Por uma curadoria operária, di Ana Luisa Lima

«Essere rivoluzionario è la professione naturale di un intellettuale»

Mario Pedrosa, intervista al Pasquim

 

Nell’ultima domenica di novembre del 2018 si è confermata una tragedia nel mio paese. La farsa e la violenza sono state le strategie impiegate per eleggere un fascista come 38° presidente del Brasile. Più di 57 milioni di persone hanno legittimato l’annichilimento della vita plurale, rendendo gli afro-discendenti, la popolazione LGBTI e le femministe bersagli di torture e di morte, oltre a bandire il Partito dei Lavoratori (Partido dos Trabalhadores, PT) come un male da estirpare.

Nonostante le mie forti critiche al PT, tuttavia, è impossibile non riconoscere le loro azioni positive ed efficaci nel ridurre la miseria nel paese, dando la reale opportunità a milioni di poveri di avere qualcosa da mangiare e sognare, di frequentare un’università pubblica di qualità. Il Brasile è un paese giovane [i] con poco più di 500 anni. La sua storia fu marcata dal colonialismo imperialista, successivamente trasformata in servilismo politico ed economico-finanziario. Il PT, attraverso l’ex presidente Lula, anche con tutte le sue contraddizioni, ha portato una reale possibilità di emancipazione. L’esistenza dei BRICS (n.d.r. acronimo, utilizzato nell’economia internazionale, che individua cinque paesi, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, accomunati da economie in via di sviluppo, popolazione numerosa, vasto territorio, abbondanti risorse naturali strategiche e che sono stati caratterizzati, pur con sistemi economici diversi tra loro, da tassi altissimi di crescita del PIL) è stata un esempio del protagonismo imperdonabile da parte dei vecchi imperialisti.

La ripresa del discorso fascista nella comunità globale è una pericolosa agenda politica che si è dimostrata molto efficace nel ricondurre intere popolazioni a un pensiero reazionario, violento e bigotto. Qualsiasi negazione ai modi plurali dell’essere e dello stare nel mondo dovrebbe servire da monito per tutti coloro che credono nella libertà, nell’uguaglianza e nella fraternità (un motto francese che merita rispetto). Per noi, agenti dell’arte, questa allerta dovrebbe essere il nostro impegno più rilevante. L’arte non può essere al servizio dell’oppressione, al contrario, deve essere lo scudo più vigoroso nel proteggere le minoranze e i gruppi sociali più vulnerabili.

Con la demonizzazione mondiale del comunismo[ii], una lotta reale e costante è diventata invisibile: quella del proletariato. Non sono ingenui (e nemmeno una fanfara) i miei desideri rivoluzionari, il duro lavoro e la convergenza di riflessioni che, dall’inizio della mia carriera, ho impiegato per osservare, cercare di comprendere e mettere in questione i sintomi del modo di essere capitalista e di come il suo sistema sia ormai radicato nel campo delle arti.

Dunque, prima di sviluppare alcuni pensieri sulla curatela, queste situazioni devono essere osservate e analizzate. Sono considerazioni che vorrei riprendere da tanto tempo, perché l’esercizio intellettuale non può essere senza fondamento. E prendere posizione è assolutamente necessario, date le circostanze.

Paulo Nazareth, Art Market | Banana Market, Art Basel, Miami, 2011. Courtesy Lynne Sladky/Associated Press.

Dal contesto

Quello che è diventato sempre più chiaro è che il marxismo ortodosso non è riuscito a prevedere la fine del capitalismo e quando ha immaginato una società socialista non ha saputo riconoscere il potere dell’individualità in questa costruzione.

Non c’è niente di latente in questo sistema che sembra riaffacciarsi dopo ogni crisi. Nella sua forma attuale, i segni deboli delle vecchie ideologie si polarizzano in due formazioni: quelli che hanno il denaro e quelli che non ce l’hanno – e questo senza alcuna garanzia di permanenza sia nell’uno che nell’altro. Pertanto, l’annientamento senza precedenti della soggettività ci ha fatto perdere anche i più semplici parametri di appartenenza. Non ci sono quasi più congiunzioni simboliche intorno a noi: primo, come collettività; secondo, come individui. E spudoratamente, il neoliberismo ci ha resi vulnerabili alle oscillazioni e all’umore dell’economia. Che sia nel nome della governabilità o nelle decisioni apparentemente banali della nostra vita quotidiana: non c’è nulla che sfugge all’obiettivo economico. La massa omogeneizzata, anche se attraverso discorsi di singolarità, è tutta parte di un grande ingranaggio di manutenzione del sistema, in cui ogni desiderio più intimo è trasformato in merce – vedi Facebook come esempio.

I segni del fallimento che hanno celebrato la morte dell’autore, la fine della storia e le utopie, ci hanno portato all’apice di un’epoca che ho chiamato “Finus lato sensu”, perché la fine di tutti i parametri ci sembra di essere uno scopo in sé, e senza questo scopo, ci pone in una prospettiva di un “looping” senza fine. Era invece la fine di una situazione che permetteva la demarcazione del tempo e la possibilità di creare nuove posizioni. Al contrario, questo modo contemporaneo di percepire, essere e stare al mondo sembra affermarsi come un’esistenza condensata nello spazio-tempo, in un’accelerazione esasperata che crea una temporalità senza angoli.

Il campo dell’arte è uno specchio di questa condizione. Ed è con arroganza che le arti visive urlano per avere il primato dell’arte – e, quando il discorso gli interessa, anche un passo avanti la cultura. Di fatto, nessuno di noi è immune, nemmeno uno dei suoi agenti (indipendenti o istituzionali) vive al di fuori del ricorrente bisogno di adattamento da manovre retoriche al capriccioso gusto del mercato. Nelle forme del capitale non esiste più un dentro e un fuori. Quello che abbiamo bisogno di percepire sono le azioni che, messe sotto scacco da tempo, hanno sottilmente privatizzato anche le esperienze collettive. Sotto la bandiera della professionalizzazione del campo, non ci sono più le proposizioni artistiche in cui il comune viene prima del privato. I sintomi di questo sono chiari e sempre più legittimati: le fiere d’arte e le mostre spettacolarizzate, in cui il consumo prende il posto della fruizione. Il consumo non è altro che il ritorno a una percezione meramente retinica [iii] dell’opera. Come possiamo produrre dialoghi, creare soggettività, senza questa possibilità di esperienza estetica da parte del corpo? Non è forse la possibilità dialogica, creatrice e creativa propria delle esperienze estetiche che fa sì con che l’arte intervenga sul semiotico e sull’immaginario collettivo? Rispondendo a queste domande, magari possiamo renderci conto di quanto sia pericoloso questo processo che ha fatto perdere all’arte il suo valore simbolico per guadagnare sempre più valore di mercato.

Rubiane Maia, This voice cuts me off, removing my feet from their place, 2018. Performance in collaborazione con Adelaide Bannerman, in Sensational Bodies, screenings and performance program, a cura di Adelaide Bannerman e Jessica Taylor (International Curators Forum, settembre, 2018). Commissionata per Jerwood Staging Series 2018, supportata da Jerwood Charitable Foundation.

Dalle circostanze

Un’altra questione che mi viene in mente, a corollario delle precedenti, è la seguente: le richieste della curatela sarebbero dunque i soli sintomi del modo capitalista in cui l’arte si è lasciata inghiottire? In particolare, in nome della professionalizzazione del settore, il fenomeno della produzione artistica ha cessato di essere qualcosa che riguarda solo l’artista nel suo studio. Apparentemente la produzione artistica non esiste più senza una mediazione istituzionale-economica (del mercato dell’arte) che soddisfi la duplice funzione di nominare (legittimare) e demandare (richiedere). Quindi, all’interno di questa logica, la figura del/la curatore/trice è meno un agente e più un articolatore/trice in questo grande ingranaggio.

La struttura da cui l’arte si è lasciata soccombere è così schizofrenica che il lavoro, in cui a priori si era spostata la produzione di conoscenza, nei modelli attuali, è diventato meramente un bersaglio della manipolazione retorico-elogiativa, con l’obbiettivo finale della speculazione del suo valore di mercato. In altre parole, l’artista era il/la produttore/trice simbolico/a che generava, attorno a sé, la produzione di conoscenza, e non il contrario.

La curatela, la critica d’arte e i pubblici, davanti alla produzione artistica, hanno tratto le conclusioni (apparentemente) in accordo con i radicali lavori dagli/lle artisti/e. In modo tale che il vocabolario estetico diventava anche politico, poiché trattava della costruzione dialettica degli/lle agenti culturali (artista, critico/a, pubblico, curatore/trice). Nelle condizioni attuali, il mercato si è specializzato nel creare richieste di produzione artistica “aggettivate” o meglio di etichette (arte digitale, arte politica, arte performativa, arte e vita, ecc.) in modo che la curatela e/o i bandi culturali possano imporre un vocabolario estetico per essere poi assunto dall’artista.

Come dimostrano i fatti, si è creato un vuoto sulle tematiche e le questioni che muovono i dibattiti rilevanti intorno all’arte. Quello che avviene è una produzione esacerbata di testi curatoriali che sono solo “sciocche chiacchiere”, con pretese filosofiche, in cui le opere sono presentate come semplici illustrazioni di articoli. Da troppo tempo non circola nessun tipo di dibattito generato dall’arte che sia di rilevanza collettiva. Anzi, al contrario, assistiamo all’attenzione concentrata verso i curatori/trici, come se fossero delle celebrità. Insomma, quello che si legge nei giornali e nelle riviste internazionali è un eccesso di elenchi di curatori/trici legittimati/e da un mercato che stimola la quantità invece della qualità dei loro progetti.

Se le attuali produzioni curatoriali sono solo sintomi del modo di essere e di stare nel mondo dettato dal capitale, un’altra cosa è certa: la direzione che l’arte segue è anche una conseguenza di questo modo di curare. Quello che si può dire di questo è che la produzione artistica intrappolata in un gioco di domanda e legittimazione è stata autorizzata a ripetersi in procedure e regimi di visibilità. Queste reiterazioni danno luogo a quello che ho soprannominato Formalismo Vulgar [iv] in cui diventa irrilevante voler declinare le espressioni degli stessi radicali, no?

Mai Fujimoto, Hanabi, 2008.

Cos’è la curatela?

Forse, c’è uno svantaggio nell’affrontare l’argomento da una prospettiva di ciò che è (e potrebbe essere) la curatela. Perché nel discorso della contemporaneità, in cui “tutte le forme” sono possibili, il fenomeno esiste come pratica (ri)conoscibile, inclusi quei campi che hanno già oltrepassato il dominio delle arti visive, anche se ancora non si possano definire, esattamente, i termini di questa pratica. Per quanto riguarda il dibattito – a cui la tavola rotonda si presta a prendere parte [v] – credo che le migliori domande che ci siamo posti siano state semplicemente: “perché” e “per chi”? Mi spiego: malgrado esista uno sforzo di indebolimento, e anche di cancellazione, il parametro di che cosa sia di destra e di sinistra nella vita politica, è ancora l’unico in cui riesco a trovare sollievo e stimolo per i modi di essere e stare nel mondo. E per chiarire ciò di cui sto parlando, mi prendo la libertà di parafrasare Deleuze (in una dichiarazione rilasciata da una serie di interviste note come “L’ABC di Gilles Deleuze”). Ora, essere di sinistra è intravedere l’orizzonte, prima di sé stesso. È un atto di coscienza consapevole che il comune e il collettivo vengono prima dell’individuo, che il pubblico viene prima del privato. E questa non è una questione morale, o un viaggio spirituale altruistico, è una questione di percezione. Detto ciò, per me, è inevitabile che i miei pensieri sulla curatela si rivolgono maggiormente “per chi” e meno sul “come”.

Per quanto riguarda l’arte, non riesco a intravedere altro modo di percepirla, se non come politica. Penso che non sia più necessario ribadire che un’arte che vuole essere politica non ha a che fare solo con il contenuto sociale o l’impegno del partito. Al contrario, mi sembra che sempre più che il politico nell’arte si occupi della re-invenzione dialettica dei vocabolari, dei modi di percepire e di creare degli spazi pubblici. Va anche detto che gli spazi pubblici non sono soltanto quelli in cui, in teoria, qualsiasi persona può entrare e uscire, ma sono quegli spazi in cui le persone hanno pieno potere di esercitare il loro diritto a parlare, che è l’esercizio politico per natura. Come avverte Hannah Arendt “l’isonomia non significa che tutti sono uguali davanti alla legge, o che la legge sia la stessa per tutti, ma che ognuno abbia lo stesso diritto all’attività politica; e questa attività nella polis era preferibilmente un’attività di reciproco dialogo”[vi].

Quindi, una risposta possibile alla domanda sul “perchè/per chi” viene data dalla curatela: l’istituzione di uno spazio pubblico. Luogo in cui il dialogo si stabilisce senza gerarchie e autoritarismi, false promesse di partecipazione con il pretesto delle poetiche “relazionali”. Ora, la mera interazione non è di per sé uno ‘spazio’ costruito per il dialogo. I lavori partecipativi/comunitari sono quelli in cui l’esecutore deve agire, perché il lavoro abbia luogo. Il problema è che questo agire-con, accolto con tanto entusiasmo nel nostro paese, possa mascherare l’incapacità di alcune opere di lasciarsi costruire, effettivamente, per l’azione, così come impedisce che il fruitore si costruisca a partire dall’esperienza. Per esempio, le opere che ci incoraggiano in modo unico a reagire agli stimoli proposti, producono risultati prevedibili. Quindi, non possiamo parlare di costruzione: nè del punto di vista dell’opera, né da quello del fruitore che diventa mero apparato estetico di questa operazione. Così, intendo un luogo in cui l’esperienza estetica stessa è conduttrice di dialoghi con qualsiasi pubblico. In questo senso, mi spaventa sempre una naturalizzazione della privatizzazione dell’esperienza collettiva, come se la sola organizzazione di qualsiasi mostra sia già di per sé la promessa di un’esperienza che porta alla costruzione di soggettività. Sappiamo di no.

Un altro grave problema, trattato come naturale alla luce del mercato, è la precarizzazione del lavoro, tanto dell’artista quanto del(la) curatore/curatrice. Attivati da eccessive richieste di mostre, nella maggior parte dietro forti interessi economici di privati, in nome della necessità di visibilità (la cosiddetta “economia della promessa”), tanto l’artista quanto il/la curatore/curatrice finiscono per sottomettersi all’esercizio di funzioni e servizi multitasking con remunerazioni irrisorie, o senza nessuna salarizzazione. Dunque, l’idea che stiamo agendo dentro un programma di curatela operaia (o proletaria) è un dato di fatto. Purtroppo, meno nel nome di un pensiero ideologico di ricerca per cambiamenti effettivi nella vita politica e civile, e invece più perché permettiamo la riproduzione di questa condizione “di fabbrica” nel campo delle arti senza il minimo ritegno.

Lygia Pape con l’opera «Book of Creation».

Uno sguardo possibile

C’è tuttavia un sistema, per forgiare almeno altri modi possibili per andare avanti, se non altro per non implodere, decostruire, quella che sembra essere una strada senza ritorno. E non vedo altre modalità di farlo se non continuando a chiedere, interrogare, proporre altre forme possibili. Vi siete mai accorti quanto politica e soggettività siano temi costanti nell’arte contemporanea? Questi termini, intanto, sono invocati negli eventi artistici, non per essere discussi, messi in questione, ampliati, ma per giustificare la “qualità filosofica” di tali eventi. C’è bisogno di una nuova soggettività che accenda la discussione sulla necessità e l’urgenza di (ri)pensare i valori dell’opera d’arte come costruzione di un immaginario simbolico collettivo. Un modo per assicurare la preponderanza dell’esperienza estetica in sé, al posto di (ri)naturalizzare l’aura del carattere oggettuale/formale dell’opera stessa. Il concetto di nuova soggettività è ancora qualcosa in costruzione, la cui base è nell’eredità della Nuova Oggettività, che secondo Hélio Oiticica si struttura a partire delle seguenti idee:

  1. volontà costruttiva generale;
  2. tendenza verso l’oggetto quando viene negato e superato il dipinto da cavalletto;
  3. partecipazione dello spettatore (corporale, tattile, visiva, semantica, ecc.);
  4. approccio e presa di posizione su questioni politiche, sociali ed etiche;
  5. tendenza verso proposizioni collettive e la conseguente abolizione degli “ismi” caratteristici della prima metà del secolo nell’arte di oggi (una tendenza che può essere inclusa nel concetto di “arte postmoderna” di Mário Pedrosa);
  6. rinascita e nuove formulazioni del concetto di anti-arte.

Penso che sebbene Hélio Oiticica sia riuscito a chiarire i termini della produzione artistica di quel momento come “uno stato tipico dell’arte brasiliana”, tuttavia, oggi, quando si ricorre a quel momento storico dell’arte viene sempre riferito più in termini formalisti e meno politici. Come se il contesto storico di quella produzione fosse solo un substrato dell’opera e non parte integrante della sua stessa costituzione. Credo che alcune manifestazioni artistiche attuali siano profondamente radicate nell’eredità lasciata dalla Nuova Oggettività, sebbene il punto di partenza non sia più un desiderio di oggettività ma di soggettività.

Hélio Oiticica, Eden, Whitechapel Gallery, Londra, 1969.

Hélio Oiticica, Homage to Mangueira P8 Parangolé capa 5, Whitechapel Gallery, Londra, 1969.

Ed è pensando a questo che propongo uno sguardo sull’attuale arte contemporanea brasiliana. Al contrario di quello che si possa immaginare, non esiste di fatto una rottura tra quel momento storico e il presente. Solo le modalità di creazione sembrano prendere direzioni opposte rispetto a quelle, sebbene rimangano, alla fine, nella stessa direzione. Ora, nella Nuova Oggettività c’era il substrato collettivo sociale che innescava la creazione e la forma trovava la singolarità in ogni artista. Oggi, pensando alla maggioranza delle opere che circolano, come ai discorsi degli/delle artisti /artiste, il substrato che dà impulso alla creazione è una questione individuale, privata, soggettiva, ma che trova nella forma un modo per ri-soggettivare il collettivo.

Se in quel momento storico era stata la lotta per i diritti politici ad aver mosso i desideri di un’esperienza estetica costruttivista, di una collettività, nel momento attuale di crescente schiacciamento dei diritti civili, a cui siamo stati sottoposti, le opere d’arte che affermano le soggettività – e che al contempo danno voce all’alterità – occupano un posto ancora più importante per quanto riguarda la salute politica di una società civile. In questo momento, come ho detto in precedenza, in cui i parametri di appartenenza sono ridotti al campo economico, la presentazione del soggetto (piuttosto che la sua rappresentazione /presentazione) iscritta nei più diversi paesaggi storici, politici e sociali è il programma estetico collettivo più urgente che abbiamo davanti.

Una ricerca curatoriale

Ho sempre avuto una certa reticenza nel presentarmi come curatrice, perché oltre ad essere un ricorrente fraintendimento dell’effetto gerarchico tra gli agenti del campo dell’arte, non intendo la curatela come professione, ma piuttosto come una funzione che anche un/un’artista, critico/a, storico/a, ricercatore/ricercatrice, ecc., possono svolgere. E penso che tale funzione debba essere svolta eticamente, in nome di un interesse collettivo – sebbene quasi sempre l’uso di risorse private sia inevitabile. In questo senso, soltanto da poco tempo, dopo quindici anni di lavoro svolto come ricercatrice e critica d’arte, mi sono trovata in una posizione che lasciava emergere tutte le riflessioni e le domande inevitabili che finora mi sono posta: come costruire una Nuova Soggettività?

Questa ricerca ha instaurato dialoghi con artisti che nelle loro opere si presentano come soggetti, quando i loro corpi sono corpi politici all’interno di diversi paesaggi storici, culturali e sociali. Vale la pena di comprendere questo corpo non solo come un corpo incarnato, ma come un gesto del corpo, in cui sebbene il corpo non sia presente sulla scena, il gesto del suo passaggio non cessa di riportare in superficie le narrative dell’alterità: sia sull’immigrazione, il genere, la razza, la diversità culturale, l'(in)tolleranza religiosa, la disparità economica, ecc.

Juliana Notari, Mimoso, videopriezione su tre schermi, 2014.

Juliana Notari, Mimoso, videopriezione su tre schermi, 2014.

Considerazioni finali

In questa agitazione inevitabile di voci all’unisono secondo l’ondata sistemica di crisi e contro i nuovi sbocchi del capitale, auspico che possiamo trovare il coraggio di resistere a un simile movimento. Che i nostri operai/lavoratori della cultura possano posizionarsi e allinearsi nella lotta per annientare questo sistema che si ostina a schiacciare quelle convergenze simboliche che assicurano ciò che ancora c’è di umano in noi.

[traduzione di Rebeca Yun Hee Pak e Ivna Lamart]

Lygia Clark, Rede de elásticos, 1974.

artisti

Rubiane Maia, Rodrigo Braga, Juliana Notari, Luísa Nóbrega (Tom N), Leonora Weissmann, Thiago Martins de Melo, Ícaro Lira, Luana Navarro, Mavi Veloso, Dalton Paula, Paulo Nazareth, Mai Fujimoto.

note

[i] È importante chiarire la differenza tra il Brasile come paese geopolitico creato a partire dell’invasione di paesi imperialisti e invece il Brasile inteso come territorio plurinazionale in funzione dei suoi popoli originari. Nella Bolivia il riconoscimento di due realtà nell’intendere la fondazione del paese ha fatto nascere una delle più belle leggi create: Ley Marco de la Madre Tierra y Desarrollo Integral para Vivir Bien, Bolívia, 2012.

[ii] C’è bisogno di separare le esperienze catastrofiche dei governi dittatoriali comunisti dagli ideali e dall’eredità marxista che serve ancora come bussola davanti a tutta l’oppressione capitalista.

[iii] In Brasile, con l’eredità dei movimenti Concreto e Neoconcreto, si è sviluppata una presa di coscienza che la fruizione artistica che rende prioritaria la visione (la retina) sia una tradizione europea. I nostri movimenti difendono la fruizione come partecipativa quando la sensazione e la memoria sono attivate da tutte le modalità percettive e del corpo, pronto a costruire le proprie soggettività.

[iv] Il Formalismo Vulgar è un concetto che ho creato per discutere le forme e le procedure artistiche che si ripetono nell’arte contemporanea in funzione del mercato. Contrariamente ai movimenti modernisti, la contemporaneità non ha creato un programma politico-formale come il cubismo, surrealismo, ecc. Però è possibile identificare un formalismo dove si ripetono in forme esautorate (per questo il “volgare”) il desiderio di visibilità degli/delle artisti/e, che adattano i propri lavori a progetti di curatela, a bandi culturali, borse di ricerca, ecc.

[v] Questo testo è stato inviato da Ana Luisa Lima dal Brasile per essere letto durante una tavola rotonda tenutasi a Torino il 2 novembre 2018 presso lo spazio Buonasera e cha ha visto partecipi Elvira Vannini, Fabrizio Vatieri, Stefano Serretta, Stefano Boccalini, Marco Baravalle e Paolo Cirio. La tavola rotonda è stato un momento di riflessione condiviso dal titolo All You Need is an Alternative. Ha affrontato la questione dell’economia precaria, esplorato nuovi modi di situare la posizione del lavoratore culturale, ipotizzando possibili alternative alla situazione lavorativa attuale, sia attraverso metodi di sovversione critica sia attraverso la creazione di nuovi spazi di azione e riflessione.

[vi] Tratto del suo libro “Che cos’è la Politica?”

 

Lygia Pape, Divisor, 1968.

Lygia Pape, Divisor, 1968.

 

 

 

 

 

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