Are We Not Peasants Too? Ecofemminismo alla Second Yinchuan Biennale

«Per costruire un’alternativa al capitalismo dobbiamo “reincantare il mondo”, re-immaginare saperi e potenzialità umane distrutti dalla razionalizzazione del lavoro, questo non in vista di un impossibile ritorno al passato ma come il ponte verso una società dove i rapporti con gli altri e la natura sono una delle maggiori fonti della nostra ricchezza»: con queste parole Silvia Federici, nella traiettoria militante e teorica della sua ultima raccolta di saggi Reincantare il mondo[i], riconosce la centralità del lavoro riproduttivo nel processo di accumulazione originaria, sia nelle forme di conflitto che di resistenza, di cura collettiva e nuove relazioni sociali, dando una lettura femminista della politica dei commons che trova una inedita chiave analitica e un’angolatura specifica di interpretazione e riflessione nei percorsi di alcune delle artiste – alcune poco note in Occidente e non soltanto per motivi politici, geografici o generazionali – invitate da Marco Scotini a partecipare alla Seconda Biennale di Yinchuan, intitolata Starting from the Desert. Ecologies on the Edge. Senza assegnazioni all’ordine del discorso catastrofista ed economicista del capitalismo come regime ecologico, né alle retoriche mainstream dell’antropocene, che pure intercettano la crisi ambientale, non è tanto l’ecologia e i suoi registri ambientale, sociale e soggettivo, quanto la Nomadologia di Deleuze e Guattari ad essere costitutivamente il framework concettuale di questa Biennale, col tentativo di “scavare” i processi di conoscenza storici e socio-politici e interrogare le formazioni discorsive sepolte nel deserto, disattivarne le narrative e superarne i rapporti di potere, patriarcali e coloniali, per approdare a una diversa politica della natura, o meglio un’ecologia politica, fuori dai meccanismi di rappresentazione del sistema dell’arte, affermando quello che il curatore indica come un modello minoritario o new eco-model of exhibiting, il cui punto di osservazione è situato sul bordo occidentale della Cina.

«Ogni biennale è un micro-mondo temporaneo con i propri abitanti, i propri spazi, i propri modi di vita. Nel caso di questa biennale (e del suo mondo) mi piacerebbe che fossimo ricordati – se mai lo saremo – come ‘i nomadologi’», dichiarava Scotini alla cerimonia ufficiale di apertura dell’esposizione lo scorso 9 giugno al MOCA di Yinchuan[ii]. Ma non si può essere nomadi, si può solo diventare nomadi. Il pensiero non-lineare della nomadologia definisce nei termini del “divenire” i tre assi di posizionamento dell’alterità e delle politiche della differenza (femminismo, etnia, ambientalismo) per re-inventare il mondo o ricostruire, in un contro-paradigma ecologico di mostra, una soggettività minoritaria che ha una forza deterritorializzante, capace di riarticolare spazi e differenze – rispetto alla logica omogeneizzante ed egemonica del sistema espositivo contemporaneo e del circuito “maggioritario” delle biennali, con il loro potenziale valore d’uso come modelli governamentali all’interno un programma speculativo di costruzione capitalista. La minoranza indica una traiettoria: nulla avviene al centro, ma ai margini, alla periferia. Ma non sono tanto le affinità tra nomadologia e femminismo a interessarci (attraversate in differenti posture analitiche da Haraway, Braidotti), quanto la questione dell’ecofemminismo, già a partire dalla sua formulazione negli anni ’70, i commons e il diritto delle donne alla terra, il rapporto dentro al mondo agricolo intrecciando segmenti temporali in cui il sistema rurale si è appropriato di istanze radicali avviando un percorso emancipativo, seguendo i concatenamenti individuati da Scotini con una investigazione archeologica e a partire profonda conoscenza del background socio-culturale e contestuale di questa affascinante quanto remota regione del nord-ovest della Cina, in cui mondo rurale e nomade s’incontrano. Nelle opere commissionate dalla Biennale o ripensate per gli spazi del MOCA da straordinarie artiste e attiviste – alcune come Sheba Chhachhi e Navjot Altaf legate al movimento femminista indiano di matrice marxista, o Salima Hashmi e il Women’s Action Forum in Pakistan o l’indonesiana Arahmaiani Feisal – ritornano le lotte per i diritti delle donne e la giustizia sociale; la casa di fango dei contadini dell’architetto slovena Marjetica Potrč ci riporta alla terra, la forza-lavoro delle donne e la loro invisibilità secolare; seguendo fenomenologie difformi nello spazio e nel tempo, la centralità della riproduzione diventa riorganizzazione collettiva (attraverso forme più solidali e comunitarie di riproduzione), il lavoro gratuito della natura, e la coercizione dei suoi meccanismi di estrazione, è equiparato con quello non retribuito della donna (e riscattato come nel caso di Tina Modotti e Pandurang Khankoje) dentro la storia del passato. Cosa può imparare il femminismo dall’arte e dalla vita di queste artiste incontrate a Yinchuan?

Sheba Chhachhi, Seven Lives and a Dream, 1990–91; Shardabehn – Public testimony, Police Station, Delhi 1988, stampata nel 2014.

Quello che è stato definito come femminismo ecologico o ecofemminismo è un’area di studio accademica che riguarda l’indagine e la comprensione della relazione interconnessa tra la dominazione delle donne e la dominazione della natura. La filosofia politica ecofemminista ritiene che le forme di oppressione, espropriazione e sfruttamento tra le donne e la natura siano profondamente collegate “concettualmente, storicamente, materialmente ma non essenzialmente” (Mallory 2010, 309)[iii].

Lo stesso Jason Moore ha recentemente ripensato una rilettura del femminismo della riproduzione sociale in chiave ecologica, attraverso il filtro lavoro-natura (rispetto alle disquisizioni antropocentriche) nella messa al lavoro delle nature non umane: il Capitalocene è, difatti, strutturalmente patriarcale e sessista e costruisce accumulazione espropriando, da una storia secolare, il lavoro delle donne e il lavoro della natura[iv].

Il cosiddetto ecofemminismo del “terzo mondo” (Shoba, 2013) o “ecofemminismo indiano” ha il suo riferimento teorico nel testo più conosciuto di Vandana Shiva, Staying Alive: Women, Ecology and Survival in India (1988) per la quale il rapporto tra donne e natura sarebbe biologicamente necessario perché la sottomissione del “principio femminile” (detto anche Shakti o Prakriti) che è la “forza vivente che sostiene la vita” sarebbe indispensabile per “gettare le basi per il recupero del principio femminile nella natura e nella società”, senza però tenere conto delle strutture patriarcali dentro lo spiritualismo induista e ritenendo che il degrado ambientale indiano sia anche responsabilità del mondo capitalista e patriarcale occidentale.

Il “punto di vista essenzialista” di Shiva è stato fortemente respinto dall’economista Bina Agarwal come una forma di “ecofemminismo culturale” che avrebbe fornito una versione romantica del ruolo delle donne e il loro rapporto con l’ambiente, determinato invece sulla base della classe e della casta piuttosto che qualsiasi connessione necessaria o biologica; ignorando così i profondi squilibri e le disuguaglianze preesistenti come “genere, casta, classe, strutture di potere, privilegi e relazioni di proprietà” che hanno contribuito all’imposizione degli attuali sistemi di dominazione. Quello che Bina Agarwal ha indicato come una forma intersezionale di ecofemminismo definendolo “ambientalismo femminista”, a partire dai suoi scritti sul diritto alla terra e alla proprietà delle donne, nelle aree rurali e povere dell’India e del Sud del mondo, era anche derivato dalla necessità di migliorare le condizioni di vita e assegnare alle donne subordinate e marginalizzate un empowerment sociale.

Sheba Chhachhi, Seven Lives and a Dream, 1990–91; Devikripa – Sit-in, Family Planning Centre, Nandnagari, Delhi 1988, stampata nel 2014.

Già le teorie femministe hanno affrontato la questione dell’intersezionalità come attitudine critica prima ancora di definirla [Kimberlé Crenshaw, 1989 e 1991], a cominciare dalle prime rivendicazioni del Black feminism che mettevano in discussione il “falso universalismo del femminismo occidentale” con la sua visione monolitica ed essenzialista della «donna» (bianca, di classe media, eterosessuale):

“Il termine «intersezionalità» copre oggi, all’interno degli studi femministi, un doppio campo semantico. Da una parte esso indica il tentativo di mettere a tema la questione della posizione dei soggetti all’interno dei sistemi di potere e di dominio in quanto continuamente definita e ridefinita da molteplici assi di differenziazione: di «sesso», «razza», classe, identità, scelta o orientamento sessuale, religione, età… Contemporaneamente con questo termine ci si riferisce anche ad uno specifico approccio teorico nato dal tentativo di superare i limiti di un’analisi centrata sull’asse prioritario della differenza di genere (cfr. sesso/genere) in cui il sessismo viene considerato come isolato e/o disgiunto da altri rapporti di dominio (razzismo, classismo, eterosessismo…)[v].

 

Sheba Chhachhi e i “teatri del sé” [We must pledge to continue her struggle as it is not over still…]

Sheba Chhachhi, Seven Lives and a Dream, 1990–91; Radha – Staged Portrait, Anandlok, Delhi 1991, stampata nel 2014.

«Il femminismo è il riconoscimento della natura strutturale della subordinazione delle donne e un tentativo proattivo di cambiarla» (Sheba Chhachhi).

«L’ecologia è una questione femminista. Io vedo questi due interessi (ecologia e femminismo) intrecciati, per me il femminismo è una filosofia politica – un modo di pensare e di essere che rifiuta la separazione o la gerarchia tra personale e politico, natura e cultura, corpo e mente, sessualità e spiritualità, umano e non umano – al centro dei valori ecologici» (Sheba Chhachhi).

Nel 1984 Sheba Chhachhi [nata nel 1958 a Harar in Ethiopia, vive a New Delhi, India] ha co-fondato, dentro al movimento delle donne in India, una società non-registrata chiamata Jagori che funzionava come uno “spazio creativo” destinato alle donne per esprimere le loro realtà, “per articolare la personale e collettiva esperienza di oppressione, per riconoscerla e trovare il modo di combatterla”. Descritto come “Women’s Resource and Training Centre” Jagori era un’associazione femminista che aveva la finalità di “diffondere la coscienza femminista per la creazione di una società più giusta”. Durante questo periodo Sheba, artista, fotografa e attivista, ha iniziato a scattare foto di documentazione durante le manifestazioni di protesta del nascente movimento per i diritti delle donne nato in seguito alle massicce mobilitazioni antiviolenza avvenute agli inizi degli anni ’80 per un feroce caso di stupro a Delhi nel 1978. La sorella dell’artista era tra le fondatrici di un gruppo di militanti attiviste che aveva aperto la strada del movimento femminista in India, così fu coinvolta sia come attivista che come cronista. Le immagini di Chhachhi divennero ben presto una forte documentazione antagonista per veicolare le istanze di lotta e furono usate per manifesti e pubblicazioni per protestare contro il “sistema della dote”, poi circolavano nel contesto del teatro di strada e le animazioni di propaganda, nei centri comunitari o in altre organizzazioni sociali, venivano anche usate nelle celebrazioni per la festa delle donne, etc., sempre sospese, come dichiarò l’artista stessa, tra “la rappresentazione della politica e la politica della rappresentazione”.

Sheba Chhacchi, Record Resist #II, veduta dell’esposizione, Second Yinchuan Biennale, 2018.

Sheba Chhachhi, Seven Lives and a Dream, 1990–91, exhibition view, Second Yinchuan Biennale, 2018.

Alla Seconda Biennale di Yinchuan Sheba Chhachhi espone un display photo-based a partire dalla serie Seven Lives and a Dream (1980-91), una selezione dei bellissimi ritratti delle donne attiviste che invita a “performare sé stesse”, esibirsi oltrepassando i confini di classe e le dinamiche di potere implicate nella rappresentazione, creando un campo intersoggettivo, uno spazio di soggettività condivise [vi]. Chhachhi definisce questo ciclo di opere come il suo “spostamento verso l’arte”:

«La differenza tra le fotografie degli anni ’80 e gli staged portraits dei primi anni ’90 non è affatto che alcune sono attiviste e le altre non lo sono. La differenza è tra le immagini documentarie e i ritratti staged/constructed, ma entrambe sono attiviste femministe. Come fotografa documentaria e attivista, ho seguito il movimento delle donne attraverso gli anni ’80, puntando la camera un istante, scattando lo slogan quello successivo. […] Dopo 10 anni di creazioni di immagini che interrogavano rappresentazioni di donne stereotipiche, ho realizzato che le mie immagini di militanti, di donne che combattevano, si erano semplicemente trasformate in un cliché. Diventava allora necessario trovare un modo per creare ritratti che si allontanasse dalla registrazione coloniale dei “natives” inconsciamente riprodotti in una pratica di documentazione post-coloniale, verso una rappresentazione meno convenzionale di “citizens”. Nel 1990 ho invitato sette donne attiviste – amiche, sorelle e compagne di viaggio – a cooperare insieme per sviluppare una serie di collaborative staged portraits. Ogni donna ha scelto un luogo, una postura, insieme ai materiali e gli oggetti che potevano raccontare la propria storia. Il processo di sviluppo di questo “theatres of the self” è stato complesso e a lungo pensato e progettato attraverso un’intensa e intima interazione durata anche alcuni mesi» [vii].

Sheba Chhachhi, Seven Lives and a Dream, 1990–91; Shanti – Staged Portrait, Dakshinpuri, Delhi 1991, stampata nel 2014.

L’invito inizialmente era stato esteso a otto donne, ma solo sette hanno partecipato, e la parola “sogno” nel titolo si riferisce sia all’assenza dell’ottava donna, ma soprattutto alla loro lotta collettiva per l’emancipazione. Sono indicati solo i nomi delle attiviste come rifiuto femminista di uno dei simboli del patriarcato, ossia il cognome del marito.

Sheba Chhachhi, Seven Lives and a Dream, 1990–91; Urvashi – Staged Portrait, Gulmohar Park, Delhi 1990, printed 2014

Le location coinvolgono diversi siti a Delhi: Sharada si trova su un autobus, Satyarani porta con sé la foto della figlia, uccisa per la dote e si mette in posa in casa ma poi sceglie le scalinate della Corte Suprema di Giustizia dell’India, Devi la sua abitazione in una colonia di reinsediamento. Urvashi si fa ritrarre con la sua collezione di macchine da scrivere nella stanza degli ospiti. Apa con una piccola capanna meticolosamente ricavata da una scatola da scarpe “La mia storia è una baraccopoli”. Shanti con ai piedi un’ascia, grano sparso sul pavimento e il suo diario aperto. Radha è ripresa nella sua casa, circondata dai libri e da tutta la sua letteratura femminista, indossando calzature antisommossa sotto il suo saree.

L’auto-rappresentazione del proprio corpo e le politiche identitarie, il potere dello sguardo e il suo regime di visibilità, l’empowerment derivato dall’atto stesso di rappresentazione nei modelli di organizzazione femminista e l’esercizio creativo delle immagini restano delle questioni centrali che interessano le politiche di produzione di genere, i cui dispositivi di dominio si esercitano principalmente attraverso il visivo.

Sheba Chhachhi, Seven Lives and a Dream, 1990–91; Sathyarani – Anti Dowry Demonstration, Delhi 1980, stampata nel 2014.

Sheba Chhachhi, Seven Lives and a Dream, 1990–91; Sathyarani – Staged Portrait, Supreme Court, Delhi 1990, stampata nel 2014.

 

Arahmaiani – Each rat struggling to reach the top of the social pyramid [viii]

Arahmaiani, Nation for Sale, performance, 1996, Courtesy of the artist and Tyler Rollins Fine Art.

«Essere femministe significa affrontare sfide tremende da parte dei conservatori e dei fondamentalisti. Il conflitto accade perché i conservatori religiosi e i fondamentalisti non vogliono perdere la legittimità del loro potere! E la seconda sfida è l’impatto della globalizzazione, in cui la donna e il suo corpo tendono a essere sfruttati. Il corpo femminile può essere comprato e venduto in un mercato del lavoro a basso costo. Le autorità e i responsabili delle decisioni economiche globali spesso stanno dalla parte dei conservatori e dei fondamentalisti nel loro atteggiamento verso quei gruppi sociali che sono deboli» (Arahmaiani).

«Le artiste donne si trovano in un piccolo cerchio al di fuori del’establishment. La loro posizione non è considerata uguale agli artisti maschi che tendono ad essere più potenti e a conoscere le regole del gioco. Anche se questa è un’epoca dove le donne hanno il permesso di giocare, devono seguire però, in questo caso, le regole prescritte dal “maestro” che monopolizza il gioco, ed è sempre l’elemento maschile. Se la donna parla dalla propria prospettiva femminile (ad esempio rivelando cose che dovrebbero rimanere nascoste) viene considerata sfrontata perché ha trasgredito i tabù» (Arahmaiani).

Arahmaiani, Lingga-Yoni, 2013, acrylic and rice paper on canvas, 63 x 55 in. (160 x 140 cm). Courtesy of the artist and Tyler Rollins Fine Art.

“L’Indonesia ha attraversato una crisi profonda, multidimensionale in termini politici, economici, sociali e culturali in questi ultimi anni. E il miglioramento, se c’è stato, è stato molto lento. Ci sono più di 35 milioni di nuovi impiegati che lavorano per sopravvivere [sic]. Le persone stanno soffrendo, eppure stanno ancora lottando […] Nelle mie performance voglio affrontare questo complesso problema relativo alla violenza che si fonde con il militarismo, il genocidio, la violenza sessuale, l’abuso dei deboli e l’anarchia, in generale. Non so quanto sarà efficace questo tipo di lavoro e di azione. Ma so che devo fare e dire qualcosa al riguardo” (Arahmaiani).

La ricerca e la vita di Arahmaiani Feisal [nata nel 1961 a Bandung, vive a Yogyakarta, Indonesia] – indubbiamente tra le più celebri artiste indonesiane, lavora prevalentemente con la performance e spesso è conosciuta nel circuito internazionale artistico di festival e biennali come la sola donna artista rappresentante il suo paese – inducono ad affrontare il genere, il sesso e la politica riproduttiva come i parametri fondamentali della critica al biopotere, insieme alla marginalità della subordinazione femminile nella società profondamente patriarcale indonesiana. Nel 2007 ha partecipato alla mostra Global Feminism al Brooklyn Museum di New York. Tra i temi maggiormente connessi con la sua ricerca il genere e la religione, la sessualità e i tabù sociali, l’oppressione e l’asservimento delle donne, l’ingiustizia sociale e la critica al capitalismo.

«La religione, storicamente e oggi, è la struttura generale che sostiene il dominio patriarcale come realtà materiale e ideologica di sottomissione delle donne. […] Il capitale istituisce forme di governance che sono biopolitiche, organizzando la partecipazione alle religioni come tecniche per raggiungere le sottomissioni dei corpi e il controllo delle popolazioni […]»; questa interessante lettura del lavoro di Arahmaiani da parte di Angela Dimitrakaki [ix] coglie con efficacia gli interventi egemonici e le coercizioni della religione e della sessualità quando è un soggetto femminista che parla – quello dell’artista.

Arahmaiani, Offerings-from-A-Z, performance, 1997.

L’impegno di Arahmaiani con la “politica della visibilità” (Peggy Phelan, Unmarked: the Politics of performance, 1993) diventa un mezzo del suo lavoro per dare risonanza a una comunità sottorappresentata, a una minoranza, come nella performance Offering from A to Z (1996) suddivisa in più capitoli e ambientata in un crematorio buddista, in cui dispone una fila di armi militari intervallate con piatti bianchi tracciando un sentiero che conduce al tempio. Si copre con un lenzuolo sporco di sangue che simboleggia le vittime della violenza e della brutalità militare del paese. Poi si distende su un altare di pietra usato per i cadaveri circondato da immagini pornografiche, che in seguito brucerà in un rituale di purificazione.

Arahmaiani, Offerings-from-A-Z, performance, 1997.

Il lavoro è ispirato a un dato biografico, l’arresto dell’artista, ma anche a questioni che toccano il corpo femminile che nelle religioni e nella cultura è considerato fonte di fertilità ma anche qualcosa di impuro, infatti in quel periodo del mese non è permesso alle donne di entrare in luoghi sacri. O ancora prima Etalase (Display Case) del 1994, una vetrina che conteneva vari oggetti tra cui una piccola statua di Budda, una bottiglietta di Coca-Cola, il Corano e una confezione di preservativi, la cui associazione considerata blasfema provocò dure reazioni e minacce di morte da parte di fondamentalisti islamici così che fu costretta a fuggire dall’Indonesia. La sua ricerca, vicina al movimento delle donne in Indonesia, non è certamente ascrivibile alle categorie del femminismo Occidentale, troppo preoccupato per l’indipendenza e l’auto-affermazione individuale e per le lotte per la liberazione sessuale, rispetto allo stato di disuguaglianza e drammatica iniquità del ‘sud del mondo’, risultato del colonialismo e di uno squilibrato processo di modernizzazione capitalista, ma certamente Arahmaiani è profondamente vicina alle posizioni del femminismo marxista: la lotta per la liberazione della donna non può che essere una lotta di classe.

A Yinchuan abbiamo assistito a Memory of Nature una delle performance più intense e coinvolgenti della Biennale, insieme al musicista sperimentale Wukir Suryadi [nato nel 1977 a Malang, vive a Yogyakarta, Indonesia] – entrambi membri del Rendra’s Bengkel theatre, il primo gruppo teatrale che negli anni ’70 si era ribellato contro il governo militare, attraverso esibizioni in spazi pubblici e dell’arte- che rientra in un ciclo di lavori realizzati in seguito a una lunga permanenza in un monastero in Tibet, dove tutt’ora è attivista con una comunità di monaci:

«quando ho iniziato il progetto con i monaci tibetani, ero in un momento in cui ero piena di dubbi sul mio approccio alle questioni socio-politiche, in Indonesia e nel mondo. Perché dopo più di 20 anni, non abbiamo davvero visto il risultato del nostro lavoro. Avevamo impiegato così tanto tempo ed energie per nulla, e in realtà vedere quanta distruzione ci sia ancora oggi nel mondo mi aveva resa depressa. Così ho iniziato a concentrarmi sui miei dipinti grigi, perché riguardavano più la mia realtà interiore, le mie delusioni o la mia felicità. Erano individuali piuttosto che sociali. Ma poi ho incontrato i monaci e i lama tibetani e qualcosa si è aperto. Ho visto un altro modo di pensare ai problemi. Mi hanno dato un rinnovato senso di speranza, scopo e possibilità»[x].

L’artista crea e distrugge un mandala di Borobudur, realizzato con un processo che ha richiesto diversi giorni di preparazione, utilizzando elementi naturali e vegetali – insoliti nei mandala tradizionali – in cui le piante vengono coltivate con infinita cura e annaffiate, fino a che il mandala si ricopre di germogli verdi; Arahmaiani si esibisce con una bandiera e danza intorno al mandala mentre di Wukir la accompagna con uno dei suoi strumenti auto-prodotti, questa volta costruito da un aratro generando una potente e ipnotica composizione sonora.

Wukir Suryadi, particolare dell’installazione Memory of Nature, strumento musicale, Second Yinchuan Biennale, 2018.

Arahmaiani e Wukir Suryadi, Memory of Nature, veduta del mandala, Second Yinchuan Biennale, 20018.

Arahmaiani e Wukir Suryadi, Memory of Nature, performance alla Second Yinchuan Biennale, 2018.

Arahmaiani e Wukir Suryadi, Memory of Nature, performance alla Second Yinchuan Biennale, 2018.

 

Navjot Altaf – Why political struggle is a process, not an event…

Artists Navjot, Altaf Mohamedi (whom she later married), and Shobha, during the making of a mural for Dawoodbhoy Fazalbhoy High School, Mumbai, 1972.

«Ho incontrato per la prima volta Altaf nel 1970 durante la sua esposizione sul marciapiede fuori dalla Jehangir Art Gallery. La Pavement Gallery è stata avviata da un artista chiamato Nelson. Più tardi, è venuto alla JJ School of Art, dove ero studentessa, per tenere un discorso sulle gallerie d’arte private e pubbliche, la differenza tra le due, e il loro funzionamento. E la discussione si è spostata sulle istituzioni artistiche esistenti, sui programmi di educazione artistica originariamente progettati sul modello inglese e sulla necessità di istituzioni alternative. Gli studenti, me inclusa, hanno posto alcune domande e questo incontro ha attivato l’immaginazione politica di alcuni di noi che credevano nel cambiamento, anche se in quel momento non si sapeva quale potesse essere la svolta»[xi].

«Mi sono iscritta a PROYOM nel 1972. La siccità e la carestia stavano imperversando nei distretti di Ahmednagar e Osmanabad nel Maharashtra (uno stato nell’India Occidentale). Come membri del PROYOM, abbiamo raccolto denaro in città e ci siamo alternati a viaggiare fino ad Ahmednagar una volta a settimana per sostenere gli studenti delle famiglie dei contadini duramente colpiti. Suppongo che il nostro lavoro con PROYOM sia stato condizionato da problemi ambientali senza che noi ne fossimo realmente consapevoli»[xii].

Navjot Altaf and Altaf Mohamedi in the 70s.

Dalla fine degli anni ‘60 l’artista e attivista indiana Navjot Altaf [nata nel 1949 a Meerut, vive e lavora a Mumbai e Bastar, India] insieme all’artista Mohamedi Altaf, compagno di vita e di lotte (che era stato studente a Londra e aveva conosciuto movimenti di contro-cultura e agit-prop che avevano luogo nei laboratori di stampa radicale diffusi in quegli anni negli ambienti antagonisti), aderirono al gruppo chiamato PROYOM (Progressive Youth Movement), una struttura politica – che comprendeva studenti e docenti di college e università di Bombay, sociologi ed economisti, giornalisti, cineasti e alcuni artisti visivi –  influenzata dalla teoria marxista e affiliata al CPI (ML), il Partito comunista indiano (di orientamento marxista-leninista) fondata nel 1967 in seguito a una “rivolta contadina militante”, contro i proprietari terrieri “nemici di classe”, che aveva assunto le dimensioni di un’insurrezione di massa preparata a Naxalbari, un villaggio nel nord del Bengala Occidentale. Altaf era anche coinvolto con il Matunga Labour Camp, sempre attraverso PROYOM nei primi anni ‘70, un altra formazione comunista con sede a Mumbai che funzionava come una comunità di artisti di sinistra, impegnati nel cambiamento sociale e l’agitazione politica, che realizzavano poster, manifesti e opere in esposizioni pop-up ospitate temporaneamente in college, fabbriche, sale sindacali o luoghi fuori dalle istituzioni artistiche.

“La fondazione comunista di PROYOM ha anche focalizzato la nostra attenzione sulla guerra del Vietnam. Ha radicalizzato la nostra comprensione delle lotte contadine in tutto il mondo: Africa, America Latina, Cina”[xiii]. L’idea era di usare l’arte e la cultura per far emergere una coscienza critica e rivoluzionaria e diventare politicamente efficaci; l’arte, afferma Navjot era strumentalizzata: PROYOM wanted to instrumentalize art. “Ma Navjot Altaf e Altaf Mohamedi discutevano teoricamente con gli altri membri di PROYOM anche per espandere il modo in cui l’arte poteva funzionare dentro la politica” – aggiunge la curatrice indiana Zasha Colah, del team curatoriale che ha seguito le ricerche della Biennale.

Navjot Altaf, Poster showing armed resistance, for PROYOM, 1974-74.

Navjot ha attraversato tre fasi principali nella sua produzione artistica tra gli anni ‘70 e gli anni ’90: dai dipinti ad olio dal 1972 al 1974, con cui tenta di formulare una critica marxista del capitale e delle strutture di potere, contro il semi-feudalesimo e il colonialismo imperialista, la realizzazione di disegni a penna e inchiostro fino al 1983, seguita da un’esplorazione di acquarelli e acrilici che continuò fino alla metà degli anni ’90[xiv]. Dopo il 1998, si trasferì da Mumbai a Kondagaon nella regione di Bastar (Chhattisgarh), nell’India centrale e da allora ha avviato progetti collaborativi di ricerca su questioni di genere, sociali ed ecologiche.

Navjot Ataf, Soul, Breath, Wind, 2018, Second Yinchuan Biennale.

“I am not poor. I am forced to feel poor”: dice un personaggio intervistato nella video-installazione documentaria con proiezione multi-canale esposta alla Biennale di Yinchuan e intitolata Soul, Breath, Wind che è anche un’indagine politica sul cambiamento ambientale antropogenico. Nello stato di Chhattisgart infatti – che occupa una parte consistente del “corridoio rosso” dei maoisti indiani – il territorio è ricco di enormi quantità di risorse naturali, uniche in India – ferro, stagno, uranio, bauxite, ma soprattutto carbone (un quinto di tutte le riserve indiane) e i nativi aborigeni, gli Ādivāsī, ossia gli “abitanti originari” sono principalmente poveri agricoltori che vivono in piccoli villaggi di fango, organizzati in una millenaria struttura sociale di tipo matriarcale e in cui l’autorità più importante è ancora lo sciamano, e vivono in una profonda e viscerale connessione con la terra, la foresta e l’acqua. L’appropriazione e lo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie e naturali, come l’impatto devastante della macchina estrattiva capitalista su questi territori hanno distrutto l’ecosistema e la biodiversità, generando conflitti, dominazione e violenza. Navjot dà voce alla resistenza della comunità locale nel rivendicare i propri diritti decisionali sull’estrazione dei giacimenti di carbone, perun ritorno all’agricoltura e le risorse rinnovabili; il documentario riflette la quotidianità e le lotte contro l’accettazione forzata, gli incubi e i riti ancestrali, la storia e l’eredità culturale di questi “lavoratori senza terra”.

Navjot Ataf, Soul, Breath, Wind, 2018, Second Yinchuan Biennale.

Navjot Ataf, Soul, Breath, Wind, 2018, Second Yinchuan Biennale.

Nel 2000 Navjot ha anche istituito un artist-run centre insieme a 3 artisti adivasi di Bastar. In Biennale, una di queste, Shantibai Vishwakarma (nata nel 1960 a Bastar dove vive) presenta una khamba, ossia una colonna di legno, intagliata dagli agricoltori adivasi, con una narrazione istoriata dedicata alla memoria di Sonia’s Rape, che racconta il brutale stupro di una giovane donna di un villaggio maoista da parte della polizia e le minacce di un’altra violenza nel caso avesse sporto denuncia. Simmetricamente, l’altra colonna in mostra di Rajkumar Korram (nato nel 1972 a Bastar dove vive) ricorda la repressione dei contadini di un villaggio ricco di acque che si rifiutavano di vendere la loro terra.

veduta del lavoro di Navjot Altaf sullo sfondo, in uno spazio condiviso con gli artisti di Bastar, Shantibai Vishwakarma e Rajkumar Korram, nello stile del khambas (colonna memoriale) realizzate da agricoltori adivasi (indigeni), Second Yinchuan Biennale, 2018.

 

Salima Hashmi – We, the women artists of Pakistan, having noted with concern the decline in the status and conditions of life in Pakistani women

Sit-in against the Law of Evidence at Hall Road, Lahore. 12th February, 1983. Photographer: LalaRukh.

«Noi invitiamo le donne impegnate in qualsiasi campo creativo in Pakistan a restare unite per la causa dell’emancipazione delle donne non solo da tutti i vincoli, perpetrati nel nome della legge e della morale, ma anche di tutte le forme di pregiudizio, superstizione e non.

[…]

Noi chiediamo a tutte le donne artiste di prendere il loro posto nell’avanguardia della lotta delle donne pakistane per mantenere la loro immagine incontaminata e il loro giusto posto nella società. In modo che possiamo sostituire nella vita della nostra gente la disperazione con speranza, la brutalità con comprensione, l’oscurità con la luce e l’anarchia con la cultura, e lasciare al mondo un posto più felice, più bello e più pacifico di quello che abbiamo trovato» [xv].

All’inizio del 1983 il Pakistan fu scioccato dal modo brutale con cui le autorità avevano represso una piccola manifestazione avvenuta il 12 febbraio per protestare contro l’introduzione di una legge che, nelle sentenze dei tribunali, assegnava alle donne metà del valore legale della loro testimonianza rispetto agli uomini. L’accaduto aveva portato l’attenzione dell’opinione pubblica sullo spaventoso trattamento delle donne e delle minoranze, progressivamente peggiorato dopo il colpo di stato del generale Muhammad Zia-ul-Haq nel 1977. Così nel 1983 un gruppo di quindici donne artiste si è riunito a Lahore nella casa dell’artista e scrittrice femminista Salima Hashmi [nata nel 1942 a New Delhi, vive a Lahore in Pakistan], per la stesura del Women Artists of Pakistan Manifesto.

Aitzaz Ahsan being Lathi charged on Mall Road, Lahore. 12th February, 1983. Photographer: Azhar Jaffery

Baton charge on protestors at Hall Road, Lahore. 12th February, 1983. Photographer: Azhar Jaffery.

Il manifesto era una protesta contro la pervasiva misoginia e contro l’oppressione e la sotomissione che le donne avevano sopportato. Con questa dimostrazione per la prima volta le artiste identificavano apertamente il loro lavoro con la lotta politica per l’emancipazione femminile, impiegandola per criticare le politiche del governo e sovvertire i comportamenti sociali tradizionali. A causa delle circostanze politiche del tempo, il manifesto non fu mai reso pubblico. Ma come ha dichiarato Salima Hashmi, semplicemente l’azione di mettere i loro nomi sul giornale ha permesso alle donne di dichiarare la loro arte contro il patriarcato e la misoginia. Consapevole del clima politico pakistano, la scrittura di Salima Hashmi dà uguale peso all’agenda femminista, alle questioni estetiche e all’eredità del transnazionalismo, indaga la situazione sociale, le leggi autoritarie e vessatorie, non solo contro il genere ma contro le minoranze, supportando attraverso l’arte la lotta delle donne e l’ottenimento della democrazia.

 

Salima Hashmi, Shaam, 22.5 x 30 inches mix media on paper, 2015.

Salima Hashmi, A poem for Zainab, 1995, courtesy the artist.

 

Tina Modotti – My sister in arms to Mexico’s revolutionaries

Tina Modotti, president of the National League of Agrarian Communities with his harvest used for seed selection, Chiconcuac, Mexico 1928. Section Labor-in-Nature and Nature-in-Labor, Second Yinchuan Biennale, 2018.

La fotografa Tina Modotti [nata nel 1896 a Udine, morta a Città del Messico nel 1942] è stata un’attivista politica rivoluzionaria fortemente impegnata nell’Internazionale Comunista (Comintern). Se la sua straordinaria storia biografica e il retaggio artistico della sua opera, sono stati in qualche modo romanzati e idealizzati, la traiettoria politica e militante, del suo intenso percorso di arte e vita, è stata radicalizzata da un attivismo che riguardava la decolonizzazione, la messa in questione dell’imperialismo e il suo impegno nei confronti di vari movimenti politici per la giustizia sociale, in prima linea dentro al fronte della resistenza antifascista. La sua ricerca fotografica, inizialmente implicata con l’aspetto documentario della fotografia, si allontana dal discorso oggettivo e dal rigore formale della neutralità modernista, influenzata dal primo compagno Edward Weston, cui aggiunge sin da subito la propria prospettiva politica e sociale, assumendo la stessa evidenza storica della classe lavoratrice così come rivendicata dal Partito comunista messicano attraverso la rivoluzione. Negli anni Venti, Tina Modotti incontra a Città del Messico il rivoluzionario indiano in esilio, combattente per la libertà e agronomo Pandurang Khankhoje e il leggendario muralista Diego Rivera: tre amici e compagni di sinistra i cui ideali convergevano intorno al mais, all’agricoltura e alla lotta sociale.

Tina Modotti, Pandurang Khankhoje and students in the experimental fields of the Escuela Libre de Agricultura “Emiliano Zapata,” Chiconcuac, Mexico 1930, Section Labor-in-Nature and Nature-in-Labor, Second Yinchuan Biennale, 2018.

Khankhoje ha dedicato la sua ricerca al miglioramento delle tecniche e dei metodi della coltivazione con l’istituzione delle Scuole Libere di Agricoltura (Escuelas Libres de Agricultura, 1924–28), dove studiava la genetica delle piante per la coltura di varietà di grano resistenti alle malattie, ma anche l’autodeterminazione e il sostentamento di base per i contadini poveri e dimenticati del mondo, nella speranza di costruire una nuova società più giusta e non sfruttatrice.

Al tema del mondo agricolo dentro la storia del Novecento ha dato grande spazio la Seconda Biennale di Yinchuan e un importante capitolo espositivo indaga la rivoluzione messicana e si sviluppa proprio a partire da Tina Modotti e Pandurang Khankoje fino al Grupo Suma e al lavoro Juan Pablo Macias, dentro la sezione Labor-in-Nature and Nature-in-Labor in cui sono raccolte le 28 fotografie di Tina Modotti di questi esperimenti di Khankhoje sui metodi di coltivazione del mais, i raduni di campesinos e mezzadri, la lotta per un uso non-capitalistico delle risorse naturali, confrontandoli con l’invisibilità dei lavori riproduttivi delle donne, perché Modotti sentiva come i contadini e gli altri invisibili della terra erano degni essere rappresentati e rivendicati nella storia.

Tina Modotti, students, professors, and other personnel in front of the Escuela Libre de Agricultura “Emiliano Zapata,” Chiconcuac, Mexico, 1928, Section Labor-in-Nature and Nature-in-Labor, Second Yinchuan Biennale, 2018.

 

Marjetica Potrč – Reruralizing the World

Marjetica Potrč, Yinchuan: Rural House, in costruzione, Second Yinchuan Biennale, 2018.

“In tutto il mondo prima dell’avvento del capitalismo, le donne avevano il ruolo principale nella produzione agricola. Disponevano dell’accesso alla terra, dell’uso delle sue risorse e del controllo sulle coltivazioni e tutto questo garantiva loro autonomia ed indipendenza economica dagli uomini. In Africa disponevano di propri sistemi di lavorazione del terreno e di coltivazione, fonte di una cultura specificamente femminile: si occupavano della selezione delle sementi, un’operazione fondamentale per il benessere della comunità e la cui conoscenza si trasmetteva da una generazione all’altra. Lo stesso potrebbe dirsi per il ruolo delle donne in Asia”[xvi]. Quello a cui stiamo assistendo è un processo di riavvicinamento alla terra, di “urbanizzazione rurale”, che la crisi attuale non può che accelerare.

Marjetica Potrč, Yinchuan: Rural House, Second Yinchuan Biennale, 2018.

“Riruralizzare il mondo…per recuperare lo spirito e la vita” [xvii] è il titolo di un testo di Maria Rosa Dalla Costa pubblicato nel 2003 sul processo di ruralizzazione e il legame profondo tra femminismo/ecologia e agricoltura, non disgiunti dalle grandi lotte sul diritto alla terra, contro la sua privatizzazione ed espropriazione, e la rivendicazione di sovranità economica per le donne nell’elementare lavoro della riproduzione sociale. «Erano in gioco non solo la perdita della terra come mezzo fondamentale di produzione e riproduzione ma saperi e sistemi agricoli sperimentati da secoli e caratterizzati dalla capacità di salvaguardare la biodiversità e quindi l’abbondanza di risorse offerte dalla terra. È proprio questo il fatto che confligge con la ragione capitalistica che, per creare profitto da un lato deve creare distruzione e miseria dall’altro. Così come la stessa sostenibilità economica, sociale, ambientale, che caratterizza questi sistemi, confligge con quella logica di sostenibilità per pochi contro insostenibilità per molti che caratterizza altrettanto il modo di produzione capitalistico». Dalla Costa indica la data dell’insurrezione zapatista nel ’94 che poneva all’attenzione mondiale la centralità della t/Terra come bene comune da preservare e di cui poter usufruire sotto una poliedricità di aspetti: come fonte di vita e di abbondanza per i frutti che genera, come fonte dell’evoluzione naturale, come territorio dove poter abitare, come spazio pubblico, come ambiente (Dalla Costa 1999). Da queste premesse prende le mosse l’artista e architetto slovena Marjetica Potrč [nata nel 1953 a Ljubljana, Slovenia, vive a Berlino] con un nuovo caso studio commissionato dalla Biennale, Yinchuan: Rural House, che è il prototipo di una spartana abitazione rurale in uno dei tanti villaggi contadini ai margini della “smart city” in espansione, che Scotini definisce come il prelievo di un “oggetto teatrale nello spazio del museo”, un esempio di struttura sociale auto-organizzata di gestione delle risorse idriche, in una zona secca e semi-arida tra il deserto del Gobi e il Fiume Giallo, irrigata da queste acque usate per le risaie, la fornitura dei servizi elementari e la sussistenza delle popolazioni rurali. La casa è costruita con materiali reali e in scala 1:1, mattoni essiccati al sole e realizzati con fango, acqua di fiume e paglia di riso. Sul retro dell’abitazione compaiono strane scritte che indicano alcune regole, o prescrizioni, del sistema di gestione delle acque da parte della comunità e dei numeri del venditore di pompe idrauliche in caso di bisogno.

Interno di casa di contadini a Yinchuan, ph: Marco Scotini, 2018.

La capacità dei contadini di Yinchuan di controllare e progettare le condizioni di base della loro esistenza – continua Scotini nell’exhibition guide – e “il tradizionale sistema locale per l’approvvigionamento dell’acqua è presentato all’interno della mostra come uno strumento sociale per una gestione sostenibile delle risorse idriche della comunità. Yinchuan: Rural House ci mostra un esempio dal basso di uno stile di vita sostenibile basato sulla resilienza personale e comunitaria. È un perfetto esempio del sistema di auto-approvvigionamento all’interno di un paradigma che riconosce solo la proprietà privata o pubblica ma non considera l’idea dei beni comuni”. E i commons non sono strumenti giuridici astratti ma degli spazi concreti che producono nuove soggettività e forme cooperative e associative più solidali, comunitarie e creative di riproduzione.

Elvira Vannini

Casa di contadini a Yinchuan, 2018.

sopralluogo a Yinchuan di Marjetica Potrč, con Marco Scotini e Shuai Yin, 2018.

 

*L’immagine di copertina è tratta da un dipinto dei cosiddetti Huxian Peasant Painters. Durante la Rivoluzione Culturale, ai contadini venivano impartite lezioni di arte da artisti professionisti e insegnanti, e le opere dell’area di Huxian a Xi’an divennero i modelli per l’emulazione e la copia, allineati con le direttive del governo comunista per la pittura e le arti. La prima esposizione dei pittori contadini di Huxi si aprì alla Beijing China Art Gallery nel 1973.

** Il titolo è ripreso da un testo deconomista indiana Bina Agarwal, Are We Not Peasants Too? Land Rights and Women’s Claims in India pubblicato nel 2002.

Exhibition of Three Histories, Chen Jianchun, 1964. Courtesy: Huxian Painting Museum.

Large and Boundless Corn, Li Naiti, 1959. Courtesy: Huxian Painting Museum.

[i] Silvia Federici, Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei commons, prefazione e cura di Anna Curcio, Ombre Corte, Verone, 2018, cit a p.209.

[ii] Dei 90 artisti invitati, oltre 60 provenienti da tutto il mondo, hanno partecipato alla cerimonia ufficiale. Più di cento lavori (di cui 40 commissionati per l’occasione) occupano i 15.000 metri quadrati del MOCA, l’area esterna dello Hui Nongqu Eco-park e parte del villaggio di residenze d’artista.

[iii] tutte le considerazioni sull’ecofemminismo sono state riprese e rielaborate dal saggio A.E. Kings, “Intersectionality and the Changing Face of Ecofeminism”, in Ethics and the Environment n.22, pp. 63–87, 2017.

[iv] il riferimento è alle teorie di Jason Moore recentemente pubblicate da Ombre Corte (2018), nel volume Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, con introduzione e cura di Alessandro Barbero e Emanuele Leonardi.

[v] Vincenza Perilli e Liliana Ellena, Intersezionalità. La difficile articolazione, in Sabrina Marchetti, Jamila M.H. Mascat, Vincenza Perilli, Femministe a parole. Grovigli da districare, Ediesse, Roma, 2012, p. 130-135.

[vi] per la serie completa: https://www.tate.org.uk/art/artworks/chhachhi-seven-lives-and-a-dream-130204

[vii] le dichiarazioni dell’artista sono apparse in: https://indianexpress.com/article/lifestyle/art-and-culture/meanings-accrete-over-time-sheba-chhachhi-4752199/

[viii] “La trasformazione della vita umana in una razza di topi senza speranza, ogni topo lotta per raggiungere il vertice della piramide sociale (il cui apice è materialismo puro)” la citazione è contenuta nel testo di Angela Dimitrakaki, The Premise of Contradiction and Feminist Politics: Reflections on Arahmaiani’s Art and Life, in Afterall journal, Autumn/Winter 2016, versione on-line.

[ix] Angela Dimitrakaki, The Premise of Contradiction and Feminist Politics: Reflections on Arahmaiani’s Art and Life, ibidem.

[x] intervista di Arahmaiani, https://www.cobosocial.com/dossiers/arahmaiani-superheroine-of-indonesian-contemporary-art/

[xi] https://www.livemint.com/Leisure/RHwbST0doqCHCPfbbTLLwN/Altaf-Mohamedis-art-of-dissent.html

[xii] Intervista a Navjot Altaf di Prajna Desai, https://frieze.com/article/speaking-out-1

[xiii] ibidem, Intervista a Navjot, Frieze.

[xiv] per una dettagliata analisi della militanza di Navjot in PROYOM, vedi https://scroll.in/article/802005/dreaming-of-the-revolution-how-politics-shaped-the-art-of-navjot-altaf

[xv] Jessica Lack, Why Are We ‘Artists’? 100 World Art Manifestos, London, Penguin Modern Classics, 2017, p.363 (Kindle version); per informazioni sul movimento delle donne in Pakistan inseguito agli scontri del 1983 si rimanda a: https://jpptorturewatch.wordpress.com/2015/11/04/the-womens-movement-in-pakistan-an-era-foregone/

[xvi] intervista a Silvia Federici, Su capitalismo, colonialismo, donne e politica alimentare, in http://www.sagarana.net/anteprimal.php?quale=32

[xvii] “Riruralizzare il mondo… per recuperare lo spirito e la vita,” il testo uscito in inglese su thecommoner :: issue 12 :: summer 2007 è stato ripubblicato in M. Angelini, Terra e Libertà/Critical Wine, DeriveApprodi, Roma, 2004.

MOCA, Yinchuan, Second Yinchuan Biennale, 2018, courtesy Simona Cioce.

 

 

 

 

 

 

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