L’aria è la certezza visiva di uno spazio: Laura Grisi

Quali sono le mie sculture? La prima si chiama Area di Nebbia. Una densa nebbia artificiale riempie un ambiente chiuso, attraversata in alcuni punti dalla luce fredda di sei antinebbia: spirali di neon la cui luce è trattenuta e modificata da un involucro rigido di plastica.

La scultura è la nebbia e quello che contiene è un elemento inventato (un suo contrario, un «anti») che essa nasconde, copre. L’Antinebbia è lì come una pietra, una foglia. Esiste solo per essere coperto; serve solo a mettere in evidenza la nebbia. La nebbia non è più un elemento amorfo, ma diventa forma plastica, partecipa alla definizione di uno spazio e con la sua sola presenza lo modifica.

La nebbia assume dunque la plasticità di un oggetto, invade l’ambiente, nasconde e avvolge il pubblico e gli antinebbia.

La nebbia è solo una tra le varie esperienze di modificazione dello spazio. Per esempio aver fatto «Il Vento» che invadeva l’ambiente di una galleria alla velocità prevista di 40 nodi; oppure «La Pioggia», che cadeva in una stanza a gocce rade e a ritmo regolare, da un tubo appeso al soffitto. Le gocce di pioggia non si perdevano, ma cadevano in un recipiente, e sulla superficie si disegnavano forme concentriche in divenire continuo mentre il volume aumentava…L’esperienza è tra le più normali, ma in quel caso era provocata e regolata sul tempo: e resa evidente come se si guardasse la pioggia per la prima volta. Solo che per «vedere» la pioggia, il vento o la nebbia come generatori di spazio, bisogna che vi sia inserito un oggetto estraneo che mette in evidenza o provoca vento, nebbia o pioggia.

Laura Grisi, Un’area di nebbia, 1969, Outside in Rome,1969. Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

Il pubblico pensa che quelle macchine e quegli oggetti siano le mie sculture: e invece sono i mezzi con cui metto in luce spazi diversi, «diversi» anche se generati da fenomeni piuttosto consueti.

Anche «l’Arcobaleno», che ho realizzato ultimamente, fa parte di questa serie di esperienze: un prisma e una luce contenuti in un cilindro posto in diagonale su una parete, emettevano un arco luminoso nel quale si componevano i colori dello spettro solare.

Ci sarà ancora la grandine, e la condensazione e il raffreddamento dell’aria. Ho anche delimitato visivamente uno spazio d’aria, isolandolo in un ambiente con un filo luminoso che modifica il suo volume solo di 1 centimetro cubo in meno. (L’aria è la certezza visiva di uno spazio) Tutti questi miei pezzi li voglio fare e rifare in un periodo prestabilito alternandoli ogni giorno, ma senza un ordine preciso, e in un ambiente chiuso.

Laura Grisi, L’aria e la certezza visiva di uno spazio, in “Qui arte contemporanea” n.6, 1969.

Laura Grisi, Volume of Air, 1968, veduta dell’installazione nella mostra Nuovi Materiali Nuove Tecniche a Caorle, 1969, Venezia. Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

«Un filo molto sottile di intensa luce bianca è stato disegnato al neon lungo i bordi perimetrali – le giunture tra pavimento, pareti e soffitto – di una stanza esattamente cubica dipinta di bianco fluorescente. La luce era così brillante da sembrare quasi acquisire una dimensione di densità, tanto che entrando nello spazio si aveva la sensazione, visiva e quasi tattile, di un volume d’aria contenuto» Laura Grisi

Laura Grisi mentre lavora a From One to Four Pebbles,1972. Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

In un momento di nuova attenzione internazionale per la ricerca e l’opera di Laura Grisi proponiamo due anticipazioni: un nuovo appuntamento con le “Rubriche d’aria” della piattaforma ON AIR e la grande retrospettiva museale, a lei dedicata, da lungo tempo in preparazione. Una ricostruzione a più voci intorno alla figura dell’artista recentemente scomparsa e di un altro soggetto altrettanto inafferrabile e poco presente nelle narrazioni…come l’aria!

Hotpotatoes ha selezionato per l’occasione alcuni scritti di Laura Grisi, tra cui L’aria e la certezza visiva di uno spazio del 1969, insieme ad altri estratti testuali, materiali d’archivio, discorsi e visioni, nella convinzione (che è anche una irrinunciabile premessa metodologica) che non smette di interrogarci: come rovesciare la prospettiva e far scattare un’interruzione femminista in grado di disattivare le divisioni eterosessuali ed eurocentriche che organizzano il lavoro artistico, ormai naturalizzate e radicate nelle strutture della differenza dove il canone della storia dell’arte è stato eretto e ancora domina incontrastato?

Laura Grisi, Wind Speed 40 Knots, 1968, video b/n digitale da film in 16mm (still). Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

ON AIR prosegue la sua ricerca collaborativa sull’aria, sul respiro, sull’ambiente con Laura Grisi. Segnalata dalla critica e curatrice Cecilia Canziani, se ne ricostruisce la vicenda biografica e il suo rapporto antropologico con l’aria, il vento, la natura… in un nuovo podcast di “Rubriche d’Aria” che potete ascoltare qui.

«Durante i miei viaggi in vari paesi ho iniziato a filmare immagini della velocità del vento e dei suoi effetti – scrive l’artista. Ho anche effettuato misurazioni nel deserto e sulle rive dell’oceano, studiando sia i movimenti naturali dell’aria – il vento che soffia incontrollato sulla sabbia, sul mare e sui campi, o contenuto e incanalato dagli alberi di una foresta o dalle pareti di un grande città – e quelli prodotti meccanicamente, ad esempio dai rotori di un elicottero». Questi esperimenti sono stati mostrati in un film da 16 mm, Wind Speed 40 Knots, del 1968 e nello stesso anno, l’artista ricrea attraverso un ventilatore teatrale un forte flusso d’aria di 40 nodi all’interno della galleria romana La Tartaruga, nella ormai celebre successione scenica delle «expositions-verité», per dirla con Tommaso Trini, di Teatro delle mostre. Il video di Laura Grisi sarà visibile nella piattaforma ON AIR fino al 31 marzo a questo link.

ON AIR è un progetto di Juan Pablo Macias e Alessandra Poggianti, per e con Carico Massimo.

Laura Grisi, Wind Speed 40 knots, La Tartaruga, Roma, 1968. “Una stanza semi-buia era divisa da uno schermo di doghe in legno verniciate di nero. Nascosti dietro di esso, diversi ventilatori teatrali hanno riprodotto artificialmente un vento di circa 40 nodi, che ha attraversato lo schermo e ha invaso il resto dello spazio. Entrando nella stanza, si era avvolti da un vento continuo, elemento naturale totalmente inaspettato nello spazio chiuso” (Laura Grisi). Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

La mostra The Measuring of Time, concepita per Muzeum Susch, insieme all’Archivio Laura Grisi di Roma e la Galleria P420 di Bologna che rappresenta l’artista, sarà invece anticipata da Marco Scotini, curatore di questa prima ampia retrospettiva museale dedicata a Laura Grisi, in collaborazione con Krzysztof Kosciuczuk. Insieme all’esposizione di importanti opere dagli anni Sessanta agli anni Ottanta (conservate in istituzioni pubbliche e collezioni private) e alla presentazione di documenti fondamentali della ricerca e dei viaggi dell’artista, la mostra sarà l’occasione per ricostruire i nove ambienti dedicati ai fenomeni naturali (sala della nebbia, sala della pioggia, del vento) e mai riallestiti dalla fine degli anni Sessanta e inizio anni Settanta, quando furono presentati per la prima volta. The Measuring of Time sarà accompagnata da una pubblicazione sul lavoro di Laura Grisi edita da jrp|editions e sviluppata grazie alla collaborazione tra jrp|editions, Muzeum Susch e la galleria P420.

Laura Grisi, Ten Stones, 1971. Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

THERE ARE NO WOMEN MAKING CONCEPTUAL ART*

Se accogliamo l’assunto lonziano che la formulazione della storia dell’arte è stata appannaggio della creatività maschile e oggettivata su un modello di artista modernista (maschio, bianco e occidentale) forse riusciamo a spiegarci come Laura Grisi sia rimasta una presenza isolata ed eccentrica, nonostante avesse partecipato, quale unica artista italiana, ad autorevoli rassegne internazionali – da “Young Italians” del 1968 con Alan Salomon all’ICA di Boston e al Jewish Museum di New York, a Earth Air Fire Water: Elements of Art, al Museum of Fine Arts di Boston nel 1971, insieme ad artisti del calibro di Robert Smithson, Dan Graham, Hans Hacke, Michael Heizer, Dennis Oppenheim, tra gli altri – e malgrado fosse stata protagonista di una personale a New York nel 1973 alla galleria di Leo Castelli, con cui lavorò diversi anni.

Laura Grisi con Barnett Newman, Larry Poons, e Frank Stella, 1966, durate la mostra Italy New Tendencies, Galeria Bonino, 1966 Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

Non si tratta però, nel caso di Grisi, di scavare nel passato e nei depositi degli archivi e dei musei, ovvero del recupero di una storia dell’arte sia di tipologia “aggiuntiva – come la chiamano le storiche – che epistemologico-decostruttiva (ovvero chi ha definito cosa)” [Trasforini, 2007], quanto piuttosto disallineare e smantellare il canone storiografico che l’ontologia modernista ci ha consegnato, quale asimmetria costitutiva di un circuito artistico che ha riservato al soggetto femminile asservito a quello neutro-maschile, un altissimo grado di invisibilità. Compito auspicabile della critica femminista (anche se ha tra le mani i documenti e gli scritti di un’artista che non ha mai aderito al movimento di liberazione della donna) non è sicuramente compilare una lista delle escluse ma ricomporre le “geografie posizionali”, rompendo i rapporti di forza e i privilegi di tempo storico che ha agito attraverso narrazioni egemoniche e sessualizzate, gerarchizzando, in un processo di purificazione, ricerche ed estetiche: etichette quali modernismo, astrattismo, minimalismo, concettualismo, postmodernismo hanno, di volta in volta, informato la produzione artistica e la sua ricezione critica, insieme a una presunta autonomia e universalità, mentre ci appaiono per quello che sono e per come hanno funzionato: l’esaltazione di un canone riduttivo patriarcale.

Il canone, secondo Griselda Pollock, è stato (ed è ancora) politicamente “al maschile” e culturalmente “al maschile”. Il femminismo incontra il canone come struttura di esclusione, subordinazione e dominazione che marginalizza e relativizza le donne – qui facciamo riferimento a quei corpi classificati dalla società come “femminili” ma il discorso comprende tutte le minoranze di genere, classe e razza – nella produzione e riproduzione delle differenze sessuali, classiste e coloniali, e le complesse configurazioni che il potere incarna nel canone dell’arte e le sue istituzioni dominanti.

Quante erano le artiste che si sono affermate in questi movimenti? Isolate e presenti solo secondariamente, d’altronde la nozione di Genio ha continuato ad essere specifica di genere, ricordiamo Marisa Merz per l’Arte Povera, Eva Hesse per il Post-Minimalismo, Nancy Holt per la Land Art, Hanne Darboeven e Cristine Kozlow per il Concettuale: ecco che il canone diventa visibile per quello che è stato: un’enunciazione della mascolinità occidentale.

Laura Grisi, From One to Four Pebbles,1972, color film in 16mm, 4’30’’, ed. of 5+2ap, still. Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

Laura Grisi, From One to Four Pebbles,1972, color film in 16mm, 4’30’’, ed. of 5+2ap, still. Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

Laura Grisi, From One to Four Pebbles,1972, color film in 16mm, 4’30’’, ed. of 5+2ap, still. Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

There are no women making conceptual art: così scriveva Lucy R. Lippard nel 1973, nel momento della militanza femminista (dentro collettivi come Women Artists’ in Revolution, sottogruppo degli Art Workers’ Coalition, o Ad Hoc Women Artists’ Committee, fino alla fondazione nel ’70 del Women’s Slide Registry, che a quel tempo conteneva oltre seicento schede di donne artiste non rappresentate dal sistema di gallerie/musei), nel catalogo composto da un set di schedari 10×15, dell’ultima esposizione dei Numbers Show, intitolata c.7500. L’esposizione intendeva rispondere a quella stessa provocazione con l’organizzazione di una mostra di arte concettuale composta da sole artiste donne (ne convocò ben 26 tra cui le già citate Holt, Darboeven, Kozlow insieme a Laurie Anderson, Eleanor Antin, Agnes Denes, Adrian Piper, Mierle Ukeles, Martha Wilson, tra le altre) non nel tentativo di “aggiungere” e dare visibilità (e voce) alla comunità femminile ma di attaccare i protocolli dell’arte affermando una narrativa femminista come propria del linguaggio concettualista.

Il «termine femminile può così essere radicalmente inteso per segnalare sia l’Altro negato dal modello fallocentrico – un’assenza – sia la potenzialità ancora inesplorata di ciò che è al di là dell’immaginazione fallocentrica – un ingrandimento», continua Pollock. Lo stesso ingrandimento che deve aver provato Seth Siegelaub, quando nella sua seminale mostra smaterializzata January 5-31, 1969 chiama i suoi artisti ad esporre mentre fa performare ad Adrian Piper il ruolo della “segretaria”.

Laura Grisi nel suo studio a Roma con l’opera Refraction, 1968. Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

Perché ancora oggi etichettare il lavoro come femminile?

Come possiamo rendere il lavoro delle soggettività minoritarie una presenza efficace nel discorso culturale, da cui sono stat* esclus*, per sovvertire con un attacco più radicale sia l’ordine stesso del discorso che la sua gerarchia di genere, oltre alla complicità del potere con le strutture economiche del mondo dell’arte?

Assumendo questi strumenti, la recente riscoperta e attenzione internazionale permette di ri-orientare criticamente il lavoro di Laura Grisi nella sua irriducibile complessità: un percorso elusivo e certamente non confinabile nemmeno a quei movimenti, dalla Pop all’Arte Povera in particolare, alle tensioni processuali e comportamentali che hanno animato la scena della neoavanguardia degli anni Sessanta e Settanta, nonostante la matrice fortemente concettuale ravvisabile come traccia sottesa di molte sue operazioni. Grisi non rientra in nessuno di questi canoni. Nulla ha a che vedere nemmeno con la fallocentrica dominazione della natura degli artisti della Land art, nonostante la centralità ambientale nella sua ricerca e la mise en abîme delle fenomenologie naturali, o di quel “naturalismo artificiale” che indica Germano Celant, quale assemblaggio di natura e tecnologia, nella direzione della finzione e della teatralità. La graduale de-enfatizzazione degli interessi plastici va verso l’effimero: il tempo, i sistemi non-visivi, le esperienze non registrate, le permutazioni e le ipotesi sull’infinito.

Il tentativo di afferrare lo spazio tra sé e l’altro, come oggetto di conoscenza, non coincide con qualcosa di computabile: in assenza di personaggi, il pianeta e i suoi invisibili abitanti “pensano-sentono” insieme – dai micro-rumori appena udibili delle formiche in Sounds (Ants), allo scorrere della linfa nelle fibre di un albero di Sounds (Tree), entrambi del 1971. In una dimensione molecolare (come suggeriscono Deleuze e Guattari) perdiamo contezza dei limiti dei nostri sé: dove finisce l’umano e comincia la nostra reciprocità con le comunità non antropiche. Non possiamo fare a meno della natura, ma neppure possiamo afferrarla o possederla. I processi antropogenici hanno avuto effetti devastanti sul pianeta e le specie, per Joan L. Grisgom, se il termine “naturismo” può riferirsi al dominio sulla natura non-umana da parte dell’umanità che ha portato alla crisi ecologica, invece «la Natura femminista ripetutamente ci ricorda che siamo parte della terra e dell’universo, parte di una grande comunità di esseri animati e non animati». Così l’ecofemminismo ripensa, allo stesso modo, la soggettività e i corpi oltre la dialettica umano/non-umano, in quell’alterità appartenente a un altro sistema, che però lo abitiamo, lo costituiamo.

Laura Grisi, Rainbow, prisma e luce, 1968. “Uno spazio quadrato chiuso nella semioscurità. Un sottile raggio di luce ha perforato quattro prismi nascosti, ricreando i colori dello spettro solare. Ogni parete era attraversata da una linea orizzontale luminosa nei colori dell’arcobaleno” (Laura Grisi). Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

Laura Grisi, Un’area di nebbia, 1969, Outside in Rome,1969. Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

LE SORGENTI FEMMINISTE

«C’è stato un momento in cui il fumo ha cominciato a diradarsi ma è rimasta una foschia. E il mondo intero è stato femminilizzato, anche se solo per un momento» ha dichiarato Judy Chicago in relazione alle sue esplosioni colorate realizzate a partire dal ’68, create per «ammorbidire l’ambiente machista»: un fumo femminista per respingere il sistema dell’arte maschiocentrico (e capitalistico) che ha escluso le artiste e le minoranze. O negli earthwork di Ana Mendieta, le iconiche Siluetas realizzate con polvere da sparo e poi infiammate, dove evacuato il corpo è rimasta solo la suggestione della forma, in attesa di spostarci tra le ceneri con le mani annerite e la paura di toccare i carboni ardenti. Allo stesso modo, la stanza delle stelle di Laura Grisi era un ambiente buio diviso da una membrana di piombo che nascondeva fonti luminose puntiformi che bruciavano a 350 gradi centigradi in un processo di fusione che originava una costellazione di bagliori in successione. L’intera parete – scrive l’artista – brillava di questa propagazione di stelle luminose creata dalla diffrazione della luce intensa.

Laura Grisi, Light Melting Time, 1968, realizzata alla Galleria del Naviglio, Milano, 1970. Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

Grisi con un’intensificata lucidità nei confronti dei fenomeni percettivi, ha creato un’effimera cosmogonia sensibile attraverso l’indagine sull’inafferrabilità degli elementi naturali come nebbia, vento, aria, pioggia, arcobaleni e rifrazioni luminose, riprodotte artificialmente a partire da una serie di environments e opere site-specific realizzati tra il 1968 e il 1970 dove rievoca in ambienti chiusi la potenza della natura e altera la struttura psicologica degli ambienti espositivi: «Non mi interessavano quadri o sculture che contenessero l’aria, la terra o l’acqua. Non volevo che l’aria, la terra o l’acqua diventassero oggetti. Volevo ricreare l’esperienza dei fenomeni naturali», racconta l’artista a Celant in un’intervista pubblicata nel 1989; seguono opere straordinarie come A Space of fog (Un Area di Nebbia, 1968), Wind Room (La stanza del vento, Teatro delle Mostre, La Tartaruga, Roma, 1968), Rain Room (La stanza della pioggia, 1968), Air Room (La stanza dell’aria, 1968), Stars (Stelle, 1968), Rainbow (Arcobaleno, 1968), solo per citarne alcune.

ASPETTANDO “THE MEASURING OF TIME”: TRE DOMANDE A MARCO SCOTINI

Laura Grisi, The Measuring of Time, 1969, 16 mm pellicola in bianco e nero (still). Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

Guardare retrospettivamente (o storicizzare in modo retroattivo) un’artista come Laura Grisi non significa soltanto colmare una lacuna storiografica e ricollocarla nella scena artistica italiana degli anni Sessanta e Settanta, oltre l’egemonia dell’Arte Povera ma «trovare delle chiavi di accesso a tematiche contemporanee come il genere, l’ecologia e l’interculturalità», hai dichiarato. Cosa aggiunge questa grande retrospettiva museale, The Measuring of Time, concepita per Muzeum Susch, posticipata più volte per l’emergenza pandemica e che inaugurerà il prossimo giugno, a cui stai lavorando smisuratamente e da tempo?

Marco Scotini: Senza cercare altri meriti, si tratta della prima ampia mostra monografica di Laura Grisi. Anche se l’esposizione si focalizza solo sui primi due decenni della sua attività, credo che nessuno abbia mai potuto vedere tante sue opere assieme. Neppure la stessa artista. L’unica cosa che poteva colmare questa lacuna era un importante libro monografico curato da Grisi con Germano Celant. Edito da Rizzoli e con progetto grafico di Max Vignelli, il libro risale però a trenta anni fa. L’occasione offerta da Muzeum Susch e dalla programmazione che Grazyna Kulczyk dedica alla riscoperta delle soggettività femminili, sposta – già come tale – l’attenzione di questo nuovo episodio.

La lettura che se ne dà è dunque non solo diversa ma, per molti aspetti, inedita. Laura Grisi è una grande rappresentante degli anni Sessanta e Settanta e, con la sua generazione, condivide l’aspirazione a voler tutto. Ma cos’è questo “tutto” per Grisi? In che senso il “tutto” di Grisi si rapporta a quella più generale mira comune? Pare che il termine “tutto” non ammetta declinazioni perché non intende escludere parti. Eppure la prima cosa che si possa dire è che questo tutto non coincide con l’unità. Nessuna totalità, nessuna univocità, nessuna unidirezionalità. Solo proliferazione, infinita ripetizione senza soggetto. Il carattere cool, de-soggettivante del lavoro di Laura Grisi ne è una esplicita dimostrazione. Il molteplice non è ricomponibile, il vuoto del soggetto non è colmabile, l’etereo non diventa solido. Dietro ogni presunta uniformità c’è l’innumerabile frazionabilità delle cose, dello spazio. Il fantastico 16mm The Measuring of Time che dà il titolo alla mostra è anche questo, non solo una sfida al tempo e all’impossibilità di misurare l’incommensurabile. Ogni granello di sabbia riflette tutti gli altri senza essere uguale a nessun altro. Quando invece Grisi parte da un numero finito, come 5 ciottoli o le 64 caselle di una scacchiera, ecco che permuta e moltiplica le loro combinazioni possibili e gli elementi che alla fine ci mostra sono decuplicati.

Ma questo processo messo in atto da Grisi non avrebbe senso se si prescindesse da un discorso sulla interculturalità, o da una ecologica che la spinge a visualizzare non le cose ma il medium attraverso cui queste diventano possibili. È sorprendente come tutte le letture che di Grisi sono state date, in qualche modo, tralasciassero i due fattori essenziali della sua attività: la fotografia da un lato e le culture dall’altro. Le culture indigene che incontra a partire dalla fine degli anni Cinquanta e che cattura con la Rolleiflex o la Hasselblad metteranno in crisi il presunto sguardo oggettivo, naturalista e occidentale della fotografia. Non a caso in mostra sarà esposto parte di quell’inventario di mondo, costituito da oltre 5000 fotografie, che è all’origine dell’attività di Laura Grisi e, in qualche modo, la determina. Non ultima novità della mostra è il fatto che tale corpus non è mai stato esposto!

Laura Grisi, The Measuring of Time, 1969, 16 mm pellicola in bianco e nero (still). Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

Laura Grisi, The Measuring of Time, 1969, 16 mm pellicola in bianco e nero (still). Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

Laura Grisi, The Measuring of Time, 1969, 16 mm pellicola in bianco e nero (still). Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

In “L’oblio dell’aria” Luce Irigaray afferma: «la presenza non è forse il Gestell disposto dall’uomo per rendere impossibili certi incontri con la natura?»: se nella vocazione alla rigidità del pensiero filosofico e metafisico (oltre che economico), l’aria è diventata materia di misurazione, Laura Grisi resta una sorta di “presenza assenza” dell’arte ma il suo rapporto con la natura, nella comprensione dell’umano al di là dell’umano, è ben definito: come sarà documentato (o meglio raccontato) in mostra questo aspetto di temporalizzazione dell’impermanenza, del rapporto tra la totalità e l’inconoscibile, dell’aria e la sua immaterialità?

MS: Diciamo che l’intero lavoro di Grisi è una rivendicazione dell’aria contro il suo oblio. Tutta la sua attenzione si concentra su quel medium che organizza tanto la nostra percezione quanto la nostra vita, che mette in rapporto il tutto con sé stesso. È l’aria che ci permette di vedere le cose, di sentirle, di farne esperienza ma lei stessa è invisibile, impercettibile. Si sottrae all’apparenza: incolore, immateriale. È a tal punto ovunque che anche se l’attraversiamo non ce ne accorgiamo. Tuttavia non dobbiamo aspettare gli ambienti di Grisi per notare nel suo lavoro questa presenza atmosferica: fa la sua comparsa fin dal ciclo delle Pitture Variabili del 1966.

Laura Grisi e il suo lavoro West Window, 1966, Circle of Light, 1966, durate la mostra “Italy New Tendencies”, Galeria Bonino, 1966. Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

In mostra sarà ricostituito il grande dittico che l’artista presenta alla Biennale di Venezia quello stesso anno. Questo non si dà come immagine definitiva ma muta un certo numero di volte, grazie a quinte scorrevoli che lo spettatore può spostare. La cosa sorprendente è come, ricorrendo al modello della cornice-finestra, l’artista imponga al paesaggio (nuvole, onde, terra) una suddivisione geometrica in pannelli che sovra-inquadrano, reinquadrano e moltiplicano in senso fluido l’effetto di immagine nell’immagine, come in una sorta di mise en abîme. In sostanza c’è una meteorologia dell’immagine che sarà poi ulteriormente sviluppata con l’inserimento di neon e stratificazioni di plexiglas a grana differente nelle opere successive, dove il virtuale e l’intangibile cominciano a insinuarsi nel tessuto del quadro. Se ne era accorto Fagiolo dell’Arco quando scriveva che Grisi “raggiunge la sfocatura della memoria senza dimenticare la fredda proiezione del reportage”. E si chiedeva “Plexiglas come? Come luce, come aria, come nuvole, come atmosfera, come luce”. Dunque questa ricerca continuerà ad agire in modo più esplicito con l’effetto della nebbia, del fenomeno ottico dell’arcobaleno, di quello della rifrazione della luce e dell’acqua, del vortice, del vento. In questo passaggio Grisi decide di abbandonare radicalmente ogni di tipo rappresentazione e convertire i segni in forze, il piano in ambiente, l’esposizione in situazione, il duraturo in evento. Non c’è solo il parallelo con le Atmosfere colorate di Judy Chicago ma credo potremo vedere una direzione tutta al femminile anche nell’adozione del vento: da Rhythm 4 (1974) di Marina Abramovic fino a Be Careful With What You Wish For di Monica Bonvicini – il potente ventilatore nel foyer di Kunst Werke nel ’98. Si potrebbe continuare a lungo ma l’aria in Grisi è sempre un segno o sta per il “possibile”.

Laura Grisi installando Drops of Water, 1968 per la mostra “Earth, Air, Fire, Water: Elements of Art” Museum of Fine Arts, Boston, 1971. Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna. “Un fenomeno naturale è stato ricreato artificialmente in un ambiente chiuso. Un tubo pieno d’acqua era sospeso al soffitto. Da piccoli fori in diversi punti del tubo, gocce d’acqua cadevano continuamente in un grande bacino d’acqua rotondo. Poiché questo bacino era incassato in un pavimento rialzato, il livello dell’acqua era lo stesso del piano circostante. Le gocce emettevano suoni diversi e formavano una serie costante di increspature concentriche. C’era la sensazione di ascoltare il suono ritmico della pioggia.” (Laura Grisi)

Laura Grisi, Drops of Water, progetto per la realizzazione dell’opera. Courtesy Archivio Laura Grisi e Galleria P420, Bologna.

Laura Grisi, Drops of Water, progetto per la realizzazione dell’opera. Courtesy Archivio Laura Grisi e Galleria P420, Bologna.

Laura Grisi, Drops of Water, 1968, sistema di gocciolamento e recipiente in metallo verniciato, ø cm.200. Photo credit Carlo Favero. Courtesy Archivio Laura Grisi e Galleria P420, Bologna.

Laura Grisi «incarna una sorta di soggetto femminile apolide e nomade», così l’hai definita nel comunicato stampa, sia come percorso elusivo a ogni classificazione, impossibile da incasellare dentro l’ordine (patriarcale) della narrazione modernista, sia alludendo ai numerosi viaggi con il compagno documentarista Folco Quilici: la sua personale cosmogonia nell’analisi ricorsiva (e pionieristica) delle fenomenologie atmosferiche dei suoi environments – dalla pioggia e l’aria, dal vortice al vento, la nebbia, fino ai fenomeni fisici, dalle rifrazioni all’arcobaleno – come “generatori di spazio”, rivela una profonda connessione con lo spettro delle soggettività non umane, vegetali e minerali, in una prospettiva ecofemminista, non certo per l’allineamento ancestrale di donna-natura o in nome di un’essenza astorica e simbolica del femminile, mentre è forte la tentazione di leggere in queste opere una femminilizzazione delle strutture semio-narrative e percettive dell’essere e del pensiero…

MS: La difficile collocazione del lavoro di Laura Grisi non giustifica affatto la liquidazione che, in un certo senso, ne è stata fatta. Se oggi, da un lato, ci risulta ovvio vedere la matrice patriarcale degli ordinamenti e dei canoni storiografici che abbiamo ereditato, dall’altro lato non siamo ancora riusciti a costruire delle controstorie. Anche se un giorno (fortunato) arriveremo a scriverle. Rimane il fatto però che c’è un’attualità di Laura Grisi che non può più trattenerla nei margini che le hanno assegnato.

Laura Grisi, Volume of Air, 1968, veduta dell’installazione nella mostra Nuovi Materiali Nuove Tecniche a Caorle, 1969, Venezia. Courtesy Estate Laura Grisi e P420, Bologna.

Credo che in Grisi ci sia una epistemologia e un’estetica che sfidano le politiche dell’identità, la univocità della rappresentazione e l’unidirezionalità del tempo. Ciò di cui Grisi è alla ricerca è un modello percettivo e diagrammatico in grado di sperimentare nuove pratiche creative come modo di pensare e agire. Lo spazio della rappresentazione è il luogo del suo intervento. In questo sta la sua ecologia: senza confondere naturale e culturale, si serve di letture fisico-matematiche per capire cosa abbiamo perduto o non abbiamo mai trovato. Queste si uniscono alla conoscenza dei riti e del pensiero magico che, nei suoi viaggi, ha incontrato. Certo: in gioco ci sono – senza gerarchia – tutte le forme di vita. Il suo racconto “I denti del Tigre” del 1964, è la testimonianza del confronto con le classificazioni totemiche e dei fenomeni atmosferici più diversi trovati negli atolli polinesiani, dove trascorre più di un anno. In questo senso il suo libro d’artista Distillations: Three Months of Looking (1970) e le due audiocassette di nastro magnetico Sounds (1971) sono esemplari.  C’è una sorta di incantesimo per ciascuna forma di vita e un’attenzione fisica estrema per tutto quello che vediamo. Ecco che l’aria appare, si fa presenza imprescindibile.

Fondamentalmente il dilemma a cui Laura Grisi ci espone è la necessità di mettere a fuoco oggetti e forme quando tutta la realtà è metereologica (in perenne mutazione) e il pensiero stesso è movimento.

 

Intervista a cura di Alessandra Poggianti ed Elvira Vannini.

Testi di Elvira Vannini.

 

Contributo di Laura Grisi in “DATA” n.22, Luglio-Agosto-Settembre, 1976.

Contributo di Laura Grisi in “DATA” n.22, Luglio-Agosto-Settembre, 1976.

Contributo di Laura Grisi in “DATA” n.22, Luglio-Agosto-Settembre, 1976.

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