Quando è emersa l’urgenza di una riscrittura della storia dell’arte in America Latina, se non da una prospettiva femminista, almeno dalla chiara consapevolezza di una struttura sociale ancora fortemente patriarcale, eteronormativa, machista e sessista? Il libro Feminismo y arte latinoamericano. Historias de artistas que emanciparon el cuerpo (Femminismo e arte latinoamericana. Storie di artiste che hanno emancipato il corpo) uscito nel 2018 nasce da un vuoto di ordine teorico e storico?
Andrea Giunta: Nei miei interessi intellettuali sull’argomento ci sono stati due momenti di ricerca e scrittura. Il primo è stato all’inizio degli anni ‘90, quando con l’impatto della teoria di Judith Butler e di Nelly Richard ho iniziato a lavorare sull’analisi di opere visive (Graciela Sacco, Alicia Herrero, Ana Mendieta) da una prospettiva di genere. Questo lavoro, nonostante sia stato in parte pubblicato in una rivista dedicata agli studi di genere, Mora – Rivista dell’Istituto Interdisciplinare di Studi di Genere della Facoltà di Filosofia e Lettere dell’Università di Buenos Aires –, non ha prodotto alcun effetto, né nell’ambito accademico né nel mondo dell’arte.
In un certo senso, negli anni post-dittatoriali, le prospettive femministe sono entrate nell’ambito degli studi accademici e nei bilanci statali dall’angolatura teorica aperta dagli studi di genere. In prospettiva, considerando le attuali mobilitazioni, è stato, in un certo senso, il percorso di normalizzazione del femminismo durante gli anni ‘90 fino al riemergere dell’attivismo femminista nel 2014-2015. “Femminismo” non era una parola che aveva una buona ricezione, invece “genere” era il termine corretto, meno virulento. Oggi è il contrario. Prendiamo per esempio gli attacchi a Judith Butler in Brasile: “genere” è un termine che altera il concetto tradizionale di famiglia sostenuto dai settori religiosi. Sebbene le donne che militano a favore della legalizzazione dell’aborto sono attive dal periodo post-dittatura, le bandiere verdi della campagna non avevano una buona pubblicità negli anni ’90. Nel 2015 le loro bandiere erano coperte con altre negli atti femministi e questo fino a quando il verde ha inondato tutto. Così anche, nelle marce, ci sono gruppi che sfuggono al verde e usano il fucsia.
Nosotras Proponemos, International Women’s Day, Buenos Aires, 2019. Courtesy: Archivo NP.
Nosotras Proponemos, International Women’s Day, Buenos Aires, 2018. Courtesy: Archivo NP.
Nosotras Proponemos, International Women’s Day, Buenos Aires, 2019. Courtesy: Lena Szankay / NP, sulla destra Andrea Giunta.
Nosotras Proponemos, International Women’s Day, Buenos Aires, 2019. Courtesy: Lena Szankay / NP.
Racconto questa storia perché è storiograficamente importante. Nel 2010 ho iniziato a lavorare alla mostra Radical Women. Latin American Art, 1960-1985, che ho co-curato con Cecilia Fajardo-Hill. L’opposizione che abbiamo avuto è stata così violenta in termini di squalifica del progetto, che ho capito chiaramente che il problema poteva essere affrontato senza conflitto usando la parola “genere”, ma che era inabbordabile quando appariva la parola “donna”. Abbiamo iniziato a fare statistiche latinoamericane, in linea con quelle delle Guerrilla Girls, ma per un nostro uso interno, come parte della nostra ricerca, non per renderle pubbliche. Era evidente che, proprio mentre le cose peggioravano per le donne in America Latina (aumento del femminicidio, cessazione volontaria della gravidanza non legalizzata, assenza di uguale rappresentanza nelle sfere della vita pubblica, tre dei punti principali di una lunga lista di diritti non realizzati), questa situazione si trasferiva al mondo dell’arte. Al suo interno, le donne rappresentano nel migliore dei casi il 30%, nelle mostre delle collezioni museali si abbassa al 10%, nelle pubblicazioni la riproduzione delle loro opere è del 30% e le mostre retrospettive di artiste sono scarse o inesistenti, in base all’istituzione.
Artists for Democracy (AFD) fondato il 6 maggio 1974 a Londra da Cecilia Vicuña, David Medalla, John Dugger e Guy Brett che hanno organizzato The Arts Festival for Democracy in Chile.
Cecilia Vicuña, Homage to Vietnam, 1977.
Feminismo y arte latinoamericano è un libro che è stato scritto in due momenti. I cinque casi latinoamericani che analizzo sono stati pubblicati sotto forma di articoli su riviste accademiche mentre svolgevo la ricerca di Radical Women, tra il 2010 e il 2017; ho scritto il primo capitolo nel 2017 e la cronaca che appare alla fine con il glossario nel 2018. Quest’ultima sezione è stata il risultato diretto dell’attivismo che ho intrapreso da novembre 2017, quando sono diventata membra fondatrice di Nosotras Proponemos, la cui Asamblea Permanente de Trabajadoras del Arte (Assemblea Permanente delle Lavoratrici dell’Arte) viene stabilita il 7 novembre dello stesso anno (www.nosotrasproponemos.org). Da allora, sviluppiamo assemblee mensili, un intenso attivismo territoriale e trasversale insieme ai gruppi femministi che si sono manifestati negli scioperi internazionali – che da due anni si svolgono l’8 marzo -, e un’azione su più livelli per cambiare la disuguaglianza nel mondo dell’arte. Quest’ultima è intesa come una violenza simbolica che esplica, nella nostra area specifica (in questo territorializziamo le nostre richieste contro la violenza nel mondo dell’arte), altre forme di violenza: sopraffazione, disuguaglianza, forme di molestie, mansplaning, ecc. In questo campo lavoriamo con i rappresentanti della cultura nel governo e attraverso avvisi pubblicati sulla nostra pagina Facebook circa le diverse forme di patriarcato nel mondo dell’arte.
Liliana Maresca, Sin titulo (Untitled), dalla serie Liliana Maresca con su obra (Liliana Maresca with her work), 1983. Courtesy Archivio Liliana Maresca e Marcos Lòpez.
Feminismo y arte latinoamericano (che non è una “storia”, bensì storie basate su casi specifici che permettono di comprendere articolazioni diverse sul motivo per cui negli anni ‘70 non c’era in America Latina, escludendo il Messico, un femminismo artistico che si articolava da quel momento fino ad oggi), è un libro che evidentemente è venuto a riempire uno spazio vuoto di storia e teoria: in nove mesi sono state vendute quattro edizioni e ora siamo alla quinta ristampa.
Yolanda López, dalla serie Tableaux Vivant, 1978. Courtesy of Yolanda M. López.
Quale dovrebbe essere secondo te il campo di applicazione naturale (musei, università …) per una riscrittura della storia dell’arte, libera dalle frontiere e dalle gerarchie di sesso, razza e classe?
AG: Io credo che sia necessario lavorare in tutti gli ambiti. Nella curatela con ricerca e qualità espositiva, nei programmi delle università, delle scuole d’arte, delle scuole primarie e secondarie (includendo le artiste donne, la teoria femminista, figure di donne storiche, i programmi sono completamente patriarcali in termini generali). È essenziale che i bambini e gli adolescenti sappiano che esistono artiste donne, che ci sono artiste nere, indigene e transgender. Il mondo dell’arte è razzista, patriarcale e classista, per questo è essenziale lavorare contro il canone, per un’arte più complessa, esteticamente e concettualmente, più significativa come esperienza estetica e di conoscenza. Con Nosotras Proponemos, come nella mia pratica, sostengo la necessità di una rappresentazione equa. Non perché questo sia un obiettivo, si tratta di una strategia, un modo per dare visibilità alle opere escluse, sistematicamente censurate. Credo che esista una censura sistemica nel mondo dell’arte che, protetta dall’ideologema della “qualità”, lascia da parte centinaia di opere, artiste e traiettorie che, se ricercate ed esposte, sono sorprendenti. Molte opere importanti non le vediamo, semplicemente perché il mondo dell’arte ha deciso di non mostrarle. Allo stesso modo, l’incredibile lavoro che le artiste afro-discendenti stanno realizzando in America Latina e nei Caraibi solo ora inizia a essere visibile. La trasformazione più radicale sta nell’inclusione senza distinzione di opere che sono state cancellate dall’opinione pubblica.
Dalla partecipazione al dibattito portato avanti dal collettivo Nosotras Proponemos, passando per la mostra Radical Women: Latin American Art 1960-1985, la tua attività accademica, infine la curatela della Biennale di Mercosur nel 2020, come questi momenti e sfere dialogano reciprocamente e quali sono gli effetti di realtà attesi dalla loro interrelazione?
AG: L’attivismo è stato fondamentale nel tracciare una linea orizzontale tra le rivendicazioni territoriali (rappresentazione nel mondo dell’arte, visibilità del maschilismo, molestie, abusi, pratiche di squalifica e mansplaining) e quelle del femminismo attuale, che sta lottando per la vita delle donne in modo che non siano uccise, in modo che possano compiere aborti legali, sicuri e gratuiti. La lotta è trasversale. Personalmente intendo la pratica come una fonte di teoria. Dipingendo le bandiere con le compagne di Nosotras Proponemos, in assemblea, marciando per le strade, capisco in modi nuovi e espando continuamente il mio campo di riflessione. Anche la pratica genera teoria. Gli affetti, i corpi, essere coinvolte attraverso le pratiche è fonte di pensiero. La biennale di Mercosur si concentra su una rivoluzione del canone. Ci saranno artiste famose e altre completamente sconosciute. Ci saranno artiste donne, transgender, uomini eterosessuali, artiste lesbiche, gay, queer, ma non faremo statistiche o segnaletiche. Ci preoccupiamo di trasformare il mondo dell’arte, però non evidenziando le differenze, bensì integrando senza differenziazione. Sarà il pubblico, se interessato, a indagare sulle percentuali di rappresentazione. Voglio portare tutto ciò che ho imparato con Radical Women in un nuovo momento politico, estetico e teorico. Sto considerando diversi quadri teorici ed esperienze di formazione. In Brasile, ad esempio, c’è stata una rivoluzione educativa. Le statistiche che sono state stabilite durante il governo di Lula all’università, ad esempio, ci hanno permesso oggi di accedere al lavoro di artiste afro-brasiliane che tra gli anni ‘60 e ‘80 non avevano quasi nessuna rappresentazione nel mondo bianco e maschile dell’arte, e che oggi stanno facendo un lavoro incredibilmente sofisticato, con poetiche, linguaggi e riferimenti che non conoscevamo. Diverse, nuove. La biennale si plasma con quelle voci che configureranno, aspiro, un forum e un coro in cui saranno visibili.
Sandra Eleta, La platería, Panamá (The silversmith, Panama), dalla serie La servidumbre (Servitude), 1978.
Quali sono i diversi tempi del movimento di liberazione della donna in America Latina e la sua relazione con l’ordine coloniale, capitalista e patriarcale?
Molte delle artiste che avete esplorato nella mostra Radical Women attraversavano istanze politiche e di emancipazione legate all’agenda femminista ma senza mai dichiararsi femministe; anzi abbiamo notato come in aree diverse da quella anglo-americana e anche italiana (che conosciamo meglio) il femminismo è spesso stato considerato una questione occidentale e di importazione borghese. Puoi raccontarci qualcosa in proposito?
AG: Il movimento di liberazione delle donne in America Latina ha avuto un primo momento di attivismo per il diritto al voto (movimento delle suffragiste), un diritto conquistato tra gli anni ‘20 e ‘60. In questo senso, il suo programma è stato raggiunto. Il movimento della seconda ondata, legato al diritto al proprio corpo (metodi contraccettivi, aborto) e anche diritti di proprietà, divorzio, patria potestà condivisa sui figli (non dimentichiamo che il marito era il successore del padre nel controllo della vita delle donne), prodottosi dagli anni ‘60, si diffonde in tutti i paesi dell’America Latina. L’organizzazione e la protesta, una volta radicatesi, costituiscono un programma attivo. Certo, il movimento e le autrici euro-nordamericane hanno avuto un grande impatto. I libri di Virginia Wolf, Simone de Bouvoir, Carla Lonzi, Betty Friedan, sono tradotti in spagnolo e letti in America Latina. Non dimentichiamo che Buenos Aires è stato, insieme al Messico, il grande centro di traduzione in spagnolo. Erano anni in cui le traduzioni non si facevano in Spagna. Sur, con Victoria Ocampo, o Losada con Gonzalo Losada, esiliato dalla Repubblica spagnola, erano case editrici in cui gli autori francesi sono stati rapidamente tradotti. Il femminismo artistico non ha avuto in America Latina lo sviluppo che ha avuto negli Stati Uniti e in Europa, o in Messico con il lavoro di Mónica Mayer e Maris Bustamante, o in Argentina con la filmografia femminista attivista di María Luisa Bemberg. In quest’ultimo caso, è stato un cinema attivista che non ha avuto continuità, principalmente a causa del blocco di tutte le forme d’organizzazione politica che hanno prodotto la dittatura in Argentina (1976-1982). Anche in Colombia e Brasile si realizza un cinema femminista, ma non un’arte femminista. Il programma di questa seconda ondata di femminismo è stato solo parzialmente soddisfatto. L’aborto è illegale in quasi tutti i paesi dell’America Latina, dove la Chiesa ha potere sulle decisioni politiche. L’idea che il programma del femminismo sia borghese e importato ha avuto un momento difficile negli anni ‘60 in America Latina. Questo non perché l’agenda del femminismo della seconda ondata non avesse un’iscrizione sociale in America Latina, ma perché era in collisione con quella delle sinistre che richiedevano la trasformazione totale della società, la rivoluzione e la trasformazione dello stato borghese e capitalista, la sua sostituzione con lo stato socialista. Il femminismo era attraversato da queste difficoltà. Si parla di doppia militanza, del femminismo e delle organizzazioni politiche, e si parla anche dell’erosione delle formazioni femministe per evitare la biforcazione delle forze rivoluzionarie. Il femminismo ha dovuto negoziare con quella congiuntura politica. L’opposizione al femminismo proveniva dai settori conservatori e anche dalla sinistra. Un’analisi storica deve considerare questa congiuntura. A ciò si aggiunge la forza reattiva e repressiva delle dittature. La mia proposta è considerare queste due ipotesi – le difficoltà rispetto alle formazioni della sinistra e l’impossibilità durante la dittatura – per analizzare perché il femminismo emerge in America Latina, ma allo stesso tempo non riesce ad articolare la sua continuità tra gli anni ‘60, ‘70 e il presente. La situazione in cui ci troviamo oggi è legata all’urgenza prodotta dalle agende incompiute e da quelle nuove che impongono povertà, emarginazione e violenza, in un momento in cui le vite delle donne sono minate da tecniche reificate, con brutalità, e in cui gli aborti illegali, svolti senza condizioni igieniche, in clandestinità, finiscono con la vita di tante.
María Luisa Bemberg, El mundo de la mujer (Woman’s world), 1972.
Le artiste dell’America Latina – come tutte le altre nel resto del mondo – occupano una posizione minoritaria, marginalizzata e di invisibilità rispetto alle narrative che la storia dell’arte ha costruito intorno al dominio del maschile. Con la mostra Radical Women avete ricostruito una genealogia delle pratiche femministe e radicali colmando una lacuna storica che riguarda l’assenza delle donne artiste dalle storie ufficiali e non solo dentro la modernità occidentale. In che modo questa storicizzazione retroattiva, che in fondo ha scardinato l’ontologia modernista, è stata influenzata – se è stata influenzata – dalle lotte femministe?
AG: L’arte femminista è l’opposto dell’ontologia modernista, proprio perché il modernismo si basa sulla ragione patriarcale e bianca. La storia dell’arte è stata scritta come un processo di purificazione, di depurazione che ha gerarchizzato materiali ed estetiche. L’astrattismo, il concettualismo, sono l’esaltazione di questo canone riduttivo patriarcale. Anche il concettualismo ideologico, quando si analizzano le esposizioni e i libri, è prevalentemente patriarcale. Le sostanze del corpo, i materiali associati alle azioni femminili, erano esclusi dal mondo dell’arte. Probabilmente il più grande attacco al modernismo è quello incarnato da un’opera monumentale come The Dinner Party di Judy Chicago, che potrebbe essere pensata, in molti modi, come la Guernica del femminismo artistico. Offrendo una dimensione monumentale alle arti “minori” e introducendo una genitalità inammissibile fino allora nell’arte, l’opera ha risvegliato adesione e rifiuto. Credo che l’invalidamento di questo lavoro coincide con l’irriverenza contro il canone minimalista e riduttivo che l’opera rappresenta.
Teresa Burga, Sin Título / Untitled, 1978.
Mónica Mayer, Lo normal (The Normal), particolare, 1978.
Nel mio caso, il processo è stato inverso. Non sono arrivata a Radical Women dall’attivismo femminista, è stata Radical Women a rendere urgente per me iscrivere le mie azioni nell’attivismo, in generale come anche a livello artistico. Allo stesso tempo, non si può analizzare l’accettazione dell’esposizione senza considerare l’emergere di un femminismo di massa e internazionale. La mostra è stata programmata in un momento sfavorevole (nel 2010 il “femminismo” non era un termine che aveva una buona ricezione), con una completa opposizione del mondo dell’arte. Ha aperto nel 2017, quando il primo sciopero internazionale femminile era già stato convocato, quando Donald Trump con la sua misoginia era al potere, e la mostra era allestita a San Paolo quando Jair Bolsonaro ha vinto le elezioni. La mostra si è diffusa in questi contesti sfavorevoli e ha funzionato come uno spazio di identificazione e incontro e, quello che per me è più importante, come uno spazio di conoscenza.
Capisco che l’attuale femminismo artistico ha due programmi urgenti e paralleli. Da un lato, quello che si attiva in relazione all’assenza di rappresentazione di donne artiste – è un’azione basata su dati e statistiche. Il secondo è legato alla necessità di indagare, comprendere estetiche che non sono state analizzate. Radical Women s’inscrive nella prima linea, ma soprattutto nella seconda. Il catalogo è stato concepito per aprire a ricerche future, che sono già in atto. Mi incoraggia dire che il numero di tesi sulle artiste latinoamericane che si stanno realizzando è aumentato in modo esponenziale. Su questa base è possibile costruire una nuova conoscenza che la domanda di rappresentazione egualitaria non riesce a soddisfare.
Lenora de Barros, Poema, 1979.
Lenora de Barros, Poema, 1979.
Lenora de Barros, Poema, 1979.
Lenora de Barros, Poema, 1979.
Nella traiettoria artistica e politica delle donne radicali latinoamericane non si riscontra mai una visione essenzialista legata alla dimensione della femminilità. Piuttosto emerge un “corpo politico”, o come lo definisci tu, un corpo “demarcado” dall’esperienza della dittatura, della repressione, della censura, della violenza e dell’esilio…Quali sono le specificità di questo scenario storico-politico?
AG: Sotto molti aspetti si può pensare Radical Women da prospettive essenzialiste. C’è una forte genitalità, una presenza narcisistica dell’autoritratto, sono presenti temi come la maternità. Pertanto la mostra oltrepassa completamente le prospettive essenzialiste proprio perché non è un’affermazione positiva e superficiale del corpo femminile. Nella mostra l’io è decostruito, sia negli autoritratti sia nelle opere che fanno appello alla psicoanalisi o alla medicina o alla sociologia per denaturalizzare il corpo biologico. La maternità è intercettata nell’opera di Mónica Mayer e Maris Bustamante, in quella di Gloria Camiruaga. Il corpo si frammenta, esplode. In questa ricerca viene evidenziato in che misura quel corpo è stato soggetto alla tortura durante le dittature. Corpi violati, parti cesarei eseguiti clandestinamente, senza anestesia, bambini sequestrati, omicidi e sparizioni. È un’escalation di violenza che non è simbolica, ma reale. L’insieme delle testimonianze nasce dalla memoria della violenza diretta al corpo della donna. Una violenza con un manuale specifico. Quando ho studiato la scena artistica uruguaiana ho scoperto che tutte le artiste avevano vissuto la prigione, la tortura o l’esilio. L’esperienza della violenza collettiva delle società repressive e dittatoriali dell’America Latina è emersa nel lavoro di artiste del Brasile, Paraguay, Cile, Uruguay. Questa storia non è stata raccontata. Credo che Radical Women sia l’inizio di una ricerca che si sta espandendo, e che è straordinariamente urgente: sia rispetto a un passato che deve essere ricollocato, sia a un presente che ha bisogno di essere attivato anche a partire da quel passato. Recentemente sono stata nella città di Concepción, in Cile, a parlare con artiste. Mi hanno descritto un’esperienza commovente. Le giovani femministe, artiste o militanti, hanno lavorato in laboratori con donne più grandi che sono state imprigionate durante la dittatura. Queste donne non avevano mai raccontato le molestie sessuali a cui erano state sottoposte in prigione. Non l’hanno fatto per pudore, per vergogna. Nei rapporti dei diritti umani, la tortura sessuale non è narrata. Nell’attuale contesto del femminismo, che è un femminismo che rende pubbliche molestie, soprusi e abusi, sono state in grado di esprimere ciò che avevano vissuto. Un ponte è stato innalzato tra il passato della dittatura e il presente della militanza femminista di una generazione molto giovane. Si sono incontrate esperienze, conoscenze e programmi. Passato e presente sono diventati mutualmente necessari.
Yolanda Andrade, Las protestantes (The demonstrators), 1984.
In Italia il femminismo ha una storia molto forte. La rivendicazione della parità di genere ha però operato uno svuotamento del suo ruolo trasformativo, soprattutto nei tentativi di inclusione. Le lotte femministe mettevano soprattutto in discussione un ruolo sociale – quello della donna – come elemento strutturale dentro lo sfruttamento dell’economia capitalistica e neoliberista. Non basta essere rappresentate e inserite dentro il sistema dell’arte per sfidare i poteri dominanti, così come essere donna non è di per sé un’istanza politica: come possiamo essere portatrici di una visione contro-egemonica di linguaggi, soggettività e immaginari?
AG: Certo, non è sufficiente. Il femminismo artistico non si concentra esclusivamente sulla rappresentazione. Nel campo dell’arte, la richiesta di rappresentazione equa è solo una strategia, un punto di partenza, una base che richiede conformità immediata. Il programma è più ampio e profondo. La visione anti-egemonica non sta nella dichiarazione, ma nell’investimento del tempo per estrarre linguaggi che avevano occultato le sue potenzialità emancipatrici. Rendere discorso, ipotesi, conoscenza, l’esperienza affettiva, politica, contestuale, storica di queste opere è attivare un discorso di emancipazione che era stato mantenuto invisibile, appunto, dal suo potere di compromettere la naturalizzazione dell’ordine del potere che governa le società patriarcali. Attivare queste opere rendendole visibili, giacimenti di affetti, concetti, conoscenze, identificazioni, mostra il bisogno che abbiamo di queste opere per una diversa comprensione del mondo. Allo stesso tempo, la forza politica del femminismo artistico sta nell’articolazione della sua territorialità (il suo agire nel mondo dell’arte) con altre territorialità (la lunga campagna per la legalizzazione dell’aborto, la lotta contro la povertà, contro il femminicidio, contro le politiche estrattiviste del capitale globale, la chiamata e la realizzazione dello sciopero internazionale). In questa intersezione, l’arte contribuisce dalle sue specificità e aderisce allo stesso tempo ad un orizzonte di lotta globale. Il femminismo è l’unica formazione in cui operano queste articolazioni. Ci sono stati momenti di tensione, certamente, durante le assemblee in cui si pianificava lo sciopero internazionale dell’8M 2019. Un femminismo biologista – rappresentato da settori giovani – si è opposto all’inclusione della diversità trans, del travestitismo nella dichiarazione finale. Infine, il documento ha superato il binarismo e si è rivelato politicamente inclusivo. È stata una battaglia d’immaginari e politiche di rappresentazione che sicuramente continuerà. Gli attriti, i dibattiti, si sono dissolti nella dinamica della manifestazione. Le pratiche producono anche teoria. C’è in questo momento una teoria delle pratiche che deve essere elaborata, ma che è assolutamente presente nell’attivismo quotidiano.
Ana Mendieta, Untitled, Glass on Body, Imprints, 1972. Courtesy of the Estate of Ana Mendieta Collection, LLC, and Galerie Lelong, NY.
La produzione teorica ha influenzato la pratica artistica femminista latinoamericana? Se si, in che modo e quali gli autori/trici e i testi principali? Infine, come l’opera e la sua comprensione sono uscite modificate da questo contatto?
AG: Esiste un orizzonte di letture generazionali condivise, ma non necessariamente sistematiche. Mi piace usare il concetto di “orizzonte culturale condiviso”, autrici che circolano e che si elaborano attraverso riviste, conversazioni, non solo dalla lettura completa. Simone de Beauvoir e Virginia Woolf, insieme alla psicoanalisi e alla sociologia, facevano parte di quell’orizzonte culturale.
Ricordiamo che Il secondo sesso fu tradotto per la prima volta in spagnolo a Buenos Aires, nel 1954, dall’editore Psique che Siglo XX distribuiva. Questo non significa che María Luisa Bemberg, per esempio, non facesse queste letture. La lettura coesiste con la conoscenza che si generava nelle pratiche, nei laboratori di coscientizzazione. Sebbene nel cinema militante di Bemberg i temi seguano l’agenda del femminismo, così come possiamo identificarli nel lavoro di Monica Mayer anche, la maggior parte delle opere di Radical Women non nascono da un programma femminista. Vale a dire, non è dall’appoggio, dall’esemplificazione o dall’illustrazione di quell’agenda che si spiegano i lavori della mostra. Siamo state meticolose nello stabilire che non per essere in una mostra di donne artiste, le artiste sono femministe. Ci interessa dar conto della complessità del tema e della sua identificazione. Come curatrici e storiche possiamo fare una lettura femminista delle opere. Sebbene preferiamo preservare la specificità e la politica che il termine femminismo implica per applicarlo a quelle artiste che si sono identificate come femministe. Sarebbe un lavoro interessante da seguire, per esempio, se le artiste hanno letto Kate Millett o Carla Lonzi. C’è ancora molto da indagare. Senza dubbio le conseguenze dei libri di Judith Butler possono essere viste nel modo di affrontare la sessualità nell’arte, specialmente dopo il 2000. Ancora una volta, non mi riferirei a una relazione diretta. Paul B. Preciado ha avuto un effetto emancipatore nel campo dell’arte, le sue curatele, i programmi di formazione e le conferenze pubbliche si muovono tra lo spazio accademico e museografico. In questo senso, è citato e letto da diversi pubblici legati all’ambito artistico. Ancora una volta, non mi riferirei a una relazione meccanica tra letture, teoria e pratiche artistiche.
Poli Marichal, Los espejismos de Mandrágora Luna (Mandrágora Luna’s phantoms), 1986.
Che misure adottare secondo te di fronte al rapido assorbimento da parte del capitale – di cui l’industria creativa è uno dei canali privilegiati – delle politiche della diversità e della tolleranza? È necessario in questo contesto ridefinire la dimensione del femminismo?
AG: Non sono nella posizione di dare una prospettiva su cosa fare. Posso contribuire a questo dibattito con le strategie che seguo nella definizione delle mie pratiche. L’attivismo curatoriale è una di queste. Nelle mostre posso riunire intense ricerche, ipotesi di lavoro e resistenza che accompagna alcuni di questi progetti – si ricordi che sono stata curatrice della retrospettiva di León Ferrari, mostra controversa che è stata giudicata blasfema dall’arcivescovo di Buenos Aires – dà conto della sua condizione di resistenza. La ricerca, l’insegnamento all’università, sono anche campi in cui iscrivo le mie pratiche. Il capitale assorbe, senza dubbio, ma non tutto. Il femminismo, anche quando è alla moda, ha ora un’agenda così ampia e radicale, che implica la resistenza al capitalismo, al saccheggio delle risorse naturali del pianeta, la denuncia delle mafie transnazionali dei corpi, che non è facilmente neutralizzabile. L’attuale femminismo, che è nutrito da autrici che denunciano la violenza e il suo rapporto con il capitalismo, come Silvia Federici o Rita Segato, è continuamente ridefinito, rendendo difficile per il capitale assorbirlo.
Cover del libro: Teresa Burga e Marie-France Cathelat, Perfil de la Mujer Peruana, Lima, 1981.
Protesta contra el mito de la madre, Monica Mayer , tra le altre, volantino della prima manifestazione del movimento femminista. Archivio di Ana Victoria Jiménez nella biblioteca Francisco Xavier Clavigero presso l’Universidad Iberoamericana.
Polvo de Gallina Negra (Maris Bustamante and Mónica Mayer), Creación, 1984. Photo Ana Victoria Jiménez.
Ritorniamo alla Biennale di Mercosur – che aprirà nel 2020 a Porto Alegre, in Brasile, e di cui sei la curatrice – avrà come filo conduttore il rapporto tra arte, femminismo ed emancipazione, un rapporto che dagli anni ‘70 non cessa di arricchire le riflessioni di artisti/e, critici/che, curatori/trici.
In un presente marcato globalmente da un silenzio politico, come l’eredità passata della produzione femminista, teorica e artistica, può contribuire ad attivare e arricchire il dibattito attuale? Come articolerai, a livello teorico e formale, la trasmissione di questo passato nel e con il presente? Da un punto di vista geografico che metodologia adotterai?
AG: Sono in un momento in cui non posso anticipare gran parte della biennale. Le artiste, i suoi nuclei tematici, si annunceranno prima dell’apertura. Posso dirvi che si basa su un concetto inclusivo di femminismo, più sui femminili che sul femminile. Spero di capitalizzare l’esperienza di Radical Women, nel senso che abbiamo realizzato una mostra profonda, radicale, politica e anche toccante per la sua bellezza. Per me è essenziale che la biennale apra la conoscenza e, in questo senso, il programma educativo così come i dispositivi che consentono l’accesso alla conoscenza e alla ricerca sono importanti. Non considero la curatela come una pratica chiusa e privilegiata, in cui le opere sono poste di fronte al pubblico senza punti di riferimento. Questa forma di mostra è, secondo me, patriarcale. Implica l’atto di dire: “ecco il lavoro, commuoviti, e se non ti succede niente, significa che non capisci ed è un problema tuo”. Intendo l’arte come bellezza, affetto, conoscenza e il luogo della curatela è di generosità.
Maria Evelia Marmolejo, 11 de Marzo, Ritual in Honor of Menstruation, Worthy of Every Woman as a Precursor to the Origin of Life, 1982.
Maria Evelia Marmolejo, 11 de Marzo, Ritual in Honor of Menstruation, Worthy of Every Woman as a Precursor to the Origin of Life, 1982.
Spero di realizzare una mostra a strati, con una diversità di lingue, un’intensa partecipazione del pubblico, poiché in una società ferita e divisa come quella brasiliana in questo momento, lavorare insieme è un atto politico.
La biennale coprirà una mappa globale, anche se avrà un’enfasi sull’America Latina e il Brasile. Il mio principale interesse è che apporti nuove conoscenze, estetiche e problemi che stanno appena iniziando a far parte dell’attuale geografia dell’arte. E sono particolarmente interessata al fatto che la partecipazione della comunità alla cultura artistica parti dal concetto di differenza intesa come molteplicità e non come separazione, così com’è stata espressa da Denise Ferreira da Silva. Le mie proposte riguardano il luogo sociale del femminile, le sue costruzioni, i suoi disallineamenti e il suo luogo rispetto alla logica di esclusione binaria. In questo senso, si tratta di richieste di donne artiste e di quelle articolate da sensibilità non binarie, fluide, non normative. Le trasformazioni richiedono alleanze trasversali tra identità che si arricchiscono reciprocamente incrociando le loro differenze intese come molteplicità e non come separazioni.
Tutte le storie devono essere raccontate e comunicate in modo che le narrative diventino plurali.
cover del libro di Andrea Giunta, Feminismo y arte latinoamericano. Historias de artistas que emanciparon el cuerpo (Femminismo e arte latinoamericana. Storie di artiste che hanno emancipato il corpo), 2018.
L’immagine di copertina è di Mónica Mayer, Cartel para una mesa redonda sobre arte feminista, 1976.
di Roberta Garieri ed Elvira Vannini
Quando è emersa l’urgenza di una riscrittura della storia dell’arte in America Latina, se non da una prospettiva femminista, almeno dalla chiara consapevolezza di una struttura sociale ancora fortemente patriarcale, eteronormativa, machista e sessista? Il libro Feminismo y arte latinoamericano. Historias de artistas que emanciparon el cuerpo (Femminismo e arte latinoamericana. Storie di artiste che hanno emancipato il corpo) uscito nel 2018 nasce da un vuoto di ordine teorico e storico?
Andrea Giunta: Nei miei interessi intellettuali sull’argomento ci sono stati due momenti di ricerca e scrittura. Il primo è stato all’inizio degli anni ‘90, quando con l’impatto della teoria di Judith Butler e di Nelly Richard ho iniziato a lavorare sull’analisi di opere visive (Graciela Sacco, Alicia Herrero, Ana Mendieta) da una prospettiva di genere. Questo lavoro, nonostante sia stato in parte pubblicato in una rivista dedicata agli studi di genere, Mora – Rivista dell’Istituto Interdisciplinare di Studi di Genere della Facoltà di Filosofia e Lettere dell’Università di Buenos Aires –, non ha prodotto alcun effetto, né nell’ambito accademico né nel mondo dell’arte.
In un certo senso, negli anni post-dittatoriali, le prospettive femministe sono entrate nell’ambito degli studi accademici e nei bilanci statali dall’angolatura teorica aperta dagli studi di genere. In prospettiva, considerando le attuali mobilitazioni, è stato, in un certo senso, il percorso di normalizzazione del femminismo durante gli anni ‘90 fino al riemergere dell’attivismo femminista nel 2014-2015. “Femminismo” non era una parola che aveva una buona ricezione, invece “genere” era il termine corretto, meno virulento. Oggi è il contrario. Prendiamo per esempio gli attacchi a Judith Butler in Brasile: “genere” è un termine che altera il concetto tradizionale di famiglia sostenuto dai settori religiosi. Sebbene le donne che militano a favore della legalizzazione dell’aborto sono attive dal periodo post-dittatura, le bandiere verdi della campagna non avevano una buona pubblicità negli anni ’90. Nel 2015 le loro bandiere erano coperte con altre negli atti femministi e questo fino a quando il verde ha inondato tutto. Così anche, nelle marce, ci sono gruppi che sfuggono al verde e usano il fucsia.
Nosotras Proponemos, International Women’s Day, Buenos Aires, 2019. Courtesy: Archivo NP.
Nosotras Proponemos, International Women’s Day, Buenos Aires, 2018. Courtesy: Archivo NP.
Nosotras Proponemos, International Women’s Day, Buenos Aires, 2019. Courtesy: Lena Szankay / NP, sulla destra Andrea Giunta.
Nosotras Proponemos, International Women’s Day, Buenos Aires, 2019. Courtesy: Lena Szankay / NP.
Racconto questa storia perché è storiograficamente importante. Nel 2010 ho iniziato a lavorare alla mostra Radical Women. Latin American Art, 1960-1985, che ho co-curato con Cecilia Fajardo-Hill. L’opposizione che abbiamo avuto è stata così violenta in termini di squalifica del progetto, che ho capito chiaramente che il problema poteva essere affrontato senza conflitto usando la parola “genere”, ma che era inabbordabile quando appariva la parola “donna”. Abbiamo iniziato a fare statistiche latinoamericane, in linea con quelle delle Guerrilla Girls, ma per un nostro uso interno, come parte della nostra ricerca, non per renderle pubbliche. Era evidente che, proprio mentre le cose peggioravano per le donne in America Latina (aumento del femminicidio, cessazione volontaria della gravidanza non legalizzata, assenza di uguale rappresentanza nelle sfere della vita pubblica, tre dei punti principali di una lunga lista di diritti non realizzati), questa situazione si trasferiva al mondo dell’arte. Al suo interno, le donne rappresentano nel migliore dei casi il 30%, nelle mostre delle collezioni museali si abbassa al 10%, nelle pubblicazioni la riproduzione delle loro opere è del 30% e le mostre retrospettive di artiste sono scarse o inesistenti, in base all’istituzione.
Artists for Democracy (AFD) fondato il 6 maggio 1974 a Londra da Cecilia Vicuña, David Medalla, John Dugger e Guy Brett che hanno organizzato The Arts Festival for Democracy in Chile.
Cecilia Vicuña, Homage to Vietnam, 1977.
Feminismo y arte latinoamericano è un libro che è stato scritto in due momenti. I cinque casi latinoamericani che analizzo sono stati pubblicati sotto forma di articoli su riviste accademiche mentre svolgevo la ricerca di Radical Women, tra il 2010 e il 2017; ho scritto il primo capitolo nel 2017 e la cronaca che appare alla fine con il glossario nel 2018. Quest’ultima sezione è stata il risultato diretto dell’attivismo che ho intrapreso da novembre 2017, quando sono diventata membra fondatrice di Nosotras Proponemos, la cui Asamblea Permanente de Trabajadoras del Arte (Assemblea Permanente delle Lavoratrici dell’Arte) viene stabilita il 7 novembre dello stesso anno (www.nosotrasproponemos.org). Da allora, sviluppiamo assemblee mensili, un intenso attivismo territoriale e trasversale insieme ai gruppi femministi che si sono manifestati negli scioperi internazionali – che da due anni si svolgono l’8 marzo -, e un’azione su più livelli per cambiare la disuguaglianza nel mondo dell’arte. Quest’ultima è intesa come una violenza simbolica che esplica, nella nostra area specifica (in questo territorializziamo le nostre richieste contro la violenza nel mondo dell’arte), altre forme di violenza: sopraffazione, disuguaglianza, forme di molestie, mansplaning, ecc. In questo campo lavoriamo con i rappresentanti della cultura nel governo e attraverso avvisi pubblicati sulla nostra pagina Facebook circa le diverse forme di patriarcato nel mondo dell’arte.
Liliana Maresca, Sin titulo (Untitled), dalla serie Liliana Maresca con su obra (Liliana Maresca with her work), 1983. Courtesy Archivio Liliana Maresca e Marcos Lòpez.
Feminismo y arte latinoamericano (che non è una “storia”, bensì storie basate su casi specifici che permettono di comprendere articolazioni diverse sul motivo per cui negli anni ‘70 non c’era in America Latina, escludendo il Messico, un femminismo artistico che si articolava da quel momento fino ad oggi), è un libro che evidentemente è venuto a riempire uno spazio vuoto di storia e teoria: in nove mesi sono state vendute quattro edizioni e ora siamo alla quinta ristampa.
Yolanda López, dalla serie Tableaux Vivant, 1978. Courtesy of Yolanda M. López.
Quale dovrebbe essere secondo te il campo di applicazione naturale (musei, università …) per una riscrittura della storia dell’arte, libera dalle frontiere e dalle gerarchie di sesso, razza e classe?
AG: Io credo che sia necessario lavorare in tutti gli ambiti. Nella curatela con ricerca e qualità espositiva, nei programmi delle università, delle scuole d’arte, delle scuole primarie e secondarie (includendo le artiste donne, la teoria femminista, figure di donne storiche, i programmi sono completamente patriarcali in termini generali). È essenziale che i bambini e gli adolescenti sappiano che esistono artiste donne, che ci sono artiste nere, indigene e transgender. Il mondo dell’arte è razzista, patriarcale e classista, per questo è essenziale lavorare contro il canone, per un’arte più complessa, esteticamente e concettualmente, più significativa come esperienza estetica e di conoscenza. Con Nosotras Proponemos, come nella mia pratica, sostengo la necessità di una rappresentazione equa. Non perché questo sia un obiettivo, si tratta di una strategia, un modo per dare visibilità alle opere escluse, sistematicamente censurate. Credo che esista una censura sistemica nel mondo dell’arte che, protetta dall’ideologema della “qualità”, lascia da parte centinaia di opere, artiste e traiettorie che, se ricercate ed esposte, sono sorprendenti. Molte opere importanti non le vediamo, semplicemente perché il mondo dell’arte ha deciso di non mostrarle. Allo stesso modo, l’incredibile lavoro che le artiste afro-discendenti stanno realizzando in America Latina e nei Caraibi solo ora inizia a essere visibile. La trasformazione più radicale sta nell’inclusione senza distinzione di opere che sono state cancellate dall’opinione pubblica.
Martha Araujo, Para Um Corpo Nas Suas Impossibilidades (For a body in its impossibilities), 1985. Courtesy of Galeria Jaqueline Martins © The artist.
Dalla partecipazione al dibattito portato avanti dal collettivo Nosotras Proponemos, passando per la mostra Radical Women: Latin American Art 1960-1985, la tua attività accademica, infine la curatela della Biennale di Mercosur nel 2020, come questi momenti e sfere dialogano reciprocamente e quali sono gli effetti di realtà attesi dalla loro interrelazione?
AG: L’attivismo è stato fondamentale nel tracciare una linea orizzontale tra le rivendicazioni territoriali (rappresentazione nel mondo dell’arte, visibilità del maschilismo, molestie, abusi, pratiche di squalifica e mansplaining) e quelle del femminismo attuale, che sta lottando per la vita delle donne in modo che non siano uccise, in modo che possano compiere aborti legali, sicuri e gratuiti. La lotta è trasversale. Personalmente intendo la pratica come una fonte di teoria. Dipingendo le bandiere con le compagne di Nosotras Proponemos, in assemblea, marciando per le strade, capisco in modi nuovi e espando continuamente il mio campo di riflessione. Anche la pratica genera teoria. Gli affetti, i corpi, essere coinvolte attraverso le pratiche è fonte di pensiero. La biennale di Mercosur si concentra su una rivoluzione del canone. Ci saranno artiste famose e altre completamente sconosciute. Ci saranno artiste donne, transgender, uomini eterosessuali, artiste lesbiche, gay, queer, ma non faremo statistiche o segnaletiche. Ci preoccupiamo di trasformare il mondo dell’arte, però non evidenziando le differenze, bensì integrando senza differenziazione. Sarà il pubblico, se interessato, a indagare sulle percentuali di rappresentazione. Voglio portare tutto ciò che ho imparato con Radical Women in un nuovo momento politico, estetico e teorico. Sto considerando diversi quadri teorici ed esperienze di formazione. In Brasile, ad esempio, c’è stata una rivoluzione educativa. Le statistiche che sono state stabilite durante il governo di Lula all’università, ad esempio, ci hanno permesso oggi di accedere al lavoro di artiste afro-brasiliane che tra gli anni ‘60 e ‘80 non avevano quasi nessuna rappresentazione nel mondo bianco e maschile dell’arte, e che oggi stanno facendo un lavoro incredibilmente sofisticato, con poetiche, linguaggi e riferimenti che non conoscevamo. Diverse, nuove. La biennale si plasma con quelle voci che configureranno, aspiro, un forum e un coro in cui saranno visibili.
Sandra Eleta, La platería, Panamá (The silversmith, Panama), dalla serie La servidumbre (Servitude), 1978.
Quali sono i diversi tempi del movimento di liberazione della donna in America Latina e la sua relazione con l’ordine coloniale, capitalista e patriarcale?
Molte delle artiste che avete esplorato nella mostra Radical Women attraversavano istanze politiche e di emancipazione legate all’agenda femminista ma senza mai dichiararsi femministe; anzi abbiamo notato come in aree diverse da quella anglo-americana e anche italiana (che conosciamo meglio) il femminismo è spesso stato considerato una questione occidentale e di importazione borghese. Puoi raccontarci qualcosa in proposito?
AG: Il movimento di liberazione delle donne in America Latina ha avuto un primo momento di attivismo per il diritto al voto (movimento delle suffragiste), un diritto conquistato tra gli anni ‘20 e ‘60. In questo senso, il suo programma è stato raggiunto. Il movimento della seconda ondata, legato al diritto al proprio corpo (metodi contraccettivi, aborto) e anche diritti di proprietà, divorzio, patria potestà condivisa sui figli (non dimentichiamo che il marito era il successore del padre nel controllo della vita delle donne), prodottosi dagli anni ‘60, si diffonde in tutti i paesi dell’America Latina. L’organizzazione e la protesta, una volta radicatesi, costituiscono un programma attivo. Certo, il movimento e le autrici euro-nordamericane hanno avuto un grande impatto. I libri di Virginia Wolf, Simone de Bouvoir, Carla Lonzi, Betty Friedan, sono tradotti in spagnolo e letti in America Latina. Non dimentichiamo che Buenos Aires è stato, insieme al Messico, il grande centro di traduzione in spagnolo. Erano anni in cui le traduzioni non si facevano in Spagna. Sur, con Victoria Ocampo, o Losada con Gonzalo Losada, esiliato dalla Repubblica spagnola, erano case editrici in cui gli autori francesi sono stati rapidamente tradotti. Il femminismo artistico non ha avuto in America Latina lo sviluppo che ha avuto negli Stati Uniti e in Europa, o in Messico con il lavoro di Mónica Mayer e Maris Bustamante, o in Argentina con la filmografia femminista attivista di María Luisa Bemberg. In quest’ultimo caso, è stato un cinema attivista che non ha avuto continuità, principalmente a causa del blocco di tutte le forme d’organizzazione politica che hanno prodotto la dittatura in Argentina (1976-1982). Anche in Colombia e Brasile si realizza un cinema femminista, ma non un’arte femminista. Il programma di questa seconda ondata di femminismo è stato solo parzialmente soddisfatto. L’aborto è illegale in quasi tutti i paesi dell’America Latina, dove la Chiesa ha potere sulle decisioni politiche. L’idea che il programma del femminismo sia borghese e importato ha avuto un momento difficile negli anni ‘60 in America Latina. Questo non perché l’agenda del femminismo della seconda ondata non avesse un’iscrizione sociale in America Latina, ma perché era in collisione con quella delle sinistre che richiedevano la trasformazione totale della società, la rivoluzione e la trasformazione dello stato borghese e capitalista, la sua sostituzione con lo stato socialista. Il femminismo era attraversato da queste difficoltà. Si parla di doppia militanza, del femminismo e delle organizzazioni politiche, e si parla anche dell’erosione delle formazioni femministe per evitare la biforcazione delle forze rivoluzionarie. Il femminismo ha dovuto negoziare con quella congiuntura politica. L’opposizione al femminismo proveniva dai settori conservatori e anche dalla sinistra. Un’analisi storica deve considerare questa congiuntura. A ciò si aggiunge la forza reattiva e repressiva delle dittature. La mia proposta è considerare queste due ipotesi – le difficoltà rispetto alle formazioni della sinistra e l’impossibilità durante la dittatura – per analizzare perché il femminismo emerge in America Latina, ma allo stesso tempo non riesce ad articolare la sua continuità tra gli anni ‘60, ‘70 e il presente. La situazione in cui ci troviamo oggi è legata all’urgenza prodotta dalle agende incompiute e da quelle nuove che impongono povertà, emarginazione e violenza, in un momento in cui le vite delle donne sono minate da tecniche reificate, con brutalità, e in cui gli aborti illegali, svolti senza condizioni igieniche, in clandestinità, finiscono con la vita di tante.
María Luisa Bemberg, El mundo de la mujer (Woman’s world), 1972.
Le artiste dell’America Latina – come tutte le altre nel resto del mondo – occupano una posizione minoritaria, marginalizzata e di invisibilità rispetto alle narrative che la storia dell’arte ha costruito intorno al dominio del maschile. Con la mostra Radical Women avete ricostruito una genealogia delle pratiche femministe e radicali colmando una lacuna storica che riguarda l’assenza delle donne artiste dalle storie ufficiali e non solo dentro la modernità occidentale. In che modo questa storicizzazione retroattiva, che in fondo ha scardinato l’ontologia modernista, è stata influenzata – se è stata influenzata – dalle lotte femministe?
AG: L’arte femminista è l’opposto dell’ontologia modernista, proprio perché il modernismo si basa sulla ragione patriarcale e bianca. La storia dell’arte è stata scritta come un processo di purificazione, di depurazione che ha gerarchizzato materiali ed estetiche. L’astrattismo, il concettualismo, sono l’esaltazione di questo canone riduttivo patriarcale. Anche il concettualismo ideologico, quando si analizzano le esposizioni e i libri, è prevalentemente patriarcale. Le sostanze del corpo, i materiali associati alle azioni femminili, erano esclusi dal mondo dell’arte. Probabilmente il più grande attacco al modernismo è quello incarnato da un’opera monumentale come The Dinner Party di Judy Chicago, che potrebbe essere pensata, in molti modi, come la Guernica del femminismo artistico. Offrendo una dimensione monumentale alle arti “minori” e introducendo una genitalità inammissibile fino allora nell’arte, l’opera ha risvegliato adesione e rifiuto. Credo che l’invalidamento di questo lavoro coincide con l’irriverenza contro il canone minimalista e riduttivo che l’opera rappresenta.
Teresa Burga, Sin Título / Untitled, 1978.
Mónica Mayer, Lo normal (The Normal), particolare, 1978.
Nel mio caso, il processo è stato inverso. Non sono arrivata a Radical Women dall’attivismo femminista, è stata Radical Women a rendere urgente per me iscrivere le mie azioni nell’attivismo, in generale come anche a livello artistico. Allo stesso tempo, non si può analizzare l’accettazione dell’esposizione senza considerare l’emergere di un femminismo di massa e internazionale. La mostra è stata programmata in un momento sfavorevole (nel 2010 il “femminismo” non era un termine che aveva una buona ricezione), con una completa opposizione del mondo dell’arte. Ha aperto nel 2017, quando il primo sciopero internazionale femminile era già stato convocato, quando Donald Trump con la sua misoginia era al potere, e la mostra era allestita a San Paolo quando Jair Bolsonaro ha vinto le elezioni. La mostra si è diffusa in questi contesti sfavorevoli e ha funzionato come uno spazio di identificazione e incontro e, quello che per me è più importante, come uno spazio di conoscenza.
Capisco che l’attuale femminismo artistico ha due programmi urgenti e paralleli. Da un lato, quello che si attiva in relazione all’assenza di rappresentazione di donne artiste – è un’azione basata su dati e statistiche. Il secondo è legato alla necessità di indagare, comprendere estetiche che non sono state analizzate. Radical Women s’inscrive nella prima linea, ma soprattutto nella seconda. Il catalogo è stato concepito per aprire a ricerche future, che sono già in atto. Mi incoraggia dire che il numero di tesi sulle artiste latinoamericane che si stanno realizzando è aumentato in modo esponenziale. Su questa base è possibile costruire una nuova conoscenza che la domanda di rappresentazione egualitaria non riesce a soddisfare.
Lenora de Barros, Poema, 1979.
Lenora de Barros, Poema, 1979.
Lenora de Barros, Poema, 1979.
Lenora de Barros, Poema, 1979.
Nella traiettoria artistica e politica delle donne radicali latinoamericane non si riscontra mai una visione essenzialista legata alla dimensione della femminilità. Piuttosto emerge un “corpo politico”, o come lo definisci tu, un corpo “demarcado” dall’esperienza della dittatura, della repressione, della censura, della violenza e dell’esilio…Quali sono le specificità di questo scenario storico-politico?
AG: Sotto molti aspetti si può pensare Radical Women da prospettive essenzialiste. C’è una forte genitalità, una presenza narcisistica dell’autoritratto, sono presenti temi come la maternità. Pertanto la mostra oltrepassa completamente le prospettive essenzialiste proprio perché non è un’affermazione positiva e superficiale del corpo femminile. Nella mostra l’io è decostruito, sia negli autoritratti sia nelle opere che fanno appello alla psicoanalisi o alla medicina o alla sociologia per denaturalizzare il corpo biologico. La maternità è intercettata nell’opera di Mónica Mayer e Maris Bustamante, in quella di Gloria Camiruaga. Il corpo si frammenta, esplode. In questa ricerca viene evidenziato in che misura quel corpo è stato soggetto alla tortura durante le dittature. Corpi violati, parti cesarei eseguiti clandestinamente, senza anestesia, bambini sequestrati, omicidi e sparizioni. È un’escalation di violenza che non è simbolica, ma reale. L’insieme delle testimonianze nasce dalla memoria della violenza diretta al corpo della donna. Una violenza con un manuale specifico. Quando ho studiato la scena artistica uruguaiana ho scoperto che tutte le artiste avevano vissuto la prigione, la tortura o l’esilio. L’esperienza della violenza collettiva delle società repressive e dittatoriali dell’America Latina è emersa nel lavoro di artiste del Brasile, Paraguay, Cile, Uruguay. Questa storia non è stata raccontata. Credo che Radical Women sia l’inizio di una ricerca che si sta espandendo, e che è straordinariamente urgente: sia rispetto a un passato che deve essere ricollocato, sia a un presente che ha bisogno di essere attivato anche a partire da quel passato. Recentemente sono stata nella città di Concepción, in Cile, a parlare con artiste. Mi hanno descritto un’esperienza commovente. Le giovani femministe, artiste o militanti, hanno lavorato in laboratori con donne più grandi che sono state imprigionate durante la dittatura. Queste donne non avevano mai raccontato le molestie sessuali a cui erano state sottoposte in prigione. Non l’hanno fatto per pudore, per vergogna. Nei rapporti dei diritti umani, la tortura sessuale non è narrata. Nell’attuale contesto del femminismo, che è un femminismo che rende pubbliche molestie, soprusi e abusi, sono state in grado di esprimere ciò che avevano vissuto. Un ponte è stato innalzato tra il passato della dittatura e il presente della militanza femminista di una generazione molto giovane. Si sono incontrate esperienze, conoscenze e programmi. Passato e presente sono diventati mutualmente necessari.
Yolanda Andrade, Las protestantes (The demonstrators), 1984.
In Italia il femminismo ha una storia molto forte. La rivendicazione della parità di genere ha però operato uno svuotamento del suo ruolo trasformativo, soprattutto nei tentativi di inclusione. Le lotte femministe mettevano soprattutto in discussione un ruolo sociale – quello della donna – come elemento strutturale dentro lo sfruttamento dell’economia capitalistica e neoliberista. Non basta essere rappresentate e inserite dentro il sistema dell’arte per sfidare i poteri dominanti, così come essere donna non è di per sé un’istanza politica: come possiamo essere portatrici di una visione contro-egemonica di linguaggi, soggettività e immaginari?
AG: Certo, non è sufficiente. Il femminismo artistico non si concentra esclusivamente sulla rappresentazione. Nel campo dell’arte, la richiesta di rappresentazione equa è solo una strategia, un punto di partenza, una base che richiede conformità immediata. Il programma è più ampio e profondo. La visione anti-egemonica non sta nella dichiarazione, ma nell’investimento del tempo per estrarre linguaggi che avevano occultato le sue potenzialità emancipatrici. Rendere discorso, ipotesi, conoscenza, l’esperienza affettiva, politica, contestuale, storica di queste opere è attivare un discorso di emancipazione che era stato mantenuto invisibile, appunto, dal suo potere di compromettere la naturalizzazione dell’ordine del potere che governa le società patriarcali. Attivare queste opere rendendole visibili, giacimenti di affetti, concetti, conoscenze, identificazioni, mostra il bisogno che abbiamo di queste opere per una diversa comprensione del mondo. Allo stesso tempo, la forza politica del femminismo artistico sta nell’articolazione della sua territorialità (il suo agire nel mondo dell’arte) con altre territorialità (la lunga campagna per la legalizzazione dell’aborto, la lotta contro la povertà, contro il femminicidio, contro le politiche estrattiviste del capitale globale, la chiamata e la realizzazione dello sciopero internazionale). In questa intersezione, l’arte contribuisce dalle sue specificità e aderisce allo stesso tempo ad un orizzonte di lotta globale. Il femminismo è l’unica formazione in cui operano queste articolazioni. Ci sono stati momenti di tensione, certamente, durante le assemblee in cui si pianificava lo sciopero internazionale dell’8M 2019. Un femminismo biologista – rappresentato da settori giovani – si è opposto all’inclusione della diversità trans, del travestitismo nella dichiarazione finale. Infine, il documento ha superato il binarismo e si è rivelato politicamente inclusivo. È stata una battaglia d’immaginari e politiche di rappresentazione che sicuramente continuerà. Gli attriti, i dibattiti, si sono dissolti nella dinamica della manifestazione. Le pratiche producono anche teoria. C’è in questo momento una teoria delle pratiche che deve essere elaborata, ma che è assolutamente presente nell’attivismo quotidiano.
Ana Mendieta, Untitled, Glass on Body, Imprints, 1972. Courtesy of the Estate of Ana Mendieta Collection, LLC, and Galerie Lelong, NY.
La produzione teorica ha influenzato la pratica artistica femminista latinoamericana? Se si, in che modo e quali gli autori/trici e i testi principali? Infine, come l’opera e la sua comprensione sono uscite modificate da questo contatto?
AG: Esiste un orizzonte di letture generazionali condivise, ma non necessariamente sistematiche. Mi piace usare il concetto di “orizzonte culturale condiviso”, autrici che circolano e che si elaborano attraverso riviste, conversazioni, non solo dalla lettura completa. Simone de Beauvoir e Virginia Woolf, insieme alla psicoanalisi e alla sociologia, facevano parte di quell’orizzonte culturale.
Ricordiamo che Il secondo sesso fu tradotto per la prima volta in spagnolo a Buenos Aires, nel 1954, dall’editore Psique che Siglo XX distribuiva. Questo non significa che María Luisa Bemberg, per esempio, non facesse queste letture. La lettura coesiste con la conoscenza che si generava nelle pratiche, nei laboratori di coscientizzazione. Sebbene nel cinema militante di Bemberg i temi seguano l’agenda del femminismo, così come possiamo identificarli nel lavoro di Monica Mayer anche, la maggior parte delle opere di Radical Women non nascono da un programma femminista. Vale a dire, non è dall’appoggio, dall’esemplificazione o dall’illustrazione di quell’agenda che si spiegano i lavori della mostra. Siamo state meticolose nello stabilire che non per essere in una mostra di donne artiste, le artiste sono femministe. Ci interessa dar conto della complessità del tema e della sua identificazione. Come curatrici e storiche possiamo fare una lettura femminista delle opere. Sebbene preferiamo preservare la specificità e la politica che il termine femminismo implica per applicarlo a quelle artiste che si sono identificate come femministe. Sarebbe un lavoro interessante da seguire, per esempio, se le artiste hanno letto Kate Millett o Carla Lonzi. C’è ancora molto da indagare. Senza dubbio le conseguenze dei libri di Judith Butler possono essere viste nel modo di affrontare la sessualità nell’arte, specialmente dopo il 2000. Ancora una volta, non mi riferirei a una relazione diretta. Paul B. Preciado ha avuto un effetto emancipatore nel campo dell’arte, le sue curatele, i programmi di formazione e le conferenze pubbliche si muovono tra lo spazio accademico e museografico. In questo senso, è citato e letto da diversi pubblici legati all’ambito artistico. Ancora una volta, non mi riferirei a una relazione meccanica tra letture, teoria e pratiche artistiche.
Poli Marichal, Los espejismos de Mandrágora Luna (Mandrágora Luna’s phantoms), 1986.
Che misure adottare secondo te di fronte al rapido assorbimento da parte del capitale – di cui l’industria creativa è uno dei canali privilegiati – delle politiche della diversità e della tolleranza? È necessario in questo contesto ridefinire la dimensione del femminismo?
AG: Non sono nella posizione di dare una prospettiva su cosa fare. Posso contribuire a questo dibattito con le strategie che seguo nella definizione delle mie pratiche. L’attivismo curatoriale è una di queste. Nelle mostre posso riunire intense ricerche, ipotesi di lavoro e resistenza che accompagna alcuni di questi progetti – si ricordi che sono stata curatrice della retrospettiva di León Ferrari, mostra controversa che è stata giudicata blasfema dall’arcivescovo di Buenos Aires – dà conto della sua condizione di resistenza. La ricerca, l’insegnamento all’università, sono anche campi in cui iscrivo le mie pratiche. Il capitale assorbe, senza dubbio, ma non tutto. Il femminismo, anche quando è alla moda, ha ora un’agenda così ampia e radicale, che implica la resistenza al capitalismo, al saccheggio delle risorse naturali del pianeta, la denuncia delle mafie transnazionali dei corpi, che non è facilmente neutralizzabile. L’attuale femminismo, che è nutrito da autrici che denunciano la violenza e il suo rapporto con il capitalismo, come Silvia Federici o Rita Segato, è continuamente ridefinito, rendendo difficile per il capitale assorbirlo.
Cover del libro: Teresa Burga e Marie-France Cathelat, Perfil de la Mujer Peruana, Lima, 1981.
Protesta contra el mito de la madre, Monica Mayer , tra le altre, volantino della prima manifestazione del movimento femminista. Archivio di Ana Victoria Jiménez nella biblioteca Francisco Xavier Clavigero presso l’Universidad Iberoamericana.
Polvo de Gallina Negra (Maris Bustamante and Mónica Mayer), Creación, 1984. Photo Ana Victoria Jiménez.
Ritorniamo alla Biennale di Mercosur – che aprirà nel 2020 a Porto Alegre, in Brasile, e di cui sei la curatrice – avrà come filo conduttore il rapporto tra arte, femminismo ed emancipazione, un rapporto che dagli anni ‘70 non cessa di arricchire le riflessioni di artisti/e, critici/che, curatori/trici.
In un presente marcato globalmente da un silenzio politico, come l’eredità passata della produzione femminista, teorica e artistica, può contribuire ad attivare e arricchire il dibattito attuale? Come articolerai, a livello teorico e formale, la trasmissione di questo passato nel e con il presente? Da un punto di vista geografico che metodologia adotterai?
AG: Sono in un momento in cui non posso anticipare gran parte della biennale. Le artiste, i suoi nuclei tematici, si annunceranno prima dell’apertura. Posso dirvi che si basa su un concetto inclusivo di femminismo, più sui femminili che sul femminile. Spero di capitalizzare l’esperienza di Radical Women, nel senso che abbiamo realizzato una mostra profonda, radicale, politica e anche toccante per la sua bellezza. Per me è essenziale che la biennale apra la conoscenza e, in questo senso, il programma educativo così come i dispositivi che consentono l’accesso alla conoscenza e alla ricerca sono importanti. Non considero la curatela come una pratica chiusa e privilegiata, in cui le opere sono poste di fronte al pubblico senza punti di riferimento. Questa forma di mostra è, secondo me, patriarcale. Implica l’atto di dire: “ecco il lavoro, commuoviti, e se non ti succede niente, significa che non capisci ed è un problema tuo”. Intendo l’arte come bellezza, affetto, conoscenza e il luogo della curatela è di generosità.
Maria Evelia Marmolejo, 11 de Marzo, Ritual in Honor of Menstruation, Worthy of Every Woman as a Precursor to the Origin of Life, 1982.
Maria Evelia Marmolejo, 11 de Marzo, Ritual in Honor of Menstruation, Worthy of Every Woman as a Precursor to the Origin of Life, 1982.
Spero di realizzare una mostra a strati, con una diversità di lingue, un’intensa partecipazione del pubblico, poiché in una società ferita e divisa come quella brasiliana in questo momento, lavorare insieme è un atto politico.
La biennale coprirà una mappa globale, anche se avrà un’enfasi sull’America Latina e il Brasile. Il mio principale interesse è che apporti nuove conoscenze, estetiche e problemi che stanno appena iniziando a far parte dell’attuale geografia dell’arte. E sono particolarmente interessata al fatto che la partecipazione della comunità alla cultura artistica parti dal concetto di differenza intesa come molteplicità e non come separazione, così com’è stata espressa da Denise Ferreira da Silva. Le mie proposte riguardano il luogo sociale del femminile, le sue costruzioni, i suoi disallineamenti e il suo luogo rispetto alla logica di esclusione binaria. In questo senso, si tratta di richieste di donne artiste e di quelle articolate da sensibilità non binarie, fluide, non normative. Le trasformazioni richiedono alleanze trasversali tra identità che si arricchiscono reciprocamente incrociando le loro differenze intese come molteplicità e non come separazioni.
Tutte le storie devono essere raccontate e comunicate in modo che le narrative diventino plurali.
cover del libro di Andrea Giunta, Feminismo y arte latinoamericano. Historias de artistas que emanciparon el cuerpo (Femminismo e arte latinoamericana. Storie di artiste che hanno emancipato il corpo), 2018.
L’immagine di copertina è di Mónica Mayer, Cartel para una mesa redonda sobre arte feminista, 1976.