«Una volta che una società ha trasformato i bisogni fondamentali in richieste di beni di consumo prodotti scientificamente, la povertà si definisce secondo parametri che i tecnocrati possono modificare a proprio arbitrio. Sono poveri quelli che non sono riusciti in misura rilevante a tener dietro qualche reclamizzato ideale consumistico. In Messico è povero chi non ha fatto tre anni di scuola, a New York chi non ne ha fatti almeno dodici. Socialmente i poveri non hanno mai avuto potere».
Ivan Illich, Deschooling Society, 1971.
«Noi mostreremo l’arte che tende ad essere sottorappresentata o esclusa dal mondo dell’arte ufficiale a causa della sua natura sessuale, politica, etnica, colloquiale, o non commerciabile. Le nostre mostre non avranno come protagonisti artisti in quanto personalità individuali. Invece, ogni esposizione avrà un diverso tema sociale, un contesto militante allo scopo di esplorare e illuminare, attraverso le opere d’arte, una serie di controversi problemi e questioni culturali. […]
Noi invitiamo tutti a mettere in discussione l’intera cultura che diamo per scontata»
Group Material, press release del primo storefront gallery, 2 ottobre 1980.
Tra i fondatori del collettivo Group Material, già negli anni Ottanta, sullo sfondo della scena attivista newyorkese, tra modelli organizzativi di auto-determinazione non gerarchica e formazioni antagoniste di artisti, Tim Rollins sperimenta nuovi formati di azione culturale, che nell’urgenza di dar voce e visibilità ai non rappresentati dal sistema, trasformano l’arte in una pratica pedagogica attiva all’interno dei processi di cambiamento sociale. Nel 1981 chiamato ad insegnare nella Public School 52 del South Bronx di New York, frequentata da adolescenti con gravi problemi di emarginazione, povertà e conseguente difficoltà di apprendimento, istituisce Kids of Survival (K.O.S.), trasformando la sua classe in un laboratorio artistico, con l’attivazione di un programma che metteva al centro le potenzialità creative dei giovani disagiati e di colore come integrazione agli schemi e ai sistemi comportamentali e sociali. Afferma Tim Rollins nel 1968: “Il grande problema della scuola tradizionale è che essa pone gli studenti in un costante stato di preparazione. […] Io parto da una premessa differente. Invece di educare costantemente i ragazzi a divenire artisti, perché non preoccuparsi di incoraggiarli ad essere artisti adesso?”
Molte le mostre organizzate insieme a Group Material, da Democracy alla DIA Art Foundation di New York (1989) sugli ideali e le condizioni del processo democratico indagati tramite l’educazione pubblica, a una serie di “exhibitions as inquires”, come le aveva recentemente definite l’artista stesso, costruite attraverso le strategie dell’attivismo culturale, intorno a stringenti questioni sociopolitiche, dalla democrazia alla crisi dell’AIDS, all’intervento militare in America Latina, che oggi costituiscono alcuni degli esperimenti più significativi e radicali nella pratica dell’exhibition making, tra i più efficaci dispositivi di discursive engagement e di impegno politico, contro le strutture oppressive del potere, per avvicinare l’arte al pubblico e alla comunità.
Tim Rollins and K.O.S.
Claudia Castaneda: In un’intervista con Willoghby Sharp, Joseph Beuys affermava : “Essere un insegnante è la mia più grande opera d’arte, il resto è il prodotto di uno scarto, una dimostrazione. Se vuoi esprimerti devi presentare qualcosa di tangibile. Ma dopo un pò questo assume solo la funzione di un documento storico. Gli oggetti non sono molto più importanti. Voglio arrivare all’origine della questione, al pensiero che c’è dietro”. In quanto educatore come ti relazioni con la dichiarazione di Beuys?
Tim Rollins: Sono daccordo non solo con Beuys, ma con il grande filosofo americano John Dewey che ha sostenuto come l’educazione sia un’opera d’arte totale. E io ho smesso di essere un insegnante molto tempo fa. Anni fa. E sono diventato un educatore. E la differenza è che un insegnante ti mostra delle cose, che sono risorse e ti indirizzano alla letteratura, ti guidano verso situazioni storiche che potrebbero informare e arricchire il tuo lavoro. Ma il termine educatore viene da una accezione latina che significa disegnare. Tracciare un segno. Disegnare come se stessimo attingendo acqua da una fonte. Così credo che il mio ruolo essenziale sia quello di lavorare con i giovani e, in particolare, discernere un dono che hanno già. No, io non sono un missionario. E non trasmetto dei saperi ma ho il potere di comprendere, sviluppare e promuovere i doni che hanno già, così mi sento adesso, qui, nella nostra discussione insieme. E quindi….era interessante per Beuys parlarne. Era – uhh – il 1990 quando mi è stato assegnato il Premio Joseph Beuys e ho avuto delle difficoltà durante la cerimonia a Basilea perché in realtà, come ho detto, ho imparato molto di più dai fallimenti di Beuys piuttosto che dai successi e dalle sue opere d’arte.
Il suo tentativo di porsi alla guida del Partito dei Verdi – come di cambiare la valuta in Germania – rientra in fantastici progetti utopici molto interessanti come idee sociali; ma io devo affrontare il fatto di avere una dozzina di giovani del South Bronx ogni giorno, che devono essere educati e le loro vite trasformate nel contesto di una specifica comunità. Siamo molto fortunati che alla fine di questo processo vengano fuori dei lavori artistici. Ma penso servirebbe un punto di vista più dialettico in quanto se non hai l’oggetto non hai nessun trofeo o nessun dono derivato dal processo, così non puoi provare cosa sia accaduto.
Uh, così tante volte lavoro con gli educatori e loro lavorano con i giovani e li senti dire: “Oh! I bambini hanno avuto un’esperienza meravigliosa. Un’esperienza meravigliosa!” E poi vedi quello che fanno ed è orribile, stereotipato e persino ai bambini non importa nulla… E quindi le opere che realizziamo tendono ad essere i meravigliosi trofei di un meraviglioso processo. Non penso che possano esistere l’uno senza l’altro. Ecco come mi relaziono a questa idea.
Giulia Polenta: E ora parliamo di un po’ di K.O.S. (Kids of Survival). Hai spiegato nel documentario che abbiamo visto ieri in classe il significato della sopravvivenza attraverso l’uso dell’educazione artistica – che è ciò che hai fatto all’inizio degli anni Ottanta fino ad oggi. Che cosa significa la sopravvivenza oggi per te, e pensi che l’educazione possa avere un nuovo significato nel contesto della sopravvivenza?
Tim Rollins: Uh. Wow. È interessante perché quando abbiamo iniziato il progetto nei primi anni Ottanta i bambini avevano tutti i loro nomi e noi dovevamo inventarci un nome per il gruppo. Avevo una banconota da venti dollari, così ho detto “Chiunque si avvicini al nome ottiene la banconota da venti dollari”. Allora sono tutti impazziti, sai, “Duh!”….E una serie tra i nomi più orribili sono venuti fuori…..intendo nomi quasi alla Disney, del tipo “Children for Hope” e tutti, ugh, [rumore da sforzo di vomito]. Poi Franklin si avvicinò e disse “K.O.S.”…..allora io risposi “Oooooooooo!” Questo mi piace, sai sembra come il “KGB” o “KKK” [ride] oppure come la “CIA”, ma alla fine….suonava alla grande. Non era infantile, vero? Sembrava molto serio. [ridacchia] Uh.
E così è diventato K.O.S. Kids of Survival ed è stato affascinante perché quando abbiamo introdotto il nome di “Tim Rollins e K.O.S.”, c’è stata una madre – adesso vi racconterò la vera storia – che disse: “Non so a te ma non mi piace questo nome Kids of Survival, mio figlio non sta sopravvivendo, sta bene, di cosa stai parlando?
Era una donna che aveva avuto l’aids, un’eroinomane. Aveva rubato denaro, non solo ai membri di K.O.S., ma dal nostro conto in banca. Dovevamo sopravvivere a lei piuttosto! Giusto? E così, la sopravvivenza, essenzialmente, è il più grande messaggio, penso, di tutta l’arte. Perché ti preoccupi anche di fare quello che fai. Perché tu, in questo momento, vuoi avere una conversazione con me? Se non avessimo realizzato questi oggetti, questi dipinti, non mi parleresti ora. E la nostra conversazione e la nostra relazione non esisterebbe nemmeno, figuriamoci sopravvivere. Quindi quello che credo è che l’arte sia un modo per avere una voce in un cosmo cieco e molto spesso ostile. È il nemico può essere invisibile.
Tim Rollins and K.O.S., Animal Farm – G7, 1989-92.
Giulia Mengozzi: Okay. Prossima domanda.
[difficoltà tecniche con la registrazione audio]
C’è un capitolo del testo From One Place To Another: Site-Specific Art and Locational Identity di Miwon Kwon in cui discute la differenza tra arte come intervento e arte come integrazione. L’autrice si riferisce al tuo lavoro con K.O.S. – citando Suzanne Lacy e descrivendo l’arte nel pubblico dominio, o come la definisce art in the public interest as a new genre of public art, in quanto nuovo genere di arte pubblica – proprio come un esempio di integrazione.
Tim Rollins: Yes.
Giulia Mengozzi: Questa definizione è fortemente connessa con la tua esperienza artistica e pedagogica con il contesto sociale del South Bronx. Cosa pensi di questa affermazione? Potrebbe essere possibile immaginare l’esperienza di K.O.S. al fuori del South Bronx?
Tim Rollins: Oh, si. Assolutamente. E lo dico sempre, uh, l’arte pubblica non è un’arte collocata al fuori così che il pubblico possa vederla. L’arte pubblica è fatta con le persone – e le persone specifiche – non quelle che hanno delle sovrastrutture o dei costrutti ideologici, ma una vera comunità di persone con volti, attitudini e storie; penso che sia per questo che il nostro progetto ha avuto tanto successo e siamo riusciti a sostenerlo per oltre trent’anni, perché si instaura una relazione. E quello che facciamo – è quasi come un pasto meraviglioso – quasi come un grande Thanksgiving dinner. C’è una vecchia canzone gospel che dice: “Ogni giorno è il giorno del ringraziamento” Ed è proprio così, se hai un giorno del Ringraziamento, uh, il quarto giovedì di novembre e la cena è in arrivo…..le persone si riuniscono.
Il cibo è meraviglioso, ma è solo una scusa per stare insieme. La nostra arte, credo, è anche meravigliosa, ma alla fine è solo una scusa, per noi, per stare insieme. Avere altre relazioni … Ad esempio, quando dipingiamo non creiamo dipinti, ma creiamo comunità, trasformiamo la comunità, facciamo rivisitazioni storiche, interveniamo in situazioni familiari e l’arte è la ragione principale della nostra esistenza. E poi sì, mi piace molto questa citazione.
Amo la pratica di chi, come Suzanne Lacy, sviluppa relazioni e usa l’arte come lo strumento o il veicolo per farlo. Come ho spesso ripetuto, il nostro il linguaggio principale è l’arte, o la pittura e abbiamo creato anche sculture, realizzato video, abbiamo filmato, ma il nostro medium principale resta ed è l’educazione. E ha funzionato.
Roberta Garieri: Hai selezionato un sistema di trame letterarie, tratte da grandi capolavori della letteratura da utilizzare con i tuoi studenti. Hai scelto consapevolmente queste opere secondo un ordine specifico, facendo riferimento alla crescita spirituale, sociale e politica dei membri di K.O.S. o lo sviluppo era casuale?
Tim Rollins:L’ordine è stato completamente casuale. [risate] E, beh, prima di tutto, i bambini non sanno leggere. E se hanno iniziato a leggere, lo fanno in modo divertente. Ricordo di essere cresciuto nella working class del Maine rurale e allo stesso modo, se avessi portato un sacco pieno di libri in classe, mi avrebbero picchiato ogni giorno. È come D. H. Lawrence. È come, wow, lo sai. Chi sei? Chi pensi di essere? E pensi di essere migliore di noi? E nella classe operaia e lavoratrice è molto dura. No, non c’è stata nessuna intuizione, i tra i primi libri che abbiamo letto insieme c’era Amerikadi Franz Kafka, che avevo scoperto attraverso una recensione su ArtForum di un film di Jean-Marie Straub e Daniéle Huillet intitolato History Lessons. Stavo leggendo la recensione e sono un grande fan dei due registi. E ho pensato a Karl il protagonista adolescente che dall’Est Europa viene in America in cerca di fama e fortuna, come nella fantasia degli immigrati.
E invece ottiene solo oppressione e sfruttamento ed è scoraggiato, quando sta per tornare a casa viene adottato da una comune utopica chiamata Nature Theatre of Oaklhoma, che ha fondamentalmente due regole. La prima, “Ognuno è benvenuto”. Tutti. Non importa come appari, come parli, come cammini, come mangi, come ami. Tutti sono benvenuti. E la seconda regola, “Ognuno è un artista”. Molto Beuysiana, giusto? E ho subito pensato, ecco questo è il nostro lavoro – questo è quello che facciamo. Questo è il nostro laboratorio. Quindi mi ricordo la corsa verso il bookstore St. Mark per trovare una copia di questo folle libro. E poi ho letto l’ultimo capitolo, ho saltato il resto. Così mi sono detto “questo siamo noi, c’è qualcosa qui, c’è qualcosa qui, c’è qualcosa qui”. E quella fu la creazione dei meravigliosi dipinti di Amerika, molto influenzati da Dizzy Gillespie, e dal jazz moderno e le pentecostal brass bands e, forse, il Dr. Seuss, sai? Quindi ha funzionato. Poi siamo passati alla Scarlett Letter, l’autobiografia di Malcom X, Moby Dick, e non lo sapevamo, Red Badge of Courage, Black Beauty di Anna Sewell, li conoscete? E poi boom boom. Ed era quasi come se avessimo delle perline meravigliose senza sapere quale fosse il filo fino a quando abbiamo avuto, intorno al 1990, la prima grande mostra antologica. E, quando abbiamo visto le opere raccolte tutte insieme, ci siamo guardati e sapevamo già di cosa si trattava. Il libro racconta di qualcuno, di un personaggio, che attraversa una straordinaria e sorprendente lotta. E di un viaggio, da cui esce vivo e sopravvive: questo era il collegamento con tutti i lavori che continuiamo a produrre fino ad oggi.
Charles Haughey ammira, nel 1988, la canina rappresentazione di se stesso in Animal Farm, di Tim Rollins and K.O.S.
Giulia Mengozzi: Okay. Torniamo a Kafka.
[risata]
Tim Rollins: Oh, okay. Continua!
[altra risata]
Giulia Mengozzi:Abbiamo trovato un documentario su K.O.S. – in 7 parti su YouTube – in cui parli del lavoro di Amerika, sottolineando il valore politico della bellezza nell’arte, mettendo in discussione la supremazia della bruttezza nella tradizione dell’arte politica, come Dix o Grosz. Te lo ricordi, no?
Tim Rollins: Mhhhm!
[risata]
Giulia Mengozzi:Potresti raccontarci qualcosa sul valore pedagogico della bellezza in riferimento al tuo lavoro?
Tim Rollins: Sì, è interessante perché, e conosco molti artisti che penso siano daccordo, tutto sembra andare bene. Ma abbiamo pochissimo spazio per l’adattamento nell’arte. Perché? Per essere onesti, nel nostro quotidiano, vediamo molte cose brutte. Lo trovo in qualche modo – e non sono moralista – un meccanismo molto perverso, soprattutto quando vedi gente ricca e benestante comprare ed esibire opere, o come sai, mucchi di finto vomito sui muri, sui pavimenti delle loro belle case. E quadri che sembrano grandi cagate. Sai di chi sto parlando, okay.
[risate e approvazione]
Ma, uh, ti racconterò una storia. E posso, perché era un mio amico, Mike Kelly, l’artista. Così ha fatto una grande esposizione alla Metro Pictures e c’erano tutti questi animali imbalsamati e afgani e poi quelle famose foto di una coppia che si pulivano il culo, con i giocattoli, con la merda. Hai presente?
[Ridacchiando]
E io dissi…Noi e i bambini facciamo scherzi come questi tutto il tempo. Eravamo cattivi e siamo dei cattivi ragazzi! E facciamo baldoria…potremmo fare anche questo. Allora un artista molto noto, di cui non svelerò il nome, mi disse “Tim, non potresti mai farla franca”, giusto? Ma questo ragazzo, Mike, è sfuggito(e l’ha franca) perché non è del tutto reale. E anche, in fondo, credo che solo la bellezza possa cambiare le cose. E tu sai che sono un figlio del movimento per i diritti civili?
Davvero. Crescendo, il mio grande eroe è stato il Reverendo Martin Luther King Jr. Quando è stato assassinato, la sua, è stata la prima esperienza di morte che abbia mai avuto nella mia vita. Le mie nonne vissero quasi 100 anni, nessuno era mai morto. E quella fu la prima volta che provai il dolore. E, cosa ricordiamo del movimento per i diritti civili? Ricordiamo le canzoni per la libertà.Soprattutto quando i bambini si sarebbero messi in marcia, avrebbero cantato quelle canzoni. Volevo essere come uno di quei bambini. E attraverso il mio retaggio della chiesa Battista, ho pensato, “Questo è ciò che dura davvero”. La bellezza delle canzoni è la vera eredità del movimento. E penso che la bellezza sia la forza più sovversiva, potente e rivoluzionaria sulla terra.
Solo la bellezza può cambiare le cose.
[rispettoso e intenso silenzio]
Voce: [sospiro emotivo] Va bene.
[silenzio rotto da una risatina]
Tim Rollins: Sto predicando in questo momento!
[altre risate]
Gaia Valentino: Hai profonde influenze culturali italiane, hai detto. Ma il tuo lavoro è anche all’interno di una realtà e di un’estetica americana. Come coesistono questi due aspetti?
Tim Rollins: Questo è eccellente. Sai perché amo gli italiani? Perché fanno le cose!
[risata]
Tu fai le cose, giusto? Non solo idee, ma le idee sono sempre inserite in una sorta di pratica pedagogica. Non solo produci il miglior cibo del mondo, io credo, ma fai anche la migliore pedagogia e il miglior design nel mondo, senza dubbio.
[risata]
E questo ovviamente viene da Gramsci e poi dai miei grandi eroi Pasolini e dalla grandiosa Maria Montessori. Si tratta di fare cose! Non solo seduto come un consumatore passivo. No. Riguarda la creazione di strutture e cose. È convivialità e comunità. E poi, passiamo al grande Bruno Munari, che è uno dei miei eroi. E, se vedessi le performances che ha fatto con i bambini, o i programmi TV, lui e la sua cravatta, facendo fiori con i vegetali è semplicemente incredibile. E quello che vedi, che vedi nei bambini, lo sai è vivo.
[risata]
E, naturalmente, Enzo Mari, che è una figura molto importante nella mia vita, concettualmente, politicamente, filosoficamente e in termini di ciò che ha fatto. Quei fantastici giochi per bambini. Quelle carte meravigliose. C’è solo un ragazzino e c’è un po’ di “little poopy “. Sai? [risate] E il ragazzino deve inventare lo scenario.Penso che lui abbia detto, la cosa più crudele che tu possa fare a un bambino è dargli un pezzo di carta bianco. Questo è – e mi dispiace, quello che ho fatto a te ieri. Ma tu sei sopravvissuta, penso.
[ridacchiando] E sì, è proprio questo il problema. Penso che la cultura italiana sia stata molto buona. Guardo il lavoro di Luigi Nono! E la musica. É stata la fusione del politico, con il pratico e con il bello. Come un panino meraviglioso.
[risata]
Boom.
Tim Rollins and K.O.S.
Barbara Meneghel: Negli anni Sessanta con i concettuali, l’idea dell’artista come singolo individuo creativo si è radicalmente trasformata perché l’attenzione si è spostata sul processo rispetto all’unicità. Nella tua condizione, potrebbe sorgere lo stesso problema perché lavori all’interno di un collettivo. Così credo sia la stessa questione, ma da un punto di vista rovesciato. Come coesiste l’autorialità di ogni singolo artista nell’identità del collettivo K.O.S.?
Tim Rollins: Questo è interessante, e spesso mi viene sottolineato. Dicono: “Perché Tim Rollins e K.O.S.”? È una questione di onestà. È stata una mia idea; è una mia responsabilità, da buon padre anche se non sono un paternalista. Dovevo essere io quello che prende i proiettili; proteggo i miei giovani, perché posso prenderli. Quindi non riguarda tanto l’autorialità ma un senso di proprietà che abbiamo. Anche K.O.S. è un gruppo in continua evoluzione – Angle Abreu ha iniziato quando aveva undici anni. Poi è andato in collegio a quindici anni. E poi è andato a Seattle. In seguito è tornato, e ora è un manager e giocatore importante nel gruppo. Dovevamo mantenere molto organico il gruppo. Ciò che è importante capire, è che questa non è la mia intera vita. È come due terzi della vita, ma non tutta la mia vita; ho il mio insegnamento, sono nel coro nella mia chiesa di Harlem. Tutti in K.O.S. hanno le loro pratiche individuali, questo è molto importante. Quindi non è un culto. Non è una comune.Siamo un’organizzazione flessibile che assorbe le persone a seconda di ciò che vogliono. Così possiamo andare nel Maine rurale e lavorare con ragazze di otto anni, un’intera squadra di ragazze. Bellissimo. E poi possiamo essere alla Spinola Banna e lavorare con studenti post-laurea. Oppure lavorare con bambini autistici in una scuola pubblica afro-americana ad Ovest di Philedephia e dipingere con le note della “Ode to Joy” di Beethoven. Bellissimo.E così siamo in grado di adattarci a ogni programma. Bisogna essere porosi. Occorre essere un fiume. Non un lago. Non siamo uno stagno. Non siamo oceanici. Ma siamo sicuri che siamo un fiume. E non puoi appoggiare il piede nello stesso fiume due volte. E sono cresciuto su un fiume, quindi … nei boschi, sì. [risate] Sulle colline. Quindi mi relaziono molto a questo. Good.
Elena Malara: Abbiamo un’ultima domanda. Vorremmo proporti nuovamente una questione che hai rivolto a Felix Gonzalez-Torres. Oggi ci sono due tradizioni ereditate dal 19° secolo. La tradizione realistica, in cui l’artista riflette su ciò che è accaduto nella società – la visione. E poi ci sono artisti, come Courbet, che trasgrediscono questa visione producendo commentari sociali, prevedendo qualcosa. A quale tradizione appartieni tu?
Tim Rollins: Yeah. Mi hai fatto piangere. [ridendo] Hai menzionato Felix qui. Quello che siamo….conosci il grande dipinto di Courbet, l’Allegoria dell’Atelier dell’artista? Siamo noi la realtà. Dove siamo? Il mondo dell’arte da una parte…osserva quello che stiamo facendo. E poi abbiamo la gente comune, giusto? E abbiamo cani e gatti e siamo nel mezzo tentando di unificare, e non assimilare, ma mettere in comunicazione le due comunità attraverso il potere dell’arte. Quindi no, noi non riflettiamo sul mondo. Il punto è cambiarlo, attraverso il lavoro che facciamo insieme. Lo stai facendo adesso. [risate] Sicuramente. Sono un testimone.
Tim Rollins al campus Naba, Nuova Accademia di Belle Arti, Milano 2011.
La conversazione con Tim Rollins è stata realizzata da Claudia Castaneda, Roberta Garieri, Elena Malara, Barbara Meneghel, Giulia Mengozzi, Giulia Polenta, Camilla Topuntoli e Gaia Valentino e registrata in Naba nel 2011 nel corso di un workshop tenuto dall’artista al Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali come Visiting Professor, in più occasioni con lecture e incontri pubblici.
Tim Rollins and K.O.S. aveva partecipato nel dicembre 2010 proprio con la sua esperienza del laboratorio permanente denominato “Art and Knowledge” e l’istituzione nel 1981 del gruppo di lavoro Kids of Survival, nel contesto espositivo e seminariale di Learning Machines. Art Educational and alternative production of knowledge, a cura di Marco Scotini, per il trentennale di Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, svulppato da una ricerca di Andris Brinkmanis e strutturato intorno al rapporto tra formazione artistica, modelli educativi e processi di conoscenza, dalle pratiche istituzionali a quelle alternative e anti-autoritarie di produzione del sapere.
*The Beloved Community è ripreso dal titolo della conferenza tenuta il 27 gennaio 2011, presso NABA, dove Tim Rollins ha raccontato la sua attività, dai progetti community-based, ai percorsi formativi non solo artistici, in cui lo studente non assume un ruolo codificato ma attivo nella costruzione del metodo di apprendimento, fino all’idea di arte come pratica socialmente impegnata in un contesto di egemonia dell’agenda neoliberale, perché, come ha scritto l’artista: “quando Martin Luther King parla della sua definizione trasformativa dell’Amore, la descrive come un tipo di Amore orientato ai mezzi non-violenti necessari per creare ‘The Beloved Community’. Allora come possiamo fare questo? L’arte per chi? Per quale comunità?”.
Tim Rollins con la classe del Biennio in Arti visive e studi curatoriali, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti, Milano, 2011.
Tim Rollins durante la conferenza The Beloved Community tenuta il 27 gennaio 2011, presso NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.
Tim Rollins durante la conferenza The Beloved Community tenuta il 27 gennaio 2011, presso NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.
Marco Scotini, Tim Rollins e Andris Brinkmanis, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti, 2011.
«Una volta che una società ha trasformato i bisogni fondamentali in richieste di beni di consumo prodotti scientificamente, la povertà si definisce secondo parametri che i tecnocrati possono modificare a proprio arbitrio. Sono poveri quelli che non sono riusciti in misura rilevante a tener dietro qualche reclamizzato ideale consumistico. In Messico è povero chi non ha fatto tre anni di scuola, a New York chi non ne ha fatti almeno dodici. Socialmente i poveri non hanno mai avuto potere».
Ivan Illich, Deschooling Society, 1971.
«Noi mostreremo l’arte che tende ad essere sottorappresentata o esclusa dal mondo dell’arte ufficiale a causa della sua natura sessuale, politica, etnica, colloquiale, o non commerciabile. Le nostre mostre non avranno come protagonisti artisti in quanto personalità individuali. Invece, ogni esposizione avrà un diverso tema sociale, un contesto militante allo scopo di esplorare e illuminare, attraverso le opere d’arte, una serie di controversi problemi e questioni culturali. […]
Noi invitiamo tutti a mettere in discussione l’intera cultura che diamo per scontata»
Group Material, press release del primo storefront gallery, 2 ottobre 1980.
Tra i fondatori del collettivo Group Material, già negli anni Ottanta, sullo sfondo della scena attivista newyorkese, tra modelli organizzativi di auto-determinazione non gerarchica e formazioni antagoniste di artisti, Tim Rollins sperimenta nuovi formati di azione culturale, che nell’urgenza di dar voce e visibilità ai non rappresentati dal sistema, trasformano l’arte in una pratica pedagogica attiva all’interno dei processi di cambiamento sociale. Nel 1981 chiamato ad insegnare nella Public School 52 del South Bronx di New York, frequentata da adolescenti con gravi problemi di emarginazione, povertà e conseguente difficoltà di apprendimento, istituisce Kids of Survival (K.O.S.), trasformando la sua classe in un laboratorio artistico, con l’attivazione di un programma che metteva al centro le potenzialità creative dei giovani disagiati e di colore come integrazione agli schemi e ai sistemi comportamentali e sociali. Afferma Tim Rollins nel 1968: “Il grande problema della scuola tradizionale è che essa pone gli studenti in un costante stato di preparazione. […] Io parto da una premessa differente. Invece di educare costantemente i ragazzi a divenire artisti, perché non preoccuparsi di incoraggiarli ad essere artisti adesso?”
Molte le mostre organizzate insieme a Group Material, da Democracy alla DIA Art Foundation di New York (1989) sugli ideali e le condizioni del processo democratico indagati tramite l’educazione pubblica, a una serie di “exhibitions as inquires”, come le aveva recentemente definite l’artista stesso, costruite attraverso le strategie dell’attivismo culturale, intorno a stringenti questioni sociopolitiche, dalla democrazia alla crisi dell’AIDS, all’intervento militare in America Latina, che oggi costituiscono alcuni degli esperimenti più significativi e radicali nella pratica dell’exhibition making, tra i più efficaci dispositivi di discursive engagement e di impegno politico, contro le strutture oppressive del potere, per avvicinare l’arte al pubblico e alla comunità.
Tim Rollins and K.O.S.
Claudia Castaneda: In un’intervista con Willoghby Sharp, Joseph Beuys affermava : “Essere un insegnante è la mia più grande opera d’arte, il resto è il prodotto di uno scarto, una dimostrazione. Se vuoi esprimerti devi presentare qualcosa di tangibile. Ma dopo un pò questo assume solo la funzione di un documento storico. Gli oggetti non sono molto più importanti. Voglio arrivare all’origine della questione, al pensiero che c’è dietro”. In quanto educatore come ti relazioni con la dichiarazione di Beuys?
Tim Rollins: Sono daccordo non solo con Beuys, ma con il grande filosofo americano John Dewey che ha sostenuto come l’educazione sia un’opera d’arte totale. E io ho smesso di essere un insegnante molto tempo fa. Anni fa. E sono diventato un educatore. E la differenza è che un insegnante ti mostra delle cose, che sono risorse e ti indirizzano alla letteratura, ti guidano verso situazioni storiche che potrebbero informare e arricchire il tuo lavoro. Ma il termine educatore viene da una accezione latina che significa disegnare. Tracciare un segno. Disegnare come se stessimo attingendo acqua da una fonte.
Così credo che il mio ruolo essenziale sia quello di lavorare con i giovani e, in particolare, discernere un dono che hanno già. No, io non sono un missionario. E non trasmetto dei saperi ma ho il potere di comprendere, sviluppare e promuovere i doni che hanno già, così mi sento adesso, qui, nella nostra discussione insieme. E quindi….era interessante per Beuys parlarne. Era – uhh – il 1990 quando mi è stato assegnato il Premio Joseph Beuys e ho avuto delle difficoltà durante la cerimonia a Basilea perché in realtà, come ho detto, ho imparato molto di più dai fallimenti di Beuys piuttosto che dai successi e dalle sue opere d’arte.
Il suo tentativo di porsi alla guida del Partito dei Verdi – come di cambiare la valuta in Germania – rientra in fantastici progetti utopici molto interessanti come idee sociali; ma io devo affrontare il fatto di avere una dozzina di giovani del South Bronx ogni giorno, che devono essere educati e le loro vite trasformate nel contesto di una specifica comunità. Siamo molto fortunati che alla fine di questo processo vengano fuori dei lavori artistici. Ma penso servirebbe un punto di vista più dialettico in quanto se non hai l’oggetto non hai nessun trofeo o nessun dono derivato dal processo, così non puoi provare cosa sia accaduto.
Uh, così tante volte lavoro con gli educatori e loro lavorano con i giovani e li senti dire: “Oh! I bambini hanno avuto un’esperienza meravigliosa. Un’esperienza meravigliosa!” E poi vedi quello che fanno ed è orribile, stereotipato e persino ai bambini non importa nulla… E quindi le opere che realizziamo tendono ad essere i meravigliosi trofei di un meraviglioso processo. Non penso che possano esistere l’uno senza l’altro. Ecco come mi relaziono a questa idea.
Giulia Polenta: E ora parliamo di un po’ di K.O.S. (Kids of Survival). Hai spiegato nel documentario che abbiamo visto ieri in classe il significato della sopravvivenza attraverso l’uso dell’educazione artistica – che è ciò che hai fatto all’inizio degli anni Ottanta fino ad oggi. Che cosa significa la sopravvivenza oggi per te, e pensi che l’educazione possa avere un nuovo significato nel contesto della sopravvivenza?
Tim Rollins: Uh. Wow. È interessante perché quando abbiamo iniziato il progetto nei primi anni Ottanta i bambini avevano tutti i loro nomi e noi dovevamo inventarci un nome per il gruppo. Avevo una banconota da venti dollari, così ho detto “Chiunque si avvicini al nome ottiene la banconota da venti dollari”. Allora sono tutti impazziti, sai, “Duh!”….E una serie tra i nomi più orribili sono venuti fuori…..intendo nomi quasi alla Disney, del tipo “Children for Hope” e tutti, ugh, [rumore da sforzo di vomito]. Poi Franklin si avvicinò e disse “K.O.S.”…..allora io risposi “Oooooooooo!” Questo mi piace, sai sembra come il “KGB” o “KKK” [ride] oppure come la “CIA”, ma alla fine….suonava alla grande. Non era infantile, vero? Sembrava molto serio. [ridacchia] Uh.
E così è diventato K.O.S. Kids of Survival ed è stato affascinante perché quando abbiamo introdotto il nome di “Tim Rollins e K.O.S.”, c’è stata una madre – adesso vi racconterò la vera storia – che disse: “Non so a te ma non mi piace questo nome Kids of Survival, mio figlio non sta sopravvivendo, sta bene, di cosa stai parlando?
Era una donna che aveva avuto l’aids, un’eroinomane. Aveva rubato denaro, non solo ai membri di K.O.S., ma dal nostro conto in banca. Dovevamo sopravvivere a lei piuttosto! Giusto? E così, la sopravvivenza, essenzialmente, è il più grande messaggio, penso, di tutta l’arte. Perché ti preoccupi anche di fare quello che fai. Perché tu, in questo momento, vuoi avere una conversazione con me? Se non avessimo realizzato questi oggetti, questi dipinti, non mi parleresti ora. E la nostra conversazione e la nostra relazione non esisterebbe nemmeno, figuriamoci sopravvivere. Quindi quello che credo è che l’arte sia un modo per avere una voce in un cosmo cieco e molto spesso ostile. È il nemico può essere invisibile.
Tim Rollins and K.O.S., Animal Farm – G7, 1989-92.
Giulia Mengozzi: Okay. Prossima domanda.
[difficoltà tecniche con la registrazione audio]
C’è un capitolo del testo From One Place To Another: Site-Specific Art and Locational Identity di Miwon Kwon in cui discute la differenza tra arte come intervento e arte come integrazione. L’autrice si riferisce al tuo lavoro con K.O.S. – citando Suzanne Lacy e descrivendo l’arte nel pubblico dominio, o come la definisce art in the public interest as a new genre of public art, in quanto nuovo genere di arte pubblica – proprio come un esempio di integrazione.
Tim Rollins: Yes.
Giulia Mengozzi: Questa definizione è fortemente connessa con la tua esperienza artistica e pedagogica con il contesto sociale del South Bronx. Cosa pensi di questa affermazione? Potrebbe essere possibile immaginare l’esperienza di K.O.S. al fuori del South Bronx?
Tim Rollins: Oh, si. Assolutamente. E lo dico sempre, uh, l’arte pubblica non è un’arte collocata al fuori così che il pubblico possa vederla. L’arte pubblica è fatta con le persone – e le persone specifiche – non quelle che hanno delle sovrastrutture o dei costrutti ideologici, ma una vera comunità di persone con volti, attitudini e storie; penso che sia per questo che il nostro progetto ha avuto tanto successo e siamo riusciti a sostenerlo per oltre trent’anni, perché si instaura una relazione. E quello che facciamo – è quasi come un pasto meraviglioso – quasi come un grande Thanksgiving dinner. C’è una vecchia canzone gospel che dice: “Ogni giorno è il giorno del ringraziamento” Ed è proprio così, se hai un giorno del Ringraziamento, uh, il quarto giovedì di novembre e la cena è in arrivo…..le persone si riuniscono.
Il cibo è meraviglioso, ma è solo una scusa per stare insieme. La nostra arte, credo, è anche meravigliosa, ma alla fine è solo una scusa, per noi, per stare insieme. Avere altre relazioni … Ad esempio, quando dipingiamo non creiamo dipinti, ma creiamo comunità, trasformiamo la comunità, facciamo rivisitazioni storiche, interveniamo in situazioni familiari e l’arte è la ragione principale della nostra esistenza. E poi sì, mi piace molto questa citazione.
Amo la pratica di chi, come Suzanne Lacy, sviluppa relazioni e usa l’arte come lo strumento o il veicolo per farlo. Come ho spesso ripetuto, il nostro il linguaggio principale è l’arte, o la pittura e abbiamo creato anche sculture, realizzato video, abbiamo filmato, ma il nostro medium principale resta ed è l’educazione. E ha funzionato.
Roberta Garieri: Hai selezionato un sistema di trame letterarie, tratte da grandi capolavori della letteratura da utilizzare con i tuoi studenti. Hai scelto consapevolmente queste opere secondo un ordine specifico, facendo riferimento alla crescita spirituale, sociale e politica dei membri di K.O.S. o lo sviluppo era casuale?
Tim Rollins: L’ordine è stato completamente casuale. [risate] E, beh, prima di tutto, i bambini non sanno leggere. E se hanno iniziato a leggere, lo fanno in modo divertente. Ricordo di essere cresciuto nella working class del Maine rurale e allo stesso modo, se avessi portato un sacco pieno di libri in classe, mi avrebbero picchiato ogni giorno. È come D. H. Lawrence. È come, wow, lo sai. Chi sei? Chi pensi di essere? E pensi di essere migliore di noi? E nella classe operaia e lavoratrice è molto dura. No, non c’è stata nessuna intuizione, i tra i primi libri che abbiamo letto insieme c’era Amerika di Franz Kafka, che avevo scoperto attraverso una recensione su ArtForum di un film di Jean-Marie Straub e Daniéle Huillet intitolato History Lessons. Stavo leggendo la recensione e sono un grande fan dei due registi. E ho pensato a Karl il protagonista adolescente che dall’Est Europa viene in America in cerca di fama e fortuna, come nella fantasia degli immigrati.
E invece ottiene solo oppressione e sfruttamento ed è scoraggiato, quando sta per tornare a casa viene adottato da una comune utopica chiamata Nature Theatre of Oaklhoma, che ha fondamentalmente due regole. La prima, “Ognuno è benvenuto”. Tutti. Non importa come appari, come parli, come cammini, come mangi, come ami. Tutti sono benvenuti. E la seconda regola, “Ognuno è un artista”. Molto Beuysiana, giusto? E ho subito pensato, ecco questo è il nostro lavoro – questo è quello che facciamo. Questo è il nostro laboratorio. Quindi mi ricordo la corsa verso il bookstore St. Mark per trovare una copia di questo folle libro. E poi ho letto l’ultimo capitolo, ho saltato il resto. Così mi sono detto “questo siamo noi, c’è qualcosa qui, c’è qualcosa qui, c’è qualcosa qui”. E quella fu la creazione dei meravigliosi dipinti di Amerika, molto influenzati da Dizzy Gillespie, e dal jazz moderno e le pentecostal brass bands e, forse, il Dr. Seuss, sai? Quindi ha funzionato. Poi siamo passati alla Scarlett Letter, l’autobiografia di Malcom X, Moby Dick, e non lo sapevamo, Red Badge of Courage, Black Beauty di Anna Sewell, li conoscete? E poi boom boom. Ed era quasi come se avessimo delle perline meravigliose senza sapere quale fosse il filo fino a quando abbiamo avuto, intorno al 1990, la prima grande mostra antologica. E, quando abbiamo visto le opere raccolte tutte insieme, ci siamo guardati e sapevamo già di cosa si trattava. Il libro racconta di qualcuno, di un personaggio, che attraversa una straordinaria e sorprendente lotta. E di un viaggio, da cui esce vivo e sopravvive: questo era il collegamento con tutti i lavori che continuiamo a produrre fino ad oggi.
Charles Haughey ammira, nel 1988, la canina rappresentazione di se stesso in Animal Farm, di Tim Rollins and K.O.S.
Giulia Mengozzi: Okay. Torniamo a Kafka.
[risata]
Tim Rollins: Oh, okay. Continua!
[altra risata]
Giulia Mengozzi: Abbiamo trovato un documentario su K.O.S. – in 7 parti su YouTube – in cui parli del lavoro di Amerika, sottolineando il valore politico della bellezza nell’arte, mettendo in discussione la supremazia della bruttezza nella tradizione dell’arte politica, come Dix o Grosz. Te lo ricordi, no?
Tim Rollins: Mhhhm!
[risata]
Giulia Mengozzi: Potresti raccontarci qualcosa sul valore pedagogico della bellezza in riferimento al tuo lavoro?
Tim Rollins: Sì, è interessante perché, e conosco molti artisti che penso siano daccordo, tutto sembra andare bene. Ma abbiamo pochissimo spazio per l’adattamento nell’arte. Perché? Per essere onesti, nel nostro quotidiano, vediamo molte cose brutte. Lo trovo in qualche modo – e non sono moralista – un meccanismo molto perverso, soprattutto quando vedi gente ricca e benestante comprare ed esibire opere, o come sai, mucchi di finto vomito sui muri, sui pavimenti delle loro belle case. E quadri che sembrano grandi cagate. Sai di chi sto parlando, okay.
[risate e approvazione]
Ma, uh, ti racconterò una storia. E posso, perché era un mio amico, Mike Kelly, l’artista. Così ha fatto una grande esposizione alla Metro Pictures e c’erano tutti questi animali imbalsamati e afgani e poi quelle famose foto di una coppia che si pulivano il culo, con i giocattoli, con la merda. Hai presente?
[Ridacchiando]
E io dissi…Noi e i bambini facciamo scherzi come questi tutto il tempo. Eravamo cattivi e siamo dei cattivi ragazzi! E facciamo baldoria…potremmo fare anche questo. Allora un artista molto noto, di cui non svelerò il nome, mi disse “Tim, non potresti mai farla franca”, giusto? Ma questo ragazzo, Mike, è sfuggito(e l’ha franca) perché non è del tutto reale. E anche, in fondo, credo che solo la bellezza possa cambiare le cose. E tu sai che sono un figlio del movimento per i diritti civili?
Davvero. Crescendo, il mio grande eroe è stato il Reverendo Martin Luther King Jr. Quando è stato assassinato, la sua, è stata la prima esperienza di morte che abbia mai avuto nella mia vita. Le mie nonne vissero quasi 100 anni, nessuno era mai morto. E quella fu la prima volta che provai il dolore. E, cosa ricordiamo del movimento per i diritti civili? Ricordiamo le canzoni per la libertà. Soprattutto quando i bambini si sarebbero messi in marcia, avrebbero cantato quelle canzoni. Volevo essere come uno di quei bambini. E attraverso il mio retaggio della chiesa Battista, ho pensato, “Questo è ciò che dura davvero”. La bellezza delle canzoni è la vera eredità del movimento. E penso che la bellezza sia la forza più sovversiva, potente e rivoluzionaria sulla terra.
Solo la bellezza può cambiare le cose.
[rispettoso e intenso silenzio]
Voce: [sospiro emotivo] Va bene.
[silenzio rotto da una risatina]
Tim Rollins: Sto predicando in questo momento!
[altre risate]
Gaia Valentino: Hai profonde influenze culturali italiane, hai detto. Ma il tuo lavoro è anche all’interno di una realtà e di un’estetica americana. Come coesistono questi due aspetti?
Tim Rollins: Questo è eccellente. Sai perché amo gli italiani? Perché fanno le cose!
[risata]
Tu fai le cose, giusto? Non solo idee, ma le idee sono sempre inserite in una sorta di pratica pedagogica. Non solo produci il miglior cibo del mondo, io credo, ma fai anche la migliore pedagogia e il miglior design nel mondo, senza dubbio.
[risata]
E questo ovviamente viene da Gramsci e poi dai miei grandi eroi Pasolini e dalla grandiosa Maria Montessori. Si tratta di fare cose! Non solo seduto come un consumatore passivo. No. Riguarda la creazione di strutture e cose. È convivialità e comunità. E poi, passiamo al grande Bruno Munari, che è uno dei miei eroi. E, se vedessi le performances che ha fatto con i bambini, o i programmi TV, lui e la sua cravatta, facendo fiori con i vegetali è semplicemente incredibile. E quello che vedi, che vedi nei bambini, lo sai è vivo.
[risata]
E, naturalmente, Enzo Mari, che è una figura molto importante nella mia vita, concettualmente, politicamente, filosoficamente e in termini di ciò che ha fatto. Quei fantastici giochi per bambini. Quelle carte meravigliose. C’è solo un ragazzino e c’è un po’ di “little poopy “. Sai? [risate] E il ragazzino deve inventare lo scenario. Penso che lui abbia detto, la cosa più crudele che tu possa fare a un bambino è dargli un pezzo di carta bianco. Questo è – e mi dispiace, quello che ho fatto a te ieri. Ma tu sei sopravvissuta, penso.
[ridacchiando]
E sì, è proprio questo il problema. Penso che la cultura italiana sia stata molto buona. Guardo il lavoro di Luigi Nono! E la musica. É stata la fusione del politico, con il pratico e con il bello. Come un panino meraviglioso.
[risata]
Boom.
Tim Rollins and K.O.S.
Barbara Meneghel: Negli anni Sessanta con i concettuali, l’idea dell’artista come singolo individuo creativo si è radicalmente trasformata perché l’attenzione si è spostata sul processo rispetto all’unicità. Nella tua condizione, potrebbe sorgere lo stesso problema perché lavori all’interno di un collettivo. Così credo sia la stessa questione, ma da un punto di vista rovesciato. Come coesiste l’autorialità di ogni singolo artista nell’identità del collettivo K.O.S.?
Tim Rollins: Questo è interessante, e spesso mi viene sottolineato. Dicono: “Perché Tim Rollins e K.O.S.”? È una questione di onestà. È stata una mia idea; è una mia responsabilità, da buon padre anche se non sono un paternalista. Dovevo essere io quello che prende i proiettili; proteggo i miei giovani, perché posso prenderli. Quindi non riguarda tanto l’autorialità ma un senso di proprietà che abbiamo. Anche K.O.S. è un gruppo in continua evoluzione – Angle Abreu ha iniziato quando aveva undici anni. Poi è andato in collegio a quindici anni. E poi è andato a Seattle. In seguito è tornato, e ora è un manager e giocatore importante nel gruppo. Dovevamo mantenere molto organico il gruppo. Ciò che è importante capire, è che questa non è la mia intera vita. È come due terzi della vita, ma non tutta la mia vita; ho il mio insegnamento, sono nel coro nella mia chiesa di Harlem. Tutti in K.O.S. hanno le loro pratiche individuali, questo è molto importante. Quindi non è un culto. Non è una comune. Siamo un’organizzazione flessibile che assorbe le persone a seconda di ciò che vogliono. Così possiamo andare nel Maine rurale e lavorare con ragazze di otto anni, un’intera squadra di ragazze. Bellissimo. E poi possiamo essere alla Spinola Banna e lavorare con studenti post-laurea. Oppure lavorare con bambini autistici in una scuola pubblica afro-americana ad Ovest di Philedephia e dipingere con le note della “Ode to Joy” di Beethoven. Bellissimo. E così siamo in grado di adattarci a ogni programma. Bisogna essere porosi. Occorre essere un fiume. Non un lago. Non siamo uno stagno. Non siamo oceanici. Ma siamo sicuri che siamo un fiume. E non puoi appoggiare il piede nello stesso fiume due volte. E sono cresciuto su un fiume, quindi … nei boschi, sì. [risate] Sulle colline. Quindi mi relaziono molto a questo. Good.
Elena Malara: Abbiamo un’ultima domanda. Vorremmo proporti nuovamente una questione che hai rivolto a Felix Gonzalez-Torres. Oggi ci sono due tradizioni ereditate dal 19° secolo. La tradizione realistica, in cui l’artista riflette su ciò che è accaduto nella società – la visione. E poi ci sono artisti, come Courbet, che trasgrediscono questa visione producendo commentari sociali, prevedendo qualcosa. A quale tradizione appartieni tu?
Tim Rollins: Yeah. Mi hai fatto piangere. [ridendo] Hai menzionato Felix qui. Quello che siamo….conosci il grande dipinto di Courbet, l’Allegoria dell’Atelier dell’artista? Siamo noi la realtà. Dove siamo? Il mondo dell’arte da una parte…osserva quello che stiamo facendo. E poi abbiamo la gente comune, giusto? E abbiamo cani e gatti e siamo nel mezzo tentando di unificare, e non assimilare, ma mettere in comunicazione le due comunità attraverso il potere dell’arte. Quindi no, noi non riflettiamo sul mondo. Il punto è cambiarlo, attraverso il lavoro che facciamo insieme. Lo stai facendo adesso. [risate] Sicuramente. Sono un testimone.
Tim Rollins al campus Naba, Nuova Accademia di Belle Arti, Milano 2011.
La conversazione con Tim Rollins è stata realizzata da Claudia Castaneda, Roberta Garieri, Elena Malara, Barbara Meneghel, Giulia Mengozzi, Giulia Polenta, Camilla Topuntoli e Gaia Valentino e registrata in Naba nel 2011 nel corso di un workshop tenuto dall’artista al Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali come Visiting Professor, in più occasioni con lecture e incontri pubblici.
Tim Rollins and K.O.S. aveva partecipato nel dicembre 2010 proprio con la sua esperienza del laboratorio permanente denominato “Art and Knowledge” e l’istituzione nel 1981 del gruppo di lavoro Kids of Survival, nel contesto espositivo e seminariale di Learning Machines. Art Educational and alternative production of knowledge, a cura di Marco Scotini, per il trentennale di Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, svulppato da una ricerca di Andris Brinkmanis e strutturato intorno al rapporto tra formazione artistica, modelli educativi e processi di conoscenza, dalle pratiche istituzionali a quelle alternative e anti-autoritarie di produzione del sapere.
*The Beloved Community è ripreso dal titolo della conferenza tenuta il 27 gennaio 2011, presso NABA, dove Tim Rollins ha raccontato la sua attività, dai progetti community-based, ai percorsi formativi non solo artistici, in cui lo studente non assume un ruolo codificato ma attivo nella costruzione del metodo di apprendimento, fino all’idea di arte come pratica socialmente impegnata in un contesto di egemonia dell’agenda neoliberale, perché, come ha scritto l’artista: “quando Martin Luther King parla della sua definizione trasformativa dell’Amore, la descrive come un tipo di Amore orientato ai mezzi non-violenti necessari per creare ‘The Beloved Community’. Allora come possiamo fare questo? L’arte per chi? Per quale comunità?”.
Tim Rollins con la classe del Biennio in Arti visive e studi curatoriali, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti, Milano, 2011.
Tim Rollins durante la conferenza The Beloved Community tenuta il 27 gennaio 2011, presso NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.
Tim Rollins durante la conferenza The Beloved Community tenuta il 27 gennaio 2011, presso NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.
Marco Scotini, Tim Rollins e Andris Brinkmanis, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti, 2011.