TODO ESO ES FEMINISMO. Intervista ad Andrea Giunta, curatrice della 12ª Bienal de Mercosur

«L’arte latinoamericana è rappresentata in questa Biennale in modo diverso in termini di razza. Se ho sostenuto, in diverse occasioni, che il canone dell’arte e dell’arte latinoamericana è prevalentemente bianco, patriarcale o machista e classista, nelle selezioni che abbiamo fatto, abbiamo proposto di invertire quel canone. La presenza afroamericana è al centro della Biennale». La 12ª Bienal del Mercosur, significativamente intitolata Feminine(s): visualities, actions and affections, è così raccontata dalla curatrice Andrea Giunta e il suo team, composto da Fabiana Lopes (Brasile), Dorota Biczel (Polonia) e Igor Simões (Brasile), come un tessuto che intreccia i territori più diversi attraverso vie di fuga, punti di sutura, trame e orditi che compongono una sorta di comunità affettiva e critica che accomuna arte e attivismo attorno allo sradicamento della violenza contro le donne e i gruppi LGBTTQ+, per decolonizzare le soggettività dominate e marginalizzate e, insieme, reinventare funzioni, linguaggi e paradigmi espositivi per ribaltare la prospettiva.

Sono trascorsi oltre tre mesi di isolamento in tutto il mondo. Molti musei sono ancora chiusi, così come le Biennali e le fiere sono state annullate e rinviate direttamente al 2021. La Biennale del Mercosur, che si tiene a Porto Alegre, in Brasile, da oltre 20 anni – Organizzata dalla Visuais do Mercosul Biennial Arts Foundation e presieduta da Gilberto Schwartsmann – avrebbe dovuto aprire la sua dodicesima edizione lo scorso 16 aprile, ma la grave emergenza pandemica in atto ne ha trasformato il formato ma non la radicalità delle sue premesse. La Biennale sarà on-line e si concentrerà sulle proposte di artiste e artist* e di tutte le sensibilità non binarie e non normative, “per discutere questioni come la violenza razziale, sociale e di genere, e le disuguaglianze; contro ogni discriminazione, esclusione e povertà, oltre che la devastazione ambientale in atto, temi ancora più urgenti e attuali dall’inizio della pandemia”.

È stato avviato un programma educativo per il quale hanno fatto domanda 1.600 educatori e docenti: le lezioni online raggiungono migliaia di studenti in Brasile, costruendo spazi di incontro tra artisti, curatori, pubblico ed educatori. Le voci delle donne di colore stanno partecipano in prima persona a queste azioni, assumendone lo sguardo e la prospettiva come asse concettuale per la creazione di laboratori e attività educative.

Aline Motta, (Outros) fundamentos, 2017-2019 © Bienal Mercosur.

Autrice del libro Feminismo y arte latinoamericano. Historias de artistas que emanciparon el cuerpo e del recente Contra el canon: El arte contemporáneo en un mundo sin centro (Arte y pensamiento), co-curatrice della mostra Radical Women. Latin American Art, 1960-1985, Andrea Giunta, che esplora da sempre la storiografia artistica ai margini di quella tradizionale, come vettore di decentramento di alcuni binarismi (centro/periferia; maschile/femminile; dominazione/subordinazione, egemonia/subalternità), ci ha raccontato questa edizione anomala ed emergenziale della Biennale, in un paese, come il Brasile, guidato dalla politica criminale e fascista di Bolsonaro, in cui deve essere stato complesso inserire nel dibattito pubblico violento e reazionario, il termine femminismo con tutta la sua potenza radicata nella storia e nelle lotte transnazionali del presente. In un bel testo uscito in questi giorni, Mariairis Flores si chiede: Perché il femminile (s) e non il femminismo (s), sapendo come il lavoro di Andrea Giunta non si pone di certo problemi a rivendicare il femminismo come luogo di azione per la storia dell’arte, la ricerca e la produzione artistica? Questo è spiegato nel suo ultimo libro: Feminismo y arte latinoamericano, che, invece, non omette il concetto in questione. Nel 1983 Nelly Richard, critica culturale, scrisse il saggio Un femenino obrando en el lenguaje, un primo testo in cui affermava:

«È già necessario dissociare il femminile dal supporto della donna che di solito lo esemplifica nell’immediatezza della sua corrispondenza naturalistica al fine di automatizzare quella forza di rottura all’interno di qualsiasi pratica – firmata da uomini o donne – che intenda mettere in discussione la maggior parte dell’apparato di rappresentazione maschile e di violare la norma della comunicazione dominante». (Richard, 1983)

Sebastián Calfuqueo, Mirar, 2019, © Bienal Mercosur.

Il sistema binario, patriarcale ed eteronormativo, che il femminismo si propone di smantellare ha costretto a ripensare nuove strategie dentro un circuito artistico caratterizzato da un altissimo grado di invisibilità per le donne, per la comunità LGBT, i gruppi indigeni e afro-discendenti, i settori popolari ed emarginati. Occorre comprendere il femminile come un rovesciamento in qualsiasi processo di rappresentazione che si dichiari costitutivamente unitario e universalizzante, in quanto il femminile come minoranza all’interno del sistema patriarcale è sempre posizionato nella differenza.

Conclude Mariairis Flores: “la Biennale estende il femminile (come differenza) a un’intersezionalità dirompente che comprende le oppressioni di razza, genere, sesso e classe come parte della stessa matrice moderno-coloniale e razzista di genere (concetto proposto da Yuderkys Espinosa) e che si oppone alle “donne” come soggetto universale che vivrebbe la stessa oppressione in modo uniforme, ignorando le origini della classe e della razza”.

Judy Chicago, Desert Atmosphere, Video Still, 1968-74 © Bienal Mercosur.

Roberta Garieri – Elvira Vannini: La crisi, di cui la pandemia è espressione (dentro le attuali condizioni del capitalismo patriarcale), e i suoi differenti gradi di vulnerabilità dipendono dalle diseguaglianze che passano attraverso le linee della classe, della razza, della marginalità e del genere. Non possiamo immaginare come sarebbe questa emergenza mondiale senza la precedente politicizzazione della cura, la centralità del lavoro riproduttivo e il potere della cooperazione sociale che i movimenti femministi e trans-femministi rivendicano da anni: questo vocabolario deriva da quella storia e da quelle lotte transnazionali. Ni una menos ha mostrato la connessione costitutiva e strutturale tra violenza patriarcale, coloniale e capitalista. Come percepisci la relazione tra la pratica curatoriale e l’urgenza di dare voce a questioni di genere, queer, sociopolitiche ed ecologiche?

Andrea Giunta: Come attivista e militante femminista, ho una chiara consapevolezza della centralità del lavoro domestico come cura, dei suoi luoghi produttivi, la cui teoria potrebbe essere immediatamente trasferita alle condizioni del presente – la vita che si è sviluppata quasi esclusivamente nella reclusione delle nostre case. Ma devo essere sincera: la trasformazione di tutti i luoghi del corpo, degli affetti e del pensiero che ha causato la pandemia ci ha lasciato, inizialmente, paralizzate. Ad esempio, perché la casa – come spazio di cura – si è trasformato in uno spazio di minacce per le donne che, isolate dalla quarantena, si sono trovate a vivere con i loro aggressori. Anche perché il virus ha colpito profondamente i sensi, il gusto e l’olfatto a causa della sua stessa sintomatologia, ma anche il tatto e la vista: vietato il primo, straordinariamente ampliato il secondo. La vista è stata riconfigurata nello spazio domestico e davanti le superfici liquide dei cellulari, dei computer, degli schermi al plasma. Era il nostro unico contatto con il locale, con gran parte delle relazioni sociali e familiari, e con l’ordine globale. Abbiamo anche riconfigurato la grammatica del suono, sentito rumori in casa che non conoscevamo.

Rosana Paulino, A Geometria à Brasileira chega ao paraíso tropical – Amarelo (Brazilian Geometry arrives in tropical paradise – Yellow), 2017/2018 © Bienal Mercosur.

Quindi, davanti l’esplosione del sentire e degli affetti, il campo d’azione del curatore sembrava insignificante. Ci si è interrogati su cosa fare di fronte a questa nuova e immensa complessità, cosa fare di noi, dei nostri affetti, delle nostre perdite. E capisco che molti colleghi abbiano deciso di fermarsi, non richiedere, non fare nulla. Forse a causa della mia esperienza nell’attivismo, non posso militare la paralisi. Credo che il fare si possa articolare criticamente, senza che questo implichi un’obbedienza produttivista. Quindi ti rispondo, non sento di dover fare la predica, della futurologia, di dire come intendo il ruolo del curatore in questo contesto e nei termini di dare voce alle politiche del corpo, alle questioni legate al genere, al queer, o all’ecologia. Avrei potuto pensarlo prima, quando ho iniziato ad articolare la Biennale. Penso che lo statement curatoriale sia chiaro in termini di programma di idee e di trasformazioni a cui aspirava la Biennale. Non posso fare la predica oggi. Posso solo dire che ciò che abbiamo pensato prima ha acquisito senso e urgenza durante i giorni di confinamento e isolamento. Termini come “affetti”, “azioni” hanno assunto un nuovo significato. Pensare a partire dalle pratiche, pensare criticamente da esse è per me una forma di insubordinazione rispetto allo scenario di immobilità che ha segnato la pandemia. Abbiamo scelto di mantenere il lavoro del team della Biennale il più a lungo possibile, abbiamo deciso di rispettare i contratti con gli artisti anche quando la Biennale non è stata fisicamente inaugurata e abbiamo scelto di reintegrare opere e poetiche in quanti più formati possibili per aiutarci a pensare il presente. Invece di interromperci aspettando la normalità, ci siamo interrogate su cosa fosse la normalità e se veramente volevamo tornare nel mondo che ci siamo lasciate alle spalle, che ci ha fermato, a noi umani, a metà marzo. E l’abbiamo fatto attraverso opere che hanno messo in scena affetti e pensiero critico in centinaia di modi diversi. Tutto questo è femminismo.

Priscila Rezende, Bombril, 2010 © Bienal Mercosur.

Priscila Rezende, Bombril, 2010 © Bienal Mercosur.

RG-EV: L’idea della «conoscenza situata» [Haraway], l’impiego dell’intersezionalità e della politica del posizionamento come fondamento metodologico e di pratica politica femminista può essere uno strumento critico per ripesare il formato espositivo della Biennale? Come liberarsi da tutti quei principi e costrutti culturali basati sulla parzialità bianca e maschile dell’universalismo, portavoce di un punto di vista neutrale e assoluto della storia globale, su cui ha costruito il proprio dominio escludendo quello che poteva intaccare la fiaba modernista dell’imparzialità? Come curatrice, qual è stata la sfida nel porre tali domande sotto forma di un’esposizione “situata”?

AG: Forse il modo migliore per rispondere a questa domanda consiste nel situare e caratterizzare la Biennale del Mercosur. Un’esposizione che si svolge in una città senza transito. Non è una città Airbnb, come Venezia o Kassel, San Paolo o Berlino – che sono realtà percorse da numerosi itinerari internazionali, musei, turismo, affari, conferenze. Porto Alegre, in cui si svolge la Biennale, è una città che non è attraversata da questi programmi. Al di là dello scenario globale che traccia il panorama delle Biennali, questi sistemi espositivi devono essere analizzati in modo comparativo. In questo modo diventa visibile ciò che li differenzia. Ciò significa che la Biennale del Mercosur è una manifestazione per i suoi cittadini e per la rete regionale che circonda l’area urbana. Gran parte della mostra si svolge intorno a Plaza de Alfandega, che è una piazza intensa, attraversata ogni giorno da migliaia di persone, che vanno al lavoro, nell’area commerciale della città o alla fiera del libro che si svolge lì ogni anno, e dove abbiamo lanciato il programma pubblico nel 2018.

La Biennale è percorsa in molti modi da conoscenze specifiche. Non solo perché coinvolge alcuni artisti di Porto Alegre (come Claudia Paim, Élle de Bernardini, Vera Cháves Barcellos), ma anche perché alcuni progetti sono stati immaginati in relazione alla storia della città. Ad esempio, quello di Dana Whabira, un’artista dello Zimbabwe invitata dalla curatrice Fabiana Lopes, che avrebbe dovuto sviluppare un progetto specifico sui quilombos di Porto Alegre, essenziale per mappare la popolazione e la storia, della memoria nera della città. Un progetto nato in collaborazione con il Núcleo de Estudios Geografia & Ambiente, NEGA-UFRGS. L’artista ha viaggiato e sviluppato parte della ricerca, ma questo è uno dei progetti che al momento non saremo in grado di portare avanti e concretizzare. Penso che il lavoro di Aline Motta, Outro (s) fundamentos, un video di cui presentiamo una delle sue sezioni, e che ha girato in alcune città legate all’acqua, come Rio de Janeiro, Baia do Guanabara, Cachoeira o Lagos in Nigeria (potremmo pensare a come l’acqua si replichi anche nella città di Porto Alegre): è un’opera sulla memoria del Brasile, quel passato che è presente, di schiavitù, discriminazione e povertà, che sottolinea ancora una volta come il Covid-19 colpisca fondamentalmente i settori più poveri, rappresentati dalla popolazione afro-brasiliana. Cecilia Vicuña, un’artista cilena, avrebbe realizzato uno dei suoi quipu, come intervento site-specific, pensando poeticamente, nello spazio, alla distruzione dell’Amazzonia, una devastazione così legata alle politiche estrattiviste, di espropriazione della natura che Jair Bolsonaro promuove e nutre di odio.

Chiachio e Giannone, La Familia en el alegre verdor 2015 © Bienal Mercosur.

Chiachio & Giannone dovevano ricamare collettivamente nella piazza un’opera che riuniva ricordi di precedenti ricami collettivi, che avrebbero continuato proseguendo il lavoro nello spazio espositivo. Eugenia Pereira, cilena, avrebbe creato un muro di voci collettive, un’opera sensibile, attivata dal pubblico, in cui si sarebbero radunate le voci locali. Potrei andare ancora avanti attraverso progetti che stavano per accadere di lì a poco, in città, in piazza, non solo con il pubblico specifico di un’inaugurazione, ma anche con i cittadini. Niente di tutto ciò è conforme a un rigoroso canone occidentale. Non vorrei riferirmi a un linguaggio specifico nella Biennale, poiché mi distacco da tutte le forme di essenzialismo, ma piuttosto a una preoccupazione curatoriale di affrontare le opere che esplorano le costruzioni del femminile, del femenino(s), quando scegliamo di nominarli, al fine di stabilire una forma di interrogazione. Non ci situiamo a partire da una certezza affermativa, ma dall’espansione che propongono le domande che moltiplicano (e si moltiplicano). Volevamo esplorare interrogazioni, incertezze, potenzialità. È evidente che tale posizione mette in crisi qualsiasi obiettività o senso di superiorità, così come può essere sostenuto da una percezione auto-riferita dell’Occidente, intesa come conoscenza valida.

Il mondo ha dimostrato il suo fallimento. Le zone del potere egemonico in termini economici e culturali hanno svelato l’inutilità delle loro regole, dei loro modi di amministrare la conoscenza “razionale”. L’Europa e gli Stati Uniti – e ora anche il Brasile, per ragioni diverse – hanno dimostrato la loro impossibilità. Andiamo tutti avanti in un campo di incertezze, allontaniamo le nostre sicurezze. I tempi a venire richiedono di sbarazzarsi della superbia. Nulla è neutrale, oggettivo e universale di fronte alla svolta di una pandemia che ha colpito sia i paesi ricchi, sia quelli poveri. Anche se è evidente quanto questa crisi sia più crudele nei confronti dei settori impoveriti dall’accumulazione selvaggia delle risorse da parte di meno del 10% della popolazione mondiale. Non riesco a trovare le parole per descrivere lo stato del mondo in cui ci troviamo. Proviamo solo a non ignorarlo più.

Liuska Salazar, Ejercicio protesta, 2010 © Bienal Mercosur.

Liuska Salazar, Ejercicio protesta, 2010 © Bienal Mercosur.

Liuska Salazar, Ejercicio protesta, 2010 © Bienal Mercosur.

RG-EV: Ritieni sia possibile comprendere ancora la produzione delle donne artiste in rapporto alle narrative dominanti – maschiocentriche ed eurocentriche – che abbiamo inesorabilmente ereditato? O credi sia necessario stabilire un sistema di parametri differenti – oltre il canone – per raccontare e mostrare il lavoro artistico di quelle soggettività che nel disegno egemonico dell’ontologia modernista sono state marginalizzate, non solo donne, ma altri soggetti minoritari: coloniali, Black, LGBT?

AG: Oltre il canone, ovviamente. Il canone si è rivelato inutile. Abbiamo perso gran parte della conoscenza che l’umanità ha generato concentrandoci solo su assurde gerarchie. Oggi, nella misura in cui la pandemia rivela il valore delle parole domestiche come la “cura” – senza la gerarchia della ragione – è il momento in cui dobbiamo cercare altrove i nostri strumenti. Nelle logiche del quotidiano, nelle logiche della sopravvivenza, nella relazione orizzontale dell’umano con la natura, con le cose comuni che l’uomo, l’umano, ha sempre cercato di possedere, controllare, organizzare. Dobbiamo cercare tra le rocce della certezza le fughe dell’ignoto. Le trame e i fili ci sono sfuggiti, il piccolo che scivola tra i più solidi. Il mondo dell’arte non è ricco, è estremamente povero. Se non apriamo le nostre menti, le nostre sensibilità, il nostro sentire, a logiche declassificate, transiteremo l’universo, quello della creazione, come ciechi. Tutte le sensibilità che sono state negate, sottratte, in primo luogo al nero, afro-discendente, attraversati da una storia di schiavitù che è presente, è ancora parte del nostro presente, oggi, come genealogia, come restrizione, come trama di dominazione e di spossessamento.

Joiri Minaya, Siboney, Still, 2014 © Bienal Mercosur.

Joiri Minaya, Siboney, Still, 2014 © Bienal Mercosur.

Se non riusciamo a guardare l’attualità di coloro che parlano altre lingue, proiettano altre credenze, organizzano il mondo in altri modi, come accade nelle comunità del presente vincolate alle comunità originarie, indigene; se non possiamo espandere la nostra immaginazione nella sensibilità nascosta e cancellata delle artiste, degli artisti che attraversano il femminile in modi diversi, non come un’essenza, ma come una prospettiva diversa dalla ragione patriarcale egocentrica che organizza e struttura fortemente la società; se non possiamo sperare che dall’arte sia possibile per noi creare l’accesso alla molteplicità di tutti questi altri, allora non capisco quale sia il significato dell’arte.

Quindi cancelliamo la parola arte. Rimuoviamo le sue istituzioni. Biennali, musei, gallerie, collezioni. Rimuoviamo tutti questi ostacoli e cerchiamo altri contatti, altre esperienze.

Nosotras Proponemos ha tenuto azioni congiunte con artisti di Porto Alegre durante il 33° Art Festival. L’Assembléia Permanente de Trabalhadoras de Arte in Argentina unisce artisti, curatori, ricercatori, scrittori, galleristi, operai, che hanno sottoscritto e rivendicato una serie di 37 punti di pratiche femministe.

Esposizione di Nosotras Proponemos: Artistas Argentinas En Acción, Porto Alegre, 2019.

La 12esima Biennale in rete non è una storia di trionfo, di successo. È il disperato tentativo di indagare format e modalità per articolare il significato faccia a faccia, volto a volto, come in quelle testimonianze precarie registrate con il cellulare ovunque ognuno, ogni artista, si trovasse. Passare al digitale è stata una risorsa, un’opzione, non pensare al futuro, ma non abbandonare nemmeno il presente.

Durante questi tre mesi c’è stato un attivismo di quiete, di paralisi, come un boicottaggio del concetto di produzione. E lo rispettiamo. Ma c’è anche stata la necessità di indagare il presente, principalmente, attraverso il contatto. Cerchiamo contatti, non sempre ci riusciamo. Pertanto, era importante, per la Biennale, più che mettere in mostra, chiederci: come stai? dove stai? La diversità, il concetto di differenza senza separazione, era presente sin dall’inizio, nella piattaforma concettuale da cui si pensava la manifestazione. L’isolamento ci ha portato ad affrontarli in altri modi, più legati al fare, al cambiamento di scenario che si è verificato giorno dopo giorno, piuttosto che a un piano.

Sì – per rispondere francamente – dobbiamo uscire dalla visione limitata che domina il mondo dell’arte, per essere una parte impegnata in altre logiche. Il mondo non è solo ciò che vediamo, come lo vediamo. E se una parola si potesse aggiungere al concetto di curatela – non so se esiste una cosa del genere, ma la enunciamo in questo modo, come “concetto di curatela”, diciamo che non può prescindere dalla comunicazione affettiva. Dalle opere nello spazio (tridimensionale o liquido, bidimensionale) possiamo fare appello agli affetti. Se non ci commuoviamo, se non spostiamo le idee attraverso le emozioni, non è facile cambiare le logiche ordinate che abbiamo interiorizzato, naturalizzato.

Helô Sanvoy, Estão sendo tecidos, still, 2018 © Bienal Mercosur.

RG-EV: Considerando i modi in cui la biennializzazione dell’arte contemporanea risponde alla necessità di diffusione simbolica, economica e comunicativa, come si differenzia questa Biennale dalle altre large-scale exhibitions del circuito internazionale? E come la crisi in atto ha influenzato la produzione di significato di questa Biennale?

AG: Ho già fatto riferimento alle specifiche di questa Biennale, in relazione alla città. La logica aziendale/neoliberale che può essere vista in altre grandi kermesse globali qui è quasi assente. È difficile ottenere risorse, non esiste quella competizione per il logo che si può vedere in altri eventi internazionali. In questo senso, è la Biennale del miracolo, che è stata concepita solo perché è importante per molte persone, al di fuori del mondo delle banche e delle aziende, che ciò accada. La crisi l’ha portata all’estremo, molti finanziamenti sono stati ritirati. Anche così, come ho sottolineato, la Biennale ha rispettato i compromessi con gli artisti, le fees sono state pagate nonostante la mancata realizzazione fisica della mostra. In questo momento, molti di noi che fanno parte del team desiderano che la Biennale del Mercosur sia uno strumento di conoscenza, un campo aperto per le questioni che vogliamo porre attraverso le opere. In questo senso, ci siamo immersi nel progetto educativo concretizzato da Igor Simoes. Al momento dell’apertura del programma educativo, si sono iscritti 600 insegnanti, professori che hanno partecipato attivamente alla sua progettazione. Oggi 1600 insegnanti hanno seguito il programma. Così le diverse opere che abbiamo selezionato con Fabiana Lopes (curatrice specializzata in arte africana, afro-brasiliana e della diaspora nera) e Dorota Biczel (ricercatrice d’arte del Perù, dell’Ecuador e dei paesi dell’Europa orientale) sono entrate in quella particolare combustione che si verifica quando le domande si moltiplicano, quando le opere sono illuminate nelle aree in cui viene prodotta la conoscenza.

Il significato nella sua totalità è in crisi. Quello del mondo dell’arte, quello delle Biennali, quello di questa Biennale. Tutto è influenzato in termini di significato da ciò che stiamo vivendo. Molti di noi hanno perso i propri cari. La morte, la paura del contagio, ci circondano. Come possiamo pensare di ritornare alla “normalità”, che cos’è la “nuova normalità”? Vogliamo tornare al mondo com’era a marzo? La mia risposta è no, non voglio. Ho percorso il presente come un naufrago tra affetti estremi. Non penso che nessuno possa più sentire che sia lo stesso.

Aline Motta, (Outros) fundamentos, 2017-2019 © Bienal Mercosur.

RG-EV: “La forza politica del femminismo artistico sta nell’articolazione della sua territorialità (il suo agire, in modo più o meno allineato, nel mondo dell’arte) con altre territorialità (lotta contro la povertà, contro il femminicidio, contro le politiche estrattiviste del capitale globale, la chiamata e la realizzazione dello sciopero internazionale)”: così ci hai risposto lo scorso anno in una nostra intervista. Come si colgono queste interferenze nel lavoro degli artisti di questa Biennale? E in che modo il lavoro artistico può essere influenzato da questo processo?

AG: Mira, estoy pensando. Pensando mucho. Le immagini producono in me un modo inedito per focalizzare nuove idee. E penso insieme agli altri. Perché ogni aspetto accende un modo diverso di vedere le cose. Mariairis Flores (critica e curatrice cilena) ha scritto un articolo sulla Biennale del Mercosur in cui collega la chiave cromatica degli interventi con il fumo, in natura, che Judy Chicago ha realizzato negli anni Settanta, con le sculture viventi e cromatiche in rosso, nero e giallo che l’artista cilena, Liuska Astete Salazar, esibisce con il proprio corpo, non marcato dai corpi normati dalla pubblicità, quando si spoglia e si copre di vernice colorata.

La relazione è inedita. E in questo senso, sebbene pensiamo al concetto di tessitura in maniera non letterale, ma come trama, concatenazione, modo di stabilire interrelazioni tra corpi, nella Biennale questo concetto di tessitura è molto attivo ed è articolato da opere che non ci aspettavamo (penso alle arpilleras che le donne hanno realizzato in Cile durante la dittatura, alle opere di Eliana Otta, Chiachio & Giannone, Brígida Baltar, Gonzalo Elvira, Hel Sanvoy, Jessica Kairé, Janaina Barros, Juliana Góngora, Judy Chicago, Lidia Lisboa, Nury González, Sandra de Berduccy, Priscila Rezende – non riesco a nominare tutte, poiché in modi diversi tutte le opere si intersecano con questo senso della trama).

Janaína Barros, Psicanálise do cafuné catinga de mulata, 2017 © Bienal Mercosur.

Il lavoro di Helô Sanvoy che Fabiana Lopes ha selezionato, in cui sua madre intreccia i suoi capelli, mette in atto l’idea di tessuto amoroso. Cosa può esserci di più affettivo di una madre che intreccia i capelli del figlio, che ha già i capelli grigi, mentre racconta storie, mentre parla. La parola, le mani, i capelli. Questo mi conduce attraverso molte altre relazioni, come il posto che i capelli occupano nella cultura afro-brasiliana e diasporica.

Helô Sanvoy, Estão sendo tecidos, still, 2018 © Bienal Mercosur.

Helô Sanvoy, Estão sendo tecidos, still, 2018 © Bienal Mercosur.

I capelli che Rosana Paulino ha posizionato dietro un cristallo circolare, come una lente d’ingrandimento, in modo da riflettere sul significato sociale e discriminatorio che esiste intorno ai capelli neri. Non ci ho mai pensato. Perché abbiamo bisogno della parola, dell’esperienza degli altri, delle voci in prima persona, per accedere a quelle soggettività che non conosciamo. Quindi non siamo sufficienti o né sufficientemente in grado di indagare noi agli altri.

Le voci in prima persona sono necessarie, provengono dall’esperienza reale, vissuta, potenziata, in potere, per cambiare il mondo. Non è sufficiente distruggere le statue, perché non sono altro che incarnazioni simboliche, in pietra o in bronzo, di un razzismo e di una supremazia bianca che devono essere abolite. Chi se ne frega degli argomenti per difendere le statue quando si devono difendere le vite. Sono necessari direttori di musei neri, curatori neri, storici e critici neri.

Rosana Paulino, A Geometria à Brasileira chega ao paraíso tropical – Amarelo (Brazilian Geometry arrives in tropical paradise – Yellow), 2017/2018 © Bienal Mercosur.

Quando abbiamo immaginato le opere nelle sale abbiamo pensato alla relazione tra le linee monocromatiche nello spazio di Esther Ferrer e i collage, anche monocromatici che Grete Stern ha realizzato a partire dai sogni di comuni lettori di una rivista. Abbiamo pensato al rapporto tra il femminismo artistico delle Guerrilla Girls e quello di Mónica Mayer; alle fotografie da cui Paz Errázuriz ha ritratto l’amore in un ospedale neuropsichiatrico di Santiago del Cile, o a Natalia Iguiñiz che ha catturato donne di diverse classi sociali con la macchina fotografica, oppure ad Alejandra Dorado che ha attraversato la natura umana e quella animale. Le relazioni che abbiamo pensato dalle opere si sono moltiplicate in capitoli spaziali, che hanno contrapposto la poetica dei capelli neri in Helô Sanvoy con quella del ritratto di Kan Xuan, entrambe opere filmiche in prima persona. Potrei pensare ad altre relazioni, come quelle stabilite tra la tessitura come trama, ordito, tessuto, che connette il lavoro di Sandra de Berduccy, Lidia Lisboa, Juliana Góngora.

Le opere della Biennale, un itinerario tra i tanti possibili, affermano questi territori di affetti che il femminismo conferma e potenzia. La casa, la rete, la militanza e l’attivismo (che non sono la stessa cosa), le agende della sopravvivenza. Il femminismo ha agito nel territorio della pandemia e la Biennale è stata attivata in quegli stessi 100 giorni (che in Argentina saranno molti di più). Mostriamo i ritratti degli artisti e le loro opere sullo schermo, intrecciamo relazioni che inizialmente non pensavamo nemmeno. Lo facciamo allo stesso modo in cui in questi giorni di emergenza sanitaria, abbiamo dovuto immergerci in restrizioni e nuove affettività, imparato a costruire da ciò che ci era vicino. Sono queste condizioni del presente che stabiliscono le condizioni del futuro. Se non vogliamo che ciò che abbiamo lasciato a marzo di quest’anno possa ancora ritornare, l’arte e il femminismo devono diventare un intenso laboratorio di programmi e affetti da cui ripensare il mondo.

Team curatoriale, da sinistra a destra, Andrea Giunta, Igor Simões, Dorota Biczel and Fabiana Lopes. Photos, Rob Verf, João Pedro Lima, Vera Mishurina and Kleber Amâncio.

 

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