Più speranza che fallimento: per una revisione dell’ordine patriarcale
Nella prima esposizione di sculture-installazioni di Navjot Altaf, Images Redrawn (1996), si attraversava una zona di transito che ha evocato molti luoghi differenti: in parte la strada, in parte l’archivio e in parte il museo. La pianta della mostra suggeriva strade e incroci. A dominare questi rudimentali percorsi o posizionate a un crocevia immaginario c’erano archetipiche dee madri che ricordavano il potere sacrale e la bellezza delle sculture Maya e Olmec dal Messico. Queste figure blu e rosse ctonie (*divinità femminili sotterranee, personificazione di forze sismiche o vulcaniche), esibivano vistose vagine, seni pieni, narici dilatate e occhi profondi, sembravano essere uscite da un museo. Attiravano l’attenzione sulle loro mani, che erano prive delle linee del destino (“Non ho linee del destino, grazie a dio”), e cercavano di comprendere una sceneggiatura indecifrabile su un mortaio, a lungo usato per macinare spezie indiane o masala (“Sì, voglio leggere”). È stata un’esperienza magica nella traduzione visiva e morfologica vedere la forma e il significato scivolare tra la dea e una donna qualsiasi, tra monumentalità e retorica femminista. Il lavoro che meglio esprime questo slittamento è Le figlie di Palani, in cui un corpo sporco di terra e sangue si contorce nel dolore tra calchi vaginali. Realizzato in risposta alle crescenti statistiche sull’infanticidio femminile, il riferimento per questa scultura era una dea madre Maya che partoriva. Nella versione di Navjot, il potere archetipico di Palani acquisisce una rilevanza contemporanea. La celebrazione della “differenza sessuale” della femminista francese Luce Irigaray ha avuto un effetto talismanico su di lei.
Le figlie di Palani racconta dell’insofferenza di Irigaray nei confronti di una società che riduce le donne a macchine della riproduzione e discrimina ulteriormente sulla base del genere di un bambino: “le donne, che hanno dato la vita e fatto crescere l’altro all’interno di esse, sono escluse dall’ordine che gli stessi uomini hanno istituito. La bambina, sebbene concepita da un uomo e una donna, non entra nella società come figlia del padre con lo stesso status di quello accordato al figlio maschio. La donna rimane fuori dalla cultura, mantenuta come un corpo naturale buono solo per la procreazione”.
Il gruppo scultoreo Le Figlie di Palani era accompagnato da pannelli che mostravano matrici di carta arrotolata; da ogni rotolo pendeva una corda per srotolotare. Era un archivio di annotazioni, o forse indizi con cui decodificare e comprendere questo strano assemblamento? Un tiro alla corda avrebbe funzionato. Srotolati, rivelarono un rivestimento fotocopiato con estratti di letteratura delle donne indiane. Questi rotoli includevano un’ampia gamma di testi, che vanno dalla Therigatha, le antiche canzoni delle prime monache buddiste, a poesie, racconti e romanzi di scrittrici contemporanee, provenienti dai due volumi separati, dell’antologia femminista curata da Susie Tharu e K Lalita, intitolati Women Writing In India, volume I: 600 BC to the early 20th Century e volume II: the 20th Century. Le lotte delle donne di tutto il mondo trovavano posto in questo archivio temporaneo. I rotoli allineati dovevano trasmettere ciò che l’artista ha definito come “la potenza e la resistenza delle lotte delle donne”. L’archivio femminista nascosto deve essere letto in parallelo all’approccio scultoreo di Navjot, che non privilegia né uno sguardo maschile né femminile. Gli occhi delle sue figure, il più delle volte, non possiedono bulbi oculari, come se fossero rivolti verso l’interno su un silenzio che è una potenza. È lo sguardo dell’autosufficienza, nato da una classica posizione scultorea. Navjot lavora principalmente su un registro ibrido, anche usando linguaggi apparentemente contraddittori: in questo caso, ha integrato l’impulso femminista verso l’emancipazione con gli strumenti di una ricerca spirituale.
Vorrei affrontare il dibattito archetipico/contemporaneo da un altro punto di vista, oltre la prospettiva femminista. È importante ricordare che, nella tradizione del subcontinente indiano, l’archetipo non è visto come qualcosa di distinto dal contemporaneo; l’uno esiste nell’altro. Uno dei più eloquenti sostenitori di questo paradigma è stato il regista Ritwik Ghatak, nel cui potente film Subarnarekha, del 1965 (che racconta la vita di una coppia di fratelli negli anni immediatamente successivi alla Divisione dell’India britannica in India e Pakistan nel 1947), l’archetipo e il contemporaneo, il sacrale e il profano, si trasformano l’uno nell’altro con una tensione che è allo stesso tempo auratica e storica. In Subarnarekha, la bambina Sita, che prende il nome dall’eroina del poema epico indiano Rāmāyaṇa, sta camminando su una pista di atterraggio abbandonata in un caldo torrido quando si trova improvvisamente di fronte a una bahrupiya o a una maschera mutante di ugra, incarnazione (arrabbiata o temibile) della Grande Madre, Kali. Mentre lei rimane stupefatta dalla sua presenza, un uomo anziano, che passa improvvisamente, rimprovera bahrupiya per aver spaventato la bambina. Nel momento in cui rimuove la sua finta lingua per calmarla, la bahrupiya si riduce da un’apparizione della dea Kali a un uomo normale e vulnerabile che cerca di guadagnarsi da vivere con l’arte della mascherata e del travestimento tradizionale. Nel momento della trasformazione in cui bahrupiya oltrepassa la soglia della liminalità nella vita quotidiana l’autore però ne è infestato per sempre. Lo spoglia dell’ultimo briciolo di magia che aveva rivestito il suo corpo emaciato.
Ritwik Ghatak, Subarnarekha, 1962.
Ritwik Ghatak, Subarnarekha, 1962.
Come Ghatak, Navjot Altaf mira a utilizzare fonti, materiali e idee tradizionali per raggiungere obiettivi non tradizionali nella realizzazione delle sue sculture iconiche, “spostando e posizionando l’archetipo in un contesto contemporaneo con significati mutati, aperto a molteplici interpretazioni”. Ma una tale figurazione archetipica-contemporanea non potrebbe essenzializzare il corpo femminile nelle sue sculture, riducendolo ad associazioni di terra, natura e riproduzione? Mentre l’artista ha sostenuto quanto sia critica nel ridurre il corpo della donna alle sue funzioni riproduttive (Le Figlie di Palani, il caso in questione), potrebbe esserci del vero in questa accusa. Le generose e piene figure scultoree generatrici di vita, segnalano un’identificazione tra natura e cultura che non può essere completamente smantellata attraverso le iscrizioni della realtà contemporanea. Pur non volendo eliminare questa contraddizione, vorrei citare un passaggio della critica della femminista Lucy Lippard su questa questione, emersa dal suo coinvolgimento diretto nel movimento delle donne americano. Lippard chiarisce alcuni dei fraintendimenti sulla posizione “essenzialista”: «Rifiutare tutti gli aspetti dell’esperienza della donna come pericolosi stereotipi spesso significa rigettare simultaneamente alcuni degli aspetti più preziosi delle nostre identità femminili. Anche se ora è facilmente utilizzabile contro di noi, la scomparsa dell’identificazione femminile con la terra, con la cura, con la pace (e più problematicamente con la maternità) sarebbe al servizio della cultura dominante. Uno dei tanti motivi per cui le donne artiste si sono sentite coinvolte in modo così efficace ed empatico nel cambiamento sociale e/o nell’arte impegnata è la nostra identificazione politica con gli oppressi e le persone private dei diritti [enfasi mia]. Non dobbiamo approvare le ragioni storiche di tale identificazione, ma dobbiamo chiederci perché siamo così spesso dissuasi dal pensarci».
In India, le donne artiste non hanno prodotto manifesti femministi; né hanno (a parte alcune eccezioni, come Sheba Chhachhi e Tejal Shah) lavorato a stretto contatto con il movimento delle donne. Navjot non è un’attivista femminista, ma le trame delle sue scelte e della sua pratica mettono in evidenza la tesi di Lippard: ha esteso la sua pratica da un simbolismo archetipico-contemporaneo al suo lavoro collaborativo e ai progetti di arte comunitaria a Bastar con donne espropriate dei loro diritti.
Navjot Altaf, Nalpar. Pogetto collaborativo con artisti Adivasi e membri della comunità. Struttura: Kopaweda. Kondagaon, Bastar (2004 – 2005). Courtesy l’artista e DIAA.
Navjot Altaf, Nalpar. Pogetto collaborativo con artisti Adivasi e membri della comunità. Struttura: Kopaweda. Kondagaon, Bastar (2004 – 2005). Courtesy l’artista e DIAA.
Dibattito sul femminismo
Sarebbe opportuno ricordare l’avvertimento che l’artista femminista Suzanne Lacy ha rivolto ai critici d’arte occidentali, che non dovrebbero vedere il femminismo come una transizione dalle posizioni essenziale a quelle non essenzialiste dagli anni ’70 agli anni ’80, «Perché in realtà ciò che fa è inquadrare e codificare divisioni che non sono semplicemente accurate. Il contributo del femminismo alla politica è, per lo meno, considerare il cambiamento e le idee come additivi, cumulativi – per connettersi con le idee storiche delle donne piuttosto che dissociarsi costantemente per attirare l’attenzione». La posizione attivista di Lacy riguardo le politiche di genere e l’arte pubblica è stata importante per Navjot; si sono incontrate a Pittsburgh nel 2005 e da allora sono rimaste in contatto. In maniera simile, quando analizziamo uno spettro di pratiche artistiche femminili indiane dagli anni ’70 ad oggi, proporrei un argomento diacronico: le donne artiste delle generazioni precedenti, tra cui Navjot, Anita Dube e Sheba Chhachhi, rivendicavano un’ideologia che avrebbe permesso di sfuggire ai dogmi dominanti nell’arte. Dall’altra parte, la nuova generazione di artiste come Shilpa Gupta, Mithu Sen e Tejal Shah affronta un compito opposto: quello di inquadrare una posizione per sfuggire ai dogmi femministi appena santificati riguardanti l’arte delle donne. Nel frattempo però, le generazioni precedenti non sono rimaste bloccate nelle loro ideologie femministe: infatti, Navjot, Dube e Chhachhi problematizzano le loro identità femministe per arrivare a posizioni femministe anche fortemente critiche; mentre Gupta, Sen e Shah non avrebbero potuto iniziare con una postura priva di preoccupazioni se non fosse stato per le lotte delle generazioni precedenti. Qui, possiamo registrare l’enunciazione di varie posizionalità da parte delle artiste in questione e la loro convinta riformulazione di queste in relazione alle trasformazioni delle circostanze storiche.
Navjot Altaf, Nalpar. Pogetto collaborativo con artisti Adivasi e membri della comunità. Struttura: Kopaweda. Kondagaon, Bastar (2004 – 2005). Courtesy l’artista e DIAA.
Una storia specifica per regione delle pratiche artistiche delle donne indiane
Potremmo tracciare le transizioni che Navjot ha attraversato in termini di media, genere e socialità, come un passaggio dalla lotta per raggiungere un’individualità verso un’altra condizione: quella di esprimere la libertà di perdere quella stessa individualità e liberarsi nel mondo dell’altro. Nel processo, Navjot ha tentato di riformulare le economie della pratica artistica e creare nuove solidarietà. Ma questo è più facile a dirsi che a farsi nel contesto indiano. La femminista indiana non può prendere la suffragetta borghese educata all’università come sua unità di misura. In questa società complessa e stratificata, l’identità femminile è codificata fin dall’inizio con marcatori di casta, classe, religione, etnia, regione e lingua. Per arrivare alla propria agency individuale, una donna indiana politicamente consapevole deve negoziare la sua strada attraverso tutti questi marcatori preordinati e imposti di identità, che sono sovradeterminati dal patriarcato.
In India, direi che il personale è sempre politico, ma il politico non è sempre il personale. La domanda che affliggeva le donne artiste negli anni ’70 e ’80 era: come possiamo trattare le crisi delle soggettività lontane dalla nostra posizione sociale, senza sembrare condiscendenti o colpevoli di capitalizzare le tragedie dell’altro sociale? Ciò può accadere solo quando gli artisti riescono a tradurre il privilegio in empatia, perseguendo pratiche espressive parallele basate su una reciprocità di impegno attraverso le linee di classe e di regione (come ha fatto Navjot nel suo progetto a Bastar). Solo condividendo spazi di criticità, protesta e resistenza, che le donne artiste possono far fronte ai fenomeni postcoloniali dalle politiche identitarie violente e di una sfera pubblica a rischio, nonché alle pressioni della globalizzazione. Incontriamo così una serie di opere di donne artiste indiane: quelle in cui il principio femminista è incerto; quelle in cui è drammaticamente amplificato; e altre ancora in cui si fonde con istanze di resistenza al punto da divenire post-femministe.
Ritengo fondamentale produrre una storia regionale e una narrativa teoretica per le donne artiste indiane, poiché ciò è assente in gran parte degli scritti in circolazione, che si basano fortemente sui cliché di un discorso femminista occidentale precostituito e mal digerito, senza ritenere necessario offrire un racconto di come il movimento delle donne in India della fine degli anni ’70 abbia influenzato, strutturato o segnato il lavoro, direttamente o indirettamente, di diverse generazioni di donne artiste indiane. La mia produzione di tale storia regionale e racconto teoretico non procede dal ridondante binario Est/Ovest. Piuttosto, richiede letture parallele nutrite sia da prospettive teoriche femministe sviluppate in contesti occidentali, sia dai saperi prodotti da studiose femministe indiane.
Nei tardi anni Settanta si assiste a una rivitalizzazione del movimento femminista in India e del suo impegno congiunto con il movimento ambientalista in rapida crescita. Furono organizzate manifestazioni pubbliche per protestare contro la dote, lo stupro, l’alcolismo e gli abusi sessuali. I contadini e le popolazioni tribali sfidarono la mafia del legname responsabile della deforestazione e rivendicarono i loro tradizionali diritti della terra e delle foreste. La delicata ma minacciosa serie di tempere dell’artista Nilima Sheikh, When Champa Grew Up (1984), è stata realizzata in risposta alla morte per la dote di una ragazza che viveva nel suo quartiere e aveva preso come contesto macrocosmico le proteste e le negoziazioni legali che il movimento delle donne indiane indirizzava contro tali orrori negli anni ’80.
Nilima Sheikh, Champa, before Her Marriage, and with Her Mother, 1984.
Un motivo primario che collegava i movimenti femministi e ambientalisti era il ruolo principale svolto dalle donne al loro interno, che affermava e valorizzava il ruolo dell’agency femminile. Una nuova generazione di studiose femministe iniziò a pubblicare i propri studi negli anni ’80. Sono state supportate da dinamiche realtà editoriali indipendenti come Kali for Women (la prima casa editrice femminista in India, la cui lista di pubblicazioni era focalizzata su protesta sociale, legge, economia ed ecologia) e Oxford University Press, con i suoi volumi sui Subaltern Studies e importanti riletture storiche nelle discipline umanistiche. Così un grande pubblico ha appreso delle radicali realtà di movimento emerse in India dall’Indipendenza. L’invito a leggere le storie invisibili delle espressioni culturali e della resistenza delle donne in Images Redrawn di Navjot è il risultato della conoscenza prodotta da donne ricercatrici, attiviste e rivoluzionarie indiane.
La negligenza del genere nella politica di sinistra
Durante gli anni ’80, il ruolo del genere nel movimento di sinistra era stato rivalutato rigorosamente. Ad esempio, le studiose femministe Kumkum Sangari e Sudesh Vaid erano allarmate da alcune posizioni marxiste che avevano relegato il «patriarcato nella sovrastruttura».
Così hanno successivamente dichiarato: «In altre parole, la lotta di classe consentirà una lotta solo contro quelle caratteristiche del patriarcato che sono direttamente correlate alla sfera produttiva pubblica e allo sfruttamento da parte della classe degli oppressori: salari disuguali, lavoro subordinato, servizio sessuale coatto, stupro ecc. Non consentirà una lotta contro quelle formazioni e ideologie che sono portate all’interno del movimento [di sinistra] stesso, sia dagli attivisti della classe media che dalle persone impegnate nella lotta. Recenti studi marxisti e non marxisti sui movimenti di orientamento comunista degli anni ’40 – Telangana, Tebhaga, Warli – hanno indicato in diversi modi questo fatto cruciale. Come mostrano questi studi, sono emerse contraddizioni derivanti dalle relazioni di potere patriarcale all’interno del movimento, ma sono state trattate tangenzialmente o soppresse».
Le lotte delle donne nell’insurrezione contadina di Telangana, India, 1989.
Stree Shakti Sanghatana, Were Making History. Women and the Telangana Uprising, 1989.
I diari delle donne dello stato dell’India di Telangana, che avevano partecipato alla lotta contadina guidata dai comunisti e avevano sollevato una resistenza armata contro il proprietario feudale nello stato principesco di Hyderabad, furono pubblicati da Stree Shakti Sanghatana con il titolo We were making history: Life-stories of women in the Telangana people’s struggle nel 1989. Ma già, alla fine degli anni Settanta, Navjot ricorda che la sua amica attivista Dev Nathan stava condividendo alcuni dei racconti di queste donne nel loro circolo di studi marxisti. Mentre le donne di Telangana schierate nella lotta avevano conquistato varie libertà sociali e politiche – la fine della schiavitù sessuale, il diritto della vedova di risposarsi e il divorzio, nonché i diritti alla terra, salari migliori, interessi ragionevoli sui prestiti – erano adesso paradossalmente sottoposte a un nuovo tipo di sorveglianza, quella della violenta leadership maschile e di maggioranza del Partito. Mentre le donne potevano avere una relazione sessuale dentro il Partito, il diritto di tenere il bambino spesso non era una loro decisione, poiché si riteneva che ostacolasse il lavoro stesso del Partito. Così come precisano Vasantha Kannabiran e K Lalita, che hanno analizzato e studiato le loro testimonianze: «Quello che le donne avevano scoperto era che mentre l’ingresso nel movimento le aveva rese di dominio pubblico per l’azione politica, il codice con cui venivano giudicate e valutate era ancora il codice del dominio privato».
Nancy Adajania è una teorica culturale con base a Mumbai e curatrice indipendente, che negli ultimi due decenni ha scritto ampiamente sulle opere di quattro generazioni di artiste donne indiane. Ha tenuto numerose conferenze tra cui: Documenta 11, Kassel, ZKM, Karlsruhe; Transmediale, Berlino; Center for Curatorial Studies, Bard College, New York; Haus der Kulturen der Welt (HKW), Berlino e alla 3rd FORMER WEST Research Congress: Beyond What Was Contemporary Art, Part One, Secession, Vienna. È stata curatrice della 9th Gwangju Biennale, Gwangju, 2012. Attualmente è stata nominata guest curator per Art Dubai 2020 Bawwaba section.
[traduzione di Elvira Vannini]
cover del libro a cura di Nancy Adajana, The Thirteenth Place: Positionality as Critique in the Art of Navjot Altaf (Mumbai: The Guild Art Gallery, 2016).
Più speranza che fallimento: per una revisione dell’ordine patriarcale
Nella prima esposizione di sculture-installazioni di Navjot Altaf, Images Redrawn (1996), si attraversava una zona di transito che ha evocato molti luoghi differenti: in parte la strada, in parte l’archivio e in parte il museo. La pianta della mostra suggeriva strade e incroci. A dominare questi rudimentali percorsi o posizionate a un crocevia immaginario c’erano archetipiche dee madri che ricordavano il potere sacrale e la bellezza delle sculture Maya e Olmec dal Messico. Queste figure blu e rosse ctonie (*divinità femminili sotterranee, personificazione di forze sismiche o vulcaniche), esibivano vistose vagine, seni pieni, narici dilatate e occhi profondi, sembravano essere uscite da un museo. Attiravano l’attenzione sulle loro mani, che erano prive delle linee del destino (“Non ho linee del destino, grazie a dio”), e cercavano di comprendere una sceneggiatura indecifrabile su un mortaio, a lungo usato per macinare spezie indiane o masala (“Sì, voglio leggere”). È stata un’esperienza magica nella traduzione visiva e morfologica vedere la forma e il significato scivolare tra la dea e una donna qualsiasi, tra monumentalità e retorica femminista. Il lavoro che meglio esprime questo slittamento è Le figlie di Palani, in cui un corpo sporco di terra e sangue si contorce nel dolore tra calchi vaginali. Realizzato in risposta alle crescenti statistiche sull’infanticidio femminile, il riferimento per questa scultura era una dea madre Maya che partoriva. Nella versione di Navjot, il potere archetipico di Palani acquisisce una rilevanza contemporanea. La celebrazione della “differenza sessuale” della femminista francese Luce Irigaray ha avuto un effetto talismanico su di lei.
Navjot Altaf, Le figlie di Palani, 1996, © The Guild Art Gallery, Mumbai.
Le figlie di Palani racconta dell’insofferenza di Irigaray nei confronti di una società che riduce le donne a macchine della riproduzione e discrimina ulteriormente sulla base del genere di un bambino: “le donne, che hanno dato la vita e fatto crescere l’altro all’interno di esse, sono escluse dall’ordine che gli stessi uomini hanno istituito. La bambina, sebbene concepita da un uomo e una donna, non entra nella società come figlia del padre con lo stesso status di quello accordato al figlio maschio. La donna rimane fuori dalla cultura, mantenuta come un corpo naturale buono solo per la procreazione”.
Navjot Altaf, Across the Crossing, dalla serie “Images Redrawn”, 1996, © The Guild Art Gallery, Mumbai.
Il gruppo scultoreo Le Figlie di Palani era accompagnato da pannelli che mostravano matrici di carta arrotolata; da ogni rotolo pendeva una corda per srotolotare. Era un archivio di annotazioni, o forse indizi con cui decodificare e comprendere questo strano assemblamento? Un tiro alla corda avrebbe funzionato. Srotolati, rivelarono un rivestimento fotocopiato con estratti di letteratura delle donne indiane. Questi rotoli includevano un’ampia gamma di testi, che vanno dalla Therigatha, le antiche canzoni delle prime monache buddiste, a poesie, racconti e romanzi di scrittrici contemporanee, provenienti dai due volumi separati, dell’antologia femminista curata da Susie Tharu e K Lalita, intitolati Women Writing In India, volume I: 600 BC to the early 20th Century e volume II: the 20th Century. Le lotte delle donne di tutto il mondo trovavano posto in questo archivio temporaneo. I rotoli allineati dovevano trasmettere ciò che l’artista ha definito come “la potenza e la resistenza delle lotte delle donne”. L’archivio femminista nascosto deve essere letto in parallelo all’approccio scultoreo di Navjot, che non privilegia né uno sguardo maschile né femminile. Gli occhi delle sue figure, il più delle volte, non possiedono bulbi oculari, come se fossero rivolti verso l’interno su un silenzio che è una potenza. È lo sguardo dell’autosufficienza, nato da una classica posizione scultorea. Navjot lavora principalmente su un registro ibrido, anche usando linguaggi apparentemente contraddittori: in questo caso, ha integrato l’impulso femminista verso l’emancipazione con gli strumenti di una ricerca spirituale.
Navjot Altaf, Across the Crossing, dalla serie “Images Redrawn”, 1996, © The Guild Art Gallery, Mumbai.
Spazi liminali: l’archetipo nella contemporaneità
Vorrei affrontare il dibattito archetipico/contemporaneo da un altro punto di vista, oltre la prospettiva femminista. È importante ricordare che, nella tradizione del subcontinente indiano, l’archetipo non è visto come qualcosa di distinto dal contemporaneo; l’uno esiste nell’altro. Uno dei più eloquenti sostenitori di questo paradigma è stato il regista Ritwik Ghatak, nel cui potente film Subarnarekha, del 1965 (che racconta la vita di una coppia di fratelli negli anni immediatamente successivi alla Divisione dell’India britannica in India e Pakistan nel 1947), l’archetipo e il contemporaneo, il sacrale e il profano, si trasformano l’uno nell’altro con una tensione che è allo stesso tempo auratica e storica. In Subarnarekha, la bambina Sita, che prende il nome dall’eroina del poema epico indiano Rāmāyaṇa, sta camminando su una pista di atterraggio abbandonata in un caldo torrido quando si trova improvvisamente di fronte a una bahrupiya o a una maschera mutante di ugra, incarnazione (arrabbiata o temibile) della Grande Madre, Kali. Mentre lei rimane stupefatta dalla sua presenza, un uomo anziano, che passa improvvisamente, rimprovera bahrupiya per aver spaventato la bambina. Nel momento in cui rimuove la sua finta lingua per calmarla, la bahrupiya si riduce da un’apparizione della dea Kali a un uomo normale e vulnerabile che cerca di guadagnarsi da vivere con l’arte della mascherata e del travestimento tradizionale. Nel momento della trasformazione in cui bahrupiya oltrepassa la soglia della liminalità nella vita quotidiana l’autore però ne è infestato per sempre. Lo spoglia dell’ultimo briciolo di magia che aveva rivestito il suo corpo emaciato.
Ritwik Ghatak, Subarnarekha, 1962.
Ritwik Ghatak, Subarnarekha, 1962.
Come Ghatak, Navjot Altaf mira a utilizzare fonti, materiali e idee tradizionali per raggiungere obiettivi non tradizionali nella realizzazione delle sue sculture iconiche, “spostando e posizionando l’archetipo in un contesto contemporaneo con significati mutati, aperto a molteplici interpretazioni”. Ma una tale figurazione archetipica-contemporanea non potrebbe essenzializzare il corpo femminile nelle sue sculture, riducendolo ad associazioni di terra, natura e riproduzione? Mentre l’artista ha sostenuto quanto sia critica nel ridurre il corpo della donna alle sue funzioni riproduttive (Le Figlie di Palani, il caso in questione), potrebbe esserci del vero in questa accusa. Le generose e piene figure scultoree generatrici di vita, segnalano un’identificazione tra natura e cultura che non può essere completamente smantellata attraverso le iscrizioni della realtà contemporanea. Pur non volendo eliminare questa contraddizione, vorrei citare un passaggio della critica della femminista Lucy Lippard su questa questione, emersa dal suo coinvolgimento diretto nel movimento delle donne americano. Lippard chiarisce alcuni dei fraintendimenti sulla posizione “essenzialista”: «Rifiutare tutti gli aspetti dell’esperienza della donna come pericolosi stereotipi spesso significa rigettare simultaneamente alcuni degli aspetti più preziosi delle nostre identità femminili. Anche se ora è facilmente utilizzabile contro di noi, la scomparsa dell’identificazione femminile con la terra, con la cura, con la pace (e più problematicamente con la maternità) sarebbe al servizio della cultura dominante. Uno dei tanti motivi per cui le donne artiste si sono sentite coinvolte in modo così efficace ed empatico nel cambiamento sociale e/o nell’arte impegnata è la nostra identificazione politica con gli oppressi e le persone private dei diritti [enfasi mia]. Non dobbiamo approvare le ragioni storiche di tale identificazione, ma dobbiamo chiederci perché siamo così spesso dissuasi dal pensarci».
In India, le donne artiste non hanno prodotto manifesti femministi; né hanno (a parte alcune eccezioni, come Sheba Chhachhi e Tejal Shah) lavorato a stretto contatto con il movimento delle donne. Navjot non è un’attivista femminista, ma le trame delle sue scelte e della sua pratica mettono in evidenza la tesi di Lippard: ha esteso la sua pratica da un simbolismo archetipico-contemporaneo al suo lavoro collaborativo e ai progetti di arte comunitaria a Bastar con donne espropriate dei loro diritti.
Navjot Altaf, Nalpar. Pogetto collaborativo con artisti Adivasi e membri della comunità. Struttura: Kopaweda. Kondagaon, Bastar (2004 – 2005). Courtesy l’artista e DIAA.
Navjot Altaf, Nalpar. Pogetto collaborativo con artisti Adivasi e membri della comunità. Struttura: Kopaweda. Kondagaon, Bastar (2004 – 2005). Courtesy l’artista e DIAA.
Dibattito sul femminismo
Sarebbe opportuno ricordare l’avvertimento che l’artista femminista Suzanne Lacy ha rivolto ai critici d’arte occidentali, che non dovrebbero vedere il femminismo come una transizione dalle posizioni essenziale a quelle non essenzialiste dagli anni ’70 agli anni ’80, «Perché in realtà ciò che fa è inquadrare e codificare divisioni che non sono semplicemente accurate. Il contributo del femminismo alla politica è, per lo meno, considerare il cambiamento e le idee come additivi, cumulativi – per connettersi con le idee storiche delle donne piuttosto che dissociarsi costantemente per attirare l’attenzione». La posizione attivista di Lacy riguardo le politiche di genere e l’arte pubblica è stata importante per Navjot; si sono incontrate a Pittsburgh nel 2005 e da allora sono rimaste in contatto. In maniera simile, quando analizziamo uno spettro di pratiche artistiche femminili indiane dagli anni ’70 ad oggi, proporrei un argomento diacronico: le donne artiste delle generazioni precedenti, tra cui Navjot, Anita Dube e Sheba Chhachhi, rivendicavano un’ideologia che avrebbe permesso di sfuggire ai dogmi dominanti nell’arte. Dall’altra parte, la nuova generazione di artiste come Shilpa Gupta, Mithu Sen e Tejal Shah affronta un compito opposto: quello di inquadrare una posizione per sfuggire ai dogmi femministi appena santificati riguardanti l’arte delle donne. Nel frattempo però, le generazioni precedenti non sono rimaste bloccate nelle loro ideologie femministe: infatti, Navjot, Dube e Chhachhi problematizzano le loro identità femministe per arrivare a posizioni femministe anche fortemente critiche; mentre Gupta, Sen e Shah non avrebbero potuto iniziare con una postura priva di preoccupazioni se non fosse stato per le lotte delle generazioni precedenti. Qui, possiamo registrare l’enunciazione di varie posizionalità da parte delle artiste in questione e la loro convinta riformulazione di queste in relazione alle trasformazioni delle circostanze storiche.
Navjot Altaf, Nalpar. Pogetto collaborativo con artisti Adivasi e membri della comunità. Struttura: Kopaweda. Kondagaon, Bastar (2004 – 2005). Courtesy l’artista e DIAA.
Una storia specifica per regione delle pratiche artistiche delle donne indiane
Potremmo tracciare le transizioni che Navjot ha attraversato in termini di media, genere e socialità, come un passaggio dalla lotta per raggiungere un’individualità verso un’altra condizione: quella di esprimere la libertà di perdere quella stessa individualità e liberarsi nel mondo dell’altro. Nel processo, Navjot ha tentato di riformulare le economie della pratica artistica e creare nuove solidarietà. Ma questo è più facile a dirsi che a farsi nel contesto indiano. La femminista indiana non può prendere la suffragetta borghese educata all’università come sua unità di misura. In questa società complessa e stratificata, l’identità femminile è codificata fin dall’inizio con marcatori di casta, classe, religione, etnia, regione e lingua. Per arrivare alla propria agency individuale, una donna indiana politicamente consapevole deve negoziare la sua strada attraverso tutti questi marcatori preordinati e imposti di identità, che sono sovradeterminati dal patriarcato.
In India, direi che il personale è sempre politico, ma il politico non è sempre il personale. La domanda che affliggeva le donne artiste negli anni ’70 e ’80 era: come possiamo trattare le crisi delle soggettività lontane dalla nostra posizione sociale, senza sembrare condiscendenti o colpevoli di capitalizzare le tragedie dell’altro sociale? Ciò può accadere solo quando gli artisti riescono a tradurre il privilegio in empatia, perseguendo pratiche espressive parallele basate su una reciprocità di impegno attraverso le linee di classe e di regione (come ha fatto Navjot nel suo progetto a Bastar). Solo condividendo spazi di criticità, protesta e resistenza, che le donne artiste possono far fronte ai fenomeni postcoloniali dalle politiche identitarie violente e di una sfera pubblica a rischio, nonché alle pressioni della globalizzazione. Incontriamo così una serie di opere di donne artiste indiane: quelle in cui il principio femminista è incerto; quelle in cui è drammaticamente amplificato; e altre ancora in cui si fonde con istanze di resistenza al punto da divenire post-femministe.
Ritengo fondamentale produrre una storia regionale e una narrativa teoretica per le donne artiste indiane, poiché ciò è assente in gran parte degli scritti in circolazione, che si basano fortemente sui cliché di un discorso femminista occidentale precostituito e mal digerito, senza ritenere necessario offrire un racconto di come il movimento delle donne in India della fine degli anni ’70 abbia influenzato, strutturato o segnato il lavoro, direttamente o indirettamente, di diverse generazioni di donne artiste indiane. La mia produzione di tale storia regionale e racconto teoretico non procede dal ridondante binario Est/Ovest. Piuttosto, richiede letture parallele nutrite sia da prospettive teoriche femministe sviluppate in contesti occidentali, sia dai saperi prodotti da studiose femministe indiane.
Nei tardi anni Settanta si assiste a una rivitalizzazione del movimento femminista in India e del suo impegno congiunto con il movimento ambientalista in rapida crescita. Furono organizzate manifestazioni pubbliche per protestare contro la dote, lo stupro, l’alcolismo e gli abusi sessuali. I contadini e le popolazioni tribali sfidarono la mafia del legname responsabile della deforestazione e rivendicarono i loro tradizionali diritti della terra e delle foreste. La delicata ma minacciosa serie di tempere dell’artista Nilima Sheikh, When Champa Grew Up (1984), è stata realizzata in risposta alla morte per la dote di una ragazza che viveva nel suo quartiere e aveva preso come contesto macrocosmico le proteste e le negoziazioni legali che il movimento delle donne indiane indirizzava contro tali orrori negli anni ’80.
Nilima Sheikh, Champa, before Her Marriage, and with Her Mother, 1984.
Un motivo primario che collegava i movimenti femministi e ambientalisti era il ruolo principale svolto dalle donne al loro interno, che affermava e valorizzava il ruolo dell’agency femminile. Una nuova generazione di studiose femministe iniziò a pubblicare i propri studi negli anni ’80. Sono state supportate da dinamiche realtà editoriali indipendenti come Kali for Women (la prima casa editrice femminista in India, la cui lista di pubblicazioni era focalizzata su protesta sociale, legge, economia ed ecologia) e Oxford University Press, con i suoi volumi sui Subaltern Studies e importanti riletture storiche nelle discipline umanistiche. Così un grande pubblico ha appreso delle radicali realtà di movimento emerse in India dall’Indipendenza. L’invito a leggere le storie invisibili delle espressioni culturali e della resistenza delle donne in Images Redrawn di Navjot è il risultato della conoscenza prodotta da donne ricercatrici, attiviste e rivoluzionarie indiane.
La negligenza del genere nella politica di sinistra
Durante gli anni ’80, il ruolo del genere nel movimento di sinistra era stato rivalutato rigorosamente. Ad esempio, le studiose femministe Kumkum Sangari e Sudesh Vaid erano allarmate da alcune posizioni marxiste che avevano relegato il «patriarcato nella sovrastruttura».
Così hanno successivamente dichiarato: «In altre parole, la lotta di classe consentirà una lotta solo contro quelle caratteristiche del patriarcato che sono direttamente correlate alla sfera produttiva pubblica e allo sfruttamento da parte della classe degli oppressori: salari disuguali, lavoro subordinato, servizio sessuale coatto, stupro ecc. Non consentirà una lotta contro quelle formazioni e ideologie che sono portate all’interno del movimento [di sinistra] stesso, sia dagli attivisti della classe media che dalle persone impegnate nella lotta. Recenti studi marxisti e non marxisti sui movimenti di orientamento comunista degli anni ’40 – Telangana, Tebhaga, Warli – hanno indicato in diversi modi questo fatto cruciale. Come mostrano questi studi, sono emerse contraddizioni derivanti dalle relazioni di potere patriarcale all’interno del movimento, ma sono state trattate tangenzialmente o soppresse».
Le lotte delle donne nell’insurrezione contadina di Telangana, India, 1989.
Stree Shakti Sanghatana, Were Making History. Women and the Telangana Uprising, 1989.
I diari delle donne dello stato dell’India di Telangana, che avevano partecipato alla lotta contadina guidata dai comunisti e avevano sollevato una resistenza armata contro il proprietario feudale nello stato principesco di Hyderabad, furono pubblicati da Stree Shakti Sanghatana con il titolo We were making history: Life-stories of women in the Telangana people’s struggle nel 1989. Ma già, alla fine degli anni Settanta, Navjot ricorda che la sua amica attivista Dev Nathan stava condividendo alcuni dei racconti di queste donne nel loro circolo di studi marxisti. Mentre le donne di Telangana schierate nella lotta avevano conquistato varie libertà sociali e politiche – la fine della schiavitù sessuale, il diritto della vedova di risposarsi e il divorzio, nonché i diritti alla terra, salari migliori, interessi ragionevoli sui prestiti – erano adesso paradossalmente sottoposte a un nuovo tipo di sorveglianza, quella della violenta leadership maschile e di maggioranza del Partito. Mentre le donne potevano avere una relazione sessuale dentro il Partito, il diritto di tenere il bambino spesso non era una loro decisione, poiché si riteneva che ostacolasse il lavoro stesso del Partito. Così come precisano Vasantha Kannabiran e K Lalita, che hanno analizzato e studiato le loro testimonianze: «Quello che le donne avevano scoperto era che mentre l’ingresso nel movimento le aveva rese di dominio pubblico per l’azione politica, il codice con cui venivano giudicate e valutate era ancora il codice del dominio privato».
Il testo, per gentile concessione di Nancy Adajania, è tratto dalla pubblicazione dedicata al lavoro di Navjot Altaf, The Thirteenth Place: Positionality as Critique in the Art of Navjot Altaf (Mumbai: The Guild Art Gallery, 2016).
Nancy Adajania è una teorica culturale con base a Mumbai e curatrice indipendente, che negli ultimi due decenni ha scritto ampiamente sulle opere di quattro generazioni di artiste donne indiane. Ha tenuto numerose conferenze tra cui: Documenta 11, Kassel, ZKM, Karlsruhe; Transmediale, Berlino; Center for Curatorial Studies, Bard College, New York; Haus der Kulturen der Welt (HKW), Berlino e alla 3rd FORMER WEST Research Congress: Beyond What Was Contemporary Art, Part One, Secession, Vienna. È stata curatrice della 9th Gwangju Biennale, Gwangju, 2012. Attualmente è stata nominata guest curator per Art Dubai 2020 Bawwaba section.
[traduzione di Elvira Vannini]
cover del libro a cura di Nancy Adajana, The Thirteenth Place: Positionality as Critique in the Art of Navjot Altaf (Mumbai: The Guild Art Gallery, 2016).