare sul figlio solo di notte, dopo aver lavorato tutto il giorno per una famiglia bianca. D’altra parte, Grada Kilomba ne parla in termini di alienazione e di silenziamento dei “danni psicologici prodotti dal razzismo quotidiano”[ix].
Nell’immaginario della “superdonna dalla pelle scura”[x] – matriarca creatrice di siti domestici di resistenza – Kilomba legge una soggettività femminile Nera generata sempre in relazione alla “pigra e autocommiserante” controparte bianca.
Il secondo modello mediatico attribuito alle donne nere è quello opposto della Jezebel. Promiscua, predatrice e selvaggia, “incarna quegli aspetti che la società bianca ha represso e trasformato in tabù, ovvero l’aggressività e la sessualità”[xi].
Carrie Mae Weems, Portrait of a Woman Who Has Fallen from Grace and into the Hands of Evil, 1988.
In quel “mezzo di comunicazione controllato dal patriarcato bianco”[xii] che è il mondo dello spettacolo, bell hooks rintraccia l’insaziabile Jezebel, ad esempio, nell’immagine pubblica animalesca e sessualmente esplosiva di Tina Turner, quella plasmata dall’immaginario pornografico – perfettamente conforme alle rappresentazioni della femminilità nera da un punto di vista suprematista bianco – dell’ex-consorte Ike Turner.
La “donna selvaggia personale”[xiii] di Ike aveva abiti succinti e una folta criniera bionda da leonessa. “La biondezza la lega all’immaginario della giungla e nello stesso tempo contribuisce a sostenere l’estetica razzista in base alla quale i capelli biondi – quelli delle donne bianche-più bianche – sono l’epitome della bellezza”[xiv].
I capelli, insieme alle natiche, sono uno dei principali marcatori dell’Alterità sessuale nera. I capelli afro di Alicia – una delle donne afro-discendenti intervistate nel volume di Kilomba – vengono insistentemente toccati e accarezzati, diversi dalla norma bianca. È per questo che, tra le pagine patinate delle riviste di moda, la “Brigitte Bardot nera” Naomi Campbell “cede i suoi ‘naturali’ capelli in cambio di parrucche bionde o treccine di lunghezza variabile”[xv].
Se la super-donna nera idealizzata si autodefinisce per opposizione alla controparte bianca, nei “territori del bello” è la conformità a canoni estetici caucasici a regolare la rappresentazione. Le modelle nere – che bell hooks individua come solitamente birazziali o dalla pelle molto chiara, dai capelli biondi o castano chiaro nel 1998 – “pur nella loro attraente ‘differenza’ devono somigliare alle bianche, se vogliono essere considerate realmente belle.”[xvi]
Così gridava nel 1978 Victoria Santa Cruz:
“Mi stirai i capelli, mi misi la cipria sul viso,
ma nei miei lombi risuonava sempre la stessa parola:
Nera! Nera! Nera!”[xvii]
Victoria Santa Cruz, Me Gritaron Negra (They shouted black at me), 1978, still da video.
Serge Attukwei Clottey, Kusum Gboo Ga (La tradizione non muore mai), Courtesy Lorenzelli Arte Milano, ©Nii Odzenma.
«il Black Arts Movement ha cominciato a liquidare tutte le forme di produzione culturale afroamericane che non si conformano col movimento, poiché l’arte doveva servire ai neri e alla lotta alla liberazione […]. L’incoraggiamento di un’estetica che non separasse gli stili di vita dalla produzione artistica era importante per i pensatori neri che si occupavano di strategie di decolonizzazione […]. Per il pubblico di massa [infatti], realismo e naturalismo sono più accessibili»[xix]
Estraneità e opposizione fondano l’emersione di un’arte per la resistenza nera negli Stati Uniti degli anni Sessanta e Settanta. Il Black Arts Movement fa da principale riferimento teorico ed estetico del nuovo canone artistico, che per essere veicolo delle istanze della lotta di liberazione si gioca nel segno di una totale opposizione alla tradizione bianca occidentale, la quale, nello stesso periodo, virava su posizioni astratte e concettuali. A scapito della libertà creativa, per bell hooks, l’estetica nera degli anni Sessanta si barrica su posizioni prescrittive. Solo il realismo, la concretezza delle forme e del contenuto avrebbe potuto parlare alle masse, costruire coscienza politica rivoluzionaria. Opposizione quindi, e poi volontà di rimanere estranei e inappetibili per l’uditorio bianco. Ma, continua l’autrice, «una visione estetica ristretta e restrittiva tende a marginalizzare qualsiasi prodotto artistico innovativo» mentre il razzismo, che l’arte nera vuole combattere, dovrebbe essere «un problema dei bianchi almeno quanto lo è dei neri». Abbandonare quindi la camicia stretta del nazionalismo in modo che la produzione culturale nera abbia un «significato autentico anche per un pubblico di bianchi»[xx] .
L’estetica realista dell’arte nera all’attenzione del pubblico bianco in realtà ci è poi entrata a pieno titolo e cavalca ora i mercati occidentali. Amoako Boafo, Kara Walker, Ibrahim Mahama, solo per citarne alcunə, parlano delle condizioni materiali ed esistenziali delle comunità nere da cui provengono senza troppa retorica, e trovano ampio posto nelle gallerie, nelle grandi fiere, nelle biennali, e in non pochi salotti di collezionistə bianchə. È possibile costruire una risposta a questa apparente contraddizione partendo dalle parole di Kilomba, riportando la prospettiva su chi, dal centro, avrebbe ricevuto i messaggi dai margini.
Frida Orupabo, Baby in belly, 2020.
Se infatti l’(auto)rappresentazione è il mezzo, l’ascolto rappresenta il fine ineludibile, essendo l’ascoltatore in ultima istanza a decretare la legittimità e il valore di ogni narrazione. All’ascolto c’era infatti lo sguardo coloniale che, nel suo sodalizio col capitale, si posa più volentieri su tutto quello che si mostra per ciò che è: la chiarezza formale gli offre disponibilità interpretativa e consumo visivo illimitato, confinato su una dimensione superficiale, retinica, tutto volto a un afferramento dell’oggetto di tipo predatorio[xxi]. Il realismo visivo risponde pienamente, anzi facilita, la necessità classificatoria dello sguardo coloniale, che di fronte al prodotto figurativo esplicito può immediatamente indicarne la provenienza culturale e quindi l’appartenenza a un sistema di valori, riconducendo ogni cosa al posto (subalterno) che gli compete. Così l’opera dell’artista nerə non è solo un’opera ma è simbolo della nerezza intera.
Qualcosa di molto simile è spiegato da Kilomba attraverso l’esperienza di Kathleen, la seconda donna intervistata: in una classe di studentə tedeschə, ovvero «inclusa in uno spazio di esclusione» Kathleen è soprattutto una rappresentante di tuttə lə esclusə; in un processo di totale identificazione ed essenzializzazione, Kathleen è la razza stessa. Che poi l’identificazione venga fatta nel segno dell’amore per l’esotico anziché in quello dell’odio, indica solo che il linguaggio coloniale ha mutato i suoi sintagmi ma non il suo paradigma. Il centro culturale in cui lə artistə Nerə si inseriscono, funziona dunque secondo le logiche di quello che Olu Oguibe definisce un ‘gioco della differenza’[xxii] in cui è chiesto loro di parlare incessantemente della propria alterità, non assomigliare a nessunə o assomigliare a Frida Kahlo.
«Razza e voyeurismo» continua Kilomba, il pubblico vuole «sentire una storia veramente esotica, in cui le [sue] fantasie coloniali sull’altrə che arriva da lontano tornano a vivere»[xxiii]. Lə soggettə Nerə insomma, ispezionatə dall’esterno come un feticcio, può esistere solo attraverso un’immagine alienata di sé stessə [xxiv]. Seppur Kilomba parla in riferimento a esperienze di razzismo esperite a livello intimo e quotidiano nella vita delə soggettə Nerə, il paragone col razzismo operato nei confronti dei prodotti culturali Neri quando veicolati da un’estetica realista o naturalista, è stringente. In entrambi i casi infatti lo sguardo coloniale si scaglia sulla superficie, sulla forma visibile, sull’evidenza della diversità della pelle e dei capelli, sulle stoffe, sulle capanne sullo sfondo.
Araya Rasdjarmrearnsook, Two Planets: Millet’s The Gleaners and the Thai Farmers, 2008, single-channel video, 14min 43sec. Courtesy of the artist and Tyler Rollins Fine Art, New York.
Ma se il mercato bianco ha accolto ben volentieri le forme più riconoscibili dell’arte nera militante, che fine ha fatto il messaggio rivoluzionario che quella si portava dietro?
Torniamo allora all’iniziale considerazione secondo cui il centro non è solo bianco e patriarcale ma è anche capitalista. La possibilità rivoluzionaria, capace di intervenire nella storia, è una particolare condizione permessa, secondo Hannah Arendt, da un’apparizione imprevista di un soggetto che irrompe nella sfera pubblica, unico luogo dove questo manifestarsi ricade nell’intreccio già esistente delle storie e delle narrazioni altrui, con esiti, ancora una volta, imprevisti.
Questa apparizione, come una seconda nascita, avviene ogni qual volta l’uomo* prende l’iniziativa di parlare e agire senza alcuna utilità né finalità, ma solo in quanto atto di soggettivazione, l’affermazione di un esserci, un rivelarsi al mondo. È questa caratteristica che distingue la praxis dalla poiesis, il non produrre fini né opere particolari. Opere o fini sono infatti i prodotti che derivano da attività legate alle necessità, a condizioni di non-libertà attinenti al lavoro.
Per Arendt, azione e discorso sono dunque possibili solo nella sfera pubblica-politica, laddove l’uomo accede agendo e parlando, svincolato una volta per tutte dalle necessità, attività prepolitiche, svolte per mezzo della violenza o del lavoro. Ma poi, prosegue Arendt, il capitalismo ha reso la sfera pubblica una sfera privata allargata, emancipando le attività economiche dalla loro naturale collocazione nella sfera privata (l’oikia, la casa, da cui il termine economia discende) e ponendole al centro del tempo libero e dei rapporti umani. La moderna emancipazione del lavoro ha così elevato l’attività lavorativa a rapporto sociale, facendo degli uomini degli eguali solo in quanto consumatori [xxv]. Esemplare in tal senso che nella storia della diaspora nera, la casa e la dimensione domestica, i luoghi della privatezza per antonomasia, abbiano rappresentato «un sito cruciale per organizzare, formare la solidarietà politica»[xxvi] mentre l’uscita da quella e l’incursione nel centro significava entrare nell’ordine della schiavitù.
La profezia di bell hooks si è così avverata in una forma ironicamente peggiore: l’estetica realista dell’arte nera non è stata affatto marginalizzata dall’attenzione del pubblico bianco, ma piuttosto innalzata e adorata, fintanto che è stato possibile trasformarla in merce esotica e venderla, trascinandosi appresso anche il suo messaggio rivoluzionario. Se l’azione politica non è possibile nel centro, dove vigono i rapporti economici, bisognerà forse tornare a riconsiderare «il margine come un sito di resistenza e possibilità, di apertura radicale e di creatività»[xxvii].
Mickalene Thomas, Why Can’t We Just Sit Down And Talk It Over, screenprint, 2006.
“Nel 1992, poco prima del mio ultimo anno di liceo, mia madre si è suicidata. (…) In realtà non aveva problemi ad avere amiche bianche o altro, non era una separatista, ma aveva bisogno che la società in cui si trovava la rispecchiasse e semplicemente non lo faceva.”[xxix]
Seguendo la traccia del racconto che Kathleen fa della madre, Kilomba affronta il tema del suicidio delle donne nere. Da una parte, il gesto viene definito come un “omicidio bianco”, ricondotto all’isolamento sociale e professionale che interessa la doppia oppressione – razziale e di genere – delle donne nere. Quello che l’Io nega nel suicidio con una violenza senza precedenti è il corpo, il luogo dell’alterità e del razzismo strutturale e istituzionale, in una parola, quotidiano. Isolamento e stigma corporale, però, non possono spiegare tutte le declinazioni del fenomeno, che appare come vero e proprio pattern storico.
Data la connessione tra razzismo e morte, il suicidio diventa “la visualizzazione, la performance della condizione dellə soggettə Nerə in una società bianca”, dove “l’invisibilità viene portata in scena”[xxx]. In quest’ottica, il gesto appare come estrema e ultima possibilità di autoaffermazione della soggettività nera, da annoverare tra le strategie individuate da Kilomba per “divenire soggetto”[xxxi]. In bell hooks, il soggetto è la voce nera che non ha bisogno di essere definita in termini di alterità, di opposizione rispetto all’altro bianco. Se fino ad ora, per dirla con Fanon, ciò che viene chiamata “anima Nera” è stata una costruzione del bianco, bell hooks propone un’auto costruzione della propria realtà, identità, storia, attraverso la pratica artistica e letteraria [xxxii].
Aggiunge Kilomba che l’intero fenomeno del razzismo è stato teorizzato sempre con un focus sullə l’oppressorə, sullə razzistə e non sullə razzializzatə. Con Paul Mecheril l’autrice propone uno spostamento verso la prospettiva dellə “soggettə che prende parola” e che si definisce su tre livelli: politico, sociale e individuale. Il razzismo di genere viola sistematicamente ognuna di queste sfere, nella vita della madre di Kathleen come in quella di molte altre donne nere. Da qui, l’atto di ripresa estremo delle tre dimensioni, tramite l’annullamento del Sé.
Ana Mendieta, Untitled (Self-Portrait with Blood), 1973 © The estate of Ana Mendieta. Courtesy Galerie Lelong, New York.
La riflessione sul suicidio dimostra la sua trasversalità manifestandosi chiaramente nelle pratiche di artiste vicine alle istanze femministe postcoloniali. In Self-portrait with blood (1973), un lavoro fotografico della cubana Ana Mendieta, l’artista si ritrae col volto intriso di sangue che diviene simbolo del rinnovamento e della riappropriazione della propria soggettività dopo la morte, come in una resurrezione cristiana. Da qui, Fisher individua nell’autrice un culto della morte, che è anche un culto del ritrovamento della vita[xxxiii].
C’è uno specifico oggetto-concetto nella storia della diaspora che svela l’intersecazione di cause sociali, storiche e individuali dietro i suicidi sistematici delle donne nere: la maschera di Escrava Anastacia. Santa del popolo e ispirazione politica, la forse-principessa rappresenta tutt’ora nel mondo africano e afro diasporico la più eroica delle resistenze, quella che interessa la presa di parola. È obbligata a indossare un pesante collare di ferro, una maschera che le impedisce di parlare. Silenziamento, quindi, legato a una negazione ancora più estrema: per i proprietari delle piantagioni infatti la maschera traforata serviva anche a impedire il suicidio dei neri schiavizzati tramite l’ingestione di sporcizia. Il suicidio domestico delle donne nere emerge in questo senso come una sorta di re-enactment dell’esperienza coloniale, una riproprosizione della relazione dicotomica schiava-padrona. È il trauma storico a legare le due forme di suicidio: “improvvisamente il colonialismo diviene un’esperienza reale” e “si vive il presente come se ci si trovasse nel passato”[xxxiv]. L’oppressione razziale diventa soprattutto un processo di continuità discorsiva e scenica.
Escrava Anastácia, disegno di Jacques Arago, 1817-1818.
Il silenziamento della subalterna ai danni di Escrava Anastacia è lo stesso che Kilomba racconta di aver subito in prima persona, all’interno dell’Università. In quanto studiosa nera, in un ambiente accademico prevalentemente bianco, è costretta a operare in un ordine neocoloniale. Da un lato, deve “performare la razza”. Inclusa in uno spazio di esclusione, la studentessa nera deve incarnare una fantasia di perfezionismo verso il pubblico bianco, “una fantasia che non fa altro che alimentare l’idea di servitù”[xxxvi]. Per Kathleen, il fatto di essere l’unica studentessa nera della classe significava avere la responsabilità di rappresentare la nerezza, dover dimostrare che lei, e “tutte le altre come lei”, erano altrettanto intelligenti, se non addirittura più intelligenti, delle studentesse bianche. “Bisogna” infatti “essere almeno tre volte meglio di qualsiasi persona bianca per esserne pari” racconta.
D’altra parte, anche quando il mito della perfezione si realizza, il discorso nero viene squalificato. Interessante ma non scientifico, troppo soggettivo, personale, emotivo: così una collega bianca commenta la produzione accademica di Kilomba nel secondo Capitolo del libro. “Tu si che sovrainterpreti”. La donna la avverte: il suo punto di vista è una distorsione della realtà. La scena ricorda il video Free, White and 21 (1980), dove Howardena Pindell recita due ruoli nella triangolazione [xxxvii] che caratterizza gli episodi di razzismo quotidiano: da un lato la donna nera, l’artista che racconta la sistematicità del razzismo, dall’altra la femminista bianca che porta la vittima a dubitare dei suoi stessi ricordi, operando gaslighting, per delegittimarli. La maschera di Escrava Anastacia si ripropone in diversi termini storici ed esce dal suo stato di invisibilità, per riportare a galla il trauma, la memoria della piantagione.
Howardena Pindell, Free, White and 21, Video still, 1980. Courtesy of the artist and Garth Greenan Gallery, New York.
Howardena Pindell, Free, White and 21, Video still, 1980. Courtesy of the artist and Garth Greenan Gallery, New York
Come decolonizzare quindi il mito della neutralità del sapere accademico?
Il merito del testo di Kilomba è proprio quello di rompere definitivamente con l’illusione di un’unica Verità fabbricata dallə studiosə bianchə e supportata solamente dal fatto che il loro discorso, essendo dominante, diventa facilmente paradigma, punto nevralgico per tutte le altre narrazioni. Contrariamente al sapere tradizionale, gli studi postcoloniali, come quelli queer e femministi hanno messo in campo l’idea di prospettiva situata [xxxviii]: il nominare il luogo e il tempo da cui si scrive, il fare del personale il politico. Per dirla con Lorde, “la prospettiva situata è consapevolmente parziale, ma in quanto tale mette in discussione il modello universalista del punto di vista neutro, dietro al quale i soggetti dominanti mascherano di verità assoluta la propria visione del mondo”[xxxix].
Studiare un fenomeno non da un punto di vista di soggetta distaccata ma di soggettività consapevole è stata una traccia operativa per Frantz Fanon, tanto quanto per bell hooks e altrə studiosə postcolonialə. Tra questi Paul Mecheril, da cui Kilomba riprende il metodo dello study-up per le interviste. In sostanza, si tratta di fare ricerca alla pari, relazionandosi con persone della stessa condizione, classe sociale ed età, con cui si possano condividere delle esperienze, qualcosa che è stato fortemente incoraggiato da gruppi di autocoscienza come l’embrionale Rivolta Femminile di Lonzi, Accardi e Banotti.
In bell hooks l’idea di sapere situato emerge come critica all’essenzialismo del postmoderno, che propone una rinuncia ai confini di razza, genere, classe e altro, che, seppur teoricamente rilevante, non rispecchia per l’autrice le attuali condizioni storiche. Per studiosə nerə abbandonare la differenza significherebbe abbandonare la propria identità, la propria voce di soggetto, appena o non ancora acquistata. Le critiche del postmodernismo al concetto di “soggetto” emergono, infatti, proprio nel momento storico in cui molti gruppi oppressi e silenziati sentono per la prima volta di avere una voce. In altre parole, “è facile rinunciare all’identità quando se ne ha una”[xxxx].
L’autrice statunitense propone, quindi, “una rottura critica con la nozione di “autorità” come “padronanza di” che si rifletta negli stili di scrittura e nella scelta dei contenuti: per esempio, la scelta di firmarsi privandosi delle lettere maiuscole, oppure la mancanza di un apparato bibliografico.
Grada Kilomba, The Desire Project, 2015-2016, still da video. Courtesy l’artista e São Paulo Bienal.
La prima volta che Kilomba visita la biblioteca universitaria della Freie di Berlino, l’impiegata la ammonisce dicendo che è “solo per studenti”. In The Desire Project, una trilogia di video presentata nel 2016 alla Biennale di San Paolo, Kilomba scrive su monitor “I am seen as a body that cannot produce knowledge”: è vista come un corpo che non può produrre conoscenza.
Mary Douglas sottolinea a questo proposito la riluttanza ad avere persone nere negli spazi bianchi [xxxxi]: la segregazione universitaria rievoca quella abitativa dei “ghetti”. Appena dal margine raggiungono il centro, soprattutto se in ruoli e in posizioni a cui non era previsto che accedessero (per esempio quello di accademicə) lə segregatə diventano sporchə e contagiosə. Anche per bell hooks il centro era il luogo dove difficilmente si poteva entrare, dove arrivare per lavorare ma non per vivere, a condizione di permanere il meno possibile.
Ma se dove c’è oppressione, c’è sempre resistenza, il margine può diventare una fucina dove forgiare un nuovo tipo di produzione di sapere: “In questo spazio critico possiamo immaginare domande che non avrebbero potuto essere immaginate prima, possiamo porre domande mai poste”[xxxxii]. In sostanza, spesso è proprio dalle feritoie della maschera che si può parlare con una potenza senza precedenti.
Grada Kilomba, O barco/La barca, Installazione alla Boca Biennal, 2021, Lisbona. Foto: Bruno Simao.
Il testo è stato scritto in occasione di Imparare a trasgredire. Omaggio a bell hooks, momento conclusivo del corso teorico di Allestimento II, tenuto da Elvira Vannini con gli artisti e curatori del 2^ anno del Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali di Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e incentrato sul ruolo delle esposizioni nelle politiche di rappresentazione transculturale attraverso narrative femministe e postcoloniali.
note
[i]Il “razzismo di genere” fa riferimento all’impatto simultaneo l’oppressione razziale e di genere hanno sulle esperienze delle donne nere.
[ii] Victoria Santa Cruz, Me Gritaron Negra. They shouted black at me, 1978, video.
[iii] Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, 1952. “Già gli sguardi bianchi, i soli veri, mi dissezionano.” pp. 114-115.
[iv] W.E.B. Du Bois, The Souls of Black Folk, 1903.
[v] Sandro Mezzadra, Questione di sguardi. Du Bois e Fanon, 2013. Nel saggio, Mezzadra mette in scena un dialogo tra W.E.B. Du Bois e Frantz Fanon e rilegge le loro teorie attraverso John Berger, da cui riprende il titolo (John Berger, Questione di sguardi, 1972).
[vi] Grada Kilomba, Memorie dalla Piantagione, 2021, p. 191.
[vii] John Berger, Questione di sguardi, 1972.
[viii] bell hooks, Elogio del Margine, 1998, p. 26.
[ix] Grada Kilomba, Memorie della Piantagione, 2021, p. 189.
[x] ibidem
[xi] ivi, p. 34.
[xii] bell hooks, Elogio del Margine, 1998, p. 82.
[xiii] ibidem
[xiv] ivi, p. 83.
[xv] ivi, p. 90.
[xvi] ibidem
[xvii] Victoria Santa Cruz, Me Gritaron Negra. They shouted black at me, 1978, (video).
[xviii] G. Kilomba, Memorie della Piantagione, 2021, p. 47.
[xix] bell hooks, Elogio del margine, 1998, pp. 53-58.
[xx] ibidem, pp. 57-58.
[xxi] Sulla nozione di ‘sguardo coloniale’ o ‘predatorio’ cfr. U. Fracassa, il testo visibile, Giulio Perrone Editore, 2021.
[xxii] Cfr. O. Oguibe, The culture game, University of Minnesota Press, 2003.
[xxiii] G. Kilomba, Memorie della piantagione, 2021, p. 110.
[xxiv] Sul processo di spersonalizzazione, cfr. F. Fanon, (1964) trad. it. Scritti politici. Per la rivoluzione africana, Volume I, Roma, DeriveApprodi, 2006, p. 63.
[xxv] H. Arendt, Vita Activa, (1958), Bompiani, 2019.
[xxvi] bell hooks, Elogio del margine, 1998, p. 33.
[xxvii] G. Kilomba, Memorie della piantagione, 2021, p. 63.
[xxviii] libera traduzione da A. Lorde, A Litany For Survival in “The Collected Poems of Audre Lorde”, 1978, di cui si riporta il testo originale: “So it is better to speak remembering we were never meant to survive”.
[xxix] G. Kilomba, Memorie della Piantagione, 2021, p. 184.
[xxx] ivi, p. 185
[xxxi] ivi, p. 68.
[xxxii] bell hooks, Elogio del margine, 1998, p. 152.
[xxxiii] P. Fisher, Ana Mendieta: Body Tracks, exhibition catalogue, Kunstmuseum Luzern 2002, pag. 87
[xxxiv] G. Kilomba, Memorie della Piantagione, 2021 p.155.
[xxxv] C.L.R. James, The Black Jacobins: Toussaint l’Ouverture and the San Domingo Revolution, 1938, Secker & Warburg Ltd.
[xxxvi] G. Kilomba, Memorie della Piantagione, 2021, p. 228.
[xxxvii] Per triangolazione si intende una dinamica tipica degli episodi di razzismo quotidiano, dove c’è colui/lei che enuncia il razzismo, quellə che lo subisce, e un pubblico bianco che osserva passivo. “A causa della sua funzione repressiva, la costellazione triangolare delle persone Nere come sole e di quelle bianche come collettivo permette il compimento del razzismo quotidiano” (Kilomba, p. 130).
[xxxviii] Una posizione che in Italia troviamo negli scritti di Carla Lonzi. Anche Donna Haraway parla di sapere situati, sostenendo che tutti i discorsi provengono da un luogo e un tempo specifici, che vanno dichiarati.
[xxxix] A. Lorde 2014, pp. 120-121 citata in Marie Moïse, Il femminismo Nero, in Introduzione ai Femminismi, AA.VV., a cura di Anna Curcio, DeriveApprodi, Roma, 2019, p.33.
[xxxx] b. hooks, Elogio del Margine, 1998, pp. 19-20.
[xxxxi] cfr. P. Mecheril, Prekäre Verhältnisse: über natio-ethno-kulturelle (Mehrfach-)Zugehörigkeit, 2000, Bielefeld, Univ., Habil-Schr.
[xxxxii] G. Kilomba, Memorie della Piantagione, 2021, pp. 62-64.
note editoriali
i sostantivi con maschile sovraesteso vengono declinati con ‘ə’ secondo il sistema adottato da Kilomba;
*Uomo per includere sia le donne che gli uomini viene usato quando si riferisce all’uso di Arendt.
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