Nel 1981 la rivista americana Heresies, orientata all’analisi del rapporto tra arte e politica da una prospettiva femminista, dedicava la sua tredicesima uscita alle relazioni tra femminismo ed ecologia; significativamente intitolata “Earthkeeping/Earthshaking”, comprendeva contributi di autrici di varie nazionalità, tra cui la critica d’arte Lucy Lippard, o artiste come Ana Mendieta, Faith Wilding, Bonnie Ora Sherk, Cecilia Vicuña e Michelle Stuart, nonché la scrittrice Gioconda Belli. Nell’editoriale il collettivo femminista (che aveva fondato il magazine e di grande ispirazione per hotpotatoes) si chiedeva:
What can women do about the disastrous direction the world is taking?
L’esposizione che avete curato alla Galeria Quadrum di Lisbona, assume Heresis #13 come punto di partenza e come archivio storico e politico attraverso «opere d’arte ed ephemera di artiste che – durante gli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 – hanno messo in discussione i nostri rapporti individuali e collettivi con la natura e l’ambiente, le dicotomie tra natura e cultura, le tradizionali associazioni del femminile con forze della natura, così come le complesse relazioni tra capitalismo, storie coloniali e degrado ambientale»: come nasce “Earthkeeping / Earthshaking – Art, Feminisms and Ecology”?
Giulia Lamoni e Vanessa Badagliacca: Il progetto della mostra nasce dall’incontro dei nostri percorsi di ricerca in ambito accademico e curatoriale – arte e femminismo in Portogallo e America Latina (Giulia), da un lato, e arte e questioni ecologiche (Vanessa) dall’altro. Pensando alla possibilità di sviluppare un progetto d’esposizione insieme a Lisbona, dove entrambe viviamo da tempo, il numero 13 della rivista Heresies, pubblicato a New York nel 1981 e dedicato alle relazioni tra femminismo e ecologia, ci è sembrato un punto di partenza molto interessante, ricco di potenzialità ma anche di una certa dose di complessità.[i]
Scegliendo Heresies come spunto iniziale, infatti, ci interessava pensare alla capacità della rivista di riunire contributi tra loro molto differenti (in parte raccolti tramite una call) come una specie di metodologia basata sull’eterogeneità che avrebbe potuto costituire una linea guida anche per il nostro lavoro curatoriale. Allo stesso tempo, la sfida per noi non era semplicemente quella di esporre/ trasporre la rivista, ed il lavoro di alcune artiste che hanno partecipato al numero 13, a Lisbona. Si trattava piuttosto di rendere visibili una serie di linee di connessione, e di problematiche, che potenzialmente legano il numero 13 di Heresies alla pratica di artiste attive in altri contesti culturali nello stesso periodo, in Portogallo innanzitutto, ma anche in Colombia, Brasile ed Italia. Per rafforzare il dialogo con il contesto locale – dialogo che per noi è molto importante -, abbiamo poi invitato a partecipare artiste ed artisti più giovani, di varie nazionalità, che attualmente vivono a Lisbona e il cui lavoro è attraversato in modi diversi da questioni legate all’ecologia e di genere.
Questo intreccio, che poi ha dato vita al tessuto di cui è fatta l’esposizione, aveva come obiettivo dare una profondità storica all’esplorazione delle relazioni tra femminismi e ecologia, mettendo in luce il ruolo, spesso pioniere, del lavoro di molte artiste negli anni settanta e ottanta – per esempio Bonnie Ora Sherk, Cecilia Vicuña, Alicia Barney e Teresinha Soares, per citarne solo alcune. D’altra parte, però, pensando a queste tematiche a partire da un presente caratterizzato da un aggravamento drammatico delle condizioni ambientali – ed in cui un approccio estrattivista rispetto alla vita del pianeta continua ad essere frequente se non dominante e in un contesto pandemico che ha reso ancora più urgente riflettere sulle questioni che la mostra affronta – ci è sembrato necessario creare uno spazio d’incontro con pratiche più recenti, come quelle di Alexandra do Carmo, Uriel Orlow, Rui Horta Pereira, Mónica de Miranda e Gabriela Albergaria.
Non meno importante in questo processo – per noi femminismo ed ecologia non sono esclusivamente tematiche ma costituiscono innanzitutto uno stimolo per ripensare il modo di lavorare insieme – è stata la domanda: come coinvolgere il comitato editoriale della rivista? Tenendo conto dei limiti dell’esposizione – temporali, di spazio e budget –, abbiamo deciso di incontrare via Skype e intervistare le artiste che hanno fatto parte del comitato editoriale (purtroppo non siamo riuscite a rintracciare due di loro). Le interviste saranno pubblicate nel catalogo che è in preparazione e che includerà anche un breve saggio di Lucy Lippard, un’altra figura chiave di Heresies e non solo.
Elvira Vannini: L’editoriale si conclude spiegando l’immagine della copertina di Heresis #13 che raffigura l’eruzione del 1980 dello stratovulcano Monte Sant’Elena, nello Stato di Washington: «La nostra cover è il Monte Sant’Elena perché è un’immagine di collegamento – un buco interno e un’apertura fuori da quel centro – sia nutritiva che distruttiva. È un’immagine femminile per la forma e la mitologia. Secondo le tradizioni degli indiani Klickitat, il vulcano è Loo-Wit, la vecchia custode del fuoco. Ha mediato una disputa tra i due popoli della zona attraverso il suo fuoco. Quando la disputa si ripresentò, lei e i due leader furono trasformati nel monte Sant’Elena, il monte Hood e il monte Adams. Abbiamo chiamato questo numero di Heresis “Earthkeeping/Earthshaking” perché intendiamo fare entrambe le cose. L’eruzione del Monte Sant’Elena è il nostro simbolo della “rivolta della natura” perché conosciamo il ruolo importante che la cultura femminista avrà in questa rivoluzione». Una metafora molto potente che si allontana da molte posizioni essenzialiste, del femminile come categoria naturalizzata, passiva e simbolica, biologicamente assegnata, emerse intorno all’ecofemminismo. Da quale punto prospettico viene messo a fuoco il rapporto tra arte, ecologia e femminismi in questo numero di Heresies?
Giulia Lamoni e Vanessa Badagliacca: Nell’esposizione, presentando insieme lavori che emergono da pratiche e posizioni estetiche e politiche molto diverse, ci interessava mostrare la complessità irriducibile di questo campo e del modo in cui molte artiste si sono posizionate rispetto all’ecologia, al femminismo e all’ecofemminismo, in maniera diretta, ma molto spesso anche indiretta. D’altronde, Heresies 13 proponeva una lettura tutt’altro che essenzialista di queste relazioni, privilegiando il dialogo tra posizioni diverse. Questa scelta, e la ricerca di un approccio non dualista della questione, è molto evidente nei due testi teorici che aprono il numero 13, di Ynestra King – che scrive, per esempio, “the liberation of women is to be found neither in severing all connections that roots us in nature nor in believing ourselves to be more natural than men” [pp. 14-15] –, e di Joan L. Griscom, che esplora le divisioni tra “nature feminists” e “social feminists”, cercando di costruire un terzo posizionamento, alimentato criticamente da entrambi i punti di vista.
Inoltre, è importante ricordare l’intersezionalità di alcuni contributi. Forse quello di maggior impatto è “La Venus Negra, based on a Cuban Legend” di Ana Mendieta, che ricorda al lettore come la storia coloniale interviene nella relazione con il territorio, nell’immaginario e nella costruzione culturale della “natura” e del “femminile”. Nonostante il comitato editoriale fosse apparentemente abbastanza omogeneo – per un’analisi critica su questo punto si può leggere l’articolo di Amy Tobin “Heresies’ Heresies: Collaboration and Dispute in a Feminist Publication on Art and Politics” (2019) –, è percettibile nella rivista uno sforzo per non ridurre le esperienze di donne di culture, razze, classi sociali e orientamenti sessuali diversi a quelle di un’unica “donna”, in realtà spesso bianca, occidentale, eterosessuale e di classe media. Articoli come “Listening to Native American Women” di Rocky Olguin, Merle Temkin, Lois Red Elk, Carol Stern, Madonna Thunder Hawk e Margie Bowker, e “Drought: God-Sent or Man-Made Disaster?” e “The Chipko Movement” del Manushi Collective, ne sono un esempio.
Un’altra istanza presente nella rivista, di carattere militante, è quella legata ad azioni di Ecotage, “a combination of ‘ecology’ and ‘sabotage’, come riferisce Janet Culbertson nel suo omonimo articolo [pp.47-49], in cui è sottolineato il ruolo attivo delle donne, attraverso ad esempio azioni di boicottaggio e consumo responsabile, nel combattere qualsiasi forma di sfruttamento ecologico, in nome di un riconoscimento dell’ “interazione tra animali, piante, terra, aria e acqua.” [Ibid.]
EV: L’ecofemminismo è entrato nel dibattito italiano soprattutto attraverso i contributi di Vandana Shiva, anche se è la pubblicazione del 1993, scritta insieme a Maria Mies, che traccia una critica al paradigma capitalista e patriarcale, i suoi legami con l’oppressione di genere e le lotte delle donne contro lo sfruttamento della Terra, dei corpi, dell’ambiente. Quali sono le connessioni transnazionali che avete intercettato?
GL-VB: Fin dal suo primo numero, nel 1977, Heresies cerca di connettersi a esperienze femministe in altri contesti culturali e politici. Nel numero 1, per esempio, viene incluso il progetto La Roquette, Women’s Prison del Groupe des 5 (Parigi), e manifesti di Acción para la liberación de la mujer peruana (Peru) e di Rivolta Femminile. Nel numero 13, un esempio è quello già menzionato del Manushi Collective (India), ma anche il contributo di Ana Lupas (Romania). D’altra parte, collaborano alla rivista artiste migranti che vivono a New York, come la cilena Cecilia Vicuña, arrivata negli Stati Uniti all’inizio degli anni ottanta dopo un periodo passato a Bogotá e di Ana Mendieta, nata a Cuba e da lì migrata negli Stati Uniti nel 1961.
A parte queste connessioni dirette, – come nel caso di Bonnie Ora Sherk, Faith Wilding, Ana Mendieta, Cecilia Vicuña, Maren Hassinger e della poetessa nicaraguense Gioconda Belli – l’esposizione cerca di tracciare linee di incontro transnazionali indirette che non si basano su una partecipazione alla rivista, ma su preoccupazioni ecologiche e femministe condivise. Queste linee di connessione portano ad Alicia Barney, artista pioniera dell’arte ecologica in Colombia, a Teresinha Soares e alla sua esplorazione della sessualità femminile, in Brasile all’inizio degli anni settanta, che coinvolge anche il vegetale, e alle artiste portoghesi Lourdes Castro, Graça Pereira Coutinho, , Maria José Oliveira, Clara Meneres, Emília Nadal e Irene Buarque, che dal Brasile raggiunge il Portogallo con una borsa di studio della Fundação Gulbenkian nel 1973, per poi stabilirvisi definitivamente. Considerando la complessità delle relazioni tra arte e femminismo in Portogallo negli anni settanta – relazioni spesso contradditorie o appena accennate, e nella maggior parte dei casi sottintese anziché esplicite –, ci interessava testare come opere di queste artiste portoghesi avrebbero coabitato e interagito con lavori che articolano posizionamenti politici molto più espliciti.
Ana Mendieta, La Venus Negra, 1981.
EV: Ana Mendieta, per lo stesso numero di Heresies, ha incorporato la leggenda cubana della Venus Negra in un collage testuale che diventava un simbolo leggendario contro la schiavitù, l’affermazione della libertà e il rifiuto ad essere colonizzata. La Venere è chiaramente una finzione dell’immaginazione coloniale, la storia di un corpo femminile nero, marcato dalla differenza di genere e di razza. É la storia di una donna indiana che resiste alla schiavitù, riesce a scappare e perseguita i suoi potenziali rapitori. Le categorie di donna, blackness e natura sono chiamate in causa e la leggenda descrive la pelle nera della Venere (e quella non-bianca dell’artista) come il colore della terra, quindi l’incapacità dei colonizzatori di contenere la Venere nera simboleggia la loro paura nei confronti della natura, delle donne e dell’alterità. Quale il rapporto con le donne e le artiste del Sud nel mondo che vedono il femminismo come un fenomeno d’importazione di matrice bianca, borghese e occidentale – oltre che imperialista, come la stessa Mendieta aveva dichiarato esplicitamente nel 1980, con la sua esposizione Dialectics of Isolation: An Exhibition of Third World Women Artists of the United States, presso A.I.R. rivendicando il potere di parlare da una posizione di isolamento, senza tentativi di inclusività ma continuando ad essere l’Altra…
GL-VB: È molto difficile rispondere a una domanda così ampia tentando di non generalizzare e operare riduzioni – il “sud globale” è composto da contesti culturali estremamente diversi, accomunati, tra le altre cose, da una condizione periferica, e spesso di ex-colonia, ma anche separati da differenze storiche, culturali e politiche. In questo senso, i livelli di riflessione sono molteplici e frequentemente legati tra loro. Possiamo forse pensare al femminismo nord-americano ed europeo come parte di una discussione più ampia sull’egemonia culturale di quest’area sul sud globale negli anni Sessanta e Settanta, che sono quelli in cui emerge una seconda onda femminista. L’egemonia culturale europea, in particolare, che ha anche risvolti politici ed economici, ha radici nel sistema coloniale – radici che hanno avuto le conseguenze che conosciamo in termini epistemologici.
Ana Mendieta, Volcán, 1979.
Negli anni Settanta e Ottanta, molti intellettuali in America Latina hanno riflettuto su questo tipo di relazioni, sull’eurocentrismo e sulla problematica della “dipendenza culturale”. Pensiamo a Silviano Santiago in Brasile, o a Nelly Richard in Cile, il cui discorso è anche centrale per quanto riguarda i femminismi latinoamericani. Una certa critica, però, viene anche da voci diasporiche nel cuore delle metropoli europee – ed un esempio significativo in questo senso è il contributo di Rasheed Araeen nel Regno Unito. L’esposizione da lui organizzata, The Other Story, è del 1989. Allo stesso tempo, il pensiero femminista negli Stati Uniti non ha avuto sviluppi monolitici. Si intreccia, al contrario, ad una forte critica antirazzista, specialmente a partire dagli anni Ottanta, nel lavoro di autrici nere come bell hooks che hanno contribuito ad analizzare e decostruire quella “matrice bianca, borghese e occidentale” del femminismo che tu menzioni. Per questo preferiamo sempre parlare di femminismi anziché femminismo al singolare. Inoltre, emergono alleanze transnazionali e trasversali. Per esempio, il pensiero di bell hooks sull’educazione è fortemente ispirato agli scritti del pedagogo brasiliano Paulo Freire. Gli scritti di bell hooks sono molti importanti, a loro volta, per voci del femminismo antirazzista e decoloniale contemporaneo in Brasile, Portogallo ed oltre, come quella di Grada Kilomba, per esempio, o di Djamila Ribeiro.
Maren Hassinger, Pink Trash, performance in Prospect Park; inclusa in “We Wanted a Revolution – Radical Black Women 1965-1985″, 2017. Photo: Kolin Mendez. Courtesy of Susan Inglett Gallery, NYC.
EV: Nel pensiero patriarcale – sostiene l’economista indiana Bina Agarwal – il femminile è stato identificato con la terra, le donne come esseri vicini alla natura e gli uomini alla cultura. La natura è vista come inferiore alla cultura, così le donne sono ritenute inferiori agli uomini. Nelle egemoniche rappresentazioni del nostro sistema sociale, la dicotomia natura-cultura (come la connessione tra la dominazione e l’oppressione delle donne con la dominazione e lo sfruttamento della natura) altro non è che un costrutto ideologico patriarcale usato per mantenere le gerarchie di genere. Come si relazionano alle questioni ambientali e femministe le artiste e gli artisti in mostra, sia nelle opere storiche che negli interventi site-specific che avete immaginato?
GL-VB: Le relazioni che i lavori stabiliscono con questioni ambientali e femministe è molto vario, a volte si tratta di relazioni molto dirette, a volte di legami un po’ in sordina. Possiamo dare l’esempio di tre opere diverse. Di Maren Hassinger, artista statunitense, abbiamo mostrato delle fotografie che documentano un’azione, Pink Trash, realizzata nel 2017 a New York in occasione dell’esposizione We Wanted a Revolution: Black Radical Women, 1965–85 al Brooklyn Museum. L’azione – realizzata originalmente nel 1982 in diversi parchi a New York – consisteva nel sostituire immondizia lasciata sull’erba dei parchi con “finta” immondizia di colore rosa, preparata precedentemente dall’artista. L’azione ha una dimensione estetica forte – sostituire qualcosa di sporco e dannoso, un residuo della società di consumo, con oggetti esteticamente sorprendenti, quasi fiori colorati o foglie –, ma anche un risvolto politico rilevante. Se il rosa rimanda alla costruzione culturale del “femminile”, questo lavoro invita il pubblico a chiedersi chi ha il ruolo di pulire, in casa come nei parchi, e in che modo questo lavoro così necessario è quasi sempre invisibilizzato e sottostimato. Nell’esposizione a Lisbona, le foto sono accompagnate da immondizia rosa che l’artista ci ha chiesto di raccogliere durante la preparazione della mostra. Osservata alla luce del recente contesto pandemico e conseguenti pratiche di igienizzazione dello spazio pubblico, che hanno fatto emergere il ruolo fondamentale di figure professionali di solito socialmente marginalizzate e sottopagate, il lavoro di Maren Hassinger assume una risonanza ancora più significativa e il suo rosa diventa ancor più vibrante.
Clara Meneres, Mulher–Terra–Mãe (Mulher-Terra-Viva), 1977.
Un altro esempio interessante è l’opera Mulher-Terra-Viva (1977), di Clara Meneres, molto conosciuta nel contesto portoghese e di cui mostriamo fotografie e bozzetti preparatori. Si tratta di una scultura di terra ed erba che ha la forma di un busto nudo di donna distesa. È stata presentata per la prima volta all’esposizione Alternativa Zero a Lisbona nel 1977 e poi, lo stesso anno, in una versione molto maggiore, quasi un paesaggio percorribile, alla Biennale di San Paolo. In questo caso fu installata nel parco della Biennale, l’Ibirapuera. Il discorso dell’artista sull’opera aveva toni un po’ essenzialisti poiché celebrava un legame privilegiato tra donna e natura. Tenendo conto di tutto questo, abbiamo deciso di mostrare il materiale che documenta l’opera inserendolo tra due lavori che hanno un approccio molto diverso: una fotografia di un’azione di Cecilia Vicuña nel fiume Antivero in Cile nel 1981 e due fotografie ricamate di Mónica de Miranda, artista portoghese/angolana, che ritraggono il paesaggio tropicale di São Tomé (2014).
Uriel Orlow, Learning from Artemisia, 2019-20, video a tre canali, suono, 14’16”. Commissionato per la Lubumbashi Biennale IV. Courtesy l’artista, Laveronica, Modica e Mor Charpentier, Parigi.
Infine, l’installazione dell’artista svizzero Uriel Orlow, che ora vive a Lisbona, è molto interessante perché esplora le relazioni complesse e spesso taciute tra capitalismo, estrattivismo, relazioni economiche e politiche nord/sud, mondo vegetale e questioni di genere. L’opera, che si intitola Learning from Artemisia (2019-2020), crea un ambiente circoscritto nello spazio della galleria e costituisce per noi un punto d’arrivo importante nel percorso dell’esposizione.
Uriel Orlow, Learning from Artemisia, 2019-20, video a tre canali, suono, 14’16”. Commissionato per la Lubumbashi Biennale IV. Courtesy l’artista, Laveronica, Modica e Mor Charpentier, Parigi.
Provando a venire incontro alla tua domanda – le opere e gli artisti che abbiamo selezionato tentano di tessere un discorso che, distanziandosi dal modello patriarcale che impone cultura alla natura, propone una correlazione di ciò che Donna Haraway e Bruno Latour, hanno più volte definito come nature-cultures, ovvero come intersezioni ibride in cui natura e cultura non sono considerate in maniera dicotomica, bensì parte di un sistema di interrelazioni. Un approccio che decentra l’essere umano e che nell’ultimo decennio si è sviluppato nelle teorie neo-materialiste di matrice femminista.
Nel contesto artistico contemporaneo abbiamo inoltre considerato rilevante non relegare la tematica femminista a una partecipazione esclusivamente di artiste donne tanto nell’esposizione quanto nelle partecipazioni al catalogo.
EV: La promessa del femminismo ecologico, secondo Ynestra King, per realizzare il suo potenziale liberatorio, deve porre un reenchantment che riunisca spirituale e materiale, essere e conoscenza. «Le donne del Terzo mondo raccontano dell’esperienza di molteplici alterità – di razza, genere e (spesso) oppressione di classe – continua nel suo saggio “Feminism and the Revolt of Nature” su Heresies #13. Stiamo imparando come le vite delle donne sono uguali e diverse in queste divisioni e stiamo iniziando ad affrontare le complessità del razzismo nella nostra cultura, nel nostro movimento e nella nostra teoria». Perché l’ecofemminismo o femminismo ecologico si manifesta come fenomeno importante nell’America Latina e nel subcontinente indiano rispetto alle pratiche artistiche non solo come un’area di studi accademici e angloamericani che riguarda l’indagine e la comprensione della relazione interconnessa tra la dominazione delle donne e la dominazione della natura? Quale il connubio profondo tra sfruttamento capitalista, oppressione di genere (patriarcato) e colonialismo?
GL-VB: La tua domanda è molto vasta. Esiste certamente un connubio che viene esplorato criticamente da pratiche artistiche contemporanee che si sviluppano in aree geografiche e culturali molto diverse. E ci sono vari modi per pensare questa problematica. Il concetto di “colonialità del potere” di Aníbal Quijano può essere utile in questo senso. Il suo testo del 2000, “Colonialidad del Poder, Eurocentrismo y América Latina”, comincia con quest’affermazione: “La globalizzazione in corso è, prima di tutto, il culmine di un processo iniziato con la costituzione dell’America e quella del capitalismo coloniale / moderno ed eurocentrico come nuovo modello di potere mondiale. Uno degli assi fondamentali di questo modello di potere è la classificazione sociale della popolazione mondiale sull’idea di razza, una costruzione mentale che esprime l’esperienza di base della dominazione coloniale e che da allora permea le dimensioni più importanti del potere mondiale, compresa la sua specifica razionalità, l’eurocentrismo. Questo asse ha quindi un’origine e un carattere coloniali, ma si è dimostrato più durevole e stabile del colonialismo nella cui matrice si è stabilito. Di conseguenza, implica un elemento di colonialità nell’attuale modello di potere egemonico mondiale.” La colonialità del potere è legata, chiaramente, anche ad un modello sociale di tipo patriarcale, che fa ancora parte della nostra esperienza quotidiana.
Mónica de Miranda, Eruption, 2017.
Nell’esposizione, una dimensione legata alla storia coloniale è presente in vari lavori. Innanzitutto nell’intervento di Ana Mendieta nella rivista, di cui abbiamo parlato prima, ma anche, per esempio, nel lavoro di Mónica de Miranda. L’esposizione si apre infatti con una grande fotografia di quest’artista che ritrae il paesaggio vulcanico dell’isola di Fogo, nell’arcipelago di Capo Verde. Per noi era importante controbilanciare la copertina della rivista – una fotografia del vulcano Mount St Helen che erutta -, con l’immagine di un vulcano che si iscrive nella geografia post coloniale del mondo lusofono. Questa scelta vuole dire al pubblico: portare Heresies in Portogallo significa prendere in considerazione anche la storia coloniale di questo paese ed i suoi effetti sul presente, tanto individuale come collettivo. Il lavoro di Mónica de Miranda è molto rilevante in questo senso, poiché in esso questioni legate alla memoria coloniale, alla storia del capitalismo occidentale, e questioni di genere, si intersecano in modo molto interessante.
Alicia Barney, El Ecológico, 1981-1982.
Alicia Barney, El Ecológico, 1981-1982.
Alicia Barney, El Ecológico, 1981-1982.
Un altro contributo che critica e mette in risalto sfruttamento capitalista, oppressione di genere e colonialismo è senz’altro – e quasi in maniera iconica – El Ecológico (1981-1982) di Alicia Barney. Si tratta di un’operazione in cui l’artista interviene sulle immagini di quotidiani colombiani dell’epoca applicandovi il timbro “specie in pericolo di estinzione” e “specie non in pericolo di estinzione”, ponendo in allerta lo spettatore (El Espectador è curiosamente il nome del quotidiano che più volte utilizza e che rinomina con El Ecológico) su crimini ambientali, violenza di genere, razzismo, estinzione di minoranze indigene da un lato e stereotipi di bellezza femminile occidentali dominanti, consumo di cibi preconfezionati e altamente processati, razionalizzazione del lavoro ad opera di multinazionali che operano su scala globale. Un tipo di riflessione che non smette – purtroppo – di confermarsi attuale.
EV: Tra le artiste in mostra l’italiana Laura Grisi trova una lettura molto interessante, rispetto alla complessità irriducibile della sua matrice concettuale, ri-orientando criticamente la cosmogonia delle sue stanze fenomeniche e dei lavori con gli elementi naturali – la nebbia, l’acqua, l’arcobaleno e le rifrazioni luminose, l’aria, il vento e la pioggia come “generatori di spazio” – in connessione con la vita intera, umana e non umana, e la centralità della questione ambientale. Ci raccontate qualcosa?
GL-VB: Sì, quello che hai descritto è molto rilevante per l’esposizione. Per ragioni di spazio e configurazione della galleria – che è una galleria storica dell’avanguardia portoghese degli anni settanta, e dove nel 1978 Gina Pane ha fatto una performance –, per noi era impossibile esporre grandi lavori di Laura Grisi. Abbiamo quindi scelto un video del 1972, From One to Four Pebbles, dove l’artista esplora le possibili permutazioni nella disposizione di quattro pietre. Quest’opera, che ha una matrice fortemente concettuale, propone la ricerca di una struttura matematica che possa tracciare una linea di comunicazione tra umano e non-umano. Tra l’altro, il video è presentato vicino ad opere dell’artista brasiliana Irene Buarque che propongono un approccio molto più materico e sensuale del mondo minerale. Di Laura Grisi presentiamo inoltre alcuni lavori sonori, che permettono di sentire la presenza di elementi naturali come vento e acqua dentro allo spazio della galleria, ed il libro d’artista Distillations – 3 Months of Looking, del 1970.
EV: Quale geografia politica avete tracciato disallineando e decolonizzando le istanze narrative ed espositive dentro un’ottica eurocentrica?
GL-VB: La geografia che questa mostra traccia è molto legata allo sviluppo del nostro lavoro nel corso del tempo. Ci sono alcune artiste, come Teresinha Soares, Cecilia Vicuña e Maria José Oliveira, per esempio, sulle quali avevamo già scritto dei testi e quindi si era già creato un legame ed un desiderio di collaborare nell’ambito di nuovi progetti. Con altre artiste, come Maren Hassinger e Faith Wilding, per esempio, con le quali il dialogo è cominciato durante la preparazione dell’esposizione, c’è una voglia di continuare a seguire il loro lavoro e magari scrivere su alcuni aspetti di esso. Insomma, le radici dell’esposizione vengono da lontano e si proiettano verso il futuro, ma proprio per questo non esiste in questo progetto nessuna pretesa di esaustività. Al contrario, questa esposizione vuole essere un progetto tra molti, un nodo in una rete di scambi. In Portogallo, per esempio, prima di questa esposizione, Margarida Mendes ha organizzato un’esposizione molto rilevante, Plant Revolution al Centro Internacional das Artes José de Guimarães nella città di Guimarães (2019).
Cecilia Vicuña, What is Poetry to You, 1980.
Per quanto riguarda invece quello che tu chiami “disallineare” – che è una parola ottima! – le istanze narrative ed espositive, per noi era essenziale, tra le altre cose, proporre una nuova geografia che inserisse il lavoro degli anni Settanta e Ottanta delle artiste portoghesi in dialoghi transnazionali inediti sud-sud e nord-sud. Il lavoro di molte di queste artiste non ha ottenuto il riconoscimento meritato né a livello nazionale né internazionale. Le narrative espositive e della storia dell’arte in Portogallo le hanno fissate in categorie che per noi era interessante tentare di aprire e ripensare. In questo senso ci abbiamo messo una certa dose di audacia. Lo stesso vale per il tentativo di creare dialoghi transgenerazionali che a volte funzionano in modo sorprendente, per esempio tra Teresinha Soares e l’artista portoghese Gabriela Albergaria, tra Lourdes Castro e Rui Horta Pereira, tra Alexandra do Carmo e Cecilia Vicuña. Infine, la parola scritta e la poesia sono un filo conduttore forte che lega molte opere, a cominciare dalla bellissima poesia “Consejos para la Mujer Fuerte” (2018) di cui Gioconda Belli ci ha fatto dono per l’esposizione e dal film di Cecilia Vicuña “What is Poetry to You?” del 1980.
Cecilia Vicuña, What is Poetry to You, 1980.
Se immaginiamo la geografia dell’esposizione come una di quelle azioni di Cecilia Vicuña in cui un filo rosso mostra l’interconnessione e interdipendenza di tutti gli elementi che fanno il pianeta, il filo rosso della mostra passerebbe da Lisbona e New York – Heresies e la galleria Quadrum – per poi connettersi al Sud America, all’Europa del sud ed oltre. L’importante per noi è che questa geografia, intenzionalmente modesta e parziale, non sia chiusa ma sempre aperta a nuovi incontri e a nuovi interventi, nostri e di altri.
Continuando con questa analogia – quasi imitando la successione intervallata di sassi su un corso d’acqua attraversato da fili, come nell’immagine Antivero di Cecilia Vicuña -, riconosciamo da una parte una tensione di relazioni tra il nostro luogo di partenza, Lisbona e il Portogallo, percorrendo un cammino non lineare, attraverso lavori e documentazione di artiste e artisti partecipanti, ma anche di proiezioni da un lato verso discorsi ed esposizioni già realizzati che non intendiamo replicare, bensì convocare (ricordiamo anche “Nous les arbres” alla Fondation Cartier di Parigi nel 2019) e dall’altro verso possibilità ancora da realizzare con altri contributi che potranno dare seguito alla riflessione ecofemminista nel campo delle arti in una prospettiva transnazionale.
EV: Quella della riproduzione è una dimensione sociale ed ecologica: il lavoro riproduttivo (e secolarmente sfruttato ed espropriato delle donne, invisibilizzato e subordinato) insieme alla natura, l’ecosistema, la biosfera (con tutta la ferocia delle economie estrattive e gli effetti devastanti della crisi climatica) sono state risorse gratuite per il capitalismo, come emerge dalla convergenza tra le prospettive transfemministe sull’ecologia politica, anche in seguito alla crisi pandemica che abbiamo e che stiamo attraversando. Quale l’attualità di un approccio eco-transfemminista?
GL-VB: È certamente un approccio di grande attualità e molto interessante. Pensando i femminismi nella loro molteplicità e, soprattutto, intersezionalità, è certo che il transfemminismo ed il femminismo queer hanno molto da portare alla causa ecologista e non solo. È importante citare anche la critica all’antropocentrismo di autrici come Donna Haraway, che per noi hanno avuto un peso teorico forte nel pensare l’esposizione. Per quanto riguarda la crisi pandemica, ha riaffermato in qualche modo l’urgenza di riflettere sulle relazioni tra capitalismo, biopolitica e vita non umana.
EV: Dopo le ricerche curatoriali e accademiche intorno all’ecofemminismo per continuare a “preservare la terra” e “scuotere la terra”, a cui allude efficacemente il titolo dell’esposizione, di cosa vi state occupando in questo momento?
GL-VB: Il primo progetto di entrambe è quello di finalizzare il catalogo! Poi, tra le altre cose, continueremo separatamente le nostre ricerche su Heresies. Infatti, abbiamo vinto entrambe un sussidio di viaggio della Terra Foundation per un breve soggiorno di ricerca a New York nel 2021.
proteggiti dalle bestie che vorranno nutrirsi del tuo cuore.
Usano tutti i travestimenti del carnevale della terra:
si vestono da sensi di colpa, da opportunità,
da prezzi che si devono pagare.
Non per illuminarsi con il tuo fuoco
ma per spegnere la passione
l’erudizione delle tue fantasie
Non perdere l’empatia, ma temi ciò che ti porta a negarti la parola,
a nascondere chi sei,
ciò che ti obbliga a essere remissiva
e ti promette un regno terrestre in cambio
di un sorriso compiacente.
Se sei una donna forte
preparati alla battaglia:
imparare a stare sola
a dormire nella più assoluta oscurità senza paura
che nessuno ti tiri una fune quando ruggisce la tormenta
a nuotare contro corrente.
Educati all’occupazione della riflessione e dell’intelletto.
Leggi, fai l’amore con te stessa, costruisci il tuo castello, circondalo di fossi profondi però fagli ampie porte e finestre.
È necessario che coltivi grandi amicizie
che coloro che ti circondano e ti amano sappiano chi sei,
che tu faccia un circolo di roghi e accenda al centro della tua stanza
una stufa sempre accesa dove si mantenga l’ardore dei tuoi sogni.
Se sei una donna forte proteggiti con parole e alberi
e invoca la memoria di donne antiche.
Fai sapere che sei un campo magnetico.
Proteggi, dai rifugio, però proteggiti per prima.
Costruisciti. Prenditi cura di te.
Apprezza il tuo potere.
Difendilo.
Fallo per te:
Te lo chiedo in nome di tutte noi.
Gioconda Belli
[i] Il numero 13 di Heresies, intitolato “Earthkeeping / Earthshaking” e che ispira la mostra, è disponibile online alla pagina http://heresiesfilmproject.org/wp-content/uploads/2011/10/heresies13.pdf
Intervista a Giulia Lamoni e Vanessa Badagliacca.
Nel 1981 la rivista americana Heresies, orientata all’analisi del rapporto tra arte e politica da una prospettiva femminista, dedicava la sua tredicesima uscita alle relazioni tra femminismo ed ecologia; significativamente intitolata “Earthkeeping/Earthshaking”, comprendeva contributi di autrici di varie nazionalità, tra cui la critica d’arte Lucy Lippard, o artiste come Ana Mendieta, Faith Wilding, Bonnie Ora Sherk, Cecilia Vicuña e Michelle Stuart, nonché la scrittrice Gioconda Belli. Nell’editoriale il collettivo femminista (che aveva fondato il magazine e di grande ispirazione per hotpotatoes) si chiedeva:
L’esposizione che avete curato alla Galeria Quadrum di Lisbona, assume Heresis #13 come punto di partenza e come archivio storico e politico attraverso «opere d’arte ed ephemera di artiste che – durante gli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 – hanno messo in discussione i nostri rapporti individuali e collettivi con la natura e l’ambiente, le dicotomie tra natura e cultura, le tradizionali associazioni del femminile con forze della natura, così come le complesse relazioni tra capitalismo, storie coloniali e degrado ambientale»: come nasce “Earthkeeping / Earthshaking – Art, Feminisms and Ecology”?
Giulia Lamoni e Vanessa Badagliacca: Il progetto della mostra nasce dall’incontro dei nostri percorsi di ricerca in ambito accademico e curatoriale – arte e femminismo in Portogallo e America Latina (Giulia), da un lato, e arte e questioni ecologiche (Vanessa) dall’altro. Pensando alla possibilità di sviluppare un progetto d’esposizione insieme a Lisbona, dove entrambe viviamo da tempo, il numero 13 della rivista Heresies, pubblicato a New York nel 1981 e dedicato alle relazioni tra femminismo e ecologia, ci è sembrato un punto di partenza molto interessante, ricco di potenzialità ma anche di una certa dose di complessità.[i]
Scegliendo Heresies come spunto iniziale, infatti, ci interessava pensare alla capacità della rivista di riunire contributi tra loro molto differenti (in parte raccolti tramite una call) come una specie di metodologia basata sull’eterogeneità che avrebbe potuto costituire una linea guida anche per il nostro lavoro curatoriale. Allo stesso tempo, la sfida per noi non era semplicemente quella di esporre/ trasporre la rivista, ed il lavoro di alcune artiste che hanno partecipato al numero 13, a Lisbona. Si trattava piuttosto di rendere visibili una serie di linee di connessione, e di problematiche, che potenzialmente legano il numero 13 di Heresies alla pratica di artiste attive in altri contesti culturali nello stesso periodo, in Portogallo innanzitutto, ma anche in Colombia, Brasile ed Italia. Per rafforzare il dialogo con il contesto locale – dialogo che per noi è molto importante -, abbiamo poi invitato a partecipare artiste ed artisti più giovani, di varie nazionalità, che attualmente vivono a Lisbona e il cui lavoro è attraversato in modi diversi da questioni legate all’ecologia e di genere.
Earthkeeping/Earthshaking – art, feminisms and ecology, exhibition view, Galeria Quadrum, 2020 © António Jorge Silva
Earthkeeping/Earthshaking – art, feminisms and ecology, exhibition view, Galeria Quadrum, 2020 © António Jorge Silva
Questo intreccio, che poi ha dato vita al tessuto di cui è fatta l’esposizione, aveva come obiettivo dare una profondità storica all’esplorazione delle relazioni tra femminismi e ecologia, mettendo in luce il ruolo, spesso pioniere, del lavoro di molte artiste negli anni settanta e ottanta – per esempio Bonnie Ora Sherk, Cecilia Vicuña, Alicia Barney e Teresinha Soares, per citarne solo alcune. D’altra parte, però, pensando a queste tematiche a partire da un presente caratterizzato da un aggravamento drammatico delle condizioni ambientali – ed in cui un approccio estrattivista rispetto alla vita del pianeta continua ad essere frequente se non dominante e in un contesto pandemico che ha reso ancora più urgente riflettere sulle questioni che la mostra affronta – ci è sembrato necessario creare uno spazio d’incontro con pratiche più recenti, come quelle di Alexandra do Carmo, Uriel Orlow, Rui Horta Pereira, Mónica de Miranda e Gabriela Albergaria.
Non meno importante in questo processo – per noi femminismo ed ecologia non sono esclusivamente tematiche ma costituiscono innanzitutto uno stimolo per ripensare il modo di lavorare insieme – è stata la domanda: come coinvolgere il comitato editoriale della rivista? Tenendo conto dei limiti dell’esposizione – temporali, di spazio e budget –, abbiamo deciso di incontrare via Skype e intervistare le artiste che hanno fatto parte del comitato editoriale (purtroppo non siamo riuscite a rintracciare due di loro). Le interviste saranno pubblicate nel catalogo che è in preparazione e che includerà anche un breve saggio di Lucy Lippard, un’altra figura chiave di Heresies e non solo.
cover Earthkeeping/Earthshaking: Feminism & Ecology, Heresies #13, Vol. 4, No. 1 1981
Elvira Vannini: L’editoriale si conclude spiegando l’immagine della copertina di Heresis #13 che raffigura l’eruzione del 1980 dello stratovulcano Monte Sant’Elena, nello Stato di Washington: «La nostra cover è il Monte Sant’Elena perché è un’immagine di collegamento – un buco interno e un’apertura fuori da quel centro – sia nutritiva che distruttiva. È un’immagine femminile per la forma e la mitologia. Secondo le tradizioni degli indiani Klickitat, il vulcano è Loo-Wit, la vecchia custode del fuoco. Ha mediato una disputa tra i due popoli della zona attraverso il suo fuoco. Quando la disputa si ripresentò, lei e i due leader furono trasformati nel monte Sant’Elena, il monte Hood e il monte Adams. Abbiamo chiamato questo numero di Heresis “Earthkeeping/Earthshaking” perché intendiamo fare entrambe le cose. L’eruzione del Monte Sant’Elena è il nostro simbolo della “rivolta della natura” perché conosciamo il ruolo importante che la cultura femminista avrà in questa rivoluzione». Una metafora molto potente che si allontana da molte posizioni essenzialiste, del femminile come categoria naturalizzata, passiva e simbolica, biologicamente assegnata, emerse intorno all’ecofemminismo. Da quale punto prospettico viene messo a fuoco il rapporto tra arte, ecologia e femminismi in questo numero di Heresies?
Giulia Lamoni e Vanessa Badagliacca: Nell’esposizione, presentando insieme lavori che emergono da pratiche e posizioni estetiche e politiche molto diverse, ci interessava mostrare la complessità irriducibile di questo campo e del modo in cui molte artiste si sono posizionate rispetto all’ecologia, al femminismo e all’ecofemminismo, in maniera diretta, ma molto spesso anche indiretta. D’altronde, Heresies 13 proponeva una lettura tutt’altro che essenzialista di queste relazioni, privilegiando il dialogo tra posizioni diverse. Questa scelta, e la ricerca di un approccio non dualista della questione, è molto evidente nei due testi teorici che aprono il numero 13, di Ynestra King – che scrive, per esempio, “the liberation of women is to be found neither in severing all connections that roots us in nature nor in believing ourselves to be more natural than men” [pp. 14-15] –, e di Joan L. Griscom, che esplora le divisioni tra “nature feminists” e “social feminists”, cercando di costruire un terzo posizionamento, alimentato criticamente da entrambi i punti di vista.
Cecilia Vicuña, Antivero, mixed media, Colchagua, Cile, 1981.
Inoltre, è importante ricordare l’intersezionalità di alcuni contributi. Forse quello di maggior impatto è “La Venus Negra, based on a Cuban Legend” di Ana Mendieta, che ricorda al lettore come la storia coloniale interviene nella relazione con il territorio, nell’immaginario e nella costruzione culturale della “natura” e del “femminile”. Nonostante il comitato editoriale fosse apparentemente abbastanza omogeneo – per un’analisi critica su questo punto si può leggere l’articolo di Amy Tobin “Heresies’ Heresies: Collaboration and Dispute in a Feminist Publication on Art and Politics” (2019) –, è percettibile nella rivista uno sforzo per non ridurre le esperienze di donne di culture, razze, classi sociali e orientamenti sessuali diversi a quelle di un’unica “donna”, in realtà spesso bianca, occidentale, eterosessuale e di classe media. Articoli come “Listening to Native American Women” di Rocky Olguin, Merle Temkin, Lois Red Elk, Carol Stern, Madonna Thunder Hawk e Margie Bowker, e “Drought: God-Sent or Man-Made Disaster?” e “The Chipko Movement” del Manushi Collective, ne sono un esempio.
Un’altra istanza presente nella rivista, di carattere militante, è quella legata ad azioni di Ecotage, “a combination of ‘ecology’ and ‘sabotage’, come riferisce Janet Culbertson nel suo omonimo articolo [pp.47-49], in cui è sottolineato il ruolo attivo delle donne, attraverso ad esempio azioni di boicottaggio e consumo responsabile, nel combattere qualsiasi forma di sfruttamento ecologico, in nome di un riconoscimento dell’ “interazione tra animali, piante, terra, aria e acqua.” [Ibid.]
Earthkeeping/Earthshaking – art, feminisms and ecology, exhibition view, Galeria Quadrum, 2020 © António Jorge Silva
Earthkeeping/Earthshaking – art, feminisms and ecology, exhibition view, Galeria Quadrum, 2020 © António Jorge Silva
EV: L’ecofemminismo è entrato nel dibattito italiano soprattutto attraverso i contributi di Vandana Shiva, anche se è la pubblicazione del 1993, scritta insieme a Maria Mies, che traccia una critica al paradigma capitalista e patriarcale, i suoi legami con l’oppressione di genere e le lotte delle donne contro lo sfruttamento della Terra, dei corpi, dell’ambiente. Quali sono le connessioni transnazionali che avete intercettato?
GL-VB: Fin dal suo primo numero, nel 1977, Heresies cerca di connettersi a esperienze femministe in altri contesti culturali e politici. Nel numero 1, per esempio, viene incluso il progetto La Roquette, Women’s Prison del Groupe des 5 (Parigi), e manifesti di Acción para la liberación de la mujer peruana (Peru) e di Rivolta Femminile. Nel numero 13, un esempio è quello già menzionato del Manushi Collective (India), ma anche il contributo di Ana Lupas (Romania). D’altra parte, collaborano alla rivista artiste migranti che vivono a New York, come la cilena Cecilia Vicuña, arrivata negli Stati Uniti all’inizio degli anni ottanta dopo un periodo passato a Bogotá e di Ana Mendieta, nata a Cuba e da lì migrata negli Stati Uniti nel 1961.
A parte queste connessioni dirette, – come nel caso di Bonnie Ora Sherk, Faith Wilding, Ana Mendieta, Cecilia Vicuña, Maren Hassinger e della poetessa nicaraguense Gioconda Belli – l’esposizione cerca di tracciare linee di incontro transnazionali indirette che non si basano su una partecipazione alla rivista, ma su preoccupazioni ecologiche e femministe condivise. Queste linee di connessione portano ad Alicia Barney, artista pioniera dell’arte ecologica in Colombia, a Teresinha Soares e alla sua esplorazione della sessualità femminile, in Brasile all’inizio degli anni settanta, che coinvolge anche il vegetale, e alle artiste portoghesi Lourdes Castro, Graça Pereira Coutinho, , Maria José Oliveira, Clara Meneres, Emília Nadal e Irene Buarque, che dal Brasile raggiunge il Portogallo con una borsa di studio della Fundação Gulbenkian nel 1973, per poi stabilirvisi definitivamente. Considerando la complessità delle relazioni tra arte e femminismo in Portogallo negli anni settanta – relazioni spesso contradditorie o appena accennate, e nella maggior parte dei casi sottintese anziché esplicite –, ci interessava testare come opere di queste artiste portoghesi avrebbero coabitato e interagito con lavori che articolano posizionamenti politici molto più espliciti.
Ana Mendieta, La Venus Negra, 1981.
EV: Ana Mendieta, per lo stesso numero di Heresies, ha incorporato la leggenda cubana della Venus Negra in un collage testuale che diventava un simbolo leggendario contro la schiavitù, l’affermazione della libertà e il rifiuto ad essere colonizzata. La Venere è chiaramente una finzione dell’immaginazione coloniale, la storia di un corpo femminile nero, marcato dalla differenza di genere e di razza. É la storia di una donna indiana che resiste alla schiavitù, riesce a scappare e perseguita i suoi potenziali rapitori. Le categorie di donna, blackness e natura sono chiamate in causa e la leggenda descrive la pelle nera della Venere (e quella non-bianca dell’artista) come il colore della terra, quindi l’incapacità dei colonizzatori di contenere la Venere nera simboleggia la loro paura nei confronti della natura, delle donne e dell’alterità. Quale il rapporto con le donne e le artiste del Sud nel mondo che vedono il femminismo come un fenomeno d’importazione di matrice bianca, borghese e occidentale – oltre che imperialista, come la stessa Mendieta aveva dichiarato esplicitamente nel 1980, con la sua esposizione Dialectics of Isolation: An Exhibition of Third World Women Artists of the United States, presso A.I.R. rivendicando il potere di parlare da una posizione di isolamento, senza tentativi di inclusività ma continuando ad essere l’Altra…
GL-VB: È molto difficile rispondere a una domanda così ampia tentando di non generalizzare e operare riduzioni – il “sud globale” è composto da contesti culturali estremamente diversi, accomunati, tra le altre cose, da una condizione periferica, e spesso di ex-colonia, ma anche separati da differenze storiche, culturali e politiche. In questo senso, i livelli di riflessione sono molteplici e frequentemente legati tra loro. Possiamo forse pensare al femminismo nord-americano ed europeo come parte di una discussione più ampia sull’egemonia culturale di quest’area sul sud globale negli anni Sessanta e Settanta, che sono quelli in cui emerge una seconda onda femminista. L’egemonia culturale europea, in particolare, che ha anche risvolti politici ed economici, ha radici nel sistema coloniale – radici che hanno avuto le conseguenze che conosciamo in termini epistemologici.
Ana Mendieta, Volcán, 1979.
Negli anni Settanta e Ottanta, molti intellettuali in America Latina hanno riflettuto su questo tipo di relazioni, sull’eurocentrismo e sulla problematica della “dipendenza culturale”. Pensiamo a Silviano Santiago in Brasile, o a Nelly Richard in Cile, il cui discorso è anche centrale per quanto riguarda i femminismi latinoamericani. Una certa critica, però, viene anche da voci diasporiche nel cuore delle metropoli europee – ed un esempio significativo in questo senso è il contributo di Rasheed Araeen nel Regno Unito. L’esposizione da lui organizzata, The Other Story, è del 1989. Allo stesso tempo, il pensiero femminista negli Stati Uniti non ha avuto sviluppi monolitici. Si intreccia, al contrario, ad una forte critica antirazzista, specialmente a partire dagli anni Ottanta, nel lavoro di autrici nere come bell hooks che hanno contribuito ad analizzare e decostruire quella “matrice bianca, borghese e occidentale” del femminismo che tu menzioni. Per questo preferiamo sempre parlare di femminismi anziché femminismo al singolare. Inoltre, emergono alleanze transnazionali e trasversali. Per esempio, il pensiero di bell hooks sull’educazione è fortemente ispirato agli scritti del pedagogo brasiliano Paulo Freire. Gli scritti di bell hooks sono molti importanti, a loro volta, per voci del femminismo antirazzista e decoloniale contemporaneo in Brasile, Portogallo ed oltre, come quella di Grada Kilomba, per esempio, o di Djamila Ribeiro.
Maren Hassinger, Pink Trash, performance in Prospect Park; inclusa in “We Wanted a Revolution – Radical Black Women 1965-1985″, 2017. Photo: Kolin Mendez. Courtesy of Susan Inglett Gallery, NYC.
EV: Nel pensiero patriarcale – sostiene l’economista indiana Bina Agarwal – il femminile è stato identificato con la terra, le donne come esseri vicini alla natura e gli uomini alla cultura. La natura è vista come inferiore alla cultura, così le donne sono ritenute inferiori agli uomini. Nelle egemoniche rappresentazioni del nostro sistema sociale, la dicotomia natura-cultura (come la connessione tra la dominazione e l’oppressione delle donne con la dominazione e lo sfruttamento della natura) altro non è che un costrutto ideologico patriarcale usato per mantenere le gerarchie di genere. Come si relazionano alle questioni ambientali e femministe le artiste e gli artisti in mostra, sia nelle opere storiche che negli interventi site-specific che avete immaginato?
GL-VB: Le relazioni che i lavori stabiliscono con questioni ambientali e femministe è molto vario, a volte si tratta di relazioni molto dirette, a volte di legami un po’ in sordina. Possiamo dare l’esempio di tre opere diverse. Di Maren Hassinger, artista statunitense, abbiamo mostrato delle fotografie che documentano un’azione, Pink Trash, realizzata nel 2017 a New York in occasione dell’esposizione We Wanted a Revolution: Black Radical Women, 1965–85 al Brooklyn Museum. L’azione – realizzata originalmente nel 1982 in diversi parchi a New York – consisteva nel sostituire immondizia lasciata sull’erba dei parchi con “finta” immondizia di colore rosa, preparata precedentemente dall’artista. L’azione ha una dimensione estetica forte – sostituire qualcosa di sporco e dannoso, un residuo della società di consumo, con oggetti esteticamente sorprendenti, quasi fiori colorati o foglie –, ma anche un risvolto politico rilevante. Se il rosa rimanda alla costruzione culturale del “femminile”, questo lavoro invita il pubblico a chiedersi chi ha il ruolo di pulire, in casa come nei parchi, e in che modo questo lavoro così necessario è quasi sempre invisibilizzato e sottostimato. Nell’esposizione a Lisbona, le foto sono accompagnate da immondizia rosa che l’artista ci ha chiesto di raccogliere durante la preparazione della mostra. Osservata alla luce del recente contesto pandemico e conseguenti pratiche di igienizzazione dello spazio pubblico, che hanno fatto emergere il ruolo fondamentale di figure professionali di solito socialmente marginalizzate e sottopagate, il lavoro di Maren Hassinger assume una risonanza ancora più significativa e il suo rosa diventa ancor più vibrante.
Clara Meneres, Mulher–Terra–Mãe (Mulher-Terra-Viva), 1977.
Un altro esempio interessante è l’opera Mulher-Terra-Viva (1977), di Clara Meneres, molto conosciuta nel contesto portoghese e di cui mostriamo fotografie e bozzetti preparatori. Si tratta di una scultura di terra ed erba che ha la forma di un busto nudo di donna distesa. È stata presentata per la prima volta all’esposizione Alternativa Zero a Lisbona nel 1977 e poi, lo stesso anno, in una versione molto maggiore, quasi un paesaggio percorribile, alla Biennale di San Paolo. In questo caso fu installata nel parco della Biennale, l’Ibirapuera. Il discorso dell’artista sull’opera aveva toni un po’ essenzialisti poiché celebrava un legame privilegiato tra donna e natura. Tenendo conto di tutto questo, abbiamo deciso di mostrare il materiale che documenta l’opera inserendolo tra due lavori che hanno un approccio molto diverso: una fotografia di un’azione di Cecilia Vicuña nel fiume Antivero in Cile nel 1981 e due fotografie ricamate di Mónica de Miranda, artista portoghese/angolana, che ritraggono il paesaggio tropicale di São Tomé (2014).
Uriel Orlow, Learning from Artemisia, 2019-20, video a tre canali, suono, 14’16”. Commissionato per la Lubumbashi Biennale IV. Courtesy l’artista, Laveronica, Modica e Mor Charpentier, Parigi.
Infine, l’installazione dell’artista svizzero Uriel Orlow, che ora vive a Lisbona, è molto interessante perché esplora le relazioni complesse e spesso taciute tra capitalismo, estrattivismo, relazioni economiche e politiche nord/sud, mondo vegetale e questioni di genere. L’opera, che si intitola Learning from Artemisia (2019-2020), crea un ambiente circoscritto nello spazio della galleria e costituisce per noi un punto d’arrivo importante nel percorso dell’esposizione.
Uriel Orlow, Learning from Artemisia, 2019-20, video a tre canali, suono, 14’16”. Commissionato per la Lubumbashi Biennale IV. Courtesy l’artista, Laveronica, Modica e Mor Charpentier, Parigi.
Provando a venire incontro alla tua domanda – le opere e gli artisti che abbiamo selezionato tentano di tessere un discorso che, distanziandosi dal modello patriarcale che impone cultura alla natura, propone una correlazione di ciò che Donna Haraway e Bruno Latour, hanno più volte definito come nature-cultures, ovvero come intersezioni ibride in cui natura e cultura non sono considerate in maniera dicotomica, bensì parte di un sistema di interrelazioni. Un approccio che decentra l’essere umano e che nell’ultimo decennio si è sviluppato nelle teorie neo-materialiste di matrice femminista.
Nel contesto artistico contemporaneo abbiamo inoltre considerato rilevante non relegare la tematica femminista a una partecipazione esclusivamente di artiste donne tanto nell’esposizione quanto nelle partecipazioni al catalogo.
Earthkeeping/Earthshaking – art, feminisms and ecology, exhibition view, Galeria Quadrum, 2020 © António Jorge Silva
Earthkeeping/Earthshaking – art, feminisms and ecology, exhibition view, Galeria Quadrum, 2020 © António Jorge Silva
EV: La promessa del femminismo ecologico, secondo Ynestra King, per realizzare il suo potenziale liberatorio, deve porre un reenchantment che riunisca spirituale e materiale, essere e conoscenza. «Le donne del Terzo mondo raccontano dell’esperienza di molteplici alterità – di razza, genere e (spesso) oppressione di classe – continua nel suo saggio “Feminism and the Revolt of Nature” su Heresies #13. Stiamo imparando come le vite delle donne sono uguali e diverse in queste divisioni e stiamo iniziando ad affrontare le complessità del razzismo nella nostra cultura, nel nostro movimento e nella nostra teoria». Perché l’ecofemminismo o femminismo ecologico si manifesta come fenomeno importante nell’America Latina e nel subcontinente indiano rispetto alle pratiche artistiche non solo come un’area di studi accademici e angloamericani che riguarda l’indagine e la comprensione della relazione interconnessa tra la dominazione delle donne e la dominazione della natura? Quale il connubio profondo tra sfruttamento capitalista, oppressione di genere (patriarcato) e colonialismo?
GL-VB: La tua domanda è molto vasta. Esiste certamente un connubio che viene esplorato criticamente da pratiche artistiche contemporanee che si sviluppano in aree geografiche e culturali molto diverse. E ci sono vari modi per pensare questa problematica. Il concetto di “colonialità del potere” di Aníbal Quijano può essere utile in questo senso. Il suo testo del 2000, “Colonialidad del Poder, Eurocentrismo y América Latina”, comincia con quest’affermazione: “La globalizzazione in corso è, prima di tutto, il culmine di un processo iniziato con la costituzione dell’America e quella del capitalismo coloniale / moderno ed eurocentrico come nuovo modello di potere mondiale. Uno degli assi fondamentali di questo modello di potere è la classificazione sociale della popolazione mondiale sull’idea di razza, una costruzione mentale che esprime l’esperienza di base della dominazione coloniale e che da allora permea le dimensioni più importanti del potere mondiale, compresa la sua specifica razionalità, l’eurocentrismo. Questo asse ha quindi un’origine e un carattere coloniali, ma si è dimostrato più durevole e stabile del colonialismo nella cui matrice si è stabilito. Di conseguenza, implica un elemento di colonialità nell’attuale modello di potere egemonico mondiale.” La colonialità del potere è legata, chiaramente, anche ad un modello sociale di tipo patriarcale, che fa ancora parte della nostra esperienza quotidiana.
Mónica de Miranda, Eruption, 2017.
Nell’esposizione, una dimensione legata alla storia coloniale è presente in vari lavori. Innanzitutto nell’intervento di Ana Mendieta nella rivista, di cui abbiamo parlato prima, ma anche, per esempio, nel lavoro di Mónica de Miranda. L’esposizione si apre infatti con una grande fotografia di quest’artista che ritrae il paesaggio vulcanico dell’isola di Fogo, nell’arcipelago di Capo Verde. Per noi era importante controbilanciare la copertina della rivista – una fotografia del vulcano Mount St Helen che erutta -, con l’immagine di un vulcano che si iscrive nella geografia post coloniale del mondo lusofono. Questa scelta vuole dire al pubblico: portare Heresies in Portogallo significa prendere in considerazione anche la storia coloniale di questo paese ed i suoi effetti sul presente, tanto individuale come collettivo. Il lavoro di Mónica de Miranda è molto rilevante in questo senso, poiché in esso questioni legate alla memoria coloniale, alla storia del capitalismo occidentale, e questioni di genere, si intersecano in modo molto interessante.
Alicia Barney, El Ecológico, 1981-1982.
Alicia Barney, El Ecológico, 1981-1982.
Alicia Barney, El Ecológico, 1981-1982.
Un altro contributo che critica e mette in risalto sfruttamento capitalista, oppressione di genere e colonialismo è senz’altro – e quasi in maniera iconica – El Ecológico (1981-1982) di Alicia Barney. Si tratta di un’operazione in cui l’artista interviene sulle immagini di quotidiani colombiani dell’epoca applicandovi il timbro “specie in pericolo di estinzione” e “specie non in pericolo di estinzione”, ponendo in allerta lo spettatore (El Espectador è curiosamente il nome del quotidiano che più volte utilizza e che rinomina con El Ecológico) su crimini ambientali, violenza di genere, razzismo, estinzione di minoranze indigene da un lato e stereotipi di bellezza femminile occidentali dominanti, consumo di cibi preconfezionati e altamente processati, razionalizzazione del lavoro ad opera di multinazionali che operano su scala globale. Un tipo di riflessione che non smette – purtroppo – di confermarsi attuale.
Laura Grisi, The Measuring of Time, 1969, b-w digital video from 16mm film, 5’45 © P420 Bologna.
EV: Tra le artiste in mostra l’italiana Laura Grisi trova una lettura molto interessante, rispetto alla complessità irriducibile della sua matrice concettuale, ri-orientando criticamente la cosmogonia delle sue stanze fenomeniche e dei lavori con gli elementi naturali – la nebbia, l’acqua, l’arcobaleno e le rifrazioni luminose, l’aria, il vento e la pioggia come “generatori di spazio” – in connessione con la vita intera, umana e non umana, e la centralità della questione ambientale. Ci raccontate qualcosa?
GL-VB: Sì, quello che hai descritto è molto rilevante per l’esposizione. Per ragioni di spazio e configurazione della galleria – che è una galleria storica dell’avanguardia portoghese degli anni settanta, e dove nel 1978 Gina Pane ha fatto una performance –, per noi era impossibile esporre grandi lavori di Laura Grisi. Abbiamo quindi scelto un video del 1972, From One to Four Pebbles, dove l’artista esplora le possibili permutazioni nella disposizione di quattro pietre. Quest’opera, che ha una matrice fortemente concettuale, propone la ricerca di una struttura matematica che possa tracciare una linea di comunicazione tra umano e non-umano. Tra l’altro, il video è presentato vicino ad opere dell’artista brasiliana Irene Buarque che propongono un approccio molto più materico e sensuale del mondo minerale. Di Laura Grisi presentiamo inoltre alcuni lavori sonori, che permettono di sentire la presenza di elementi naturali come vento e acqua dentro allo spazio della galleria, ed il libro d’artista Distillations – 3 Months of Looking, del 1970.
Laura Grisi, The Measuring of Time, 1969, b-w digital video from 16mm film, 5’45 © P420 Bologna.
Laura Grisi, The Measuring of Time, 1969, b-w digital video from 16mm film, 5’45 © P420 Bologna.
EV: Quale geografia politica avete tracciato disallineando e decolonizzando le istanze narrative ed espositive dentro un’ottica eurocentrica?
GL-VB: La geografia che questa mostra traccia è molto legata allo sviluppo del nostro lavoro nel corso del tempo. Ci sono alcune artiste, come Teresinha Soares, Cecilia Vicuña e Maria José Oliveira, per esempio, sulle quali avevamo già scritto dei testi e quindi si era già creato un legame ed un desiderio di collaborare nell’ambito di nuovi progetti. Con altre artiste, come Maren Hassinger e Faith Wilding, per esempio, con le quali il dialogo è cominciato durante la preparazione dell’esposizione, c’è una voglia di continuare a seguire il loro lavoro e magari scrivere su alcuni aspetti di esso. Insomma, le radici dell’esposizione vengono da lontano e si proiettano verso il futuro, ma proprio per questo non esiste in questo progetto nessuna pretesa di esaustività. Al contrario, questa esposizione vuole essere un progetto tra molti, un nodo in una rete di scambi. In Portogallo, per esempio, prima di questa esposizione, Margarida Mendes ha organizzato un’esposizione molto rilevante, Plant Revolution al Centro Internacional das Artes José de Guimarães nella città di Guimarães (2019).
Cecilia Vicuña, What is Poetry to You, 1980.
Per quanto riguarda invece quello che tu chiami “disallineare” – che è una parola ottima! – le istanze narrative ed espositive, per noi era essenziale, tra le altre cose, proporre una nuova geografia che inserisse il lavoro degli anni Settanta e Ottanta delle artiste portoghesi in dialoghi transnazionali inediti sud-sud e nord-sud. Il lavoro di molte di queste artiste non ha ottenuto il riconoscimento meritato né a livello nazionale né internazionale. Le narrative espositive e della storia dell’arte in Portogallo le hanno fissate in categorie che per noi era interessante tentare di aprire e ripensare. In questo senso ci abbiamo messo una certa dose di audacia. Lo stesso vale per il tentativo di creare dialoghi transgenerazionali che a volte funzionano in modo sorprendente, per esempio tra Teresinha Soares e l’artista portoghese Gabriela Albergaria, tra Lourdes Castro e Rui Horta Pereira, tra Alexandra do Carmo e Cecilia Vicuña. Infine, la parola scritta e la poesia sono un filo conduttore forte che lega molte opere, a cominciare dalla bellissima poesia “Consejos para la Mujer Fuerte” (2018) di cui Gioconda Belli ci ha fatto dono per l’esposizione e dal film di Cecilia Vicuña “What is Poetry to You?” del 1980.
Cecilia Vicuña, What is Poetry to You, 1980.
Se immaginiamo la geografia dell’esposizione come una di quelle azioni di Cecilia Vicuña in cui un filo rosso mostra l’interconnessione e interdipendenza di tutti gli elementi che fanno il pianeta, il filo rosso della mostra passerebbe da Lisbona e New York – Heresies e la galleria Quadrum – per poi connettersi al Sud America, all’Europa del sud ed oltre. L’importante per noi è che questa geografia, intenzionalmente modesta e parziale, non sia chiusa ma sempre aperta a nuovi incontri e a nuovi interventi, nostri e di altri.
Continuando con questa analogia – quasi imitando la successione intervallata di sassi su un corso d’acqua attraversato da fili, come nell’immagine Antivero di Cecilia Vicuña -, riconosciamo da una parte una tensione di relazioni tra il nostro luogo di partenza, Lisbona e il Portogallo, percorrendo un cammino non lineare, attraverso lavori e documentazione di artiste e artisti partecipanti, ma anche di proiezioni da un lato verso discorsi ed esposizioni già realizzati che non intendiamo replicare, bensì convocare (ricordiamo anche “Nous les arbres” alla Fondation Cartier di Parigi nel 2019) e dall’altro verso possibilità ancora da realizzare con altri contributi che potranno dare seguito alla riflessione ecofemminista nel campo delle arti in una prospettiva transnazionale.
Maria José Oliveira, TERRA CORPO ESTRELAS, 2020, installazione, dimensioni variabili © António Jorge Silva
EV: Quella della riproduzione è una dimensione sociale ed ecologica: il lavoro riproduttivo (e secolarmente sfruttato ed espropriato delle donne, invisibilizzato e subordinato) insieme alla natura, l’ecosistema, la biosfera (con tutta la ferocia delle economie estrattive e gli effetti devastanti della crisi climatica) sono state risorse gratuite per il capitalismo, come emerge dalla convergenza tra le prospettive transfemministe sull’ecologia politica, anche in seguito alla crisi pandemica che abbiamo e che stiamo attraversando. Quale l’attualità di un approccio eco-transfemminista?
GL-VB: È certamente un approccio di grande attualità e molto interessante. Pensando i femminismi nella loro molteplicità e, soprattutto, intersezionalità, è certo che il transfemminismo ed il femminismo queer hanno molto da portare alla causa ecologista e non solo. È importante citare anche la critica all’antropocentrismo di autrici come Donna Haraway, che per noi hanno avuto un peso teorico forte nel pensare l’esposizione. Per quanto riguarda la crisi pandemica, ha riaffermato in qualche modo l’urgenza di riflettere sulle relazioni tra capitalismo, biopolitica e vita non umana.
EV: Dopo le ricerche curatoriali e accademiche intorno all’ecofemminismo per continuare a “preservare la terra” e “scuotere la terra”, a cui allude efficacemente il titolo dell’esposizione, di cosa vi state occupando in questo momento?
GL-VB: Il primo progetto di entrambe è quello di finalizzare il catalogo! Poi, tra le altre cose, continueremo separatamente le nostre ricerche su Heresies. Infatti, abbiamo vinto entrambe un sussidio di viaggio della Terra Foundation per un breve soggiorno di ricerca a New York nel 2021.
Gioconda Belli, Consejos para la mujer fuerte (Consigli per una Donna Forte) 2018 ©António Jorge Silva
CONSIGLI PER UNA DONNA FORTE
Se sei una donna forte
proteggiti dalle bestie che vorranno nutrirsi del tuo cuore.
Usano tutti i travestimenti del carnevale della terra:
si vestono da sensi di colpa, da opportunità,
da prezzi che si devono pagare.
Non per illuminarsi con il tuo fuoco
ma per spegnere la passione
l’erudizione delle tue fantasie
Non perdere l’empatia, ma temi ciò che ti porta a negarti la parola,
a nascondere chi sei,
ciò che ti obbliga a essere remissiva
e ti promette un regno terrestre in cambio
di un sorriso compiacente.
Se sei una donna forte
preparati alla battaglia:
imparare a stare sola
a dormire nella più assoluta oscurità senza paura
che nessuno ti tiri una fune quando ruggisce la tormenta
a nuotare contro corrente.
Educati all’occupazione della riflessione e dell’intelletto.
Leggi, fai l’amore con te stessa, costruisci il tuo castello, circondalo di fossi profondi però fagli ampie porte e finestre.
È necessario che coltivi grandi amicizie
che coloro che ti circondano e ti amano sappiano chi sei,
che tu faccia un circolo di roghi e accenda al centro della tua stanza
una stufa sempre accesa dove si mantenga l’ardore dei tuoi sogni.
Se sei una donna forte proteggiti con parole e alberi
e invoca la memoria di donne antiche.
Fai sapere che sei un campo magnetico.
Proteggi, dai rifugio, però proteggiti per prima.
Costruisciti. Prenditi cura di te.
Apprezza il tuo potere.
Difendilo.
Fallo per te:
Te lo chiedo in nome di tutte noi.
Gioconda Belli
[i] Il numero 13 di Heresies, intitolato “Earthkeeping / Earthshaking” e che ispira la mostra, è disponibile online alla pagina http://heresiesfilmproject.org/wp-content/uploads/2011/10/heresies13.pdf