«quelle di noi che stanno fuori dal cerchio della definizione di donna accettabile data da questa società; quelle di noi che si sono forgiate nella mescolanza della differenza – quelle di noi che sono povere, che sono lesbiche, che sono nere, che sono più vecchie – sanno che la sopravvivenza non è un’abilità accademica. È imparare a essere sola, sgradita e talvolta insultata, e come fare causa comune con le altre considerate estranee alle strutture, per definire e cercare un mondo in cui tutte possiamo fiorire. È imparare a considerare le nostre differenze e trasformarle in forza.
Perché non saranno mai gli strumenti del padrone a smantellare la casa del padrone», Audre Lorde, 1979.
Non si può demolire la casa del padrone con gli arnesi del padrone, ammoniva Audre Lorde, ma occorre “espropriare l’espropriatore”, smantellare la casa e riprendersi il mondo, non solo quello sociale ma anche quello costruito dalla storia per andare oltre. Introduzione ai femminismi, una delle prime tre pubblicazioni uscite per la nuova collana Input di DeriveApprodi (2019) – un esperimento editoriale che si propone come sfida verso il presente, nel dare forza e direzione politica alla formazione militante – nasce da queste istanze, nel contesto di un seminario a più voci organizzato presso Mediateca Gateway a Bologna e, con un approccio pedagogico-formativo, nell’intenzione di ripercorrere le differenti temporalità e declinazioni della critica femminista nel dibattito contemporaneo, costituendo un frame, o meglio una concatenazione di frames, dentro cui le riflessioni politiche e le analisi teoriche possono essere fatte. Il volume collettivo, a cura di Anna Curcio non è però solo un’introduzione, come si annuncia dal titolo, ma consente vari affondi genealogici e livelli di approfondimento al centro dell’agenda femminista, da tenere nella cassetta degli attrezzi, tra gli strumenti e i concetti da assumere creativamente, per trovare importanti spunti teorici a sostegno della propria lotta, per «armare» il pensiero e indirizzare la socializzazione di sapere critico (da cui l’università si è congedata da tempo); dare tensione e creatività alle narrazioni e i conflitti in atto, inaugurando pratiche inedite del politico e dell’estetico, rivolte contro un potere patriarcale, coloniale e capitalista che si supera solo rompendolo, che si può decostruire solo se teniamo conto di questa triplice articolazione. Questi fattori sono stati portati dalle lotte stesse. E qui risiede la moltiplicazione dei processi di soggettivazione, per procedure aperte e in divenire, mettendo in luce la complessità di rovesciamento di prospettiva dei femminismi, ieri come oggi. Ma quale tipo di storia vogliamo raccontare?
María María Acha-Kutscher, inspirada en una imagen del rally de Rosie The Riverter, 2015. Courtesy ADN Galería, Barcellona.
Il libro non si iscrive in una storia di femminismi “altri” che trascrivono la “grande narrazione” del femminismo bianco, eterosessuale e di classe media da differenti angolature ma i capitoli in cui si struttura sono direttamente suggeriti dalle lotte femministe transnazionali che hanno assunto, alla prova del presente, l’intersezionalità e la politica del posizionamento come fondamenti metodologici e di pratica politica.
Le trame dei saggi, sono attraversate, nelle pur profonde (e spesso diametralmente opposte) divergenze di posizioni, storie e politiche, da una forte tensione tra elaborazione e analisi teorica, anche dentro l’accademia (con contributi che permettono una ricostruzione scientifica delle epistemologie femministe) ma innervate nei processi di lotta e nelle pratiche di militanza. Non è un approccio storiografico ma un metodo politico e genealogico. Dove le cose cominciano non si trova mai una stessa origine ma rotture, discontinuità, terre incognite. Di fatto, anche nel caso italiano, quello femminista non è stato un movimento unitario e coeso, sarebbe più giusto parlare di femminismi al plurale e non di una storia univoca né di un blocco omogeneo.
cover del libro: Introduzione ai Femminismi, AA.VV., a cura di Anna Curcio, collana Input – DeriveApprodi, Roma, 2019.
Un vademecum, come lo definisce Anna Curcio, un prontuario o manualetto di piccole dimensioni ma concentratissimo di senso e complessità che fornisce validi espedienti per sciogliere nodi teorici e contraddizioni, conoscere le origini, capire e re-immaginare pratiche, saperi, discorsi e forme di organizzazione tra loro molto diverse e spesso contrapposte con un solo obbiettivo: forzare la triade d’acciaio di capitalismo, patriarcato ed eterosessualità.
Introduzione ai femminismi traccia una cartografia, un dispositivo visuale che favorisce l’orientamento nei meandri della critica femminista della cosiddetta seconda ondata attraverso una precisa scelta di campo: ricostruire e ripercorrere criticamente la propria genealogia politica, ritessere i fili del dibattito, della storia e della teoria femminista, radicati nei percorsi di lotta e con una domanda che ha mobilitato le piazze, che viene dalle assemblee, dalla dilagante ricomposizione internazionale della marea femminista – come ha recentemente dimostrato il diffondersi dei flash mob del Colectivo Las Tesis, Un violador en tu camino, che da Valparaìso ha risuonato in moltissime città di tutto il mondo contro gli abusi dello stato e della polizia – attorno alle questioni della riproduzione sociale, della violenza di genere e dell’intersezionalità. Nell’appello per lo sciopero dell’8 marzo 2019 diffuso da Ni Una Menos, per esempio, si leggeva che l’importanza del movimento femminista odierno dipende dall’essere diventato «cassa di risonanza per tutti i conflitti sociali», smascherando pubblicamente il nesso costitutivo (non solo nell’ordine simbolico-discorsivo) tra precarietà e ricattabilità, oppressione e controllo dei nostri corpi, di una violenza che non è solo di solo di genere ma anche economica, lavorativa, istituzionale. Nella materialità dei processi di soggettivazione contro l’ordine eteronormato con cui vorrebbero incasellate le vite di tutt* è emersa la necessità di riaffermare un movimento transfemminista, antirazzista e antifascista, che possa tornare a essere ancora ingovernabile e pericoloso.
María María Acha-Kutscher, MARCHA DE LAS CATRINAS contra los feminicidios en México. Día de muertos, noviembre de 2016, Ciudad de México. Dibujo digital creado a partir de una imagen de prensa de REGENERACIÓN RADIO. Courtesy ADN Galería, Barcellona.
María María Acha-Kutscher, Manifestación en Santiago de Chile en contra de la violencia machista y a favor de una educación no sexista. 16 de mayo de 2018. La protesta se enmarcó en la ocupación que protagonizaron alumnas de varias universidades, que han denunciado actitudes machistas, a veces violentas, por parte de profesores y situaciones de abuso sexual, tanto por parte de docentes como de estudiantes varones. Dibujo digital creado a partir de una imagen de prensa de BBC Mundo. Foto: Rodrigo Abd/T. Courtesy ADN Galería, Barcellona.
Il volume rivisita 5 tappe fondamentali poste del dibattito femminista utili a formare dei concetti politici o indicatori per cogliere la natura materialista dei rapporti di forza e di sfruttamento, denaturalizzare le relazioni tra genere, regime di visibilità e potere, svelandone la natura governamentale e aprendo spazi di immaginazione e di agibilità politica, perché un libro non può essere solo speculazione teorica ma deve avere una ricaduta politica: Il femminismo marxista della rottura (Anna Curcio); Il femminismo Nero (Marie Moïse); Il pensiero della differenza sessuale (Federica Giardini); Il femminismo materialista (Sara Garbagnoli); Femminismo (e) queer (Federico Zappino). E si chiude con una «cronologia dei diritti» in Italia, ricostruita da Lorenza Perini.
Ripristinare i canali di trasmissione con il passato fa affiorare con chiarezza le diverse anime del femminismo degli anni Settanta (nelle sue espressioni plurali e nei suoi differenti contesti culturali): la forza e l’urto del movimento di liberazione della donna che gli scritti di Carla Lonzi hanno fenomenizzato, i gruppi di autocoscienza e il pensiero della differenza, l’implicazione materialista di derivazione francese ma anche l’altro epicentro intorno alle stesse date dell’emersione del soggetto imprevisto: le pratiche di piazza – fuori dalla cucina e dalla stanza da letto (Federici) – e i gruppi del salario al/contro lavoro domestico che ripensano radicalmente la lotta di classe perché la separazione patriarcale fra uomo e donna diviene immediatamente separazione capitalistica.
See Red Womens Workshop, Capitalism also depends on domestic labour,
«Corpo a corpo con Marx»
Il primo dei saggi, a firma di Anna Curcio “Il femminismo marxista della rottura”, esplora la storia dell’incontro tra il marxismo (e il suo rimosso) con il femminismo radicale, a partire dalla dimensione militante transnazionale del coordinamento della campagna Wages for Housework groups and committee del collettivo di Padova dove, nel 1972, si incontrarono Mariarosa Dalla Costa, Selma James (Londra), Silvia Federici (New York) e Brigitte Galtier (Parigi), con Leopoldina Fortunati e Alisa Del Re, aprendo un varco sovversivo nella lotta delle donne, da una prospettiva anti-capitalista.
L’impegno domestico – il valore della sua produzione e la sua gratuità – diventava la scoperta di un rapporto sociale senza nessuna mediazione salariale, al centro dello sfruttamento, la subordinazione e l’organizzazione capitalistica del lavoro: l’enfasi era posta su un’attività (la centralità della riproduzione sociale) e non su una condizione femminile aprioristicamente data e biologicamente assegnata, presente ancora oggi in tante posizioni essenzialiste, identitarie e di natura neoliberale o istituzionalizzata. La rottura, invece, si manifesta come il rifiuto di un ruolo storicamente attribuito, un ruolo talmente naturalizzato da rendere invisibile lo sfruttamento.
Anche l’amore è lavoro domestico, Gruppo femminista Immagine di Varese (Silvia Cibaldi, Milli Gandini, Clemen Parrocchetti, Mariuccia Secol e Mariagrazia Sironi), manifestazione, 1975.
«In questo senso, le femministe della rottura segnano una discontinuità anche con altre correnti del femminismo radicale che considerano capitalismo e patriarcato come sistemi di oppressione distinti, il primo operante nella sfera pubblica, il secondo in quella privata ovvero in famiglia (si veda ad esempio il già citato testo di Delphy). Qui, invece, l’idea è quella di un capitalismo che rideclina i rapporti patriarcali all’interno degli stessi rapporti di produzione capitalistica, ovvero traducendo in termini capitalistici la storica subordinazione delle donne» [i].
Marx è irrinunciabile e insufficiente al tempo stesso, argomenta Anna Curcio, occorre spingere l’analisi politica oltre il punto in cui si era fermato. Oltre quello che non ha visto, o non ha voluto vedere. Oggi, il femminismo della rottura diventa piuttosto un metodo, una prassi teorico-politica e una critica allo sviluppo del capitale, di estrema attualità nelle tante forme di asservimento del lavoro cognitivo attraverso l’uso del precariato, tra le altre. Inoltre, ha definito (e continua a farlo) potenti linee di fuga dentro un orizzonte di classe “inseparabile” dalla questione della razza: «Sesso, razza e classe, di Selma James, ampiamente circolato all’interno del Cif, pone[va] razza e genere come elementi strutturali del sistema di produzione capitalistico, interni alla definizione della classe e alla sua composizione»[ii].
Lorna Simpson’s 1986 photograph “Rodeo California” is part of the Albright-Knox Art Gallery exhibition “We Wanted a Revolution.” From left, are, Alva Rogers, Sandye Wilson, Candace Hamilton, Derin Young and Lisa Jones. (Photo courtesy of the artist and Hauser & Wirth)
All the Women Are White, All the Blacks Are Men, But Some of Us Are Brave*
«Se le donne Nere fossero libere, significherebbe che chiunque altro lo dovrebbe essere, dal momento che la nostra libertà implicherebbe la distruzione di tutti i sistemi di oppressione». Combahee River Collective, 2017 [iii].
Il testo di Marie Moïse sul femminismo Nero e le sue lotte radicate nella storia della schiavitù e nelle prospettive materiali della sopravvivenza dimostra come un’analisi del sistema patriarcale non possa prescindere da un’analisi dei sistemi di dominazione e di oppressione di razza, classe e genere come interconnesse e approfondisce il concetto di intersezionalità, significativo per la nuova ondata femminista transnazionale: una postura teorica che intende superare i limiti di un’analisi incentrata sulla differenza di genere come asse prioritario, in cui il sessismo non è mai disgiunto da altri rapporti di dominio (razzismo, classismo, eterosessismo).
Sono tanti gli elementi che emergono dalle traiettorie del Black Feminism: l’inseparabilità di razza e classe nell’esperienza soggettiva dell’oppressione patriarcale; il vantaggio epistemico di una conoscenza ravvicinata e funzionale dell’oppressore; la messa in discussione dell’identità sessuale come prima causa dell’oppressione femminile; i limiti della categoria monolitica (bianca e universale) di donna e il rapporto critico con l’antirazzismo e l’egemonia maschile; l’alleanza come il contrario dell’esclusione; l’interruzione dell’“equivalenza di matrice bianca tra lo statuto di donna e quello di vittima, facendo delle donne non più i soggetti dell’oppressione, ma i soggetti della resistenza”.
Angela Davis, murales dedicati alle donne partigiane, realizzati da: Chiara, Dada, Luna, Frode, Ivan, Tawa, Viperhaze; Barona, Milano, 2019.
Il termine intersezionalità indica “la lettura femminista Nera della dominazione strutturale”, la posizione dei soggetti all’interno dei sistemi di potere e di dominio definita, come sostiene il già citato Combahee River Collective dalla pluralità e dalla simultaneità dell’intersezione di molteplici assi di oppressione: genere, classe e razza.
«La prospettiva situata è consapevolmente parziale, ma in quanto tale mette in discussione il modello universalista del punto di vista neutro, dietro al quale i soggetti dominanti mascherano di verità assoluta la propria visione del mondo. Sottrarre a questi la definizione dell’oppressione significa per i soggetti oppressi la possibilità di definire soggettivamente non tanto il rapporto di dominazione subito, quanto le proprie capacità di rovesciarlo (Lorde 2014, pp. 120-121)»[iv].
Black Panthers from Sacramento, Free Huey Rally, Bobby Hutton Memorial Park, Oakland, Calif., No. 62, Aug. 25, 1968, printed 2010. Photograph by Pirkle Jones.
«Ci piace, dopo millenni, inserirci a questo titolo in un mondo progettato da altri?»
«La differenza è dunque un taglio sistemico, implica la messa in questione dei criteri sociali, culturali, economici, giuridici, secondo cui una società si regola e si organizza. Ecco che si spiega il motivo del titolo del testo di Carla Lonzi-Rivolta femminile, Sputiamo su Hegel (1971).
[…]
Se oggi dovessi trovare le parole per dire in breve cosa ne è della differenza, pensata dal femminismo, direi che è una postura che rifiuta l’adeguamento, l’adattamento, la conformità alle norme vigenti come meta a cui tendere o rispetto a cui identificarsi; una disposizione non solo negativa, perché il campo aperto dalla messa a distanza dei criteri dominanti si apre per un’immaginazione produttiva»[v].
Il contributo di Federica Giardini approfondisce il pensiero della differenza sessuale dall’interno e da una postura critica, incrinandone la prospettiva e minando il tema dell’inclusione e dell’uguaglianza. Il portato politico della differenza è mettere in questione i fondamenti sociali e i costrutti culturali del sistema dominante.
«Essere ammesse al circolo degli uguali, mirare all’inclusione nel gioco senza metterne in questione le regole implica infatti diversi livelli di asservimento: assumere che un soggetto possa essere definito per difetto rispetto al soggetto dominante» [vi]
Non basta il riconoscimento di tutto quello che la società aveva assegnato, storicamente e culturalmente, al ruolo della donna per affrancarsi da una sua posizione funzionale, di subalternità. Questa condizione di sfruttamento è stata uno degli elementi strutturali del capitalismo, che ha messo e mette al lavoro differenze, tempo, precarietà, affettività e sessualità.
See Red Women’s Workshop, Feminist Poster, 1974.
«Da una sovrastruttura all’altra: o come girare a vuoto senza cambiare di posto»
Il capitolo sul femminismo materialista di matrice francofona di Sara Garbagnoli, affronta le analisi di Christine Delphy, Colette Guillaumin, Nicole-Claude Mathieu, Monique Wittig, Paola Tabet.
Il 26 agosto 1970, una decina di donne aveva deposto sulla tomba del milite ignoto, sotto l’Arc de Triomphe, una corona di fiori simbolica con la scritta «Il y a plus inconnu ancore que le soldat: sa femme» (C’è qualcuno ancora più ignoto del soldato: sua moglie) ed era stato l’atto di nascita del Movimento di Liberazione delle Donne (MLF).
«Il y a plus inconnu ancore que le soldat: sa femme», manifestazione sotto l’arco di trionfo, agosto 1970, Parigi.
Lo svelamento di rapporti di dominazione prima invisibili produce, come ricostruisce l’autrice, una presa di coscienza minoritaria e causa effetti, in particolare sui soggetti che tali rapporti di dominazione subiscono: è l’esperienza della misoginia del «movimento» – Wittig e Delphy avevano preso parte al ‘68 parigino – che le politicizza in direzione femminista (fonderanno in seguito, insieme a Simone de Beauvoir, la rivista «Questions féministes»). Nell’analisi di Garbagnoli, il problema femminista si intreccia con la questione razziale. Una rivoluzione teorica, politica ed epistemologica che queste femministe (e) lesbiche affermano, contestando radicalmente il fatto che si possa pensare il mondo in termini di essenze, come genere e razza siano formazioni naturalizzate e radicate nelle istituzioni, nel linguaggio e nei corpi, ma che tali strutture sociali e culturali devono essere distrutte.
Donne e uomini sono classi antagoniste. Il patriarcato, definito da Delphy come il «nemico principale» del gruppo sociale delle donne, è un «sistema che ha una precisa base materiale – lo sfruttamento e la reificazione delle donne – e ideologica – la celebrazione della loro presunta “differenza” – che ha per funzione di celare il fatto sociale della dominazione»[vii].
Rose English, Quadrille (Rose and Dancers Entering), 1975.
One is not born woman (la commedia dell’eterosessualità)
Secondo Federico Zappino non esiste discontinuità tra femminismo e queer. Il queer emerge nel femminismo per minare la base binaria del sistema eterosessuale e del suo stretto rapporto con il patriarcato. La marcatura del corpo come maschile e femminile è «un rapporto sociale obbligatorio» (Wittig), un costrutto, l’essere donna, che esiste come «formazione immaginaria» e il cui mantenimento è funzionale alla perpetuazione del dominio della classe maschile su quella femminile, alla reificazione delle ‘essenze’ inferiorizzate, biologicamente assegnate, naturalizzate a uso e vantaggio della classe degli uomini, lungo gli assi di oppressione materiale del genere e della sessualità, favorite dalla naturalizzazione della ‘differenza’ e in cui l’uguaglianza non fa che raddoppiare la condizione di subalternità.
Qui le emersioni impreviste di un soggetto che il sistema etero-patriarcale ha stabilito debba coincidere con il corpo biologico, non minano solo l’immaginario ma l’intera costruzione che sostiene quell’immaginario.
«Poiché abbiamo vissuto in intimità con i nostri oppressori, isolate le une dalle altre, ci è stato impedito di vedere nella nostra sofferenza individuale una condizione politica. Questo crea l’illusione che la relazione di una donna con il suo uomo sia una questione di interazione tra due personalità uniche e possa essere risolta individualmente. In realtà, ogni relazione del genere è una relazione di classe, e i conflitti tra singole donne e singoli uomini sono conflitti politici che possono essere risolti soltanto collettivamente», Manifesto delle Redstockings, 7 luglio 1969.
See Red Women’s Workshop, Sisters Unite, 1974.
«Se non si può avere un’idea di tutto questo senza averlo vissuto, allora non si parli di ciò che non si conosce; e l’impossibilità di viverlo non giustifica l’ignoranza; viceversa, questa dimostra che la pretesa dei non-oppressi di partecipare allo stesso titolo alla lotta è assurda», I nostri amici e noi. Fondamenti nascosti di alcuni discorsi pseudo-femministi di Christine Delphy.
Elvira Vannini
María María Acha-Kutscher, Protesta del colectivo ALFOMBRA ROJA. Junio 2013, Lima. Dibujo digital creado a partir de una imagen del archivo de prensa de ALFOMBRA ROJA. Foto: Paolo Aguilar, Courtesy ADN Galería, Barcellona.
note:
[i] Anna Curcio in “Il femminismo marxista della rottura”, in Introduzione ai Femminismi, AA.VV., a cura di Anna Curcio, DeriveApprodi, Roma, 2019, p.22.
[ii] Anna Curcio, ibidem, p. 15.
[iii] Marie Moïse, Il femminismo Nero, in Introduzione ai Femminismi, ibidem, p.33.
[iv] Marie Moïse, ibidem, p.41.
[v] Federica Giardini, “Il pensiero della differenza sessuale”, in Introduzione ai Femminismi, ibidem, p.45-46.
[vi] Federica Giardini, ibidem, p. 46.
[vii] Sara Garbagnoli, “Il femminismo materialista”, in Introduzione ai Femminismi, p.63-64.
AA.VV, Ci vediamo mercoledì gli altri giorni ci immaginiamo, Mazzotta, Milano 1978.
«quelle di noi che stanno fuori dal cerchio della definizione di donna accettabile data da questa società; quelle di noi che si sono forgiate nella mescolanza della differenza – quelle di noi che sono povere, che sono lesbiche, che sono nere, che sono più vecchie – sanno che la sopravvivenza non è un’abilità accademica. È imparare a essere sola, sgradita e talvolta insultata, e come fare causa comune con le altre considerate estranee alle strutture, per definire e cercare un mondo in cui tutte possiamo fiorire. È imparare a considerare le nostre differenze e trasformarle in forza.
Perché non saranno mai gli strumenti del padrone a smantellare la casa del padrone», Audre Lorde, 1979.
Non si può demolire la casa del padrone con gli arnesi del padrone, ammoniva Audre Lorde, ma occorre “espropriare l’espropriatore”, smantellare la casa e riprendersi il mondo, non solo quello sociale ma anche quello costruito dalla storia per andare oltre. Introduzione ai femminismi, una delle prime tre pubblicazioni uscite per la nuova collana Input di DeriveApprodi (2019) – un esperimento editoriale che si propone come sfida verso il presente, nel dare forza e direzione politica alla formazione militante – nasce da queste istanze, nel contesto di un seminario a più voci organizzato presso Mediateca Gateway a Bologna e, con un approccio pedagogico-formativo, nell’intenzione di ripercorrere le differenti temporalità e declinazioni della critica femminista nel dibattito contemporaneo, costituendo un frame, o meglio una concatenazione di frames, dentro cui le riflessioni politiche e le analisi teoriche possono essere fatte. Il volume collettivo, a cura di Anna Curcio non è però solo un’introduzione, come si annuncia dal titolo, ma consente vari affondi genealogici e livelli di approfondimento al centro dell’agenda femminista, da tenere nella cassetta degli attrezzi, tra gli strumenti e i concetti da assumere creativamente, per trovare importanti spunti teorici a sostegno della propria lotta, per «armare» il pensiero e indirizzare la socializzazione di sapere critico (da cui l’università si è congedata da tempo); dare tensione e creatività alle narrazioni e i conflitti in atto, inaugurando pratiche inedite del politico e dell’estetico, rivolte contro un potere patriarcale, coloniale e capitalista che si supera solo rompendolo, che si può decostruire solo se teniamo conto di questa triplice articolazione. Questi fattori sono stati portati dalle lotte stesse. E qui risiede la moltiplicazione dei processi di soggettivazione, per procedure aperte e in divenire, mettendo in luce la complessità di rovesciamento di prospettiva dei femminismi, ieri come oggi. Ma quale tipo di storia vogliamo raccontare?
María María Acha-Kutscher, inspirada en una imagen del rally de Rosie The Riverter, 2015. Courtesy ADN Galería, Barcellona.
Il libro non si iscrive in una storia di femminismi “altri” che trascrivono la “grande narrazione” del femminismo bianco, eterosessuale e di classe media da differenti angolature ma i capitoli in cui si struttura sono direttamente suggeriti dalle lotte femministe transnazionali che hanno assunto, alla prova del presente, l’intersezionalità e la politica del posizionamento come fondamenti metodologici e di pratica politica.
Le trame dei saggi, sono attraversate, nelle pur profonde (e spesso diametralmente opposte) divergenze di posizioni, storie e politiche, da una forte tensione tra elaborazione e analisi teorica, anche dentro l’accademia (con contributi che permettono una ricostruzione scientifica delle epistemologie femministe) ma innervate nei processi di lotta e nelle pratiche di militanza. Non è un approccio storiografico ma un metodo politico e genealogico. Dove le cose cominciano non si trova mai una stessa origine ma rotture, discontinuità, terre incognite. Di fatto, anche nel caso italiano, quello femminista non è stato un movimento unitario e coeso, sarebbe più giusto parlare di femminismi al plurale e non di una storia univoca né di un blocco omogeneo.
cover del libro: Introduzione ai Femminismi, AA.VV., a cura di Anna Curcio, collana Input – DeriveApprodi, Roma, 2019.
Un vademecum, come lo definisce Anna Curcio, un prontuario o manualetto di piccole dimensioni ma concentratissimo di senso e complessità che fornisce validi espedienti per sciogliere nodi teorici e contraddizioni, conoscere le origini, capire e re-immaginare pratiche, saperi, discorsi e forme di organizzazione tra loro molto diverse e spesso contrapposte con un solo obbiettivo: forzare la triade d’acciaio di capitalismo, patriarcato ed eterosessualità.
Introduzione ai femminismi traccia una cartografia, un dispositivo visuale che favorisce l’orientamento nei meandri della critica femminista della cosiddetta seconda ondata attraverso una precisa scelta di campo: ricostruire e ripercorrere criticamente la propria genealogia politica, ritessere i fili del dibattito, della storia e della teoria femminista, radicati nei percorsi di lotta e con una domanda che ha mobilitato le piazze, che viene dalle assemblee, dalla dilagante ricomposizione internazionale della marea femminista – come ha recentemente dimostrato il diffondersi dei flash mob del Colectivo Las Tesis, Un violador en tu camino, che da Valparaìso ha risuonato in moltissime città di tutto il mondo contro gli abusi dello stato e della polizia – attorno alle questioni della riproduzione sociale, della violenza di genere e dell’intersezionalità. Nell’appello per lo sciopero dell’8 marzo 2019 diffuso da Ni Una Menos, per esempio, si leggeva che l’importanza del movimento femminista odierno dipende dall’essere diventato «cassa di risonanza per tutti i conflitti sociali», smascherando pubblicamente il nesso costitutivo (non solo nell’ordine simbolico-discorsivo) tra precarietà e ricattabilità, oppressione e controllo dei nostri corpi, di una violenza che non è solo di solo di genere ma anche economica, lavorativa, istituzionale. Nella materialità dei processi di soggettivazione contro l’ordine eteronormato con cui vorrebbero incasellate le vite di tutt* è emersa la necessità di riaffermare un movimento transfemminista, antirazzista e antifascista, che possa tornare a essere ancora ingovernabile e pericoloso.
María María Acha-Kutscher, MARCHA DE LAS CATRINAS contra los feminicidios en México. Día de muertos, noviembre de 2016, Ciudad de México. Dibujo digital creado a partir de una imagen de prensa de REGENERACIÓN RADIO. Courtesy ADN Galería, Barcellona.
María María Acha-Kutscher, Manifestación en Santiago de Chile en contra de la violencia machista y a favor de una educación no sexista. 16 de mayo de 2018. La protesta se enmarcó en la ocupación que protagonizaron alumnas de varias universidades, que han denunciado actitudes machistas, a veces violentas, por parte de profesores y situaciones de abuso sexual, tanto por parte de docentes como de estudiantes varones. Dibujo digital creado a partir de una imagen de prensa de BBC Mundo. Foto: Rodrigo Abd/T. Courtesy ADN Galería, Barcellona.
Il volume rivisita 5 tappe fondamentali poste del dibattito femminista utili a formare dei concetti politici o indicatori per cogliere la natura materialista dei rapporti di forza e di sfruttamento, denaturalizzare le relazioni tra genere, regime di visibilità e potere, svelandone la natura governamentale e aprendo spazi di immaginazione e di agibilità politica, perché un libro non può essere solo speculazione teorica ma deve avere una ricaduta politica: Il femminismo marxista della rottura (Anna Curcio); Il femminismo Nero (Marie Moïse); Il pensiero della differenza sessuale (Federica Giardini); Il femminismo materialista (Sara Garbagnoli); Femminismo (e) queer (Federico Zappino). E si chiude con una «cronologia dei diritti» in Italia, ricostruita da Lorenza Perini.
Ripristinare i canali di trasmissione con il passato fa affiorare con chiarezza le diverse anime del femminismo degli anni Settanta (nelle sue espressioni plurali e nei suoi differenti contesti culturali): la forza e l’urto del movimento di liberazione della donna che gli scritti di Carla Lonzi hanno fenomenizzato, i gruppi di autocoscienza e il pensiero della differenza, l’implicazione materialista di derivazione francese ma anche l’altro epicentro intorno alle stesse date dell’emersione del soggetto imprevisto: le pratiche di piazza – fuori dalla cucina e dalla stanza da letto (Federici) – e i gruppi del salario al/contro lavoro domestico che ripensano radicalmente la lotta di classe perché la separazione patriarcale fra uomo e donna diviene immediatamente separazione capitalistica.
See Red Womens Workshop, Capitalism also depends on domestic labour,
Il primo dei saggi, a firma di Anna Curcio “Il femminismo marxista della rottura”, esplora la storia dell’incontro tra il marxismo (e il suo rimosso) con il femminismo radicale, a partire dalla dimensione militante transnazionale del coordinamento della campagna Wages for Housework groups and committee del collettivo di Padova dove, nel 1972, si incontrarono Mariarosa Dalla Costa, Selma James (Londra), Silvia Federici (New York) e Brigitte Galtier (Parigi), con Leopoldina Fortunati e Alisa Del Re, aprendo un varco sovversivo nella lotta delle donne, da una prospettiva anti-capitalista.
L’impegno domestico – il valore della sua produzione e la sua gratuità – diventava la scoperta di un rapporto sociale senza nessuna mediazione salariale, al centro dello sfruttamento, la subordinazione e l’organizzazione capitalistica del lavoro: l’enfasi era posta su un’attività (la centralità della riproduzione sociale) e non su una condizione femminile aprioristicamente data e biologicamente assegnata, presente ancora oggi in tante posizioni essenzialiste, identitarie e di natura neoliberale o istituzionalizzata. La rottura, invece, si manifesta come il rifiuto di un ruolo storicamente attribuito, un ruolo talmente naturalizzato da rendere invisibile lo sfruttamento.
Anche l’amore è lavoro domestico, Gruppo femminista Immagine di Varese (Silvia Cibaldi, Milli Gandini, Clemen Parrocchetti, Mariuccia Secol e Mariagrazia Sironi), manifestazione, 1975.
«In questo senso, le femministe della rottura segnano una discontinuità anche con altre correnti del femminismo radicale che considerano capitalismo e patriarcato come sistemi di oppressione distinti, il primo operante nella sfera pubblica, il secondo in quella privata ovvero in famiglia (si veda ad esempio il già citato testo di Delphy). Qui, invece, l’idea è quella di un capitalismo che rideclina i rapporti patriarcali all’interno degli stessi rapporti di produzione capitalistica, ovvero traducendo in termini capitalistici la storica subordinazione delle donne» [i].
Marx è irrinunciabile e insufficiente al tempo stesso, argomenta Anna Curcio, occorre spingere l’analisi politica oltre il punto in cui si era fermato. Oltre quello che non ha visto, o non ha voluto vedere. Oggi, il femminismo della rottura diventa piuttosto un metodo, una prassi teorico-politica e una critica allo sviluppo del capitale, di estrema attualità nelle tante forme di asservimento del lavoro cognitivo attraverso l’uso del precariato, tra le altre. Inoltre, ha definito (e continua a farlo) potenti linee di fuga dentro un orizzonte di classe “inseparabile” dalla questione della razza: «Sesso, razza e classe, di Selma James, ampiamente circolato all’interno del Cif, pone[va] razza e genere come elementi strutturali del sistema di produzione capitalistico, interni alla definizione della classe e alla sua composizione»[ii].
Lorna Simpson’s 1986 photograph “Rodeo California” is part of the Albright-Knox Art Gallery exhibition “We Wanted a Revolution.” From left, are, Alva Rogers, Sandye Wilson, Candace Hamilton, Derin Young and Lisa Jones. (Photo courtesy of the artist and Hauser & Wirth)
«Se le donne Nere fossero libere, significherebbe che chiunque altro lo dovrebbe essere, dal momento che la nostra libertà implicherebbe la distruzione di tutti i sistemi di oppressione». Combahee River Collective, 2017 [iii].
Il testo di Marie Moïse sul femminismo Nero e le sue lotte radicate nella storia della schiavitù e nelle prospettive materiali della sopravvivenza dimostra come un’analisi del sistema patriarcale non possa prescindere da un’analisi dei sistemi di dominazione e di oppressione di razza, classe e genere come interconnesse e approfondisce il concetto di intersezionalità, significativo per la nuova ondata femminista transnazionale: una postura teorica che intende superare i limiti di un’analisi incentrata sulla differenza di genere come asse prioritario, in cui il sessismo non è mai disgiunto da altri rapporti di dominio (razzismo, classismo, eterosessismo).
Sono tanti gli elementi che emergono dalle traiettorie del Black Feminism: l’inseparabilità di razza e classe nell’esperienza soggettiva dell’oppressione patriarcale; il vantaggio epistemico di una conoscenza ravvicinata e funzionale dell’oppressore; la messa in discussione dell’identità sessuale come prima causa dell’oppressione femminile; i limiti della categoria monolitica (bianca e universale) di donna e il rapporto critico con l’antirazzismo e l’egemonia maschile; l’alleanza come il contrario dell’esclusione; l’interruzione dell’“equivalenza di matrice bianca tra lo statuto di donna e quello di vittima, facendo delle donne non più i soggetti dell’oppressione, ma i soggetti della resistenza”.
Angela Davis, murales dedicati alle donne partigiane, realizzati da: Chiara, Dada, Luna, Frode, Ivan, Tawa, Viperhaze; Barona, Milano, 2019.
Il termine intersezionalità indica “la lettura femminista Nera della dominazione strutturale”, la posizione dei soggetti all’interno dei sistemi di potere e di dominio definita, come sostiene il già citato Combahee River Collective dalla pluralità e dalla simultaneità dell’intersezione di molteplici assi di oppressione: genere, classe e razza.
«La prospettiva situata è consapevolmente parziale, ma in quanto tale mette in discussione il modello universalista del punto di vista neutro, dietro al quale i soggetti dominanti mascherano di verità assoluta la propria visione del mondo. Sottrarre a questi la definizione dell’oppressione significa per i soggetti oppressi la possibilità di definire soggettivamente non tanto il rapporto di dominazione subito, quanto le proprie capacità di rovesciarlo (Lorde 2014, pp. 120-121)»[iv].
Black Panthers from Sacramento, Free Huey Rally, Bobby Hutton Memorial Park, Oakland, Calif., No. 62, Aug. 25, 1968, printed 2010. Photograph by Pirkle Jones.
«La differenza è dunque un taglio sistemico, implica la messa in questione dei criteri sociali, culturali, economici, giuridici, secondo cui una società si regola e si organizza. Ecco che si spiega il motivo del titolo del testo di Carla Lonzi-Rivolta femminile, Sputiamo su Hegel (1971).
[…]
Se oggi dovessi trovare le parole per dire in breve cosa ne è della differenza, pensata dal femminismo, direi che è una postura che rifiuta l’adeguamento, l’adattamento, la conformità alle norme vigenti come meta a cui tendere o rispetto a cui identificarsi; una disposizione non solo negativa, perché il campo aperto dalla messa a distanza dei criteri dominanti si apre per un’immaginazione produttiva»[v].
Il contributo di Federica Giardini approfondisce il pensiero della differenza sessuale dall’interno e da una postura critica, incrinandone la prospettiva e minando il tema dell’inclusione e dell’uguaglianza. Il portato politico della differenza è mettere in questione i fondamenti sociali e i costrutti culturali del sistema dominante.
«Essere ammesse al circolo degli uguali, mirare all’inclusione nel gioco senza metterne in questione le regole implica infatti diversi livelli di asservimento: assumere che un soggetto possa essere definito per difetto rispetto al soggetto dominante» [vi]
Non basta il riconoscimento di tutto quello che la società aveva assegnato, storicamente e culturalmente, al ruolo della donna per affrancarsi da una sua posizione funzionale, di subalternità. Questa condizione di sfruttamento è stata uno degli elementi strutturali del capitalismo, che ha messo e mette al lavoro differenze, tempo, precarietà, affettività e sessualità.
See Red Women’s Workshop, Feminist Poster, 1974.
Il capitolo sul femminismo materialista di matrice francofona di Sara Garbagnoli, affronta le analisi di Christine Delphy, Colette Guillaumin, Nicole-Claude Mathieu, Monique Wittig, Paola Tabet.
Il 26 agosto 1970, una decina di donne aveva deposto sulla tomba del milite ignoto, sotto l’Arc de Triomphe, una corona di fiori simbolica con la scritta «Il y a plus inconnu ancore que le soldat: sa femme» (C’è qualcuno ancora più ignoto del soldato: sua moglie) ed era stato l’atto di nascita del Movimento di Liberazione delle Donne (MLF).
«Il y a plus inconnu ancore que le soldat: sa femme», manifestazione sotto l’arco di trionfo, agosto 1970, Parigi.
Lo svelamento di rapporti di dominazione prima invisibili produce, come ricostruisce l’autrice, una presa di coscienza minoritaria e causa effetti, in particolare sui soggetti che tali rapporti di dominazione subiscono: è l’esperienza della misoginia del «movimento» – Wittig e Delphy avevano preso parte al ‘68 parigino – che le politicizza in direzione femminista (fonderanno in seguito, insieme a Simone de Beauvoir, la rivista «Questions féministes»). Nell’analisi di Garbagnoli, il problema femminista si intreccia con la questione razziale. Una rivoluzione teorica, politica ed epistemologica che queste femministe (e) lesbiche affermano, contestando radicalmente il fatto che si possa pensare il mondo in termini di essenze, come genere e razza siano formazioni naturalizzate e radicate nelle istituzioni, nel linguaggio e nei corpi, ma che tali strutture sociali e culturali devono essere distrutte.
Donne e uomini sono classi antagoniste. Il patriarcato, definito da Delphy come il «nemico principale» del gruppo sociale delle donne, è un «sistema che ha una precisa base materiale – lo sfruttamento e la reificazione delle donne – e ideologica – la celebrazione della loro presunta “differenza” – che ha per funzione di celare il fatto sociale della dominazione»[vii].
Rose English, Quadrille (Rose and Dancers Entering), 1975.
Secondo Federico Zappino non esiste discontinuità tra femminismo e queer. Il queer emerge nel femminismo per minare la base binaria del sistema eterosessuale e del suo stretto rapporto con il patriarcato. La marcatura del corpo come maschile e femminile è «un rapporto sociale obbligatorio» (Wittig), un costrutto, l’essere donna, che esiste come «formazione immaginaria» e il cui mantenimento è funzionale alla perpetuazione del dominio della classe maschile su quella femminile, alla reificazione delle ‘essenze’ inferiorizzate, biologicamente assegnate, naturalizzate a uso e vantaggio della classe degli uomini, lungo gli assi di oppressione materiale del genere e della sessualità, favorite dalla naturalizzazione della ‘differenza’ e in cui l’uguaglianza non fa che raddoppiare la condizione di subalternità.
Qui le emersioni impreviste di un soggetto che il sistema etero-patriarcale ha stabilito debba coincidere con il corpo biologico, non minano solo l’immaginario ma l’intera costruzione che sostiene quell’immaginario.
«Poiché abbiamo vissuto in intimità con i nostri oppressori, isolate le une dalle altre, ci è stato impedito di vedere nella nostra sofferenza individuale una condizione politica. Questo crea l’illusione che la relazione di una donna con il suo uomo sia una questione di interazione tra due personalità uniche e possa essere risolta individualmente. In realtà, ogni relazione del genere è una relazione di classe, e i conflitti tra singole donne e singoli uomini sono conflitti politici che possono essere risolti soltanto collettivamente», Manifesto delle Redstockings, 7 luglio 1969.
See Red Women’s Workshop, Sisters Unite, 1974.
«Se non si può avere un’idea di tutto questo senza averlo vissuto, allora non si parli di ciò che non si conosce; e l’impossibilità di viverlo non giustifica l’ignoranza; viceversa, questa dimostra che la pretesa dei non-oppressi di partecipare allo stesso titolo alla lotta è assurda», I nostri amici e noi. Fondamenti nascosti di alcuni discorsi pseudo-femministi di Christine Delphy.
Elvira Vannini
María María Acha-Kutscher, Protesta del colectivo ALFOMBRA ROJA. Junio 2013, Lima. Dibujo digital creado a partir de una imagen del archivo de prensa de ALFOMBRA ROJA. Foto: Paolo Aguilar, Courtesy ADN Galería, Barcellona.
note:
[i] Anna Curcio in “Il femminismo marxista della rottura”, in Introduzione ai Femminismi, AA.VV., a cura di Anna Curcio, DeriveApprodi, Roma, 2019, p.22.
[ii] Anna Curcio, ibidem, p. 15.
[iii] Marie Moïse, Il femminismo Nero, in Introduzione ai Femminismi, ibidem, p.33.
[iv] Marie Moïse, ibidem, p.41.
[v] Federica Giardini, “Il pensiero della differenza sessuale”, in Introduzione ai Femminismi, ibidem, p.45-46.
[vi] Federica Giardini, ibidem, p. 46.
[vii] Sara Garbagnoli, “Il femminismo materialista”, in Introduzione ai Femminismi, p.63-64.
AA.VV, Ci vediamo mercoledì gli altri giorni ci immaginiamo, Mazzotta, Milano 1978.