Questa non è una storia di fate, ma di streghe. Che, a sua volta, si sviluppa attorno ad altri personaggi femminili bruciati nel rogo della storia: l’eretica, la guaritrice, la levatrice, la moglie disobbediente, la donna che osava vivere da sola, la donna obeah (praticante segreta di magia) che avvelenava il cibo dell’amore e incitava gli schiavi a ribellarsi. «Lo sviluppo capitalista è iniziato con una guerra contro le donne» – scrive Silvia Federici, nel suo libro Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria. Perché la caccia alle streghe del XVI e XVII secolo, che in Europa e nel Nuovo Mondo ha portato alla morte di migliaia di donne, è stato uno dei massacri più brutali e rimossi della storia del mondo?
«[…] questo fenomeno storico senza precedenti è stato un elemento cruciale del processo che Karl Marx ha definito come accumulazione originaria, poiché ha distrutto un universo di temi e pratiche femminili che ostacolavano alcuni requisiti per lo sviluppo del sistema capitalista: l’accumulazione di una forza-lavoro di massa e l’imposizione di una più ferrea disciplina del lavoro. Definire e perseguitare le donne in quanto “streghe”, è servito per confinare le donne in Europa al mero lavoro domestico non retribuito; ha legittimato la loro subordinazione agli uomini, dentro e fuori l’ambito familiare; ha conferito allo stato il controllo sulla loro capacità riproduttiva, garantendo la creazione di nuove generazioni di lavoratori. In questo modo, la caccia alle streghe ha contribuito a costruire uno specifico ordine capitalista e patriarcale che è continuato fino ad oggi, anche se è stato costantemente adeguato in risposta ai processi di resistenza delle donne e al cambiamento dei bisogni del mercato del lavoro. Dalla tortura fino alle esecuzioni inflitte alle donne accusate di stregoneria, le altre donne sono dovute arrivare alla conclusione che, per poter essere socialmente accettate, era meglio dimostrare obbedienza e silenzio, e accettare il duro lavoro e gli abusi da parte degli uomini. Fino al XVIII secolo, coloro che provavano ad opporsi venivano sottoposte alla “briglia della comare”, uno strumento in pelle e metallo utilizzato anche come morso per gli schiavi, che copriva anche il capo e che, se la vittima avesse provato a parlare, le provocava lacerazioni alla lingua». Silvia Federici, Witches, Witch-Hunting, and Women, PM Press, 2018.
Judy Chicago, Orange Atmosphere, 1968, fireworks, Brookside Park, Pasadena.
«Il titolo Calibano e la strega, che si ispira alla Tempesta di Shakespeare, riflette questo tentativo. Nella mia interpretazione però, Calibano non rappresenta solo il ribelle anticoloniale la cui lotta risuona ancora nella letteratura caraibica contemporanea, ma è il simbolo del proletariato mondiale e, più specificatamente, del corpo proletariato come terreno e strumento di resistenza alla logica del capitalismo. Ancora più importante è la figura della strega, che nella Tempesta è confinata a un remoto retroscena, mentre nel libro è posta al centro del palcoscenico in quanto incarnazione di un mondo di soggetti femminili che il capitalismo ha dovuto distruggere: l’eretica, la guaritrice, la moglie disobbediente, la donna che osava vivere da sola e la sacerdotessa woodoo che avvelenava il cibo del padrone e spronava gli schiavi alla rivolta».
Judy Chicago, Smoke Bodies, 1972.
«Figliola cara, non spaventarti, non siamo venute per agire contro di te o farti del male, ma per consolarti, prese da compassione per il tuo turbamento. Vorremmo toglierti dall’ignoranza, che ti acceca tanto da farti dimenticare ciò che conosci con certezza, per credere a qualcosa che sai, vedi e conosci solo per le opinioni altrui. […] Mia cara, che ne è stato della tua intelligenza? Hai dunque dimenticato che l’oro fino si tempra dalla fornace, e che non si altera, nè cambia le sue caratteristiche, anzi più lo si lavora, più lo si affina? Non sai che sono le cose migliori ad essere quelle più dibattute e più discusse? Se consideri la questione delle più alte forme della realtà che sono le idee e la loro sostanza celestiali, pensa a come i più grandi filosofi, che tu ascolti contro il tuo stesso sesso, non siano riusciti a distinguere il falso dal vero, contraddicendosi e criticandosi l’un l’altro.[…] Ti consiglio dunque di volgere a tuo vantaggio i loro scritti, interpretandoli in questo modo, quale che fosse il loro intento, là dove essi biasimano le donne. […] Così ti dico per concludere, cara amica, che è la tua ingenuità ad averti condotta a questa opinione. Ora torna in te, recupera il tuo buon senso, e non turbarti più di simili sciocchezze. Sappi che ogni maldicenza sulle donne ricade su chi la fa, e non sulle donne stesse», Christine de Pizan, La città delle Dame, prima pubblicazione 1405.
Cosa significa essere donna? Non lo sappiamo con certezza. Siamo un prodotto culturale, una definizione e una categoria pensata da altri. Siamo state cesellate come statue perfettibili da Pigmalioni invidiosi, incastrate in un universo spaventato da questa alterità sagace e dal naturale (e fastidioso) dono di generare la vita. Le streghe bruciavano, le madri si rintanavano in casa e tutti dimenticavano. La sopravvivenza della donna nella storia è sempre stata borderline, vittime delle più grandi violazioni dei diritti umani. E per cosa? Per la curiosità? Per Eva? Per Pandora? Per Lilith?
Per non bruciare, per sopravvivere dovettero cedere alla violenza, ad una superiorità feromonica bestiale e anche inevitabile secondo una logica Darwiniana. Ma ad un certo punto, mentre le streghe tornavano a bruciare e il velo della cultura ha rasentato il suolo, stufe, ci siamo rese contro e abbiamo accettato di appartenere solo a noi stesse e di essere, citando Antigua, vita mia di Marcela Serrano “storia delle proprie azioni e dei propri pensieri, di cellule e neuroni, di ferite e di entusiasmi, di amori e disamori. Una donna è inevitabilmente la storia del suo ventre, dei semi che vi si fecondarono, o che non furono fecondati, o che smisero di esserlo, e del momento, irripetibile, in cui si trasforma in una dea. Una donna è la storia di piccolezze, banalità, incombenze quotidiane, è la somma del non detto. Una donna è sempre la storia di molti uomini. Una donna è la storia del suo paese, della sua gente. Ed è la storia delle sue radici e della sua origine, di tutte le donne che furono nutrite da altre che le precedettero affinché lei potesse nascere: una donna è la storia del suo sangue. Ma è anche la storia di una coscienza e delle sue lotte interiori. Una donna è la storia di un’utopia realizzabile”.
Quindi, sorelle, crediamo nei nostri sogni e nelle nostre utopie, spegniamo i roghi e torniamo, peccatrici, a gustarci la mela della conoscenza e della coscienza perché solo attraverso di esse saremo finalmente libere.
E intanto bruciava Notre Dame, a cura di Valentina Avanzini
[È fissato per la sera del 15 aprile 2019 il mio incontro con artist* e curatrice della mostra Ciò che la cultura separa negli spazi espositivi di X Contemporary, giovanissimo project space nella periferia di Milano.
A dialogare con me (V.A.): Clarissa Falco (C.F.), Ivna Lamart (I.L.), Giorgia Lippolis (G.L.), Elena Perugi (E.P.), Roberta Riccio (R.R.), Erica Sirigu (E.S.) e G.S. che accompagna Ivna.
La mostra è vissuta come un incubatore di idee che si riversano sul di fuori. Il femminismo, che si pone come argomento di discussione, ha dolorose radici antiche ma è nel presente che palpita e si dimena.
Decidiamo di non imporre tracciati alle nostre discussioni, parliamo perché oggi giorno pensiamo, viviamo e ci interroghiamo. La nostra autocoscienza è una forma resistenziale che ci appartiene e ci rende forti perché è, prima di tutto, autocoscienza di e come gruppo.
Il dialogo che segue è composto da moltissime domande per cui abbiamo solo risposte provvisorie e sperimentali. Il processo conoscitivo – lontano dallo slogan o dalla formula vincente – richiede tempo e tentativi che noi siamo ben disposte a concedergli]
R.R. Io ci credo tanto nella mostra. In questa mostra. È vero che le mostre di arte contemporanea, soprattutto se non sei già del settore, a volte ti lasciano un po’ fuori. Magari ti piace qualche opera, ma la cosa finisce lì. Se invece alla base c’è una narrazione, qualcosa in cui ti puoi riconoscere, anche la signora del secondo piano arriva e capisce. Capisce e ti racconta che anche lei le faceva le processioni al suo paese, proprio come nell’opera di Giorgia. Anzi, peggio: senza le scarpe. Ovvio che poi quando le ho spiegato che erano stati tolti tutti i simboli sacri ha fatto finta di non sentire, perché non è che fosse molto d’accordo. Ma intanto è venuta, è stata ad ascoltare, si è fatta coinvolgere.
V.A. Questo anche perché tu e Carmine, fin da quando siete arrivati qui quest’estate, avete creato un legame affettivo con gli abitanti di questi palazzi. Quindi la signora del secondo piano viene da voi perché vi ha visto lavorare tanto, vi ha visto far rinascere questo spazio che prima era abbandonato e vi vuole bene perché siete dei bravi ragazzi. Ma nel momento in cui la mostra esce da questo contesto il legame affettivo si perde. Quindi come si fa? Te lo chiedo sinceramente, è davvero il mio cruccio più grande. Anche perché sono la prima a non penetrare in profondità moltissime mostre. Mi immagino quindi la signora del secondo piano di un palazzo in Giambellino, che non solo non sa niente di arte ma non sa niente nemmeno di voi.
R.R. Questa, a mio parere, è una missione fondamentale, ma che richiede tantissimo tempo: creare un vocabolario popolare dell’arte contemporanea. È una cosa difficilissima. Anche per la struttura di questo linguaggio nasce elitaria. Come si può fare per smantellarla? Si può fare con l’educazione. Se noi riuscissimo, piano piano, a coinvolgere una piccola comunità di non addetti ai lavori…forse neanche tanto tramite le opere, ma tramite le persone che vogliono dare quel messaggio lì. Perché è quando riesci a coinvolgere le persone in una narrativa, in un racconto che senti che qualcosa riesce ad arrivare. Che poi piaccia, non piaccia è meno importante. Far arrivare qualcosa è il vero traguardo.
Ex-voto del 1865, V.F. – Voto Fatto, ricerca e installazione di Roberta Riccio, l’iconografia e la rappresentazione della donna come testimonianza visiva di una violenta e oculata cultura di sguardo patriarcale e di mano separatista. I diritti e i crediti fotografici sono di proprietà della Fondazione P.G.R. di Milano.
V.A. Anzi, saper dire “non mi è piaciuto perché” è fondamentale
R.R. Esatto! Come il professore che abita in questo condominio che è venuto il giorno dell’opening
C.L. Quello che mi voleva comprare?
R.R. Sì lui, che ha chiesto se si poteva comprare la performer. Ovviamente, io ho trattato il prezzo. Comunque, quel signore è un professore della Cattolica, compagno della vecchia guardia. Con lui c’è stato un bello scontro, perché non si capacitava di “tutta questa violenza”. Ma quando gli abbiamo chiesto “dov’è la violenza?” non ha saputo rispondere. Non ha saputo trovarla.
E.P. Però secondo me questo era dovuto al suo preconcetto. È comunque un professore universitario, è una dinamica completamente diverse. Ma ci sono stati altri esempi
R.R. Sì, ad esempio il signor M. Quello che viene sempre alle riunioni ma sa già che non sarà d’accordo. Lui aveva letto il comunicato stampa e ci aveva consigliato di partecipare alle discussioni delle vecchie compagne di partito. Come per dire che era naturale che ci facessimo un po’ il circolo fra donne. Invece il signor N., quando gli abbiamo raccontato che avremmo parlato di femminismo, non ha capito bene cosa intendessimo. Ma è bastato fargli vedere che Ivna lavora con la terra, come fa lui con le sue piante, e si è creato un contatto. Usare un linguaggio che possa arrivare ovunque, non banalizzarlo. Qui sta il punto. E questo dipende anche – soprattutto – dai curatori. Che se vogliono possono essere la morte di un’arte che invece vuole inserirsi nel mondo, vuole essere attivista. E questo spesso parte dalla formazione. Spesso, non ci viene insegnata un’economia delle parole. E alla fine rimane sempre l’impressione che lo scopo sia fregare il prossimo che non sa e non può capire.
I.L. Rimane un linguaggio esclusivista. Che non crea ponti ma muri e incomprensioni.
Ambra Castagnetti, Non mi andava di lavorare, installazione video, 2018.
Ambra Castagnetti, Non mi andava di lavorare, installazione video, 2018.
Ambra Castagnetti, Non mi andava di lavorare, installazione video, 2018.
G.L. Però non è colpa solo dei curatori. Siamo noi artisti i primi a chiuderci, perché pensiamo di non essere capiti. Anche se con i lavori che facciamo vorremmo parlare di qualcosa di universale. E invece finiamo a barricarci nelle nostre posizioni come se tutti ci stessero attaccando.
C.L. Anche a me capita spesso di sentirmi chiusa dentro i miei lavori. Perché non ne so parlare. Li sminuisco, li rendo ridicoli.
G.L. Però forse è anche giusto che un*artista non sappia parlare del suo lavoro. Se no diventa un curatore. Cioè, un*artista non deve sapersi spiegare ma deve cercare di spiegarsi.
R.R. Io lo sento in voi, spesso, il panico di non saper dire, di “oddio questo come lo spiego”. Invece è fondamentale. Se non con le parole, anche con altri mezzi: collage di immagini, brain storming…ma è fondamentale che troviate dei modi per spiegarmi come siete arrivate fino a lì
E.S. Io per questo ho cominciato a scrivere. Quando ho dovuto decidere cosa fare nella mia vita mi sono messa a scrivere. Ho detto “io sono qui e dove voglio arrivare?” ma finché non l’ho scritto non l’ho capito. Quello stesso discorso sull’arte contemporanea che non si spiega, io l’ho fatto sulla musica classica, perché suonavo. Pensate di andare a un concerto di musica classica. A meno che non abbiate studiato, cosa capite? Quasi nulla. Cioè, c’è una componente emotiva, come quando vai a vedere una mostra. Una cosa ti piace, non ti piace, ti prende lo stomaco. Ma cosa rimane? È assurdo. Ho studiato così tanto per fare qualcosa che nessuno capisce. Ti siedi, hai una platea di mummie davanti, tu stessa sei una mummia. E mi chiedevo: quindi cosa ho comunicato? Mi chiudo nella mia stanza, suono per me ed è quasi la stessa cosa. Quindi ho cercato degli strumenti che mi permettessero di essere più chiara possibile. Ed è quello che faccio tutt’ora. Non so se sia la cosa migliore per l’arte contemporanea, ma è quello che voglio: farmi capire, comunicare. Visto che ho passato vent’anni della mia vita a non farlo.
R.R. Forse oggi essere trasparenti facendo arte è la vera rivoluzione
V.A. Essere trasparenti che non vuol dire fare illustrazione, essere didascalico
G.L. No, vuol dire le cose come stanno
R.R. Anche in maniera un po’ brutale se necessario. Levare un po’ della magia all’opera. Comunque, è bello che ci siamo ritrovate a parlare di comunicazione per discutere di una mostra femminista. È bello perché è fondamentale. Quanto poco rischia di arrivare a livello comunicativo l’attivismo femminista? Penso che ci sia un paragone forte con l’arte contemporanea, che rischia di arrivare soltanto a chi è già d’accordo, a chi già sa. C’è un muro terribile. Potremmo parlare più in generale di quanto è difficile comunicare oggi, circondati di potentissimi mezzi di comunicazione
Ivna Lamart, (Lameira Martyres), Le Ossa di Mia Nonna, performance e installazione site-specific, 2019.
Ivna Lamart, (Lameira Martyres), Le Ossa di Mia Nonna, performance e installazione site-specific, 2019.
I.L. È paradossale, ma riusciamo a vivere in un’incomprensione continua, in un parlare sempre e non riuscire ad ascoltare, che non è comunicazione
V.A. Perché è come un processo bulimico: immetti troppo, troppo velocemente e poi vomiti tutto. Invece quello che dicevi all’inizio, l’organizzazione di un discorso, di una narrazione è fondamentale. E anche capire dove e a chi si rivolge questa narrazione. Non abbiamo la funzione messianica di distribuire “il messaggio” al mondo come se fosse uno e immutabile. Possiamo modulare, dobbiamo modulare i nostri canali di comunicazione. Soprattutto ora che sono così tanti e spesso così virtuali. Per questo penso che sia fortissimo il lavoro che fate qui, anche con la comunità che vi circonda. Perché una parte fondamentale passa anche per l’empatia che non diventa un modo per parlare alla pancia senza ragionare, ma anzi una strategia per intavolare un discorso. Il rapporto non si basa su una dicotomia artista-spettatore, ma sul livello essere umano-essere umano.
R.R. Questo anche perché penso che le cose davvero interessanti succedano sempre fuori dalle cornici “istituzionali”. Quindi questo rapporto umano, reale, per me è fondamentale. Ognuno di noi apprende quotidianamente e su questo intessere di ogni giorno si basa la nostra crescita. Questa condivisione è fondamentale. Crea una rete.
V.A. Ecco, questo fare rete mi sembra fondamentale. Anche per, come dicevi, non fermarsi qui. Questo è uno spazio giovane, vivo, attivo. Ma quello che dite è troppo importante, non può fermarsi ad Abbiategrasso.
R.R. No, sarebbe troppo superficiale. La mostra, se è solo una mostra, è estremamente superficiale. Perché richiede dei tempi troppo stretti, non c’è niente da fare. Bisogna trovare altre soluzioni.
[arriva Flavia Scirè. Interrompiamo la conversazione e ci prendiamo il tempo di una sigaretta.
Chiedo di poter visitare lo spazio che, come una membrana, collega il marciapiede al cortile della corte di palazzoni popolari. Passiamo dalla porta sul cortile, l’entrata più intima. Da fuori la vetrina è interamente oscurata dalla superficie dorata di una coperta termica. Parliamo di femminismo, di soggetti non previsti dalla Storia. È chiaro fin dall’inizio che non si tratti solamente di possedere o meno una vagina.
All’interno le pareti sono di un rosa intenso. Penso a un ventre che urla, che non può passare inosservato. Non c’è violenza ma c’è la volontà brutale di essere senza doversi vergognare.
Le artiste presenti parlano delle proprie opere.]
Ex-voto del 1882, V.F. – Voto Fatto, ricerca e installazione di Roberta Riccio. Totalmente eliminato dalla critica ufficiale e dal mondo dell’arte, l’ex voto – come piccola testimonianza di cultura popolare dall’immenso valore antropologico, parla al suo pubblico, senza sbagliare. I diritti e i crediti fotografici sono di proprietà della Fondazione P.G.R. di Milano.
R.R. La mostra si inquadra fin dall’ingresso: da un lato la coperta termica, parte dell’installazione di Flavia, che trasforma lo spazio in un incubatore, uno spazio sicuro. Dall’altra la bandiera dell’Europa con la scritta FRAGILE. Due immagini semplici che però parlano immediatamente di una realtà in cui i problemi vanno dal micro al macro senza soluzione di continuità e l’umano nella sua interezza diventa il problema più urgente. Per questo, appena entrati la prima cosa che si vede sono i disegni dei bambini che vivono in questa via e lavorano noi. Disegni delle loro famiglie, delle loro case e dei loro volti, che sono la riposta alla domanda: di cosa vuoi prenderti cura? Subito dopo, le opere degli artisti.
Flavia Scirè, Incantesimo anti-fascista, installazione site-specific, 2019. Un rituale ispirato a gli incantesimi antifascisti messi in scena dalle transfemministe veronesi di Non Una di Meno. Non una maledizione ma un incantesimo d’amore al contrario. Lo scopo è far disinnamorare coloro che, seguendo ideologie fasciste, vivono con lo scopo di limitare la libertà altrui. Muovere guerra non agli individui, ma alla narrativa che scatena questi conflitti sociali. Il rituale richiede la partecipazione del pubblico e si costruisce in tre fasi, da destra verso sinistra: prendere il frammento di manifesto, bruciarlo e dipingersi il volto.
F.S. La narrazione inizia con il mio rito d’amore al contrario, che consiste nel bruciare questi frammenti di manifesti che ho preso direttamente dalle fascistissime mura di Verona. È un incantesimo al contrario perché chiediamo che i creatori dei manifesti si disamorino delle loro idee malsane. Alla fine del rituale chiedo al pubblico di dipingersi il volto con il pigmento dorato. Come a dire che se non siamo pronti a combattere nel mondo reale, se non siamo pronti a portare in faccia i segni della battaglia, allora qualsiasi rituale non serve a niente.
C.F. La sera dell’opening di fronte al suo rituale c’ero io che mi spogliavo dentro una teca. O meglio: quattro finestre che sono poi il simbolo di una casa. Questo è un lavoro che mi porto dietro da tanti anni. Era nato pensando al mio paese in Liguria, dove le ragazze della nostra età hanno ancora un orizzonte che è fatto di casa, matrimonio, bambini e nient’altro. All’inizio io ero un manichino con il vestito da sposa in questa vetrina domestica. Ma con questa mostra l’opera si è trasformata in una performane di svestizione. Ho passato tre ore e mezza a togliermi di dosso il vestito di mia nonna. Un vestito povero, che si è cucita da sola quando si è sposata. Questo ha davvero cambiato tutto. Anche il luogo è stato stravolto: io l’ho sempre immaginato all’esterno, anche perché un messaggio del genere ha senso sulla pubblica piazza, è un appello. Ma quel giorno pioveva a dirotto, quindi con Roberta abbiamo deciso di spostarlo all’interno, in mezzo a una cornice di ex voto. E così da appello è diventato un atto mio di liberazione da un abito che è una gabbia. Forse così è diventato anche più violento.
Clarissa Falco, Wardrobe, installazione e performance, 2018-19. L’istituzione del bianco le culla, comode desiderose di matrimonio, le avvolge, morbide nell’adeguato. Rose preziose e madonne severe. Grava sulla loro pelle il bianco che si sporca in fretta fiero e si sporca in fretta infame.
V.A. A me non sembravi violenta
F.S. No, è stato molto forte invece. Lei sembrava totalmente impotente, imprigionata e contemporaneamente decisa a uscire a ogni costo.
R.R. Sì, Clarissa diventava una specie di ex voto vivente, in mezzo a questa parete dove ho raccolto anni di ricerca su questo argomento. Argomento che non compare mai nella storia ufficiale dell’arte, ma è davvero interessante perché a presa diretta col tessuto sociale. In tutti questi quadri la donna è sempre soffrente, da salvare, determinata in base al suo ruolo di moglie o madre, come si vede anche solo dal posto che occupa a tavola. Clarissa con la sua performance dava voce e corpo a questa oppressione. Cosa ancora più interessante perché era circondata di altre performance che però adottavano linguaggi molto diversi. Quella di Flo esiste come installazione ma deve essere attivata dal pubblico, mentre quella di Ivna esisteva solo grazie al suo corpo e all’interazione con le persone intorno.
Ivna Lamart, (Lameira Martyres), Le Ossa di Mia Nonna, performance e installazione site-specific, 2019.
V.A. In cosa consisteva?
I.L. Iniziava con una purificazione dello spazio, una limpia, che per me è un inserirsi in una tradizione e in una cultura da cui provengo. Poi offrivo la stessa purificazione anche a tutte le persone che fossero disposte ad accettarla. E questa era la parte più difficile perché non tutti lo erano.
R.R. Ma tu eri in grado di capirlo e questo è stato molto bello. Abbiamo visto nettamente il momento in cui ha cambiato di strada di fronte alle persone che fin dallo sguardo non avrebbero potuto accoglierla. Anche lì, la comunicazione arrivava fin dove c’era spazio.
I.L. Alla fine, quello che ho deciso di lasciare in mostra è un cumulo di terra con una pianta, che mi parla di tutte noi, del doversi allontanare, sradicare, ma non per questo smettere di vivere. Fra le radici ho nascosto delle foto che appartengono a un passato non solo mio. Le foto, come le radici in questa terra, sono quasi invisibili e insieme indispensabili per la vita che invece si vede.
R.R. E questo ha creato delle connessioni importanti con gli abitanti della comunità di cui ora facciamo parte. La storia di queste palazzine è una storia di emigrazione e rinascita. Anzi, rinascite. Così come – lo dicevamo anche prima – il video di Giorgia, che parte dal coinvolgimento delle donne del suo paese in Puglia.
Giorgia Lippolis, Madre, videoproiezione, 2018.
Giorgia Lippolis, Madre, videoproiezione, 2018.
G.L. Sì, le donne che hanno partecipato al mio video sono tutte volontarie. Un amico e conterraneo mi ha aiutato a spargere la voce e sono arrivate da sole. Si sono fatte un’ora di macchina per venire. Hanno anche preso una multa ma non hanno detto niente. Io ero davvero agitata perché dieci persone non si erano presentate all’appuntamento. A loro invece piaceva molto l’idea di rimettere in scena qualcosa di così antico. Anche se c’era caldo il posto era bellissimo e poi c’era questo vento magnifico. Mi dicevano “se non ci credi tu ci crediamo noi”. E questo mi ha aiutato tanto. Per me era la prima volta.
R.R. Sì perché nel tuo lavoro, come in quello di Benedetta, non si tratta di essere a confronto con il proprio corpo, ma anche di far lavorare insieme persone diverse.
Giorgia Lippolis, Madre, videoproiezione, 2018.
Giorgia Lippolis, Madre, videoproiezione, 2018.
G.L. Esatto. E mi sentivo in dovere di prendermi cura di loro: non farle stare troppo sotto il sole, alcune erano anziane. Non volevo che si stancassero. Ma loro sono state incredibili. Mi hanno chiesto se avessi altri progetti da proporre. Che ci fosse il loro nome nei titoli di cosa era un compenso sufficiente.
V.A. E hanno visto il video?
G.L. Loro singolarmente sono state le prime a vederlo. Appena montato l’ho mandato a loro. Ma non ho ancora avuto l’occasione di mostrarlo in un contesto pubblico giù. Però troverò il modo, perché so quanto potrebbe significare “sono rappresentato, esisto”.
V.A. Ecco, questo esisto, devo esistere su moltissimi livelli diversi penso sia la forza di questa mostra, che porta con sé l’urgenza di essere stata fatta da chi con questo “devo esistere” ci lotta ogni giorno.
Carmine Agosto, Another brick in the wall, installazione site-specific, 2019, particolare.
R.R. Infatti il percorso della mostra, oltre che con il Trump finalmente muto di Carmine, si conclude con Ambra che lava i piatti nella neve, che per me è un’opera che in modo semplicissimo parla di tutta la difficoltà di stare al mondo. E con l’audio di Enrica, che è un inno al riconoscimento e, in qualche modo chiude la struttura ad anello. Perché se qui si parla di sostantivi al femminile, Leonluca Toro, dall’altra parte, riflette sul genere degli aggettivi, chiedendo al pubblico di descrivere una donna ma dando a disposizione solo aggettivi considerati maschili o neutri.
[l’audio, accompagnato da un flauto drammatico, scandisce per sette minuti nomi di mestieri declinati al femminile. Riempie lo spazio e lo rende pesante]
Clarissa Falco, Wardrobe, 2018-19.
Clarissa Falco, Wardrobe, 2018-19.
R.R. Immaginatelo tutto il tempo mentre Clarissa si spoglia e Ivna purifica una persona alla volta. Crea un’atmosfera quasi lugubre, scandisce il tempo. Sembra un po’ una processione.
E.S. Sì, questo lavoro è frutto di una raccolta molto lunga e parla proprio di riconoscimento. Perfino per me, all’inizio, alcuni nomi al femminile “suonavano male”. L’atto quasi rituale di ripeterli allo sfinimento è proprio un modo per farli arrivare, che tu lo voglia o no.
V.A. Letto con questa cadenza, però sembra quasi un lista di condannati a morte o di deportati. Mi piace, lo rende denso
E.S. Sì, anche se il lavoro nasce in tutt’altro modo. Sentivo il bisogno di farlo uscire fuori, che incontrasse il maggior numero di persone possibili per rendere queste parole meno “strane” a forza di vederle e ripeterle. Per questo all’inizio le pubblicavo ogni giorno sui social, sempre con la stessa idea di ripetitività. Ma poi dirle a voce alta è stato come un passo ulteriore. E vorrei che questo progetto assumesse ancora forme diverse.
I.L. Io, che ho dovuto imparare l’italiano da adulta, ho sentito molto il peso di questa cosa. Spesso chiedevo come si dicesse un nome al femminile e nessuno sapeva dirmelo.
V.A. Per noi che lo parliamo da sempre è quasi una liberazione. Spesso, se si insiste sulla declinazione al femminile, ci si sente guardati con sufficienza. “Ma devi proprio sottolineare il fatto di avere una vagina?” Eh sì. Perché lo sappiamo che nella nostra lingua il neutro non esiste più. Il neutro è maschile.
E.S. Ovviamente questo è solo uno degli aspetti che si potrebbero trattare a livello linguistico.
R.R. Anche perché – lo sappiamo benissimo – il linguaggio ha una carica politica.
V.A. Anzi, è il terreno condiviso su cui succedono le cose, su cui succedono davvero, dentro una comunità, nella dimensione politica inteso come polis
Carmine Agosto, Another brick in the wall, installazione site-specific, 2019.
G.S. Posso dire una cosa? Forse non c’entra niente. Però è una cosa che ho appreso da Ivna, visto che io con lei ho imparato, per differenza, che cos’è un popolo europeo, quindi cosa siamo noi, cosa sono io. E ho proprio notato questa tendenza che non sapevo neanche di avere a usare sempre le parole, a razionalizzare, a spiegare. Noi europei siamo scientisti, se abbiamo mal di pancia dobbiamo sapere perché, per cosa, la causa, la medicina. Se parliamo con una persona dobbiamo sapere cosa fa dove vive dimmi la tua storia, scusa però non ho capito, me lo spieghi meglio? E infatti quando ci andiamo a confrontare con culture che non sono fatte di parole, come quella brasiliana di Ivna…io sento proprio una stanchezza nel dover sempre utilizzare tutte queste parole. E infatti quando lei camminava in mezzo alle persone cercava risposte non verbali che ci sono sembrate così intense. E così per tutto, la sua cultura non vive di razionalità e di scienza, ma direi più di energie che sono difficili da tradursi in parole, ma che diventano poi fondamentali per comunicare.
[È tardi. Decidiamo di interrompere la nostra conversazione. Intanto, i nostri cellulari cominciano a squillare, il mondo irrompe con violenza nella stanza dipinta di rosa: Notre Dame brucia, Nostra Signora crolla. L’impressione, tornando a casa, è quella di star camminando sulle rovine e su quelle rovine, con i nostri corpi, costruire]
Ciò che la cultura separa, veduta dell’esposizione, spazio x, 2019.
Ciò che la cultura separa, veduta dell’esposizione, spazio x, Tutti i bambini di via Santa Teresa, Le attività quotidiane di spazio X si concentrano anche nel coinvolgimento dei più piccoli del quartiere, 2019.
Ciò che la cultura separa, veduta dell’esposizione, spazio x, particolare di Clarissa Falco, Wardrobe, performance e ricerca sugli ex-voto, 2019.
Ciò che la cultura separa, veduta dell’esposizione, spazio x, particolari di Flavia Scirè, Incantesimo anti-fascista e Leonluca Toro, seXparetion, 2019.
Ivna Lamart, (Lameira Martyres), Le Ossa di Mia Nonna, performance e installazione site-specific, 2019. “Mia nonna era una donna della foresta, della campagna, con un profondo contatto con la terra, sempre presente anche materialmente sulle sue mani”. Quest’azione avviene attorno ad un cerchio, un cerchio di terra, un cerchio magico.
Questa non è una storia di fate, ma di streghe. Che, a sua volta, si sviluppa attorno ad altri personaggi femminili bruciati nel rogo della storia: l’eretica, la guaritrice, la levatrice, la moglie disobbediente, la donna che osava vivere da sola, la donna obeah (praticante segreta di magia) che avvelenava il cibo dell’amore e incitava gli schiavi a ribellarsi. «Lo sviluppo capitalista è iniziato con una guerra contro le donne» – scrive Silvia Federici, nel suo libro Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria. Perché la caccia alle streghe del XVI e XVII secolo, che in Europa e nel Nuovo Mondo ha portato alla morte di migliaia di donne, è stato uno dei massacri più brutali e rimossi della storia del mondo?
«[…] questo fenomeno storico senza precedenti è stato un elemento cruciale del processo che Karl Marx ha definito come accumulazione originaria, poiché ha distrutto un universo di temi e pratiche femminili che ostacolavano alcuni requisiti per lo sviluppo del sistema capitalista: l’accumulazione di una forza-lavoro di massa e l’imposizione di una più ferrea disciplina del lavoro. Definire e perseguitare le donne in quanto “streghe”, è servito per confinare le donne in Europa al mero lavoro domestico non retribuito; ha legittimato la loro subordinazione agli uomini, dentro e fuori l’ambito familiare; ha conferito allo stato il controllo sulla loro capacità riproduttiva, garantendo la creazione di nuove generazioni di lavoratori. In questo modo, la caccia alle streghe ha contribuito a costruire uno specifico ordine capitalista e patriarcale che è continuato fino ad oggi, anche se è stato costantemente adeguato in risposta ai processi di resistenza delle donne e al cambiamento dei bisogni del mercato del lavoro. Dalla tortura fino alle esecuzioni inflitte alle donne accusate di stregoneria, le altre donne sono dovute arrivare alla conclusione che, per poter essere socialmente accettate, era meglio dimostrare obbedienza e silenzio, e accettare il duro lavoro e gli abusi da parte degli uomini. Fino al XVIII secolo, coloro che provavano ad opporsi venivano sottoposte alla “briglia della comare”, uno strumento in pelle e metallo utilizzato anche come morso per gli schiavi, che copriva anche il capo e che, se la vittima avesse provato a parlare, le provocava lacerazioni alla lingua». Silvia Federici, Witches, Witch-Hunting, and Women, PM Press, 2018.
Judy Chicago, Orange Atmosphere, 1968, fireworks, Brookside Park, Pasadena.
«Il titolo Calibano e la strega, che si ispira alla Tempesta di Shakespeare, riflette questo tentativo. Nella mia interpretazione però, Calibano non rappresenta solo il ribelle anticoloniale la cui lotta risuona ancora nella letteratura caraibica contemporanea, ma è il simbolo del proletariato mondiale e, più specificatamente, del corpo proletariato come terreno e strumento di resistenza alla logica del capitalismo. Ancora più importante è la figura della strega, che nella Tempesta è confinata a un remoto retroscena, mentre nel libro è posta al centro del palcoscenico in quanto incarnazione di un mondo di soggetti femminili che il capitalismo ha dovuto distruggere: l’eretica, la guaritrice, la moglie disobbediente, la donna che osava vivere da sola e la sacerdotessa woodoo che avvelenava il cibo del padrone e spronava gli schiavi alla rivolta».
Judy Chicago, Smoke Bodies, 1972.
«Figliola cara, non spaventarti, non siamo venute per agire contro di te o farti del male, ma per consolarti, prese da compassione per il tuo turbamento. Vorremmo toglierti dall’ignoranza, che ti acceca tanto da farti dimenticare ciò che conosci con certezza, per credere a qualcosa che sai, vedi e conosci solo per le opinioni altrui. […] Mia cara, che ne è stato della tua intelligenza? Hai dunque dimenticato che l’oro fino si tempra dalla fornace, e che non si altera, nè cambia le sue caratteristiche, anzi più lo si lavora, più lo si affina? Non sai che sono le cose migliori ad essere quelle più dibattute e più discusse? Se consideri la questione delle più alte forme della realtà che sono le idee e la loro sostanza celestiali, pensa a come i più grandi filosofi, che tu ascolti contro il tuo stesso sesso, non siano riusciti a distinguere il falso dal vero, contraddicendosi e criticandosi l’un l’altro.[…] Ti consiglio dunque di volgere a tuo vantaggio i loro scritti, interpretandoli in questo modo, quale che fosse il loro intento, là dove essi biasimano le donne. […] Così ti dico per concludere, cara amica, che è la tua ingenuità ad averti condotta a questa opinione. Ora torna in te, recupera il tuo buon senso, e non turbarti più di simili sciocchezze. Sappi che ogni maldicenza sulle donne ricade su chi la fa, e non sulle donne stesse», Christine de Pizan, La città delle Dame, prima pubblicazione 1405.
Cosa significa essere donna? Non lo sappiamo con certezza. Siamo un prodotto culturale, una definizione e una categoria pensata da altri. Siamo state cesellate come statue perfettibili da Pigmalioni invidiosi, incastrate in un universo spaventato da questa alterità sagace e dal naturale (e fastidioso) dono di generare la vita. Le streghe bruciavano, le madri si rintanavano in casa e tutti dimenticavano. La sopravvivenza della donna nella storia è sempre stata borderline, vittime delle più grandi violazioni dei diritti umani. E per cosa? Per la curiosità? Per Eva? Per Pandora? Per Lilith?
Benedetta Incerti, Training- Seven bodies, Seven souls, performance e installazione video, 2019.
Per non bruciare, per sopravvivere dovettero cedere alla violenza, ad una superiorità feromonica bestiale e anche inevitabile secondo una logica Darwiniana. Ma ad un certo punto, mentre le streghe tornavano a bruciare e il velo della cultura ha rasentato il suolo, stufe, ci siamo rese contro e abbiamo accettato di appartenere solo a noi stesse e di essere, citando Antigua, vita mia di Marcela Serrano “storia delle proprie azioni e dei propri pensieri, di cellule e neuroni, di ferite e di entusiasmi, di amori e disamori. Una donna è inevitabilmente la storia del suo ventre, dei semi che vi si fecondarono, o che non furono fecondati, o che smisero di esserlo, e del momento, irripetibile, in cui si trasforma in una dea. Una donna è la storia di piccolezze, banalità, incombenze quotidiane, è la somma del non detto. Una donna è sempre la storia di molti uomini. Una donna è la storia del suo paese, della sua gente. Ed è la storia delle sue radici e della sua origine, di tutte le donne che furono nutrite da altre che le precedettero affinché lei potesse nascere: una donna è la storia del suo sangue. Ma è anche la storia di una coscienza e delle sue lotte interiori. Una donna è la storia di un’utopia realizzabile”.
Quindi, sorelle, crediamo nei nostri sogni e nelle nostre utopie, spegniamo i roghi e torniamo, peccatrici, a gustarci la mela della conoscenza e della coscienza perché solo attraverso di esse saremo finalmente libere.
di Andrea Martina Bassan
Benedetta Incerti, Training- Seven bodies, Seven souls, performance e installazione video, 2019.
Benedetta Incerti, Training- Seven bodies, Seven souls, performance e installazione video, 2019.
E intanto bruciava Notre Dame, a cura di Valentina Avanzini
[È fissato per la sera del 15 aprile 2019 il mio incontro con artist* e curatrice della mostra Ciò che la cultura separa negli spazi espositivi di X Contemporary, giovanissimo project space nella periferia di Milano.
A dialogare con me (V.A.): Clarissa Falco (C.F.), Ivna Lamart (I.L.), Giorgia Lippolis (G.L.), Elena Perugi (E.P.), Roberta Riccio (R.R.), Erica Sirigu (E.S.) e G.S. che accompagna Ivna.
La mostra è vissuta come un incubatore di idee che si riversano sul di fuori. Il femminismo, che si pone come argomento di discussione, ha dolorose radici antiche ma è nel presente che palpita e si dimena.
Decidiamo di non imporre tracciati alle nostre discussioni, parliamo perché oggi giorno pensiamo, viviamo e ci interroghiamo. La nostra autocoscienza è una forma resistenziale che ci appartiene e ci rende forti perché è, prima di tutto, autocoscienza di e come gruppo.
Il dialogo che segue è composto da moltissime domande per cui abbiamo solo risposte provvisorie e sperimentali. Il processo conoscitivo – lontano dallo slogan o dalla formula vincente – richiede tempo e tentativi che noi siamo ben disposte a concedergli]
R.R. Io ci credo tanto nella mostra. In questa mostra. È vero che le mostre di arte contemporanea, soprattutto se non sei già del settore, a volte ti lasciano un po’ fuori. Magari ti piace qualche opera, ma la cosa finisce lì. Se invece alla base c’è una narrazione, qualcosa in cui ti puoi riconoscere, anche la signora del secondo piano arriva e capisce. Capisce e ti racconta che anche lei le faceva le processioni al suo paese, proprio come nell’opera di Giorgia. Anzi, peggio: senza le scarpe. Ovvio che poi quando le ho spiegato che erano stati tolti tutti i simboli sacri ha fatto finta di non sentire, perché non è che fosse molto d’accordo. Ma intanto è venuta, è stata ad ascoltare, si è fatta coinvolgere.
V.A. Questo anche perché tu e Carmine, fin da quando siete arrivati qui quest’estate, avete creato un legame affettivo con gli abitanti di questi palazzi. Quindi la signora del secondo piano viene da voi perché vi ha visto lavorare tanto, vi ha visto far rinascere questo spazio che prima era abbandonato e vi vuole bene perché siete dei bravi ragazzi. Ma nel momento in cui la mostra esce da questo contesto il legame affettivo si perde. Quindi come si fa? Te lo chiedo sinceramente, è davvero il mio cruccio più grande. Anche perché sono la prima a non penetrare in profondità moltissime mostre. Mi immagino quindi la signora del secondo piano di un palazzo in Giambellino, che non solo non sa niente di arte ma non sa niente nemmeno di voi.
R.R. Questa, a mio parere, è una missione fondamentale, ma che richiede tantissimo tempo: creare un vocabolario popolare dell’arte contemporanea. È una cosa difficilissima. Anche per la struttura di questo linguaggio nasce elitaria. Come si può fare per smantellarla? Si può fare con l’educazione. Se noi riuscissimo, piano piano, a coinvolgere una piccola comunità di non addetti ai lavori…forse neanche tanto tramite le opere, ma tramite le persone che vogliono dare quel messaggio lì. Perché è quando riesci a coinvolgere le persone in una narrativa, in un racconto che senti che qualcosa riesce ad arrivare. Che poi piaccia, non piaccia è meno importante. Far arrivare qualcosa è il vero traguardo.
Ex-voto del 1865, V.F. – Voto Fatto, ricerca e installazione di Roberta Riccio, l’iconografia e la rappresentazione della donna come testimonianza visiva di una violenta e oculata cultura di sguardo patriarcale e di mano separatista. I diritti e i crediti fotografici sono di proprietà della Fondazione P.G.R. di Milano.
V.A. Anzi, saper dire “non mi è piaciuto perché” è fondamentale
R.R. Esatto! Come il professore che abita in questo condominio che è venuto il giorno dell’opening
C.L. Quello che mi voleva comprare?
R.R. Sì lui, che ha chiesto se si poteva comprare la performer. Ovviamente, io ho trattato il prezzo. Comunque, quel signore è un professore della Cattolica, compagno della vecchia guardia. Con lui c’è stato un bello scontro, perché non si capacitava di “tutta questa violenza”. Ma quando gli abbiamo chiesto “dov’è la violenza?” non ha saputo rispondere. Non ha saputo trovarla.
E.P. Però secondo me questo era dovuto al suo preconcetto. È comunque un professore universitario, è una dinamica completamente diverse. Ma ci sono stati altri esempi
R.R. Sì, ad esempio il signor M. Quello che viene sempre alle riunioni ma sa già che non sarà d’accordo. Lui aveva letto il comunicato stampa e ci aveva consigliato di partecipare alle discussioni delle vecchie compagne di partito. Come per dire che era naturale che ci facessimo un po’ il circolo fra donne. Invece il signor N., quando gli abbiamo raccontato che avremmo parlato di femminismo, non ha capito bene cosa intendessimo. Ma è bastato fargli vedere che Ivna lavora con la terra, come fa lui con le sue piante, e si è creato un contatto. Usare un linguaggio che possa arrivare ovunque, non banalizzarlo. Qui sta il punto. E questo dipende anche – soprattutto – dai curatori. Che se vogliono possono essere la morte di un’arte che invece vuole inserirsi nel mondo, vuole essere attivista. E questo spesso parte dalla formazione. Spesso, non ci viene insegnata un’economia delle parole. E alla fine rimane sempre l’impressione che lo scopo sia fregare il prossimo che non sa e non può capire.
I.L. Rimane un linguaggio esclusivista. Che non crea ponti ma muri e incomprensioni.
Ambra Castagnetti, Non mi andava di lavorare, installazione video, 2018.
Ambra Castagnetti, Non mi andava di lavorare, installazione video, 2018.
Ambra Castagnetti, Non mi andava di lavorare, installazione video, 2018.
G.L. Però non è colpa solo dei curatori. Siamo noi artisti i primi a chiuderci, perché pensiamo di non essere capiti. Anche se con i lavori che facciamo vorremmo parlare di qualcosa di universale. E invece finiamo a barricarci nelle nostre posizioni come se tutti ci stessero attaccando.
C.L. Anche a me capita spesso di sentirmi chiusa dentro i miei lavori. Perché non ne so parlare. Li sminuisco, li rendo ridicoli.
G.L. Però forse è anche giusto che un*artista non sappia parlare del suo lavoro. Se no diventa un curatore. Cioè, un*artista non deve sapersi spiegare ma deve cercare di spiegarsi.
R.R. Io lo sento in voi, spesso, il panico di non saper dire, di “oddio questo come lo spiego”. Invece è fondamentale. Se non con le parole, anche con altri mezzi: collage di immagini, brain storming…ma è fondamentale che troviate dei modi per spiegarmi come siete arrivate fino a lì
E.S. Io per questo ho cominciato a scrivere. Quando ho dovuto decidere cosa fare nella mia vita mi sono messa a scrivere. Ho detto “io sono qui e dove voglio arrivare?” ma finché non l’ho scritto non l’ho capito. Quello stesso discorso sull’arte contemporanea che non si spiega, io l’ho fatto sulla musica classica, perché suonavo. Pensate di andare a un concerto di musica classica. A meno che non abbiate studiato, cosa capite? Quasi nulla. Cioè, c’è una componente emotiva, come quando vai a vedere una mostra. Una cosa ti piace, non ti piace, ti prende lo stomaco. Ma cosa rimane? È assurdo. Ho studiato così tanto per fare qualcosa che nessuno capisce. Ti siedi, hai una platea di mummie davanti, tu stessa sei una mummia. E mi chiedevo: quindi cosa ho comunicato? Mi chiudo nella mia stanza, suono per me ed è quasi la stessa cosa. Quindi ho cercato degli strumenti che mi permettessero di essere più chiara possibile. Ed è quello che faccio tutt’ora. Non so se sia la cosa migliore per l’arte contemporanea, ma è quello che voglio: farmi capire, comunicare. Visto che ho passato vent’anni della mia vita a non farlo.
R.R. Forse oggi essere trasparenti facendo arte è la vera rivoluzione
V.A. Essere trasparenti che non vuol dire fare illustrazione, essere didascalico
G.L. No, vuol dire le cose come stanno
R.R. Anche in maniera un po’ brutale se necessario. Levare un po’ della magia all’opera. Comunque, è bello che ci siamo ritrovate a parlare di comunicazione per discutere di una mostra femminista. È bello perché è fondamentale. Quanto poco rischia di arrivare a livello comunicativo l’attivismo femminista? Penso che ci sia un paragone forte con l’arte contemporanea, che rischia di arrivare soltanto a chi è già d’accordo, a chi già sa. C’è un muro terribile. Potremmo parlare più in generale di quanto è difficile comunicare oggi, circondati di potentissimi mezzi di comunicazione
Ivna Lamart, (Lameira Martyres), Le Ossa di Mia Nonna, performance e installazione site-specific, 2019.
Ivna Lamart, (Lameira Martyres), Le Ossa di Mia Nonna, performance e installazione site-specific, 2019.
I.L. È paradossale, ma riusciamo a vivere in un’incomprensione continua, in un parlare sempre e non riuscire ad ascoltare, che non è comunicazione
V.A. Perché è come un processo bulimico: immetti troppo, troppo velocemente e poi vomiti tutto. Invece quello che dicevi all’inizio, l’organizzazione di un discorso, di una narrazione è fondamentale. E anche capire dove e a chi si rivolge questa narrazione. Non abbiamo la funzione messianica di distribuire “il messaggio” al mondo come se fosse uno e immutabile. Possiamo modulare, dobbiamo modulare i nostri canali di comunicazione. Soprattutto ora che sono così tanti e spesso così virtuali. Per questo penso che sia fortissimo il lavoro che fate qui, anche con la comunità che vi circonda. Perché una parte fondamentale passa anche per l’empatia che non diventa un modo per parlare alla pancia senza ragionare, ma anzi una strategia per intavolare un discorso. Il rapporto non si basa su una dicotomia artista-spettatore, ma sul livello essere umano-essere umano.
R.R. Questo anche perché penso che le cose davvero interessanti succedano sempre fuori dalle cornici “istituzionali”. Quindi questo rapporto umano, reale, per me è fondamentale. Ognuno di noi apprende quotidianamente e su questo intessere di ogni giorno si basa la nostra crescita. Questa condivisione è fondamentale. Crea una rete.
V.A. Ecco, questo fare rete mi sembra fondamentale. Anche per, come dicevi, non fermarsi qui. Questo è uno spazio giovane, vivo, attivo. Ma quello che dite è troppo importante, non può fermarsi ad Abbiategrasso.
R.R. No, sarebbe troppo superficiale. La mostra, se è solo una mostra, è estremamente superficiale. Perché richiede dei tempi troppo stretti, non c’è niente da fare. Bisogna trovare altre soluzioni.
Benedetta Incerti, Training- Seven bodies, Seven souls, performance e installazione video, 2019.
Benedetta Incerti, Training- Seven bodies, Seven souls, performance e installazione video, 2019.
[arriva Flavia Scirè. Interrompiamo la conversazione e ci prendiamo il tempo di una sigaretta.
Chiedo di poter visitare lo spazio che, come una membrana, collega il marciapiede al cortile della corte di palazzoni popolari. Passiamo dalla porta sul cortile, l’entrata più intima. Da fuori la vetrina è interamente oscurata dalla superficie dorata di una coperta termica. Parliamo di femminismo, di soggetti non previsti dalla Storia. È chiaro fin dall’inizio che non si tratti solamente di possedere o meno una vagina.
All’interno le pareti sono di un rosa intenso. Penso a un ventre che urla, che non può passare inosservato. Non c’è violenza ma c’è la volontà brutale di essere senza doversi vergognare.
Le artiste presenti parlano delle proprie opere.]
Ex-voto del 1882, V.F. – Voto Fatto, ricerca e installazione di Roberta Riccio. Totalmente eliminato dalla critica ufficiale e dal mondo dell’arte, l’ex voto – come piccola testimonianza di cultura popolare dall’immenso valore antropologico, parla al suo pubblico, senza sbagliare. I diritti e i crediti fotografici sono di proprietà della Fondazione P.G.R. di Milano.
R.R. La mostra si inquadra fin dall’ingresso: da un lato la coperta termica, parte dell’installazione di Flavia, che trasforma lo spazio in un incubatore, uno spazio sicuro. Dall’altra la bandiera dell’Europa con la scritta FRAGILE. Due immagini semplici che però parlano immediatamente di una realtà in cui i problemi vanno dal micro al macro senza soluzione di continuità e l’umano nella sua interezza diventa il problema più urgente. Per questo, appena entrati la prima cosa che si vede sono i disegni dei bambini che vivono in questa via e lavorano noi. Disegni delle loro famiglie, delle loro case e dei loro volti, che sono la riposta alla domanda: di cosa vuoi prenderti cura? Subito dopo, le opere degli artisti.
Flavia Scirè, Incantesimo anti-fascista, installazione site-specific, 2019.
Flavia Scirè, Incantesimo anti-fascista, installazione site-specific, 2019.
Flavia Scirè, Incantesimo anti-fascista, installazione site-specific, 2019. Un rituale ispirato a gli incantesimi antifascisti messi in scena dalle transfemministe veronesi di Non Una di Meno. Non una maledizione ma un incantesimo d’amore al contrario. Lo scopo è far disinnamorare coloro che, seguendo ideologie fasciste, vivono con lo scopo di limitare la libertà altrui. Muovere guerra non agli individui, ma alla narrativa che scatena questi conflitti sociali. Il rituale richiede la partecipazione del pubblico e si costruisce in tre fasi, da destra verso sinistra: prendere il frammento di manifesto, bruciarlo e dipingersi il volto.
F.S. La narrazione inizia con il mio rito d’amore al contrario, che consiste nel bruciare questi frammenti di manifesti che ho preso direttamente dalle fascistissime mura di Verona. È un incantesimo al contrario perché chiediamo che i creatori dei manifesti si disamorino delle loro idee malsane. Alla fine del rituale chiedo al pubblico di dipingersi il volto con il pigmento dorato. Come a dire che se non siamo pronti a combattere nel mondo reale, se non siamo pronti a portare in faccia i segni della battaglia, allora qualsiasi rituale non serve a niente.
C.F. La sera dell’opening di fronte al suo rituale c’ero io che mi spogliavo dentro una teca. O meglio: quattro finestre che sono poi il simbolo di una casa. Questo è un lavoro che mi porto dietro da tanti anni. Era nato pensando al mio paese in Liguria, dove le ragazze della nostra età hanno ancora un orizzonte che è fatto di casa, matrimonio, bambini e nient’altro. All’inizio io ero un manichino con il vestito da sposa in questa vetrina domestica. Ma con questa mostra l’opera si è trasformata in una performane di svestizione. Ho passato tre ore e mezza a togliermi di dosso il vestito di mia nonna. Un vestito povero, che si è cucita da sola quando si è sposata. Questo ha davvero cambiato tutto. Anche il luogo è stato stravolto: io l’ho sempre immaginato all’esterno, anche perché un messaggio del genere ha senso sulla pubblica piazza, è un appello. Ma quel giorno pioveva a dirotto, quindi con Roberta abbiamo deciso di spostarlo all’interno, in mezzo a una cornice di ex voto. E così da appello è diventato un atto mio di liberazione da un abito che è una gabbia. Forse così è diventato anche più violento.
Clarissa Falco, Wardrobe, installazione e performance, 2018-19. L’istituzione del bianco le culla, comode desiderose di matrimonio, le avvolge, morbide nell’adeguato. Rose preziose e madonne severe. Grava sulla loro pelle il bianco che si sporca in fretta fiero e si sporca in fretta infame.
V.A. A me non sembravi violenta
F.S. No, è stato molto forte invece. Lei sembrava totalmente impotente, imprigionata e contemporaneamente decisa a uscire a ogni costo.
R.R. Sì, Clarissa diventava una specie di ex voto vivente, in mezzo a questa parete dove ho raccolto anni di ricerca su questo argomento. Argomento che non compare mai nella storia ufficiale dell’arte, ma è davvero interessante perché a presa diretta col tessuto sociale. In tutti questi quadri la donna è sempre soffrente, da salvare, determinata in base al suo ruolo di moglie o madre, come si vede anche solo dal posto che occupa a tavola. Clarissa con la sua performance dava voce e corpo a questa oppressione. Cosa ancora più interessante perché era circondata di altre performance che però adottavano linguaggi molto diversi. Quella di Flo esiste come installazione ma deve essere attivata dal pubblico, mentre quella di Ivna esisteva solo grazie al suo corpo e all’interazione con le persone intorno.
Ivna Lamart, (Lameira Martyres), Le Ossa di Mia Nonna, performance e installazione site-specific, 2019.
V.A. In cosa consisteva?
I.L. Iniziava con una purificazione dello spazio, una limpia, che per me è un inserirsi in una tradizione e in una cultura da cui provengo. Poi offrivo la stessa purificazione anche a tutte le persone che fossero disposte ad accettarla. E questa era la parte più difficile perché non tutti lo erano.
R.R. Ma tu eri in grado di capirlo e questo è stato molto bello. Abbiamo visto nettamente il momento in cui ha cambiato di strada di fronte alle persone che fin dallo sguardo non avrebbero potuto accoglierla. Anche lì, la comunicazione arrivava fin dove c’era spazio.
I.L. Alla fine, quello che ho deciso di lasciare in mostra è un cumulo di terra con una pianta, che mi parla di tutte noi, del doversi allontanare, sradicare, ma non per questo smettere di vivere. Fra le radici ho nascosto delle foto che appartengono a un passato non solo mio. Le foto, come le radici in questa terra, sono quasi invisibili e insieme indispensabili per la vita che invece si vede.
R.R. E questo ha creato delle connessioni importanti con gli abitanti della comunità di cui ora facciamo parte. La storia di queste palazzine è una storia di emigrazione e rinascita. Anzi, rinascite. Così come – lo dicevamo anche prima – il video di Giorgia, che parte dal coinvolgimento delle donne del suo paese in Puglia.
Giorgia Lippolis, Madre, videoproiezione, 2018.
Giorgia Lippolis, Madre, videoproiezione, 2018.
G.L. Sì, le donne che hanno partecipato al mio video sono tutte volontarie. Un amico e conterraneo mi ha aiutato a spargere la voce e sono arrivate da sole. Si sono fatte un’ora di macchina per venire. Hanno anche preso una multa ma non hanno detto niente. Io ero davvero agitata perché dieci persone non si erano presentate all’appuntamento. A loro invece piaceva molto l’idea di rimettere in scena qualcosa di così antico. Anche se c’era caldo il posto era bellissimo e poi c’era questo vento magnifico. Mi dicevano “se non ci credi tu ci crediamo noi”. E questo mi ha aiutato tanto. Per me era la prima volta.
R.R. Sì perché nel tuo lavoro, come in quello di Benedetta, non si tratta di essere a confronto con il proprio corpo, ma anche di far lavorare insieme persone diverse.
Giorgia Lippolis, Madre, videoproiezione, 2018.
Giorgia Lippolis, Madre, videoproiezione, 2018.
G.L. Esatto. E mi sentivo in dovere di prendermi cura di loro: non farle stare troppo sotto il sole, alcune erano anziane. Non volevo che si stancassero. Ma loro sono state incredibili. Mi hanno chiesto se avessi altri progetti da proporre. Che ci fosse il loro nome nei titoli di cosa era un compenso sufficiente.
V.A. E hanno visto il video?
G.L. Loro singolarmente sono state le prime a vederlo. Appena montato l’ho mandato a loro. Ma non ho ancora avuto l’occasione di mostrarlo in un contesto pubblico giù. Però troverò il modo, perché so quanto potrebbe significare “sono rappresentato, esisto”.
V.A. Ecco, questo esisto, devo esistere su moltissimi livelli diversi penso sia la forza di questa mostra, che porta con sé l’urgenza di essere stata fatta da chi con questo “devo esistere” ci lotta ogni giorno.
Carmine Agosto, Another brick in the wall, installazione site-specific, 2019, particolare.
R.R. Infatti il percorso della mostra, oltre che con il Trump finalmente muto di Carmine, si conclude con Ambra che lava i piatti nella neve, che per me è un’opera che in modo semplicissimo parla di tutta la difficoltà di stare al mondo. E con l’audio di Enrica, che è un inno al riconoscimento e, in qualche modo chiude la struttura ad anello. Perché se qui si parla di sostantivi al femminile, Leonluca Toro, dall’altra parte, riflette sul genere degli aggettivi, chiedendo al pubblico di descrivere una donna ma dando a disposizione solo aggettivi considerati maschili o neutri.
[l’audio, accompagnato da un flauto drammatico, scandisce per sette minuti nomi di mestieri declinati al femminile. Riempie lo spazio e lo rende pesante]
Clarissa Falco, Wardrobe, 2018-19.
Clarissa Falco, Wardrobe, 2018-19.
R.R. Immaginatelo tutto il tempo mentre Clarissa si spoglia e Ivna purifica una persona alla volta. Crea un’atmosfera quasi lugubre, scandisce il tempo. Sembra un po’ una processione.
E.S. Sì, questo lavoro è frutto di una raccolta molto lunga e parla proprio di riconoscimento. Perfino per me, all’inizio, alcuni nomi al femminile “suonavano male”. L’atto quasi rituale di ripeterli allo sfinimento è proprio un modo per farli arrivare, che tu lo voglia o no.
V.A. Letto con questa cadenza, però sembra quasi un lista di condannati a morte o di deportati. Mi piace, lo rende denso
E.S. Sì, anche se il lavoro nasce in tutt’altro modo. Sentivo il bisogno di farlo uscire fuori, che incontrasse il maggior numero di persone possibili per rendere queste parole meno “strane” a forza di vederle e ripeterle. Per questo all’inizio le pubblicavo ogni giorno sui social, sempre con la stessa idea di ripetitività. Ma poi dirle a voce alta è stato come un passo ulteriore. E vorrei che questo progetto assumesse ancora forme diverse.
I.L. Io, che ho dovuto imparare l’italiano da adulta, ho sentito molto il peso di questa cosa. Spesso chiedevo come si dicesse un nome al femminile e nessuno sapeva dirmelo.
V.A. Per noi che lo parliamo da sempre è quasi una liberazione. Spesso, se si insiste sulla declinazione al femminile, ci si sente guardati con sufficienza. “Ma devi proprio sottolineare il fatto di avere una vagina?” Eh sì. Perché lo sappiamo che nella nostra lingua il neutro non esiste più. Il neutro è maschile.
E.S. Ovviamente questo è solo uno degli aspetti che si potrebbero trattare a livello linguistico.
R.R. Anche perché – lo sappiamo benissimo – il linguaggio ha una carica politica.
V.A. Anzi, è il terreno condiviso su cui succedono le cose, su cui succedono davvero, dentro una comunità, nella dimensione politica inteso come polis
Carmine Agosto, Another brick in the wall, installazione site-specific, 2019.
G.S. Posso dire una cosa? Forse non c’entra niente. Però è una cosa che ho appreso da Ivna, visto che io con lei ho imparato, per differenza, che cos’è un popolo europeo, quindi cosa siamo noi, cosa sono io. E ho proprio notato questa tendenza che non sapevo neanche di avere a usare sempre le parole, a razionalizzare, a spiegare. Noi europei siamo scientisti, se abbiamo mal di pancia dobbiamo sapere perché, per cosa, la causa, la medicina. Se parliamo con una persona dobbiamo sapere cosa fa dove vive dimmi la tua storia, scusa però non ho capito, me lo spieghi meglio? E infatti quando ci andiamo a confrontare con culture che non sono fatte di parole, come quella brasiliana di Ivna…io sento proprio una stanchezza nel dover sempre utilizzare tutte queste parole. E infatti quando lei camminava in mezzo alle persone cercava risposte non verbali che ci sono sembrate così intense. E così per tutto, la sua cultura non vive di razionalità e di scienza, ma direi più di energie che sono difficili da tradursi in parole, ma che diventano poi fondamentali per comunicare.
[È tardi. Decidiamo di interrompere la nostra conversazione. Intanto, i nostri cellulari cominciano a squillare, il mondo irrompe con violenza nella stanza dipinta di rosa: Notre Dame brucia, Nostra Signora crolla. L’impressione, tornando a casa, è quella di star camminando sulle rovine e su quelle rovine, con i nostri corpi, costruire]
Ciò che la cultura separa [foglio di sala]
Ciò che la cultura separa, veduta dell’esposizione, spazio x, 2019.
Ciò che la cultura separa, veduta dell’esposizione, spazio x, Tutti i bambini di via Santa Teresa, Le attività quotidiane di spazio X si concentrano anche nel coinvolgimento dei più piccoli del quartiere, 2019.
Ciò che la cultura separa, veduta dell’esposizione, spazio x, particolare di Clarissa Falco, Wardrobe, performance e ricerca sugli ex-voto, 2019.
Ciò che la cultura separa, veduta dell’esposizione, spazio x, particolari di Flavia Scirè, Incantesimo anti-fascista e Leonluca Toro, seXparetion, 2019.
Ivna Lamart, (Lameira Martyres), Le Ossa di Mia Nonna, performance e installazione site-specific, 2019. “Mia nonna era una donna della foresta, della campagna, con un profondo contatto con la terra, sempre presente anche materialmente sulle sue mani”. Quest’azione avviene attorno ad un cerchio, un cerchio di terra, un cerchio magico.