Be truly creative, refuse your role, intervista a Natascha Burger

Il corpo, che era era stato l’oggetto fobico per eccellenza di tutta la costruzione storiografica della modernità, ha assunto un ordine discorsivo centrale nella complessa e sofisticata ricerca dell’artista austriaca Birgit Jürgenssen, un corpo che interrogava le strutture del potere patriarcale per diventare vettore del desiderio, mettere in discussione lo sguardo maschile e sgretolare le fondamenta di un’identità di genere assegnata dall’esterno. Oggetti comuni attribuiti al femminile come scarpe, abiti e fornelli diventano codici visuali reiterati nei suoi lavori, presentati in modo enigmatico e ironico, per re-inventare un immaginario di segni e di discorsi in grado di decostruire modelli di soggettività femminile e ruoli sociali imposti. «L’identità della donna scompare, fatta eccezione per l’oggetto feticcio, focus del desiderio degli uomini», sottolinea l’artista, attraverso strategie di negazione dell’immagine, di appropriazione e sovversione degli stereotipi sulla sessualità e il genere. Passando per una personale auto-rappresentazione del corpo femminile (e del proprio in una forma di autoanalisi) Jürgenssen ha sfidato il canone artistico consolidato (secolarmente e storicamente) per denunciare atti di prevaricazione sociale, sottomissione culturale e diseguaglianza, scardinando, al tempo stesso, i presupposti, implicitamente sessisti e maschilisti dell’ontologia modernista e mai messi in questione. L’inizio degli anni Settanta segna la sperimentazione di differenti dispositivi linguistici, attraversati da una straordinaria produzione disegnativa, scultorea-oggettuale e fotografica, per generare (e liberare) surreali rappresentazioni del femminile. Ma raramente l’artista performerà o utilizzerà il suo corpo in eventi dal vivo, rispetto alle provocatorie azioni della collega VALIE EXPORT con cui era in contatto e che la inviterà alla celebre mostra femminista, MAGNA. Feminism: Art and Creativity nel 1975, preferendo piuttosto l’auto-rappresentazione di una corporeità frammentata, mascherata, ibridata, de-gerarchizzata come contro-discorso rispetto alla visione antropocenica del regno vegetale e animale, prefigurazione visuale del cyborg in quanto «creatura di un mondo post-genere: non ha niente da spartire con la bisessualità, la simbiosi pre-edipica, il lavoro non alienato o altre seduzioni di interezza organiza ottenute investendo una unità suprema di tutti i poteri delle parti» teorizza Donna Haraway. Senza più uno che domina e l’altro è dominato.

Come doveva essere stato lavorare negli ambienti degli “akitionist” viennesi per una donna? Lea Vergine, sosteneva, rispetto alle pratiche di auto – ed – etero – aggressività dell’azionismo viennese che «non si può escludere neanche una efferata misoginia […] specie in quelle azioni scatologiche dove ingoiare urine, feci e altri materiali di spurgo sta a simbolizzare l’invidia dell’utero, allo scopo di esorcizzare il terrore della concorrenza con l’organo genitale femminile: vera e propria ginofobia, dunque.

Birgit Jürgenssen, Ohne Titel / Senza titolo, 1979. Polaroid SX 70 Cm 10,5 x 8,7 Estate Birgit Jürgenssen. Courtesy Galerie Hubert Winter, Vienna © Estate Birgit Jürgenssen.

Assente dalla storia dell’arte ufficiale ma non dalle narrative femministe, Jürgenssen assume oggi dopo la prima, ampia ed esaustiva, retrospettiva del suo lavoro in Italia, un ruolo cruciale sia nella scena austriaca tanto in quella dell’avanguardia femminista; curata da Natascha Burger e Nicole Fritz e appena conclusasi alla GAMeC di Bergamo la mostra, realizzata in collaborazione con l’Estate Birgit Jürgenssen, la Kunsthalle Tübingen e il Louisiana Museum of Modern Art, ha ricostruito l’intera carriera dell’artista, accompagnata da un bellissimo catalogo che raccoglie tutta la sua produzione artistica. Abbiamo incontrato una delle curatrici, Natascha Burger, direttrice dell’archivio presso la Galerie Hubert Winter di Vienna, che oltre a una lunga conversazione ci ha donato due preziosi e significativi documenti per cogliere, comprendere e studiare il lavoro di Birgit Jürgenssen da una prospettiva femminista: il catalogo della mostra curata da VALIE EXPORT a cui prende parte giovanissima nel 1975, con un testo di Lucy R. Lippard e la lettera di protesta dello stesso anno, di cui Birgit Jürgenssen, una tra le 46 firmatarie, rifiutò la propria partecipazione alla mostra voluta dal ministero per celebrare l’International Women’s Year e di cui qui pubblichiamo la traduzione in italiano.

[ Lettera di Protesta – Estate Birgit Jürgenssen]

Edith Futscher, analizzando l’umorismo visivo di Birgit Jürgenssen, ha elaborato la figura della «clownerie» che con le sue maschere danza come «una giullare sul palcoscenico del patriarcato».

Birgit Jürgenssen, Mrs. Churchill, 1976, pencil, colored pencil on handmade paper, 62.5 x 45 cm, © Estate Birgit Jürgenssen, Vienna.

Diversamente da altre artiste, Birgit Jürgenssen non ha mai rifiutato l’etichetta di “femminista” e il potenziale emancipatorio dell’agenda femminista che aveva posto la liberazione della donna non come una lotta contro una presunta superiorità ontologica e residuale del dominio maschile, cioè una condizione di inferiorità che non è ancora stata riscattata ma, al contrario, la sua produzione artistica anticipa tanti aspetti della critica femminista all’immagine quale campo di esercizio di quegli stessi rapporti di forza. Qual era il legame che Jürgenssen aveva con il femminismo e i movimenti di liberazione della donna?

Natascha Burger: Una volta è stata rivolta a Birgit Jürgenssen la questione diretta se si considerasse un’artista femminista e allora lei rispose: «Non all’interno di una categorizzazione». Così, volevo mostrare gli attuali stereotipi di genere e i modelli di ruolo che sono attribuiti, come naturalizzati, alla donna nella nostra società e con cui anche io ho sempre avuto a che fare in quanto donna, per sottolinearne i fraintendimenti della vita quotidiana attraverso la sua opera. L’esposizione intitolata Wie erfährt man sich im Anderen, das Andere in sich? (How does one experience oneself in the other, the other in oneself?) che si era tenuta alla galleria Hubert Winter nel 1985, credo riassuma un pò l’intenzione fondamentale del mio lavoro di gallerista con una riflessione da una prospettiva esterna. Birgit si ispirava a una generazione di artiste precedenti, rispetto all’avanguardia femminista degli anni Settanta, a figure di forte matrice surrealista e simbolica, come Meret Oppenheim e Louise Bourgeois che considerava «più poetiche, meno dirette e più sovversive». L’intera opera dell’artista è attraversata da una grande abilità di metamorfosi e di trasposizione poetica nella sua propria lingua e nel suo linguaggio metaforico, che la contraddistingue dagli artisti a lei contemporanei. Fin dagli inizi si rese conto che non voleva creare né marchi né tratti distintivi: «Il piagnisteo non mi appartiene. Non volevo però nenche fare parte di un gruppo femminista, perché ritenevo le possibilità troppo unidimensionali. L’unica cosa che mi sembrava giusta era utilizzare tutti i mezzi a disposizione». Per quanto riguarda la sua relazione con il femminismo ha affermato nel 1986: «Penso che sia bello avere un femminismo attivo come azione parallela. Ma non penso che dovremo usarlo per fare carriera».

Locandina dell’esposizione MAGNA. Feminism: Art and Creativity. A Survey of the Female Sensibility, Imagination, Projection and Problems Suggested through a Tableau of Images, Objects, Photographs, Lectures, Discussions, Films, Videos and Actions, a cura di VALIE EXPORT, 1975, Vienna.

veduta dell’esposizione MAGNA – Feminismus: Kunst und Kreativität (MAGNA – FEMINISM: Art and Creativity), curata da VALIE EXPORT, particolare del lavoro di Birgit Jürgenssen, 1975.

veduta dell’esposizione MAGNA – Feminismus: Kunst und Kreativität (MAGNA – FEMINISM: Art and Creativity), curata da VALIE EXPORT, particolare dei disegni di Birgit Jürgenssen, 1975.

Nel 1975 Birgit Jürgenssen, allora venticinquenne, partecipata alla mostra curata da VALIE EXPORT, intitolata MAGNA. Feminism: Art and Creativity. A Survey of the Female Sensibility, Imagination, Projection and Problems Suggested through a Tableau of Images, Objects, Photographs, Lectures, Discussions, Films, Videos and Actions che assumiamo oggi come un’esposizione femminista seminale. Potresti descrivere questo contesto storico ed espositivo?

NB: VALIE EXPORT si è concentrata sull’auto-affermazione delle donne e sull’auto-scoperta del potenziale femminile. Per l’esposizione da lei curata, esorta le donne a usare l’arte come mezzo espressivo creativo per sviluppare una nuova coscienza femminile in tutti i campi e con tutti i media. La prima idea era quella di mostrare artiste donne provenienti dall’intera Europa, il che significava viaggiare molto e fare ricerca, ma nonostante il suo impegno VALIE EXPORT non ha ricevuto risposte positive per questa mostra. Quindi ha dovuto ridurre la lista delle artiste e concentrarsi “solo” su quelle austriache. In ogni caso ha avuto l’opportunità di invitare personalità internazionali per talks, presentazioni, ecc. Anche per Birgit Jürgenssen è stato – per così dire – un momento rivoluzionario e innovativo non solo per aver avuto l’opportunità di esporre con altre importanti colleghe, ma anche perché è stata la prima volta in cui ha avuto la possibilità di mostrare i disegni accanto alle fotografie e insieme a un oggetto. Allora era ancora problematico e ci sarebbe voluto molto tempo prima che la fotografia venisse riconosciuta come una forma di produzione artistica in Austria.

Birgit Jürgenssen, Ohne Titel / Senza titolo, 1977, matita, matita colorata su carta fatta a mano. Courtesy Galerie Hubert Winter, Vienna © Estate Birgit Jürgenssen.

Come dicevamo, sempre nel 1975, in occasione dell’International Women’s Year proclamato dall’ONU, le artiste austriache furono invitate a una mostra presso il Volkskundemuseum Wien. La giuria però era esclusivamente composta da uomini contro i quali un gruppo di artiste già affermate protestarono: tra di loro Birgit Jürgenssen, Doris Reitter, Meina Schellander e VALIE EXPORT. Dal momento che la loro contestazione fu completamente ignorata, 46 artiste cancellarono la propria partecipazione alla mostra. Potresti raccontarci di questo episodio radicale?

NB: Per lasciare un segno all’Intenational Women’s Year, le artiste austriache furono invitate a partecipare a un’esposizione al museo di antropologia. Contro la giuria composta di soli uomini, protestano un gruppo di artiste illustri, tra cui Birgit appunto, scrivendo una lunga lettera. Ma quando la proposta venne completamente ignorata le quarantasei artiste rifiutano di prendere parte al progetto e di partecipare alla mostra. La traduzione in italiano della lettera, che esprime queste posizioni, conservata nell’Estate Birgit Jürgenssen presso Galerie Winter di Vienna, è un documento significativo delle richieste delle artiste sulle questioni del lavoro (e le sue condizioni di possibilità e di trasformazione dei rapporti di produzione) dentro il campo dell’arte e dell’organizzazione espositiva.

Lettera di Protesta – Estate Birgit Jürgenssen

Birgit Jürgenssen, Self-portrait, 1977/78 © Estate of Birgit Jürgenssen, Vienna.

Il corpo femminile è di fatto un territorio soggetto al dominio patriarcale, colonizzato dallo sguardo maschile. I disegni di Jürgenssen hanno rivelato e mostrato ciò di cui siamo socialmente inconsapevoli o represse come donne, e che la femminilità è un paradigma socialmente costruito da sistemi egemonici di rappresentazioni simbolico-discorsive. Presentandosi ripetutamente nel ruolo di casalinga, donna delle pulizie, o quando si è auto-rappresentata indossando un grembiule sotto forma di stufa da cucina, come ha decostruito questo ruolo di genere e di sfruttamento del lavoro riproduttivo, domestico e di cura delle donne?

NB: In proposito, vorrei sottolineare quanto scrive Heike Eipeldauer nel suo testo in catalogo intitolato significativamente È più svantaggioso separare la casa dal corpo, riferendosi all’analisi dell’opera di Birgit Jürgenssen Grembiule da cucina: la sagoma di un fornello tridimensionale che può essere indossato come un grembiule davanti al corpo, presentata per la prima volta proprio nella mostra di VALIE EXPORT della prima ondata del movimento femminista in Austria: «Oggi è considerata, non a caso, un’icona dell’arte femminista, proprio perché indaga le implicazioni culturali e socio-politiche di un oggetto apparentemente “privato”. L’oggetto artistico, mobile e performativo, rende la donna che lo porta una prestatrice di servizi, pronta ad essere impiegata, sempre e in ogni luogo, nelle funzioni a lei assegnate (come casalinga e “accasata”, cuoca e nutrice, partoriente e madre, nonché come oggetto sessuale “culturalizzato”) e esprime in maniera paradigmatica la critica femminista dell’”addomesticamento” – in senso letterale – della donna e dei relativi meccanismi di sottomissione sociale». Inoltre, continua Eipeldauer «l’attività riproduttiva della “donna di casa” si manifesta nella produzione di una pagnotta che esce da forno e che – concretizzando la misogina locuzione tedesca “einen Braten in der Röhre haben (“avere un arrosto in forno) – allude al ruolo di partoriente della casalinga, e al contempo evoca inequivocabilmente un fallo».

Birgit Jürgenssen, Stütze (Improvvisation)/(Supporto)Improvvisazione, 1976, matita, matita colorata su carta fatta a mano cm 31 x 44 © Estate Birgit Jürgenssen.

Birgit Jürgenssen, Muskelschuh / Scarpa-muscolo, 1976, matita, matita colorata su carta fatta a mano cm 31 x 44 Estate Birgit Jürgenssen. Courtesy Galerie Hubert Winter, Vienna © Estate Birgit Jürgenssen.

Birgit Jürgenssen, Netter Raubvogelschuh / Bella Scarpa-Rapace, 1974-75. Metallo, piume, zampa di gallina cm 30 x 23 x 13 Estate Birgit Jürgenssen. Courtesy Galerie Hubert Winter, Vienna © Estate Birgit Jürgenssen.

Negli anni ‘70 le pratiche artistiche hanno consentito alle donne di affermarsi come agenti attivi di auto-determinazione delle proprie narrazioni e rappresentazioni, come nel lavoro di Jürgenssen Everyone Has His Own Point of View. Qual è il valore e il significato del corpo e della soggettività femminile in queste pratiche contro gli stereotipi di genere?

NB: Birgit Jürgenssen ha assunto il proprio corpo come superficie di proiezione, sia letteralmente che da un punto di vista più ampio. La sperimentazione con il corpo non è mai stata scontata o troppo audace e sfrontata, o scandalosa: principalmente ha sviluppato la sua ricerca personale in modo sottile ma molto potente. Jürgenssen è stata sicuramente influenzata dal discorso femminista ma non ne ha approvato tutte le istanze: Everyone Has His Own Point of View dichiara infatti la possibilità e il bisogno di una pluralità di voci. Le piaceva indossare i tacchi alti e il rossetto. Diversi dettagli nella sua opera disvelano raffinate e acute provocazioni. L’artista ha usato il corpo e gli oggetti (anche legati al feticismo ma in modo giocoso) in una modalità che riflette chiaramente lo zeitgeist del tempo e che mette in discussione gli stereotipi sulle donne, ma significativamente e da un punto di vista nodale Jürgenssen non ha accettato il corpo come denaturalizzazione solo rispetto ai modelli dominanti e patriarcali ma anche alle aspettative/proiezioni [su come le donne (femministe) dovrebbero essere] create all’interno del discorso femminista stesso. Il suo corpo era il miglior veicolo per innescare domande e superare i confini intorno alle nozioni di ruolo, identità e soggettività. Inoltre, l’atto performativo di esibire se stessa (privato e tuttavia pubblico) e l’abilità tecnica nella combinazione di diverse fotocamere così come i processi di sviluppo e di stampa, costituiscono tutti insieme la documentazione del suo essere autonoma e indipendente come donna e come fotografa. Jürgenssen  ha dimostrato come non avesse bisogno di delegare alcuna parte della sua pratica a laboratori di fotografia probabilmente gestiti da soli uomini all’epoca. Il suo stesso corpo è stato uno strumento per affermare molteplici soggettività, plurali e incatturabili, che ha assunto in modo camaleontico per tutta la sua carriera artistica.

Birgit Jürgenssen, Jeder hat seine eigene Ansicht [Everyone Has His Own Point of View], 1975, black and white photograph, 40 x 30 cm © Estate Birgit Jürgenssen, Vienna.

Come Elisabeth Bronfen scrive nel suo saggio Self-irony as autobiographical strategy pubblicato nella monografia curata da Gabriele Schor e Abigail Solomon-Godeau nel 2009:
«Preferendo usare il suo corpo come superficie di proiezione per scrivere, Jürgenssen segue la teoria femminista dell’arte, in un certo senso. A partire dagli anni ‘70, ha focalizzato la nostra consapevolezza come, nelle tradizionali visioni culturali, il corpo femminile sia stato usato come tela o schermo su cui proiettare valori normativi e fantasie personali. Spesso, possiamo dire allo stesso modo, di come l’uomo guarda la donna, piuttosto che dello status soggettivo con cui la donna viene guardata. Jürgenssen mette decisamente in dubbio l’idea che lì c’è una cosa diretta, una pura prospettiva del sé che è separata dalla complessa interazione tra percezione esterna e transfert. In questo senso, il suo autoritratto, Jeder hat sine eigene Ansicht (Everyone Has His Own Point of View, 1975) è paradigmatico: è un sistema complicato giocato con una figura retorica che si riferisce alle differenze insormontabili tra le opinioni soggettive. Poiché questa frase è scritta con il rossetto sulla schiena nuda dell’artista, diventa possibile percepire non solo il significato figurativo della frase, ma anche due significati letterali insiti in esso. La frase non si riferisce più semplicemente alla nozione di un punto di vista che forma un’opinione; il lavoro tratta anche la questione dell’angolo o della posizione letterale da cui ogni persona specifica guarda il mondo. Allo stesso tempo, tuttavia, l’immagine stessa, mostrata in questa fotografia, è usata per riferirsi al fatto che è nell’atto di guardarla che alteriamo l’immagine stessa. La frase ci inchioda nella nostra posizione di osservatore: una posizione che non può essere condivisa con nessun altro, e considera anche noi, non il volto dell’artista. L’artista, d’altra parte, dirige il suo sguardo verso il muro bianco di fronte. Mostrandoci le sue spalle nude, vuol dire che non possiamo vedere quello che vede. Invece, tutto ciò che vediamo è la superficie chiara della sua schiena, replicando non solo il muro, ma anche la carta fotografica.

Dal momento che l’artista ci mostra la sua schiena nuda, ma non il suo volto, possiamo soddisfare la promessa mantenuta dalla frase. Troviamo la nostra prospettiva specifica lì, ma in cui non è coinvolta l’artista, anche se è la regista della scena. Eppure con questo, Jürgenssen offre più che un commento ironico su come tradizionalmente la pittura e la fotografia presentano il corpo femminile come uno specchio, o un puzzle visuale, e di come lo spettatore si diverta a guardarlo. Contemporaneamente, presenta il problema creato dalla nozione che è possibile avere un prospettiva del sé e che questa possa essere assolutamente separata dallo sguardo dell’altro».

O come Peter Weibel ha suggerito: «Dopo che la frase è scritta sul retro del soggetto, è chiaro che il soggetto non ha accesso a questa visione di se stesso, cioè alla propria visione di se stesso. Quindi la frase è vera ma non veritiera; si contraddice, perché nessuno può vedere se stesso. La visione di se stessi non può escludere l’altra vista di se stessi». La frase “everyone has his own point of view” diventa vera solo quando il soggetto guardato nell’immagine può vedere se stesso da dietro, proprio come possiamo osservare da fuori la figura radicale e soggettiva incorniciata nella fotografia.

Per dirla in altro modo, il soggetto deve allontanarsi da se stesso, trasformarsi in una visione non familiare, per vedere se stessa dalla posizione dell’altro (l’osservatore implicito). Deve immaginare come avrebbe osservato qualcuno la cui posizione nel dramma visivo è dietro il corpo in mostra. La prospettiva di se, che è ciò che la fotografia insiste e che presenta, non può che emergere attraverso una deviazione, che comporta l’adozione del punto di vista dell’altro, e questo avviene attraverso le lettere scritte con il rossetto sulla schiena dell’artista».

Birgit Jürgenssen, Ballonschuh [Balloon Shoe], 1977, black and white photograph, 23 x 30 cm, © Estate Birgit Jürgenssen, Vienna.

“Why Separate Women’s Art?” – come ha affermato Lucy Lippard (Art and Artists, vol.8, no.7, October 1973, p.8) – “In pochi anni, le esposizioni artistiche femminili, le pubblicazioni di riviste incentrate sull’arte di sole donne, le lezioni d’arte femminili o i programmi educativi femminili, ecc., si spera non saranno più necessarie. Per il momento, tuttavia, la discriminazione riconosciuta contro le donne pervade il mondo dell’arte internazionale in forme sottili e spesso crudeli”. Cosa pensi della recente attenzione al femminismo da parte del sistema dell’arte contemporanea? Ritieni che l’attuale rivalutazione e riscoperta delle donne artiste nel mercato corrisponderà anche a un aumento del loro valore economico?

NB: Inutile dire che è molto importante avere una piattaforma per le donne artiste dove mostrare il proprio lavoro. Negli ultimi anni queste esposizioni hanno ampliato un significativo discorso artistico presentando e introducendo nuove figure e soggettività femminili dentro il campo dell’arte e soprattutto un corpus di opere e lavori inediti. Molte di loro, che non avevano ancora ottenuto la legittimazione e il riconoscimento istituzionale e commerciale, alla fine sono state rappresentate in gallerie o mostre museali, il che ovviamente ha generato una forte accellerazione del loro valore economico.

Birgit Jürgenssen, Gladiatorin, 1980, fotografia in b/n, vintage, 23×17,5 cm, SAMMLUNG VERBUND, Vienna. Courtesy Galerie Hubert Winter, Vienna © Estate Birgit Jürgenssen,

«Birgit Jürgenssen non usa la maschera come macchina fotografica ma, al contrario, la macchina fotografica come maschera. L’apparecchio ottico che si immette fra l’osservato e l’osservatore. La macchina fotografica fa parte della competenza principale dell’artista e viene usata per riflettere e ironizzare su se stessa» hai commentato nel tuo saggio in catalogo. Il lavoro di Jürgenssen comprende un’incredibile e polimorfa varietà di media tra cui scultura, installazione, litografie, disegni, collage e fotografia. Come avete strutturato l’esposizione alla GAMeC che sarà spostata il 12 giugno al Louisiana Museum of Modern Art di Humlebæk in Danimarca?

NB: Questa esposizione cerca di presentare la ricerca artistica di Birgit Jürgenssen nella sua complessità. Jürgenssen ha fatto uso di «tutti i media disponibili». Ha iniziato a disegnare alla giovane età di otto anni e presto si è interessata anche alla fotografia analogica, che avrebbe continuato fino alla fine della sua carriera. «Tutti i media disponibili» comprendevano anche la pittura, varie tecniche fotografiche, sculture e installazioni, culminati nei «nuovi media» del video e della fotografia digitale. Non è possibile comprendere e, di conseguenza, né esporre l’opera complessiva di Birgit Jürgenssen in modo strettamente cronologico. Birgit pensava in termini di costellazioni e ha elaborato il suo lavoro come una rete organica. Certo, quando si tratta di una mostra, questo corrisponde a una certa difficoltà: come si può rendere giustizia all’artista, al suo lavoro e alla sua eredità? Come mostrare il percorso di una artista che ha prodotto nuovi lavori per ogni esposizione e non ha mai mostrato un’opera due o più volte?

Birgit Jürgenssen, Das Wachsen mit einem Baum / Crescere con un albero, 1977. Matita, matita colorata su carta fatta a mano Cm 45 x 62,4, Estate Birgit Jürgenssen. Courtesy Galerie Hubert Winter, Vienna © Estate Birgit Jürgenssen.

Durante i quattro decenni della sua attività, Birgit è sempre stata interessata a questioni/argomenti concreti. Per la sua retrospettiva, abbiamo cercato di strutturare ogni stanza attorno a una successione di aree focali tematiche, a interessi che rimangono visibili attraverso l’opera di Birgit Jürgenssen, o che hanno avuto un significato speciale e quindi un valore immanente. Come ho precisato nel mio saggio, il “pensiero selvaggio” di Jürgenssen e la “rete di relazioni materiali e astratte” da lei intessuta, il sistema di coordinate fatto di referenze, idee, tracce, risorse, ricorsi e anticipazioni, non sono da subito evidenti. Come spesso accade nell’opera dell’artsta, i differimenti semantici e le sovrapposizioni enigmatiche si dischiudono solo a un secondo sguardo. Birgit Jürgenssen era abile nel manipolare lo sguardo e la visione e riusciva con questo a sorprendere. Partendo da questo (ultimo) momento, la definizione del suo modo di lavorare e del suo pensiero emancipato aiutano a chiarire i suoi legami a ritroso, attraverso la sua opera, fino ai suoi primi lavori.

 

Natascha Burger è nata nel 1980 a Vienna, in Austria, dove vive e lavora. Ha studiato storia dell’arte a Vienna, Münster e Aix-en-Provence. È direttrice esecutiva dell’Estate Birgit Jürgenssen dal 2009 ed è direttrice della galleria Hubert Winter di Vienna. Responsabile dell’intero archivio, è impegnata come curatrice ed editrice la completa e onnicomprensiva retrospettiva Ich bin. / I Am. / Io sono. dedicata all’artista nelle seguenti tappe espositive: Kunsthalle Tübingen in Germania, GAMeC di Bergamo in Italia, Louisiana Museum of Modern Art in Danimarca.

Birgit Jürgenssen, Schuhmaske / Maschera-scarpa, 1976. Matita colorata su carta fatta a mano, lumeggiatura in bianco cm 52,5 x 39,5 SAMMLUNG VERBUND, Vienna. Courtesy Galerie Hubert Winter, Vienna © Estate Birgit Jürgenssen.

 

 

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *