Le cicatrici del conflitto Jugoslavo non sono ancora rimarginate, specie in quella terra maledetta e magnetica che è la Bosnia-Erzegovina. Al contempo si assiste, da parte di una nuova generazione di artisti bosniaci, a una decostruzione dei tabù legati al conflitto, volta a indagare le contraddizioni culturali che hanno levigato la coscienza collettiva. La ricerca di Smirna Kulenović si muove proprio in questa direzione, avvalendosi di elementi naturali per il superamento dei traumi sociali e individuali e per la difesa della memoria.
Smirna Kulenović, Bosnian Girl 2; Performative action, 2017. Photograph by Simone Morciano. “Bosnian Girl 2” has been performatively placed over the facade of the Museum of History of Bosnia and Herzegovina, where it remained exhibited during February 2018.
Maledetta memoria
“La mente umana non è una matita per scrivere” recitava il poeta montenegrino Marko Vešović “ma una gomma per cancellare”. Può, allora, un semplice seme avere la forza di compiere un cortocircuito e rimettere in circolazione una memoria sopita?
La risposta a tale quesito non appare suscettibile a cambiamenti unicamente in relazione al contesto spaziale, ma anche in base al rapporto tra presente e passato, tra soggettività e fattualità storica. Nel volume La pace fredda [i], Luca Leone, aveva già dedicato attenzione alla questione della cosiddetta apartheid scolastica, evidenziando come il ricorso a fonti differenti e viziate da una forte soggettività, abbia contribuito alla creazione di una storiografia divergente all’interno dell’attuale Bosnia-Erzegovina. La fragilità della storia ufficiale adottata centralmente dalle diverse etnie, frutto di una pace imposta dall’alto [ii] e nata da esigenze internazionali, in alcuni casi si presenta come sinonimo di cancellazione e rimozione della memoria.
Allo stesso tempo, però, nelle retrovie della politica ufficiale, si muovono le nuove generazioni post-belliche che sembrano reclamare un proprio spazio di identificazione identitaria. I confini delimitati da Dayton, legittimando le violenze degli aggressori, non hanno tenuto particolarmente conto delle questioni culturali preesistenti, relegandole ad un ruolo ancillare rispetto alla necessità di porre fine al conflitto. Ed è dunque verso una pratica di riacquisizione del diritto alla memoria che si muovono vasti strati della società culturale bosniaca.
Smirna Kulenović, Bosnian Girl 2; Performative action, 2017. Photograph by Simone Morciano. “Bosnian Girl 2” has been performatively placed over the facade of the Museum of History of Bosnia and Herzegovina, where it remained exhibited during February 2018.
Nel rapporto con il luogo e con il paesaggio sembrano rispecchiarsi le necessità di connotare ideologicamente i territori, consacrandoli alla commemorazione collettiva. In questi termini, gli attuali progetti artistico-culturali che si sviluppano in maniera co-autoriale alle comunità circostanti, non si sovrappongono solamente al piano politico, ma diventano veri e propri laboratori storiografici concepiti per salvaguardare il diritto alla testimonianza. La concezione dell’artista-ricercatore, che al centro del proprio spazio d’interesse pone la memoria negata della precedente generazione, è indubbiamente il risultato delle riflessioni sui modelli d’indagine dei ricercatori sociali. Il rapporto sempre più stretto tra performer e fruitore appare orbitare con interesse intorno ad altre discipline. L’approccio orale alle fonti, ad esempio, potrebbe godere da questi contribuiti nuovi stimoli di ricerca e differenti prospettive d’osservazione, nei termini in cui il rapporto tra testimone e intervistatore (artistico in questo caso), è inteso come fonte orale [iii].
La mancata metabolizzazione del conflitto, la frustrante emigrazione che continua a privare della memoria i luoghi e i paesaggi d’indagine, nonché la soffocante stretta politica sulla storia ufficiale, sono tutti elementi che sembrano aver inciso sugli obiettivi ideologici perseguiti da una consistente corrente artistica dei Balcani occidentali. Così, come gli storici classici interrogano le fonti negli archivi, gli attori del sistema artistico locale interrogano i luoghi, gli spazi, di ruderi delle attività industriali e, infine, la memoria delle comunità.
Per Smirna Kulenović, artista bosniaca classe 1994, il trauma è un paesaggio. Come la terra, ha diversi livelli, strati più o meno profondi, e investe l’intero sistema ecologico (piante, animali, esseri umani). Naša Porodična Bašta / Our Family Garden / Il nostro giardino di famiglia (2021) si muove proprio in questa direzione, avvalendosi di elementi naturali per la cura della memoria.
Naša Porodična Bašta / Our Family Garden / Il nostro giardino di famiglia (2021)
Nell’area di Zlatiste, sulle colline di Sarajevo, una linea imprime il suo corso nel terreno. Genera un incavo in cui la sabbia si mescola con l’antrace, producendo un paesaggio-memoria immediatamente riconoscibile ai locali. Si tratta della linea di demarcazione tra la difesa territoriale della Bosnia-Erzegovina e le forze dell’Esercito della Republika Srpska, dove tra il 1992 e il 1996 il nonno di Smirna ha combattuto per tutelare il nume della multiculturalità. Ma questa cicatrice sul terreno è di vecchia data. Ricalca i resti delle trincee che durante i conflitti mondiali furono usate dagli eserciti. Il rimando temporale è obbligatorio: se per la Seconda guerra mondiale identificare il confine tra aggressore e aggredito è obbligatorio per la comprensione delle responsabilità belliche, questa linea sul terreno mostra, anche nel conflitto degli anni Novanta, che parlare di guerra civile risulta essere inesatto. La cecità dell’informazione internazionali che troppo semplicemente ha sposato la teoria delle colpe condivise [iv], ha trascurato che Sarajevo era assediata e il ricorso alle armi fu necessità imposta e non volontà autodeterminata. Zlatiste diventa così fondamentale per un discorso inerente alla geostoria dalla città.
Oggi questo luogo è frequentato dai locali che portano i bambini a giocare a pallone, o dai turisti che ammirano il panorama, ma si ha la percezione che dietro ai cestini da picnic si celi un trauma volontariamente congelato. “Da lassù c’è una delle viste più raggianti e allo stesso tempo malinconiche di Sarajevo – spiega Smirna – nessuno ha cercato di rianimare fino in fondo quei luoghi dopo la guerra, nonostante siano stati sminati. Così ho avuto il bisogno di recarmi con mia madre e mia nonna, per superare parte del trauma ancora latente e seminare speranza [v]”. La semina a cui si riferisce non è solo metaforica, ma anche letterale, dato che nel marzo 2021 l’artista ha interrato con le consanguinee alcuni semi di grano che la nonna aveva da tempo serbato. Naša Porodična Bašta / Our Family Garden / Il nostro giardino di famiglia pt. 1 è un monumento performativo in cui l’azione della sementa, liberatoria per la mente e il cuore delle donne, ha rappresentato e simboleggiato la bramata rinascita da quei fantasmi della memoria. Tale volontà di superamento del trauma, che è sia individuale sia collettivo, passa attraverso la cura del terreno e la rigenerazione della Natura.
Una volta realizzata questa azione, sì intima ma allo stesso tempo riflesso di una necessità collettiva, ho sentito l’urgenza politica di un’esorcizzazione femminile più massiva. Ho lanciato un’open call alle donne bosniache di tutte le età, invitandole a partecipare in una performance interattiva che prevede l’innesto — sempre nel terreno di Zlatiste — di 1.000 semi di calendula, una pianta dalle note proprietà curative. La vera e propria armata di donne che ha risposto al mio appello è stata consistente e intergenerazionale, superando di gran lunga le mie aspettative e confermando il mio sospetto che certe scosse della psiche non siano state realmente rimosse tramite la sola scongiura. Voglio, però, che sia chiaro: la mia intenzione non è quella di USARE dei corpi, ma di lottare insieme per la rinascita.
Grazie anche al supporto di Kuma International School e Grad Sarajevo / Città di Sarajevo, In Our Family Garden pt. 2 saranno un centinaio le donne che riporteranno in vita la linea difensiva di Zlatiste, vestite di rosso come il sangue che ha attraversato la città, ma anche il colore politico della resistenza e della ribellione alle ingiustizie.
Una scelta che non ricopre solamente una sfida alla concezione patriarcale della rappresentazione delle guerre, ma che dentro di sé porta una forte carica di storicità e che punta a far luce sul demonico coinvolgimento delle donne in quella guerra. Di norma, siamo abituati a identificare le donne negli scenari di guerra con un’immagine di una madre che piange o una ragazza violentata, in ogni caso, di vittima. Durante il conflitto nell’ex Jugoslavia le donne sono state costrette a subire una deplorevole trasfigurazione del proprio ruolo, passando da atemporali vittime di guerra a vere e proprie armi d’offesa nei confronti del nemico musulmano. Nel volume Violentate. Lo stupro etnico in Bosnia Erzegovina [vi], Ehlimana Pasic illustra sinteticamente come le figura femminile venisse “espropriata della [propria] soggettività, [per divenire] vero e proprio linguaggio tra uomini in guerra. I corpi delle donne, decine di migliaia, vengono usati come territori di occupazione per cancellare un’etnia. La prefigurazione atroce di un delitto che per la prima volta non riguarda solo i viventi, ma che, ‘superando’ in questo gli stessi nazisti, ipoteca anche le future generazioni che non potranno mai esimersi dal fare i conti con questa realtà”.
Il prossimo 9 maggio le donne di Our Family Garden lanceranno un nuovo messaggio, cercando di uscire dall’ombra mediatica internazionale. Questo luce di speranza e lotta illuminerà anche il terreno che, dopo 40 giorni dalla semina, sarà costellato da fiori arancio. La data scelta per l’azione coincide con la ricorrenza della cacciata del nazifascismo nei paesi dell’Ex Jugoslavia, per ricordare quel lontano 1945 in cui partigiani della 1ª Divisione proletaria entrarono a Zagabria accolti festosamente dalla popolazione.
Ho scelto la calendula perché è principalmente una pianta medicinale, che ha un effetto curativo sia per gli esseri umani — soprattutto riguardo a lesioni e bruciature della pelle — che per il terreno in cui cresce. I semi sono intelligenti veicoli di memoria, biologicamente sospinti alla rigenerazione. Dopo 40 giorni dalla semina, la speranza che vogliamo infondere io e il centinaio di altre donne che parteciperanno alla performance sarà anche incarnata dal cromatismo che investirà Zlatiste. Mi piacerebbe vedere i fiori arancioni di questa sementa politica colti e trasformati dalla popolazione locale in creme e altri prodotti benefici, dando il via a una riappropriazione consapevole di questi luoghi della memoria individuale e collettiva. Per me come artista e come attivista porre al centro la cura è un’etica, prima ancora di essere estetica.
Quando la riappropriazione del paesaggio passa attraverso una reinterpretazione non revisionistica della memoria, la condivisione consapevole di uno spazio porta con sé una ristoricizzazione del dato territorio. L’arte, come dispositivo relazionale, permette di risemantizzare collettivamente la memoria di un trauma, affidando alla partecipazione un ruolo catartico.
Anche nei lavori precedenti l’esorcizzazione della tragedia (il conflitto nei Balcani) è al centro della produzione artistica di Smirna, in particolare in Dobre Kote (2015) e Poor Blood (2019).
Dobre Kote, intervento nello spazio pubblico, Sarajevo, 2015-2018.
Dobre Kote, intervento nello spazio pubblico, Sarajevo, 2015-2018.
Dobre Kote, intervento nello spazio pubblico, Sarajevo, 2015-2018.
Dobre Kote (2015)
In lingua bosniaca (slang) “dobre kote” indica un “angolo losco”, spesso associato ad attività illegali come spaccio di droga e prostituzione. Uno spazio strategico per nascondersi, un buco nero del paesaggio urbano comunemente evitato da chi non sente sulla propria pelle e non vuole avere lo status di emarginato. Spesso, però, la discrepanza tra lo stereotipo cittadino tipicamente borghese e la percezione dai margini o dal basso di determinate aree urbane è notevole. Era il caso dei giardini di Marijin Dvor, che, dopo una prima conversione bellica in orti comuni — durante l’assedio era usanza cittadina coltivare ovunque fosse possibile, data la scarsità di beni alimentari e i tortuosi prezzi da mercato nero — sono stati abbandonati a un destino ambiguo. Con Dobre Kote, Smirna ha cercato di far rivivere una pratica agricola dovuta alle necessità dell’assedio attraverso un’occasione di riconciliazione sociale e con la natura. A partire dal 2015 l’artista bosniaca ha riattivato il quartiere nella pulizia dei giardini di Marijin Dvor, spronando i cittadini a piantare sia letteralmente che speranza. Sono stati realizzati murales, campi provvisori da gioco e orti urbani.
Dobre Kote, intervento nello spazio pubblico, Sarajevo, 2015-2018.
Dobre Kote, intervento nello spazio pubblico, Sarajevo, 2015-2018.
Piantare è importante, non solo perché ci dà l’opportunità di coltivare cibo biologico, ma perché crea un senso di connessione sociale che a tutti noi manca così tanto. Le piante sono un’ottima strategia per la riconciliazione, banalmente perché le persone concorderanno senza eccessive polemiche sul fatto che è bene piantare. I semi sono politici perché sanno come far ricominciare a frequentare i loro vicini e sentirsi uniti, indipendentemente dalla nazione o dalla religione. I cittadini di Marijin Dvor hanno accolto positivamente l’occasione, offrendo autonomamente idee e materiali e confermando un bisogno di riappropriazione dello spazio pubblico e della memoria che da molto sospettavo.
La progettazione dell’orto, in linea con i bisogni della comunità, è avvenuta in modo orizzontale. Lo scambio, il dialogo e la reciprocità tra l’artista e il quartiere sono stati gli strumenti più adatti per promuovere qualcosa di accettabile e accessibile collettivamente. Tuttora l’orto è un’associazione regolarmente registrata che si avvale continuamente del contributo cittadino.
Smirna Kulenović, Čista Krv / Pure Blood; Performance and Public Space Installation, 2019. Photo: Predrag Milašinović. Drone: Dalibor Danilović
Smirna Kulenović, Čista Krv / Pure Blood; Performance and Public Space Installation, 2019. Photo: Predrag Milašinović. Drone: Dalibor Danilović
Poor Blood (2019)
A Banja Luka, nella zona industriale di Incel, l’autorganizzazione politica del periodo titino è rimasta solo un fantasma. Oggi uno scenario fatiscente accoglie i lavoratori che hanno dovuto scendere a patti con il diavolo della privatizzazione. Inoltre, nel 2019, un gigantesco incendio ha distrutto gran parte di Incel, provocando la fuoriuscita di perilene tossico che ha messo in pericolo la salute degli attuali dipendenti, nonché di tutti i cittadini di Banja Luka. Il gas non è l’unica presenza tossica della zona, ma la memoria del conflitto trova i suoi maledetti alleati nei monumenti ai criminali di guerra che costellano tutta la Republika Srpska. Così, Smirna ha deciso di strisciare per 2 km nella strada davanti agli stabilimenti industriali, lasciando impregnare l’asfalto di una scia di acrilico rosso. Poor Blood è una colorazione dell’asfalto in nome delle morti di guerra, ma anche di quelle future e silenziose che sta preparando il capitalismo tossico. Addosso solo un body, in modo che le ferite degli altri si manifestassero direttamente sulla pelle dell’artista.
All’inizio usavo una spazzola per spargere il colore sulla strada, ma poi il corpo è diventato un pennello. Ad un certo punto il confine tra l’acrilico e i liquidi dei miei tagli sulla pelle si è fatto sottilissimo. Il trauma di almeno due generazioni è passato metaforicamente sul mio corpo.
Smirna Kulenović, Čista Krv / Pure Blood; Performance and Public Space Installation, 2019. Photo: Predrag Milašinović. Drone: Dalibor Danilović
Smirna Kulenović, Čista Krv / Pure Blood; Performance and Public Space Installation, 2019. Photo: Predrag Milašinović. Drone: Dalibor Danilović
Smirna Kulenović, Čista Krv / Pure Blood; Performance and Public Space Installation, 2019. Photo: Predrag Milašinović. Drone: Dalibor Danilović
L’arma dell’interdisciplinarità
Il nuovo lavoro di Smirna si unisce a quel filone di opere che tenta di mettere in ordine una discrasia memonica e storiografica che sembra imprescindibile per il superamento collettivo del conflitto. L’interdisciplinarità del modus operandi della giovane artista/attivista bosniaca rappresenta un ulteriore macigno posto per superare il paludoso lago del revisionismo storico. Un vortice che in qualche maniera coinvolge tutti ed esorta i fruitori esterni ad interrogarsi sulle responsabilità del proprio Stato. Se diamo per vero il presupposto marxista secondo cui la verità è sempre rivoluzionaria, allo stesso tempo siamo chiamati a rimanere attenti nell’identificare i canali di propagazione di questa “verità”. L’irruzione storica di una rappresentazione autodiretta e non più eterodiretta [vii] (in questo caso dalla retorica internazionale e perbenista) ha sempre raffigurato un momento di rottura importante, dai risvolti imprevedibili. Attraverso i canali della memoria soggettiva, dell’autorappresentazione che diventa rappresentazione nello sguardo del pubblico [viii], Smirna cerca di rimettere in discussione nel dibattito internazionale la storiografia inerente al conflitto in Bosnia-Erzegovina degli anni Novanta. La giovane sarajevese sfida apertamente la fluidità degli eserciti in lotta, rigetta la concezione di guerra civile e pone l’accento sulla diversificazione tra aggressori e aggrediti, tra vittime e carnefici. Le cause che portarono al nuovo utilizzo della trincea non sono indiscriminate, trascendentali o ataviche. Ma sono delineate, deliberate e, soprattutto, pianificate. L’intento di sviluppare un lavoro artistico che sfoci in risvolti storici, sociali e urbanistici, rappresenta una prospettiva nuova e potenzialmente esplosiva che potrebbe innescare nuovi cortocircuiti nella memoria collettiva dei gruppi sociali.
Smirna Kulenović, Čista Krv / Pure Blood; Performance and Public Space Installation, 2019. Photo: Predrag Milašinović. Drone: Dalibor Danilović
Smirna Kulenović, Čista Krv / Pure Blood; Performance and Public Space Installation, 2019. Photo: Predrag Milašinović. Drone: Dalibor Danilović
note:
[i] A. Cortesi, L. Leone, La Pace Fredda, Infinito Edizioni, Formigine (MO) 2020.
[iii] Si veda B. Bonomo, Voci della memoria. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica, Carocci editore, Roma 2013.
[iv] Si veda: P. Rumiz, Maschere per un massacro, Feltrinelli, Milano 1996; G. Riva, Z. Dizdarevic, L’Onu è morta a Sarajevo, Il Saggiatore, Milano 1996.
[vi]E. Pasic, Violentate. Lo stupro etnico in Bosnia Erzegovina, Armando Editore, Roma, p. 8.
[vii] A. Canovi, “C’è una storia, che però non esiste ancora”. Declinazioni epistemologiche tra Public History e Storia Orale, in P. Bertella Farnetti, L. Bertucelli, A. Botti (a cura di), Public History. Discussioni e pratiche, Mimesis, Milano-Udine, 2017.
di Arianna Cavigioli e Andrea Caira.
Le cicatrici del conflitto Jugoslavo non sono ancora rimarginate, specie in quella terra maledetta e magnetica che è la Bosnia-Erzegovina. Al contempo si assiste, da parte di una nuova generazione di artisti bosniaci, a una decostruzione dei tabù legati al conflitto, volta a indagare le contraddizioni culturali che hanno levigato la coscienza collettiva. La ricerca di Smirna Kulenović si muove proprio in questa direzione, avvalendosi di elementi naturali per il superamento dei traumi sociali e individuali e per la difesa della memoria.
Smirna Kulenović, Bosnian Girl 2; Performative action, 2017. Photograph by Simone Morciano. “Bosnian Girl 2” has been performatively placed over the facade of the Museum of History of Bosnia and Herzegovina, where it remained exhibited during February 2018.
Maledetta memoria
“La mente umana non è una matita per scrivere” recitava il poeta montenegrino Marko Vešović “ma una gomma per cancellare”. Può, allora, un semplice seme avere la forza di compiere un cortocircuito e rimettere in circolazione una memoria sopita?
La risposta a tale quesito non appare suscettibile a cambiamenti unicamente in relazione al contesto spaziale, ma anche in base al rapporto tra presente e passato, tra soggettività e fattualità storica. Nel volume La pace fredda [i], Luca Leone, aveva già dedicato attenzione alla questione della cosiddetta apartheid scolastica, evidenziando come il ricorso a fonti differenti e viziate da una forte soggettività, abbia contribuito alla creazione di una storiografia divergente all’interno dell’attuale Bosnia-Erzegovina. La fragilità della storia ufficiale adottata centralmente dalle diverse etnie, frutto di una pace imposta dall’alto [ii] e nata da esigenze internazionali, in alcuni casi si presenta come sinonimo di cancellazione e rimozione della memoria.
Allo stesso tempo, però, nelle retrovie della politica ufficiale, si muovono le nuove generazioni post-belliche che sembrano reclamare un proprio spazio di identificazione identitaria. I confini delimitati da Dayton, legittimando le violenze degli aggressori, non hanno tenuto particolarmente conto delle questioni culturali preesistenti, relegandole ad un ruolo ancillare rispetto alla necessità di porre fine al conflitto. Ed è dunque verso una pratica di riacquisizione del diritto alla memoria che si muovono vasti strati della società culturale bosniaca.
Smirna Kulenović, Bosnian Girl 2; Performative action, 2017. Photograph by Simone Morciano. “Bosnian Girl 2” has been performatively placed over the facade of the Museum of History of Bosnia and Herzegovina, where it remained exhibited during February 2018.
Nel rapporto con il luogo e con il paesaggio sembrano rispecchiarsi le necessità di connotare ideologicamente i territori, consacrandoli alla commemorazione collettiva. In questi termini, gli attuali progetti artistico-culturali che si sviluppano in maniera co-autoriale alle comunità circostanti, non si sovrappongono solamente al piano politico, ma diventano veri e propri laboratori storiografici concepiti per salvaguardare il diritto alla testimonianza. La concezione dell’artista-ricercatore, che al centro del proprio spazio d’interesse pone la memoria negata della precedente generazione, è indubbiamente il risultato delle riflessioni sui modelli d’indagine dei ricercatori sociali. Il rapporto sempre più stretto tra performer e fruitore appare orbitare con interesse intorno ad altre discipline. L’approccio orale alle fonti, ad esempio, potrebbe godere da questi contribuiti nuovi stimoli di ricerca e differenti prospettive d’osservazione, nei termini in cui il rapporto tra testimone e intervistatore (artistico in questo caso), è inteso come fonte orale [iii].
La mancata metabolizzazione del conflitto, la frustrante emigrazione che continua a privare della memoria i luoghi e i paesaggi d’indagine, nonché la soffocante stretta politica sulla storia ufficiale, sono tutti elementi che sembrano aver inciso sugli obiettivi ideologici perseguiti da una consistente corrente artistica dei Balcani occidentali. Così, come gli storici classici interrogano le fonti negli archivi, gli attori del sistema artistico locale interrogano i luoghi, gli spazi, di ruderi delle attività industriali e, infine, la memoria delle comunità.
Per Smirna Kulenović, artista bosniaca classe 1994, il trauma è un paesaggio. Come la terra, ha diversi livelli, strati più o meno profondi, e investe l’intero sistema ecologico (piante, animali, esseri umani). Naša Porodična Bašta / Our Family Garden / Il nostro giardino di famiglia (2021) si muove proprio in questa direzione, avvalendosi di elementi naturali per la cura della memoria.
Smirna Kulenović, Naša Porodična Bašta / Our Family Garden, performance, 2021.
Naša Porodična Bašta / Our Family Garden / Il nostro giardino di famiglia (2021)
Nell’area di Zlatiste, sulle colline di Sarajevo, una linea imprime il suo corso nel terreno. Genera un incavo in cui la sabbia si mescola con l’antrace, producendo un paesaggio-memoria immediatamente riconoscibile ai locali. Si tratta della linea di demarcazione tra la difesa territoriale della Bosnia-Erzegovina e le forze dell’Esercito della Republika Srpska, dove tra il 1992 e il 1996 il nonno di Smirna ha combattuto per tutelare il nume della multiculturalità. Ma questa cicatrice sul terreno è di vecchia data. Ricalca i resti delle trincee che durante i conflitti mondiali furono usate dagli eserciti. Il rimando temporale è obbligatorio: se per la Seconda guerra mondiale identificare il confine tra aggressore e aggredito è obbligatorio per la comprensione delle responsabilità belliche, questa linea sul terreno mostra, anche nel conflitto degli anni Novanta, che parlare di guerra civile risulta essere inesatto. La cecità dell’informazione internazionali che troppo semplicemente ha sposato la teoria delle colpe condivise [iv], ha trascurato che Sarajevo era assediata e il ricorso alle armi fu necessità imposta e non volontà autodeterminata. Zlatiste diventa così fondamentale per un discorso inerente alla geostoria dalla città.
Oggi questo luogo è frequentato dai locali che portano i bambini a giocare a pallone, o dai turisti che ammirano il panorama, ma si ha la percezione che dietro ai cestini da picnic si celi un trauma volontariamente congelato. “Da lassù c’è una delle viste più raggianti e allo stesso tempo malinconiche di Sarajevo – spiega Smirna – nessuno ha cercato di rianimare fino in fondo quei luoghi dopo la guerra, nonostante siano stati sminati. Così ho avuto il bisogno di recarmi con mia madre e mia nonna, per superare parte del trauma ancora latente e seminare speranza [v]”. La semina a cui si riferisce non è solo metaforica, ma anche letterale, dato che nel marzo 2021 l’artista ha interrato con le consanguinee alcuni semi di grano che la nonna aveva da tempo serbato. Naša Porodična Bašta / Our Family Garden / Il nostro giardino di famiglia pt. 1 è un monumento performativo in cui l’azione della sementa, liberatoria per la mente e il cuore delle donne, ha rappresentato e simboleggiato la bramata rinascita da quei fantasmi della memoria. Tale volontà di superamento del trauma, che è sia individuale sia collettivo, passa attraverso la cura del terreno e la rigenerazione della Natura.
Smirna Kulenović, Naša Porodična Bašta / Our Family Garden, performance, 2021.
Una volta realizzata questa azione, sì intima ma allo stesso tempo riflesso di una necessità collettiva, ho sentito l’urgenza politica di un’esorcizzazione femminile più massiva. Ho lanciato un’open call alle donne bosniache di tutte le età, invitandole a partecipare in una performance interattiva che prevede l’innesto — sempre nel terreno di Zlatiste — di 1.000 semi di calendula, una pianta dalle note proprietà curative. La vera e propria armata di donne che ha risposto al mio appello è stata consistente e intergenerazionale, superando di gran lunga le mie aspettative e confermando il mio sospetto che certe scosse della psiche non siano state realmente rimosse tramite la sola scongiura. Voglio, però, che sia chiaro: la mia intenzione non è quella di USARE dei corpi, ma di lottare insieme per la rinascita.
Grazie anche al supporto di Kuma International School e Grad Sarajevo / Città di Sarajevo, In Our Family Garden pt. 2 saranno un centinaio le donne che riporteranno in vita la linea difensiva di Zlatiste, vestite di rosso come il sangue che ha attraversato la città, ma anche il colore politico della resistenza e della ribellione alle ingiustizie.
Smirna Kulenović, Naša Porodična Bašta / Our Family Garden, performance, 2021.
Una scelta che non ricopre solamente una sfida alla concezione patriarcale della rappresentazione delle guerre, ma che dentro di sé porta una forte carica di storicità e che punta a far luce sul demonico coinvolgimento delle donne in quella guerra. Di norma, siamo abituati a identificare le donne negli scenari di guerra con un’immagine di una madre che piange o una ragazza violentata, in ogni caso, di vittima. Durante il conflitto nell’ex Jugoslavia le donne sono state costrette a subire una deplorevole trasfigurazione del proprio ruolo, passando da atemporali vittime di guerra a vere e proprie armi d’offesa nei confronti del nemico musulmano. Nel volume Violentate. Lo stupro etnico in Bosnia Erzegovina [vi], Ehlimana Pasic illustra sinteticamente come le figura femminile venisse “espropriata della [propria] soggettività, [per divenire] vero e proprio linguaggio tra uomini in guerra. I corpi delle donne, decine di migliaia, vengono usati come territori di occupazione per cancellare un’etnia. La prefigurazione atroce di un delitto che per la prima volta non riguarda solo i viventi, ma che, ‘superando’ in questo gli stessi nazisti, ipoteca anche le future generazioni che non potranno mai esimersi dal fare i conti con questa realtà”.
Il prossimo 9 maggio le donne di Our Family Garden lanceranno un nuovo messaggio, cercando di uscire dall’ombra mediatica internazionale. Questo luce di speranza e lotta illuminerà anche il terreno che, dopo 40 giorni dalla semina, sarà costellato da fiori arancio. La data scelta per l’azione coincide con la ricorrenza della cacciata del nazifascismo nei paesi dell’Ex Jugoslavia, per ricordare quel lontano 1945 in cui partigiani della 1ª Divisione proletaria entrarono a Zagabria accolti festosamente dalla popolazione.
Smirna Kulenović, Naša Porodična Bašta / Our Family Garden, performance, 2021.
Ho scelto la calendula perché è principalmente una pianta medicinale, che ha un effetto curativo sia per gli esseri umani — soprattutto riguardo a lesioni e bruciature della pelle — che per il terreno in cui cresce. I semi sono intelligenti veicoli di memoria, biologicamente sospinti alla rigenerazione. Dopo 40 giorni dalla semina, la speranza che vogliamo infondere io e il centinaio di altre donne che parteciperanno alla performance sarà anche incarnata dal cromatismo che investirà Zlatiste. Mi piacerebbe vedere i fiori arancioni di questa sementa politica colti e trasformati dalla popolazione locale in creme e altri prodotti benefici, dando il via a una riappropriazione consapevole di questi luoghi della memoria individuale e collettiva. Per me come artista e come attivista porre al centro la cura è un’etica, prima ancora di essere estetica.
Quando la riappropriazione del paesaggio passa attraverso una reinterpretazione non revisionistica della memoria, la condivisione consapevole di uno spazio porta con sé una ristoricizzazione del dato territorio. L’arte, come dispositivo relazionale, permette di risemantizzare collettivamente la memoria di un trauma, affidando alla partecipazione un ruolo catartico.
Anche nei lavori precedenti l’esorcizzazione della tragedia (il conflitto nei Balcani) è al centro della produzione artistica di Smirna, in particolare in Dobre Kote (2015) e Poor Blood (2019).
Dobre Kote, intervento nello spazio pubblico, Sarajevo, 2015-2018.
Dobre Kote, intervento nello spazio pubblico, Sarajevo, 2015-2018.
Dobre Kote, intervento nello spazio pubblico, Sarajevo, 2015-2018.
Dobre Kote (2015)
In lingua bosniaca (slang) “dobre kote” indica un “angolo losco”, spesso associato ad attività illegali come spaccio di droga e prostituzione. Uno spazio strategico per nascondersi, un buco nero del paesaggio urbano comunemente evitato da chi non sente sulla propria pelle e non vuole avere lo status di emarginato. Spesso, però, la discrepanza tra lo stereotipo cittadino tipicamente borghese e la percezione dai margini o dal basso di determinate aree urbane è notevole. Era il caso dei giardini di Marijin Dvor, che, dopo una prima conversione bellica in orti comuni — durante l’assedio era usanza cittadina coltivare ovunque fosse possibile, data la scarsità di beni alimentari e i tortuosi prezzi da mercato nero — sono stati abbandonati a un destino ambiguo. Con Dobre Kote, Smirna ha cercato di far rivivere una pratica agricola dovuta alle necessità dell’assedio attraverso un’occasione di riconciliazione sociale e con la natura. A partire dal 2015 l’artista bosniaca ha riattivato il quartiere nella pulizia dei giardini di Marijin Dvor, spronando i cittadini a piantare sia letteralmente che speranza. Sono stati realizzati murales, campi provvisori da gioco e orti urbani.
Dobre Kote, intervento nello spazio pubblico, Sarajevo, 2015-2018.
Dobre Kote, intervento nello spazio pubblico, Sarajevo, 2015-2018.
Piantare è importante, non solo perché ci dà l’opportunità di coltivare cibo biologico, ma perché crea un senso di connessione sociale che a tutti noi manca così tanto. Le piante sono un’ottima strategia per la riconciliazione, banalmente perché le persone concorderanno senza eccessive polemiche sul fatto che è bene piantare. I semi sono politici perché sanno come far ricominciare a frequentare i loro vicini e sentirsi uniti, indipendentemente dalla nazione o dalla religione. I cittadini di Marijin Dvor hanno accolto positivamente l’occasione, offrendo autonomamente idee e materiali e confermando un bisogno di riappropriazione dello spazio pubblico e della memoria che da molto sospettavo.
La progettazione dell’orto, in linea con i bisogni della comunità, è avvenuta in modo orizzontale. Lo scambio, il dialogo e la reciprocità tra l’artista e il quartiere sono stati gli strumenti più adatti per promuovere qualcosa di accettabile e accessibile collettivamente. Tuttora l’orto è un’associazione regolarmente registrata che si avvale continuamente del contributo cittadino.
Smirna Kulenović, Čista Krv / Pure Blood; Performance and Public Space Installation, 2019. Photo: Predrag Milašinović. Drone: Dalibor Danilović
Smirna Kulenović, Čista Krv / Pure Blood; Performance and Public Space Installation, 2019. Photo: Predrag Milašinović. Drone: Dalibor Danilović
Poor Blood (2019)
A Banja Luka, nella zona industriale di Incel, l’autorganizzazione politica del periodo titino è rimasta solo un fantasma. Oggi uno scenario fatiscente accoglie i lavoratori che hanno dovuto scendere a patti con il diavolo della privatizzazione. Inoltre, nel 2019, un gigantesco incendio ha distrutto gran parte di Incel, provocando la fuoriuscita di perilene tossico che ha messo in pericolo la salute degli attuali dipendenti, nonché di tutti i cittadini di Banja Luka. Il gas non è l’unica presenza tossica della zona, ma la memoria del conflitto trova i suoi maledetti alleati nei monumenti ai criminali di guerra che costellano tutta la Republika Srpska. Così, Smirna ha deciso di strisciare per 2 km nella strada davanti agli stabilimenti industriali, lasciando impregnare l’asfalto di una scia di acrilico rosso. Poor Blood è una colorazione dell’asfalto in nome delle morti di guerra, ma anche di quelle future e silenziose che sta preparando il capitalismo tossico. Addosso solo un body, in modo che le ferite degli altri si manifestassero direttamente sulla pelle dell’artista.
All’inizio usavo una spazzola per spargere il colore sulla strada, ma poi il corpo è diventato un pennello. Ad un certo punto il confine tra l’acrilico e i liquidi dei miei tagli sulla pelle si è fatto sottilissimo. Il trauma di almeno due generazioni è passato metaforicamente sul mio corpo.
Smirna Kulenović, Čista Krv / Pure Blood; Performance and Public Space Installation, 2019. Photo: Predrag Milašinović. Drone: Dalibor Danilović
Smirna Kulenović, Čista Krv / Pure Blood; Performance and Public Space Installation, 2019. Photo: Predrag Milašinović. Drone: Dalibor Danilović
Smirna Kulenović, Čista Krv / Pure Blood; Performance and Public Space Installation, 2019. Photo: Predrag Milašinović. Drone: Dalibor Danilović
L’arma dell’interdisciplinarità
Il nuovo lavoro di Smirna si unisce a quel filone di opere che tenta di mettere in ordine una discrasia memonica e storiografica che sembra imprescindibile per il superamento collettivo del conflitto. L’interdisciplinarità del modus operandi della giovane artista/attivista bosniaca rappresenta un ulteriore macigno posto per superare il paludoso lago del revisionismo storico. Un vortice che in qualche maniera coinvolge tutti ed esorta i fruitori esterni ad interrogarsi sulle responsabilità del proprio Stato. Se diamo per vero il presupposto marxista secondo cui la verità è sempre rivoluzionaria, allo stesso tempo siamo chiamati a rimanere attenti nell’identificare i canali di propagazione di questa “verità”. L’irruzione storica di una rappresentazione autodiretta e non più eterodiretta [vii] (in questo caso dalla retorica internazionale e perbenista) ha sempre raffigurato un momento di rottura importante, dai risvolti imprevedibili. Attraverso i canali della memoria soggettiva, dell’autorappresentazione che diventa rappresentazione nello sguardo del pubblico [viii], Smirna cerca di rimettere in discussione nel dibattito internazionale la storiografia inerente al conflitto in Bosnia-Erzegovina degli anni Novanta. La giovane sarajevese sfida apertamente la fluidità degli eserciti in lotta, rigetta la concezione di guerra civile e pone l’accento sulla diversificazione tra aggressori e aggrediti, tra vittime e carnefici. Le cause che portarono al nuovo utilizzo della trincea non sono indiscriminate, trascendentali o ataviche. Ma sono delineate, deliberate e, soprattutto, pianificate. L’intento di sviluppare un lavoro artistico che sfoci in risvolti storici, sociali e urbanistici, rappresenta una prospettiva nuova e potenzialmente esplosiva che potrebbe innescare nuovi cortocircuiti nella memoria collettiva dei gruppi sociali.
Smirna Kulenović, Čista Krv / Pure Blood; Performance and Public Space Installation, 2019. Photo: Predrag Milašinović. Drone: Dalibor Danilović
Smirna Kulenović, Čista Krv / Pure Blood; Performance and Public Space Installation, 2019. Photo: Predrag Milašinović. Drone: Dalibor Danilović
note:
[i] A. Cortesi, L. Leone, La Pace Fredda, Infinito Edizioni, Formigine (MO) 2020.
[ii] https://www.leftcom.org/it/articles/1995-12-01/la-crisi-economica-e-le-cause-della-disintegrazione-jugoslava (consultato il 19/03/2021)
[iii] Si veda B. Bonomo, Voci della memoria. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica, Carocci editore, Roma 2013.
[iv] Si veda: P. Rumiz, Maschere per un massacro, Feltrinelli, Milano 1996; G. Riva, Z. Dizdarevic, L’Onu è morta a Sarajevo, Il Saggiatore, Milano 1996.
[v] https://www.youtube.com/watch?v=cKWVH5ZiRG0&t=2455s (consultato il 15/09/2020)
[vi]E. Pasic, Violentate. Lo stupro etnico in Bosnia Erzegovina, Armando Editore, Roma, p. 8.
[vii] A. Canovi, “C’è una storia, che però non esiste ancora”. Declinazioni epistemologiche tra Public History e Storia Orale, in P. Bertella Farnetti, L. Bertucelli, A. Botti (a cura di), Public History. Discussioni e pratiche, Mimesis, Milano-Udine, 2017.
[viii]A. Canovi, Pensare nella territorialità, abitare nel paesaggio: introduzione alla Geostoria, http://archiviopiacentini.it/uncategorized/pensare-nella-territorialita-abitare-nel-paesaggio-introduzione-alla-geostoria/ (consultato il 19/08/2020)