Good kitchens and bad towns

di Simona La Neve.

«Le donne che una volta aspiravano a una carriera ora facevano carriera nell’avere figli» proclamava esultante la rivista Life, nel 1956, celebrando il ritorno delle donne americane al focolare domestico. Betty Friedan, La mistica della femminilità, 1963, p. 25.

 

«Una buona casa fa il buon lavoratore» questo era il famoso slogan della Industrial Housing Associates nel 1919. L’economia del Nord America e in particolare degli Stati Uniti durante gli anni ruggenti consolidava un certo positivismo verso il futuro. La casa suburbana rappresentava un mezzo utile e al contempo uno specchio della divisione sessuale del lavoro; il lavoro maschile stipendiato e il contenitore di merce (la casa) per quello femminile non pagato.

In quegli anni, su scala globale, la forza promotrice indirizzata verso la città diffusa, si riferiva alla casa come futuro focolare dei consumi di massa. Il problema dell’aggregazione urbana metteva le sue radici tramite spiccati interessi per il ruolo ancora acerbo, ma promettente, delle abitazioni.

Chi poteva meglio conoscere i segreti della casa e in particolare i suoi bisogni e i suoi prodotti?

Cindy Sherman, Untitled, Film Still 84′, 1978.

Il quartiere e la cucina sono le due scale di rappresentazione di cui la donna inizia a occuparsi a partire da Octavia Hill, leader del movimento britannico – gruppo di donne dedite alle indagini sul sovraffollamento negli isolati urbani – e trent’anni dopo, ai primi esperimenti di Margarete Schütte-Lihotzky con la cucina di Francoforte.

Helen Chadwick, In the Kitchen, 1977.

L’accettare che il posto della donna sia la casa, come ci ricorda la lezione di Silvia Federici[i], scandisce la vita stessa in progressivi step simili ad accordi taciti lunghi secoli.

Tra i loro compiti c’è il bucato familiare, accudire i figli, farli giocare, cucinare e servire i pasti, spolverare e pulire; sono in una posizione migliore degli uomini per capire quali tipi di strumenti possano facilitare il lavoro, e cosa invece lo ostacola o lo impedisce. [ii]

Questa capacità di accudire tipica del femminile era intrisa di un certo «lavoro d’amore» che cresceva tra consensi indiscutibili e una asimmetrica manipolazione dei ruoli capitalistici.

Iniziava così a strutturarsi quella che venne più chiaramente definita e interpretata come la «mistica del femminile» da Betty Friedan. [iii]

In altri termini tra fine Ottocento e inizio Novecento si definiva la figura commerciale della donna utile a declinare i così misteriosi segreti dell’abitare nella placenta dei futuri anni del consumismo domestico. L’influenza della donna nei settori professionali tipici del planning era ininfluente se non per sparuti casi, mentre faceva breccia il punto di vista femminile per tutta la sfera dell’housing. A conferma di tale questione si pone ad esempio lo sguardo sulla prima donna eletta al parlamento del Regno Unito, Nancy Astor, proprio nel 1919. Si potrebbe riflettere così sul ruolo della donna e del suo professionismo a partire da questi anni; tutrice della casa intesa come spazio primordiale della commercializzazione intellettuale della donna.

Birgit Jürgenssen Hausfrauen – Küchenschürze / Grembiule da cucina da casalinghe, 1975. Estate Birgit Jürgenssen. Courtesy Galerie Hubert Winter, Vienna © Estate Birgit Jürgenssen by SIAE 2019.

La premessa necessaria è quella degli spazi vuoti; la storiografia tradizionale ha difatti lasciato, o meglio dire, occultato sistematicamente, i contributi delle donne. Per questo molte ricercatrici contemporanee credono sia necessaria una ricostruzione di fatti e ricerche in grado di darci maggiori idee della storia dell’architettura e dell’urbanistica così come in tutti i campi professionali tipicamente maschili.

See Red Women’s Workshop Feminist Posters 1974-1990.

Il caso di Victoria Hill non è uno spazio vuoto ma piuttosto uno spazio ibrido; la sua posizione di filantropa ha rappresentato spesso il pretesto per un’omissione del suo operato dai manuali tecnici di storia dell’architettura e urbanistica. Nonostante sia nota la sua influenza in tali settori, l’allieva di J. Ruskin che dedicò la sua vita al miglioramento delle condizioni abitative delle classi popolari, viene ricordata principalmente per le sue azioni di benevolenza come innovatrice della pratica filantropica [iv] e per aver sostenuto la campagna per l’ottenimento del suffragio femminile in Inghilterra. Eppure, il suo attivismo include delle chiare visioni sul recupero architettonico del patrimonio esistente come concetto necessario, mirato a un restauro slegato dalla sola tutela del monumento. Per quell’epoca tali tendenze di pensiero, erano in larga misura assenti e in contrasto alle new town.

Octavia Hill – vicolo di case fatiscenti- fotografia fornita da Historical society of Pennsylvania.

Il suo sguardo si posava su intere aree urbane della Philadelphia di fine Ottocento; la Octavia Hill Association fu fondata nel 1898 per migliorare le condizioni abitative che risultavano prima di tutto carenti di reti idriche e delle minime forme di adeguatezza in termini di dignità e decoro. Il suo supporto fu incentrato sull’attivare piccoli capitali verso un vuoto amministrativo, di scarso interesse per l’epoca: quello del ripristino e recupero di alloggi operai fatiscenti. Il processo progettuale definito dalla Hill, degno di una manager contemporanea, consisteva nell’acquisto di case a schiera abbandonate, poi risistemate nei servizi principali per un riposizionamento degli alloggi nel mercato immobiliare affittuario. Il piccolo gruppo d’investitori forniva sicurezza sanitaria e istruiva gli affittuari a una certa autonomia di mantenimento del decoro. Lo spazio pubblico dei parchi e giardini, veniva pensato per estendere la vita privata familiare in quella pubblica, ciò grazie alle abilità e i saperi che le donne avevano sviluppato nella sfera domestica. Al contempo il lavoro si trasformava in un piccolo profitto, coniando la frase “filantropia e quattro percento” [v] seppur si riutilizzasse parte dell’introito, per la manutenzione degli stabili. Può quindi quest’azione considerarsi un’opera di accudimento o di maternità? A guardare il mercato contemporaneo della Octavia Hill Association la risposta è un secco “no”; trattasi più propriamente d’intelletto manageriale.

Octavia Hill – corte con nove piccole cose (retro)- fotografia fornita da Historical society of Pennsylvania.

Ma andiamo avanti.

I principi del primo OHA sono definitivamente germogli progettuali per la costruzione di città sensate:
• Rinnovare gli alloggi esistenti piuttosto che costruire nuove strutture.
• Costruire comunità acquistando gruppi di tre o più case a schiera.
• Installare l’impianto idraulico e lavare i servizi igienici.
• Creare semplici rivestimenti con pittura a intonaco senza tappeti e carta da parati [vi]

Questi principi che oggi possono sembrare al quanto scontati, nel 1898 erano invece addirittura avveniristici. A titolo indicativo, ad esempio, solo due decenni prima Parigi veniva sventrata dal barone Haussman portando avanti quelle azioni poi intese come moderniste e opposte alla conservazione. Se pensiamo, inoltre, ai decenni necessari ad acquisire e, non solo legiferare, principi utili ad una gestione sana degli habitat domestici del proletariato, sarà chiaro come la figura della filantropa Victoria Hill debba trovarsi su ogni manuale di storia dell’architettura e dell’urbanistica senza “se” e senza “ma”. Tra gli urbanisti più attivi all’epoca vi era Raymond Unwin che tra i suoi numerosi scritti illustrò il libro The Art of Building a Home del 1901[vii] e in collaborazione con R. B. Parker affrontava la tematica dell’architettura domestica riferendosi esclusivamente all’imperativo della costruzione. Non viene qui presa in considerazione la possibilità di recupero dell’esistente. Seppur fosse vera e imprescindibile la necessità di costruire maggiori abitazioni e quartieri operai è anche vero che il disinteresse ai temi del recupero e della conservazione metteva le sue radici in quegli anni tra i più alti ranghi del professionismo. D’altronde le teorie del restauro erano ancora preliminari e strettamente legate alla tutela dei monumenti dalle distruzioni. [viii]

Come sarebbe mutato il concetto di «costruire» se i principi di Victoria Hill avessero maggiormente influenzato quel mondo così interessato al «nuovo»?

Così, come una pianta infestante, le idee della filantropa, proseguirono con l’acquisto e conseguente ristrutturazione di case a Germantown, Kensington e Manayunk in Philadelphia.

Ethel Charles, Disegno per case a schiera, Falmouth, Cornovaglia, Inghilterra, 1906, Collezioni RIBA.

Ethel Charles (a sinistra), prima architetta registrata da RIBA-Royal Institute of British Architects.

È proprio in quegli anni che Ethel Charles venne registrata dal Royal Institute of British Architects (RIBA) come primo architetto di sesso femminile in Gran Bretagna. Ethel, come molte donne designer del periodo, non è stata in grado di ottenere commissioni per progetti su larga scala che continuavano a essere riservati agli uomini. [ix]

Non c’è da stupirsi, la città può aspettare, così come la donna che vivrà il suo clamore pubblico solo successivamente tramite la pubblicità maschilista in una scala di rappresentazione più accomodante e sicura: la cucina.

Grazia ed eleganza, bellezza e sottomissione erano gli elementi più appetibili per il nascente commercio dei prodotti tecnologici per la casa. Così si rammenta solo a titolo indicativo ma necessario, l’uso dell’estetica femminile nella pubblicità prima di manifesti e, poi nella televisione.

Lorenza Minoli (a cura di) Margarete Schütte-Lihotzky, Dalla cucina alla città, Immagine di copertina, F. Angeli, Milano, 1999.

Margarete Lihotzky, trent’anni dopo la fondazione OHA, nel 1926, viene chiamata dal Comune di Francoforte per occuparsi di razionalizzazione del lavoro in casa e di eventuali nuove tipologie residenziali. Le capacità domestiche professionali vengono ampiamente riconosciute e così Margarete Lihotzky riuscì a realizzare le prime cucine standardizzate che le serviranno a mettere a punto la famosa “Frankfurter Küche” (Cucina di Francoforte), archetipo delle odierne cucine componibili.

Womanhouse, The Nurturant Kitchen, Robin Weltsch, 1972.

Margarete Lihotzky diventa nel 1927 Margarete Schütte-Lihotzky e il cognome, forte della compresenza maschile del suo compagno architetto, assunse sempre più valore. Sarà lei personalmente a individuare quelle caratteristiche essenziali e ripetibili del funzionalismo domestico.

Fotografia storica pubblicata sulla rivista Das Werk, 1927. Collezione Schütte-Lihotzky Archive, University of Applied Arts, Vienna.

Prototipo della Frankfurter Küche di Margarete Schütte-Lihotzky, 1926.

Nel 1975 il New York Wages for Housework Committee pubblica un opuscolo rosso intitolato Counterplanning from the Kitchen, a cura di Silvia Federici e Nicole Cox. Si tratta di due articoli brevi: il primo, che dà il titolo al fascicolo omonimo, e l’altro intitolato “Capital and the Left”. Il libretto viene tradotto in italiano tre anni dopo, nel 1978.

 

Le origini della cucina di Francoforte

«Durante la seconda metà degli anni ’20 la città di Francoforte fu impegnata in un programma di costruzione completo. Innanzitutto, il mio compito è stato quello di considerare i principi di base coinvolti nella pianificazione e nella costruzione degli appartamenti per quanto riguarda la razionalizzazione dell’organizzazione domestica. Dove vivere, cucinare, mangiare e dormire? Queste sono le quattro funzioni di base che ogni appartamento deve includere. La funzione principale, che influenza in modo decisivo il layout, è l’atto del mangiare e del cucinare. La mia prima proposta, di costruire salotti e cucina/sala da pranzo combinate, è stata respinta per motivi di costo (…). Quindi abbiamo deciso per una singola unità, un progetto compatto e cioè una cucina completamente attrezzata separata dal soggiorno/sala da pranzo, grazie a un’ampia porta scorrevole. Considerammo la cucina come una sorta di laboratorio, che poiché ci si sarebbe dovuto passare tanto tempo, allora questo laboratorio doveva essere “casalingo”. Il tempo necessario per svolgere le varie funzioni era misurato usando un cronometro, come nel sistema di Taylor, per arrivare a un’organizzazione ottimale, ergonomica dello spazio. La compattezza della cucina non ha permesso l’uso dei mobili da cucina standard poiché richiedeva più spazio. Il risparmio economico derivante dalle dimensioni ridotte della cucina è rimasto significativo, tuttavia, la cucina di Francoforte ha offerto un doppio vantaggio sia per il minore lavoro degli occupanti che per i costi di costruzione inferiori. Solo discutendo in questi termini, è stato possibile persuadere il consiglio comunale di Francoforte ad accettare l’installazione delle cucine, con tutte le loro sofisticate funzioni di risparmio di lavoro. Il risultato fu che, dal 1926 al 1930, nessun appartamento comunale poteva essere costruito senza la cucina di Francoforte. In questo periodo furono costruiti circa 10.000 appartamenti con la cucina di Francoforte. I costi dell’intera unità furono aggiunti ai costi di costruzione e inclusi nell’affitto, una soluzione accettabile per gli inquilini perché così le cucine non dovevano più essere arredate. Su questa base finanziaria è diventato possibile produrre in serie la cucina di Francoforte, risparmiando un sacco di tempo e impegno a migliaia di donne e quindi a beneficio delle loro famiglie e della loro salute». [x]

Fotografia storica pubblicata sulla rivista Das Werk, 1927. Collezione Schütte-Lihotzky Archive, University of Applied Arts, Vienna.

Fotografia storica pubblicata sulla rivista Das Werk, 1927. Collezione Schütte-Lihotzky Archive, University of Applied Arts, Vienna.

Difatti, pianificare lo spazio delle cucine, per Lihotzky, era un sistema utile per occuparsi della pianificazione di città funzionali. Il progetto esecutivo era basato su un’attenta analisi preliminare della società, degna di un’urbanista illuminata. In Austria la rivista Das WERK, nel 1927, era profondamente distratta dalla mascolina costruzione di tunnel e altre opere ingegneristiche. Nonostante ciò si decise di pubblicare un’inserzione sulla cucina di Margarete Lihotzky quando ormai era indiscutibile il suo successo.

È curioso sapere che il ruolo dirigenziale che riuscì a coprire negli anni a seguire, sarà presto indirizzato verso la capacità di accudire tipica del femminile e perciò, intorno al 1945/46 dirigerà il Dipartimento delle Istituzioni per l’infanzia della Baudirektion Sofia.

Ulrike Rosenbach, Bonnets for a Married Woman, 1970, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.

Ulrike Rosenbach, Bonnets for a Married Woman, 1970, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.

La donna professionista per essere oggetto d’interesse pubblico e, cioè di merito e prestigio conclamato, doveva ancora fare i conti con la consequenzialità dell’esser capaci di crescere dei figli e portare avanti la casa. Ciò probabilmente poteva creare maggiore empatia con il pubblico femminile. Questi passaggi professionali sono rischi insiti ancora oggi nella naturale grazia ed eleganza della donna? Sarà possibile riempire quei vuoti storiografici che raccontano il professionismo della donna e le sue intuizioni?

Il difficile compito di pianificare il futuro delle città deve reggere su strutture solide di equità tra uomo e donna. Con questo si vuol intendere la necessità di una giusta rappresentazione della donna nella documentazione e divulgazione degli apparati che hanno costituito le società odierne.

Karin Mack, Bugeltraum [Iron Dream], 1975, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.

E se la donna, tanto quanto la città, deve ancora sgomitare per affermarsi, per far tuonare definitivamente una maggiore attenzione sui futuri da costruire, c’è da sperare che donne come quelle già citate si diano da fare e con maggior forza. In questo ambiente patinato e maschilista, le donne ricoprono un ruolo attivo nello sviluppo dell’architettura e dell’urbanistica soltanto da una generazione. La mostra del 2015 Urbanistas: Women Innovators in Architecture, Urban and Landscape Design, curata da Lucy Bullivant alla Roca London Gallery ci porta verso la migliore delle ipotesi. Irena Bauman, fondatrice dello studio Bauman Lyons Architects, Alison Brooks, di AWP Alessandra Cianchetta di AWP, Liza Fior e Katherine Clarke, fondatrici dello studio muf architecture e Johanna Gibbons, co-fondatrice di J&L Gibbons sono le protagoniste di una esposizione che racconta le città contemporanee e la visione futura. Lucy Bullivant, urbanista e curatatrice della mostra, seleziona i cinque migliori studi al femminile del Regno Unito per la loro capacità di sviluppare alcuni modelli di pianificazione che vanno dalla micro-scala e arrivano alla macro-scala. Ancora una volta la scala di rappresentazione pare essere una caratteristica da sottolineare parlando di donne. Possiamo oggi intendere il passaggio professionale – dalla cucina alla città – una fase di transizione conclusa? Quali rischi si corrono nell’accomodarsi nella visione ingenua della donna al pari dell’uomo? Quanta ricerca è ancora necessaria per far emergere i vuoti storiografici del professionismo femminile? Per rispondere a chi vede nella rinnovata sfera di progetti femministi una moda, userò le parole dell’architetta Alison Brooks «Soltanto quando tutte le cariche ad alto livello saranno ricoperte, senza alcuna distinzione di sorta, da uomini o donne, allora potremmo dire che il mondo, e le città, siano realmente cambiate». [xi]

 

* Il titolo è ripreso da articolo uscito sul Town and Country Planning nel settembre 1951.

Collettivo internazionale femminista, Le operaie della casa, Marsilio Editore, Venezia 1975.

Martha Rosler, Semiotics of the Kitchen, 1975.

 

note:

[i] Silvia Federici, Salario contro il lavoro domestico, a cura del Collettivo Femminista Napoletano, Comitato per il salario al lavoro domestico, Padova, 1976.

[ii] Woman’s Work in Municipalities, Appleton & Co., New York-London, 1915. Estratti e traduzione a cura di Fabrizio Bottini.

[iii] Betty Friedan, La mistica della femminilità, Castelvecchi, Roma, prima pubblicazione 1968.

[iv] Daphne Spain, Octavia Hill’s Philosophy of Housing Reform: From British Roots to American Soil, in “Journal of Planning History”, n. 5, 2006, pp. 106-125.

[v] The History of Octavia Hill Association, Inc., Editorial board of Octavia Hill Association, first Annual Report: January, 1897, http://octaviahill.com/index.php?option=com_content&view=article&id=58&Itemid=2, (consultato il gennaio 2018).

[vi] ivi.

[vii] Barry Parker e Raymond Unwin, The Art of a building a home. A collection of lectures and illustrations, Chorlton & Knowles, Mayfield Press, Manchster, 1901.

[viii] Nel 1886 un importante congresso tenutosi a Venezia riunì intorno a un tavolo architetti e ingegneri intorno a un tavolo per dibattere sui temi del restauro. Tra questi vi erano W. Morris e J. Ruskin.

[ix] “Celebrate an architecture pioneer – Ethel Mary Charles. Who was Ethel Mary Charles?” Royal Institute of British Architects, Editorial board RIBA Architecture.com, Updated 21 June 2018.

[x] Margarete Schütte-Lihotzky, Erinnerungen (Memories), dattiloscritto inedito, Vienna, documento pubblico del Museum für angewandte Kunst, 1980-90.

[xi] “Progettazione urbana al femminile. Come le donne stanno cambiando le nostre città”, Intervista a Irena Bauman, Alison Brooks, Alessandra Cianchetta, Liza Fior e Katherine Clarke, Liza Fior e Katherine Clarke, Redazione Casa&Clima.com, marzo 2015.

VALIE EXPORT, Die Putzmadonna / Die Putzfrau, 1976.

Siamo Tante, Siamo Donne, Siamo Stufe!, Collettivo Editoriale Femminista, 1975.

 

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