Learn to dance backward* di Marcella Toscani

È negli anni ’70 che la definizione diviene auto-definizione, la rappresentazione auto-rappresentazione. Il femminismo ha indotto la riflessione sul soggetto, lo ha portato a riflettere su di sé. In che modo si diventa donna? In che modo si diventa uomo? Come è che il corpo diventa uomo? Come è che un corpo diventa donna? Ma che cos’è il corpo? Normalità, sintomo del genere, norma, normatività. Dai “corpi docili” alla critica post-femminista.

 

Il corpo. Che cos’è il corpo? Quella dei dizionari è una rappresentazione piuttosto generalista: porzione limitata di materia, sostanza con una forma e una massa specifiche, organismo umano o animale, nucleo costitutivo di qualcosa, pluralità di elementi che fanno parte di un ordine unico. Se ci concentriamo sul nostro corpo, questa “cosa” con due braccia e due gambe attraverso il quale ci spostiamo e ci relazioniamo, la parola assume significati ancora più eterogenei che ci conducono su strade di riflessione diverse perché diverse possono essere le sfumature con cui lo si guarda e lo si intende. Possiamo pensare al nostro corpo in senso prettamente fisico e biologico e, dunque, come l’insieme degli organi interconnessi di una macchina funzionale in perfetta armonia. Oppure c’è il corpo sociale, traccia (sempre e comunque) del contesto in cui vive e ci si relaziona volontariamente o meno. È attraverso il corpo che l’individuo diventa soggettività: svolge azioni e attività che lo definiscono, si colloca in determinati spazi, vive temporalità stabilite e programmate. L’individuo diventa soggetto quando il corpo assume quelle caratteristiche che lo caricano di significati specifici. Si potrebbe riscrivere tutta la storia a partire dai corpi perché è su di essi la storia si incarna e si compie.

Intendo qui il corpo come lo teorizza Michel Foucault e cioè luogo dove s’inscrive il potere ed è dunque a partire dal corpo che il potere si può osservare e analizzare perché è in esso che passa prima di tutto. Le relazioni di potere sono, a tutti gli effetti, relazioni corporee in cui, come specifica, l’uno cerca di controllare l’assoluto ontologico dell’altro.
Quando Foucault parla di “esercizio del potere” intende che il potere si esercita sulla stessa superficie del corpo in cui si scrive e il corpo subisce l’esercizio del potere e sempre, più o meno consciamente, diventa quel potere. Nel corpo il potere si realizza divenendo immagine, immanenza, intellegibilità. Si tratta di una forma di dominio specifica, quella che prevede il disciplinarsi del soggetto corporeo. È in questo modo che il potere trova e troverà sempre il modo di reificarsi per resistere cambiando continuamente forma e modalità. Ecco perché, anche se più di trent’anni ci separano da queste riflessioni, di fatto, i meccanismi restano pressoché immutati. Perché oggi, nonostante si parli di capitalismo avanzato informazionale, di società dell’informazione o, come afferma Donna Haraway, di “informatica del dominio” per descrivere un contesto capitalistico che si fa sempre più informazionale e sempre meno concreto e materico, continuiamo ad avere un corpo che è fisicità. È un corpo che si modifica, che si carica di tutta una serie di appendici e dispositivi di cui non può più fare a meno, ma il corpo c’è, resta, è lì e con lui dobbiamo continuare a fare i conti.
«La storia del corpo, gli storici l’hanno avviata da tempo (…) Ma il corpo è anche direttamente immerso in un campo politico: i rapporti di potere operano su di lui una presa immediata, lo investono, lo marchiano, lo addestrano, lo suppliziano, lo costringono a certi lavori, lo obbligano a delle cerimonie, esigono da lui dei segni» [i].

Ancora oggi il potere esige dal corpo dei segni. Ma,
 contrariamente al tempo della modernità a cui Foucault si riferisce – un’epoca in cui il potere aveva bisogno e di corpi e di spazi fisici, di luoghi in cui agire e attraverso i quali essere emanato – ora può essere ed è ovunque. Non ha più bisogno di spazi perché il potere è informazionale a sua volta. Ci circonda completamente e in ogni istante e il suo primo fine continua a essere il corpo, nonostante vi arrivi con forme diverse. Ecco come il nesso corpo-potere si riproduce sempre e comunque. Ma, oltre ad essere il fine
del potere e il luogo da cui il potere vie-
ne emanato, è anche espressione della
“voce contro”: «Là dove c’è potere, c’è
 resistenza» [ii]. Ed è dunque il corpo che,
 da oggetto e strumento del potere, diventa soggetto che riflette e re-agisce.

Quindi il potere del corpo e sul corpo ha scritto la storia delle relazioni imponendo e dettando una differenza tra quelle “giuste” e quelle “sbagliate”, di conseguenza, persone “giuste” e persone “sbagliate”. Differenza decisamente importante, secondo Judith Butler, perché è in base a questa che viene considerata una “scelta” la vita diventa più o meno degna di essere vissuta. Nel suo A chi spetta una buona vita? sostiene che il criterio di misura principale per stabilire quanto una vita sia degna è il lutto: solo una vita degna di lutto merita considerazione, può beneficiare di sostegno sociale ed economico, di alloggio, cure mediche, lavoro, libertà di espressione politica, di forme di riconoscimento sociale e delle condizioni necessarie alla partecipazione attiva alla vita pubblica.

Ana Mendieta, Untitled, Glass on Body, 1972. Courtesy Estate of Ana Mendieta Collection, Galerie Lelong, NY.

Il corpo è intrappolato in questa rete di presupposti
e relazioni che gli permettono di diventare soggetto. Il verbo diventare è di centrale importanza: come si diventa un soggetto? La prima a riflettere su questo concetto fu Simone de Beauvoir. «Donna non si nasce, si diventa» e dedicò al verbo un’ampia trattazione.

Ad attualizzarla è stata Butler che, dal verbo, inizia ad affrontare quello che sarà il tema centrale di tutta la sua produzione: allora com’è che si diventa? Un corpo performativo che, attraverso la ripetizione continua e costante (agency), diventa un genere e, cioè, un soggetto con caratteristiche precise e specifiche. I corpi docili foucaultiani sono corpi che Teresa De Lauretis definisce con l’espressione en-gendered e cioè in-generati: hanno un genere preciso, scritto a partire dal sesso biologico (naturale o modificato che sia) e, diventando un genere, il corpo è obbligato in determinate caratteristiche e scelte specifiche al fine di essere “normale”, o di essere riconosciuto come tale.

Ecco perché Antonin Artaud annunciava la necessità di liberare il linguaggio dal significato imperante, dall’essere servo della comunicazione, e, così, liberare il corpo dalla rete che lo trattiene, che non gli consente di essere realmente libero. Artaud vuole liberare il linguaggio e il corpo per dare voce ai linguaggi umiliati, ai corpi oppressi e repressi, dei folli, dei marginali che sono definiti tali dalla norma. Il corpo deve liberarsi dal giudizio. In Critica e clinica, Deleuze afferma che «Il giudizio non è apparso su un suolo che ne avrebbe favorito lo sviluppo; ci è voluta rottura, biforcazione. È stato necessario che il debito venisse contratto dagli dei. È stato necessario che il debito non fosse più in rapporto a forze di cui eravamo depositari, ma in rapporto a divinità che si considera ci diano tali forze. La dottrina del giudizio prevede che l’esistenza sia suddivisa in lotti e distribuita da Dio agli uomini. Gli affetti distribuiti in lotti sono rapportati così a forme superiori»[iii].

Su questa credenza è stata scritta tutta la storia, una storia da cui ora facciamo fatica a 
liberarci perché, di qualsiasi forma sia 
questo dio, c’è sempre. Artaud annuncia 
una rottura ma sarà Deleuze a spiegarcela: «Il sistema della crudeltà enuncia i rapporti finiti del corpo e le forze che lo investono, mentre la dottrina del debito infinito determina i rapporti dell’anima immortale con dei giudizi. È il sistema della crudeltà che dappertutto si oppone alla dottrina
 del giudizio» [iv]. Solo liberandosi dal corpo, dai suoi organi, è possibile pensare e agire un corpo affettivo, intensivo, anarchico, in divenire, in potenza. Con questa riflessione Artaud ci libera dal corpo assegnatoci da dio. «Per esistere è sufficiente lasciarsi andare ad 
essere, ma per vivere, bisogna essere
 qualcuno, bisogna pure avere un osso,
 non avere paura di mostrarlo» [v].

Una di queste storie, di quelle scritte sul corpo, è stata proprio quella della differenza di genere: un insieme di codici e segni che “ci” incollano sul corpo, caratterizzando e determinandone tutta l’esistenza. A causa del corpo, a partire da lui noi “diventiamo” uomo o donna. Una costruzione sociale che ha scopi specifici, primo tra tutti, attuare forme di potere, sorveglianza e controllo. Genere performante, eterno agire, ripetizione continua: «il genere è sempre un fare» scrive Judith Butler [vi].

Dal corpo si origina questa azione continua. Solo nel fare il genere diventa significazione. Un fare che permette l’esistenza, che fa diventare, fare che è una relazione e un mostrarsi. Ma fare cosa e in base a cosa? Fare in base a un modello che in realtà non esiste ma che ci circonda e continuamente si aggiorna, cambia come cambiamo noi, rispettando le nostre indotte esigenze. È la norma a guidarlo. Come afferma Butler, «Se il genere è una norma, essa non equivale a un modello a cui le persone cercano 
di attenersi. Al contrario, esso è una forma di potere sociale che crea la sfera intellegibile
 dei soggetti ed un impianto attraverso
 il quale si costituisce il binarismo di
genere» [vii].

Ma i desideri non sono tutti facilmente incasellabili. Nella realtà ne esistono così tanti da non poter essere tutti incanalati in un genere. La normalità non può regolare tutta la sfera del desiderio, immensa e infinita. Ecco perché finché esisterà la norma – ed esisterà sempre – continueranno a esserci voci “contro” guidati dai desideri “contro” non incasellati. Desideri prodotti che si mischiano al puro desiderio considerato malattia, follia, perversione. La retta via si smarrisce nel non seguire le indicazioni imposte. Su questa costruzione si iscrive la storia dell’uomo che in dio vede il modello per eccellenza. La donna, che non ha un modello preciso a cui aderire, si articola nella non esistenza, nella negazione dall’altro. Tutto quello che non rientra nel dualismo, nel maschile o nel femminile, non esiste. Per uscire allo scoperto, allora, un corpo deve combattere. Combattere per divenire “normalità” o cambiare tale concetto distruggendo la normalità, che non è altro che una creazione artificiale.

Genesis P-Orridge e Lady Jaye.

«The body is used by the mind as a logo for the self before we are able to speak language. It is almost a holographic doll constructed by outside expectations even before a body is born» [viii]. Corpo come bambola olografica costruita da
 aspetti esteriori anche prima della sua 
nascita, una conoscenza che inizia in
 base al sesso biologico annunciato ai genitori. La famiglia, la scuola, la religione, il cinema, i media, l’arte e tutte quelle che Teresa De Lauretis considera le “tecnologie del genere”: i luoghi, gli spazi, i tempi, le relazioni che disegnano la storia del nostro esse-re. «Our identity is fictional, written by parents, relatives, education, society» [ix], un’identità che caratterizza il corpo.

Scuola di Fontainebleau, Gabrielle d’Estrées e sua sorella, 1594-1595, Louvre, Parigi.

In Soggetti Eccentrici Teresa De Lauretis riflette sulla formazione e formalizzazione del genere e scrive: «Il genere non è un semplice derivato del sesso anatomico o biologico ma una costruzione simbolica, una rappresentazione o, meglio, l’atto combinato di innumerevoli rappresentazioni visive e discorsive che provengono dai diversi apparati istituzionali dello stato, quali la famiglia, la scuola, la giurisprudenza, la medicina, ecc. (…) ma anche delle forme stesse della cultura (il linguaggio, le arti, la letteratura, la religione, la filosofia, il cinema, i media) che descrivevo appunto come tecnologie del genere. La natura artificiale del genere (…) non significa che esso non abbia effetti concreti nella vita materiale, sociale, psichica degli individui. Al contrario, la realtà del genere sta proprio negli effetti di realtà prodotti dalla sua rappresentazione: il genere si realizza (…) quando la rappresentazione diviene autorappresentazione (…). Per questo ho proposto il neologismo en-gender, che rendo in italiano con ingenerarsi: il soggetto (…) si produce in quanto soggetto nell’assumere, nel fare proprio e nell’identificarsi con gli atti di senso e le posizioni spedicate dal sistema sessuale in una data società» [x]. Attraverso i dispositivi di soggettivazione dell’era globale, la rappresentazione e l’auto-rappresentazione continuano a compiersi e formalizzarsi nel corpo, un corpo che in quanto tale è ingenerato. Corpo, dunque, che è sintomo del genere. A partire da questa consapevolezza occorre guardare al contesto e alle tracce che si scrivono su di noi.

Dis-fare l’identità, dis-fare il genere, decodificare
il corpo, il comportamento, la sessualità, tutto del “fictional character written by consensus reality”. Distruggere l’impero del DNA, liberarsi dalla sovranità dell’anatomia per divenire potenzialità. Decostruzione necessaria dopo la costruzione, perché c’è tanto da imparare ma molto di più da disimparare.

*Allora gli reinsegnerete a danzare alla rovescia come nel delirio del bal musette e questo rovescio sarà il suo vero diritto, Antonin Artaud, Pour en finir avec le jugement de dieu (Per farla finita col giudizio di dio), 1947.

Marcella Toscani è curatrice indipendente, tra i fondatori di CURRENT, una piattaforma creata da artisti e curatori. Ha concluso il Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali presso Naba – Nuova Accademia di Belle arti di Milano. A partire dai suoi interessi sulle pratiche performative degli anni Sessanta e Settanta ha successivamente approfondito e sviluppato le teorie dei femminismi della differenza. Dopo essersi resa conto dei grandi punti di forza ma anche dei forti limiti che il femminismo presentava, ha iniziato a riflettere sulle teorie post-femministe e post-gender, le cui indagini sono confluite in un progetto espositivo e nella ricerca di tesi intitolata “There’s lots to learn but so much more to unlearn”. Collabora con hotpotatoes.it.

[i] Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1993, p. 29.
[ii] Michel Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 84.
[iii] Gilles Deleuze, Critica e clinica (1993), Cortina, Milano, 1996, p. 168.
[iv] Gilles Deleuze, Critica e clinica, ibidem.
[v] Antonin Artaud, Eliogabalo o l’anarchico incoronato(1934), Milano, Adelphi, 1984, p. 25.
[vi] Mi sono avvicinata a Judith Butler una volta affrontato il pensiero delle principali teoriche femministe. Mi sono accorta presto che il femminismo, nonostante il fatto di aver permesso l’ingresso del marginale, dell’Altro, nel suo discorso politico, ha continuato a fondare il proprio discorso su una struttura fortemente dualistica. Butler, tra le altre post-femministe – ha tentato di includere l’Altro proprio a partire dalla distruzione dell’impero del dualismo su cui il femminismo ha continuato a basarsi. Il dualismo è una delle principali forme di potere: s’iscrive sui corpi, li determina, li caratterizza e ne determina le azioni. Significa considerare e mantenere tutto quello che “uomo” e donna” hanno finito per significare. Mantenere questa forma di potere significa garantire la sovranità di una categoria sull’altra e non considerare tutti gli Altri e cioè quelli che nel dualismo non sono in grado di entrare, le vite in-between.
[vii] Judith Butler, La disfatta del genere, Meltemi, roma, 2006, pp. 75-76.
[viii] Breyer P-Orridge, Pandrogeny Manifesto (2006).
[ix] Ibidem.
[x] Teresa De Lauretis, Soggetti eccentrici, Feltrinelli, Milano, 1999, p. 6.

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