Intervista a Bojana Pejić, Jasmina Tesanović, Biljana Tomić e Dragica Vukadinović, a cura di Francesca Barberi.
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“In Jugoslavia non avevamo un movimento
femminista, avevamo le femministe” [i] così afferma Žarana Papić mentre ricostruisce
il movimento femminista nella ex-Jugoslavia tra gli anni Settanta e Ottanta.
Papić, teorica e antropologa sociale, in quegli anni fa parte di un nutrito gruppo di sociologhe e storiche dell’arte – tra le quali Dunja Blažević, Slavenka Drakulić, Rada Iveković, Vesna Kesić, Nada Ler-Sofronić, Bojana Pejić e Lidija Sklevicky – che inizia ad occuparsi in maniera sistematica della questione di genere e femminista, mossa dall’esigenza di teorizzare una critica femminista al socialismo attraverso incontri accademici nelle istituzioni culturali di Lubiana, Zagabria e Belgrado.
In particolare, Dunja Blažević, allora direttrice della Galleria SCC del Centro Culturale Studentesco (SKC) di Belgrado, intreccia proficue collaborazioni con artiste, curatrici e intellettuali provenienti da tutto il mondo, le quali consentono di far confluire a Belgrado le principali esperienze artistiche femministe. La conferenza Drug-ca Žena: Žensko Pitanje – Novi Pristup? (Comrade Woman: Women’s Question –A New Approach?), tenutasi nell’ottobre 1978, rappresenta il culmine di questa fitta rete di scambi internazionali che si traducono nell’organizzazione di importanti eventi multidisciplinari.
Momento fondativo per il femminismo jugoslavo, per la prima volta le donne hanno la possibilità di mettere pubblicamente in discussione il dominio del patriarcato nella società socialista. La rivoluzione che accompagna questo evento risiede non solo nella possibilità di confronto con delegazioni provenienti da Francia, Germania dell’Ovest, Inghilterra, Italia, Polonia e Ungheria, ma anche nella decisione di voler affiancare ai tre giorni di dibattiti un ricco programma artistico e di proiezioni. Se da un lato le profonde differenze nell’organizzazione politica e sociale della Jugoslavia socialista, rispetto agli altri Paesi, generano incomprensioni, tensioni e perplessità, il programma di arti visive pone l’attenzione, attraverso la raccolta di estratti di articoli, ritagli di giornali, immagini e illustrazioni, sulla reale condizione femminile nella sfera privata e familiare jugoslava, caratterizzata ancora da una matrice fortemente patriarcale. Infatti, nonostante la propaganda promossa dal regime sostenesse una tendenza progressista ed egualitaria tra i generi, il patriarcato non scompare dal contesto socialista, il quale per molti versi preserva e persino riproduce i rapporti di potere basati sul dominio maschile, sulla subordinazione femminile e sull’economia eterosessuale normativa. In questa occasione, Goranka Matić espone le sue prime sperimentazioni legate al mezzo fotografico, presentando la serie The Portraits of Women (1978). L’opera, scattata per le strade di Belgrado insieme a Nebojša Čankarović, fotografo ufficiale del SKC, si compone di circa una quarantina di ritratti femminili. Matić si serve del genere del ritratto, da sempre mezzo per veicolare identità e simboli di potere, per indagare i desideri delle donne, i loro sogni. I nuovi media – tra i quali il video, l’installazione e la performance – sono utilizzati come strumento attraverso il quale combattere le costruzioni culturali, sociali e storiche relative al genere. La proiezione di film non solo di artiste jugoslave ma, e soprattutto, di registe estere – Liliana Cavani, Věra Chytilová, Rony Daopoulo, Dacia Maraini, Annabella Miscuglio, Nil Yalter – mostra il forte interesse da parte delle organizzatrici jugoslave nei confronti delle sperimentazioni del mezzo filmico come strumento politico e di sensibilizzazione su lotte e tematiche femministe. Tutti i film declinano nelle sue diverse sfaccettature la vita delle donne all’interno della società: le relazioni con gli uomini, il rapporto, spesso complesso, con la figura paterna, le difficoltà del mondo del lavoro, la lotta per l’ottenimento dei propri diritti ma anche l’esplorazione di sé e del proprio corpo nel tentativo di sovvertire i ruoli di genere che, nel cinema così come nelle arti visive e nei mass media, vengono fissati e rafforzati.
A quasi cinquant’anni di distanza dalla conferenza, le testimonianze di Bojana Pejić e Biljana Tomić, curatrici insieme a Dunja Blažević della Galleria SCC del SKC, Jasmina Tesanović, curatrice del programma di video screening e artista, e Dragica Vukadinović, archivista del Centro Culturale Studentesco ricostruiscono la rete di connessioni e relazioni internazionali, le iniziative curatoriali e le produzioni artistiche più significative che caratterizzarono Belgrado in un periodo di forti cambiamenti, lotte e una straordinaria ricchezza artistica.
Francesca Barberi: Ho letto che la Galleria del Centro Culturale Studentesco di Belgrado si fondava sulla collaborazione tra dipendenti regolarmente assunti e persone esterne (artisti, storici dell’arte, designer, studenti di filosofia e sociologia etc.). Uno scambio proficuo, basato su un approccio orizzontale e non gerarchico, la cui informalità ha permesso ai giovani artisti di organizzare iniziative collettive, mostre e proiezioni in una forma libera e autogestita. Lei frequentava il Centro Culturale Studentesco di Belgrado? Si ricorda di queste dinamiche? Era un nuovo modo di fare arte a Belgrado e in tutta la Jugoslavia?
Biljana Tomić: Quello che è successo a Belgrado negli anni Sessanta e Settanta è stato un cambiamento generale e culturale, che ha trasformato per sempre il comportamento di un’intera società. Tutto questo è iniziato in maniera molto semplice. Ho cominciato a studiare Storia dell’Arte perché pensavo di lavorare come guida turistica, per avere la possibilità di guadagnare qualche soldo. Agli inizi degli anni Sessanta, grazie a un programma di scambio per studenti, sono andata a Perugia per imparare la lingua italiana. Seguivo le lezioni di Storia dell’Arte del professore Carlo Argan e, tutto il tempo libero che avevo, lo passavo andando in giro, insieme ad altre ragazze, facendo l’autostop. Così ho avuto la possibilità di visitare città, chiese, monumenti e palazzi. Sono andata anche a Roma, dove a Piazza del Popolo c’era un’atmosfera così vivace. C’erano due ristoranti: Canova, più conservatore, e Rosati, innovativo, dove si trovavano i giovani artisti. C’era grande entusiasmo, gli artisti più anziani e gli uomini di cultura importanti solitamente avevano i soldi per sedersi, mentre i giovani stavano in piedi. Ero molto curiosa, chiedevo a tutti chi fossero e cosa facessero, era un periodo di grandi libertà. C’erano enormi possibilità di conoscersi, dicendo anche solo: “Ciao, come stai? Possiamo parlare?”. Era molto facile. Il mio percorso, dunque, è iniziato a Roma, grazie ai viaggi che facevo e ai contatti che ho instaurato.
Jasmina
Tesanović: A quei tempi,
non vivevo a Belgrado ma da undici anni abitavo a Roma, dove praticavo Arte
concettuale. Sono andata via di casa molto giovane, per poter sperimentare la
mia pratica artistica. In Italia lavoravo nel cinema, scrivevo molte
sceneggiature. Ho incontrato Alighiero Boetti e Umberto Silva. Ho collaborato
con la rivista La città di Riga, Pier Paolo Pasolini e Bernardo
Bertolucci.
Biljana Tomić: Erano gli anni della Poesia visuale: anche io ho iniziato a inviare lettere a tantissimi contatti e ne ricevevo altrettante. La cosa interessante è che ciò che tu spedisci non ritorna, io ad oggi non ho nessuna mia lettera, non ho nulla della mia produzione visuale. Mirella Bentivoglio aveva alcune mie lettere che ha esposto in diverse mostre (ad esempio: “Poesia visiva”, a cura di Mirella Bentivoglio e Sylvia Franchi. Roma, Studio d’Arte Contemporanea Artivisive, 20-31 marzo 1974). In questi contesti nascevano delle amicizie che, inizialmente sembravano più un gioco, ma che poi diventavano molto profonde. Negli anni Sessanta non esisteva ancora il Centro Culturale Studentesco. C’era una generazione di artisti e storici dell’arte, di cui anche io facevo parte, che ha cominciato verso la metà degli anni Sessanta a collaborare con un importante teatro di Belgrado, Atelje 212. Usavamo lo spazio del teatro come una Galleria, così è nata la Galleria 212. Questi sono stati i miei primi passi. Ognuno di noi aveva diversi contatti, tutti portavano qualcosa dai Paesi in cui erano stati e delle esperienze che avevano vissuto. Così pian piano abbiamo aperto uno spazio molto importante, con ospiti internazionali. Era molto facile spedire le opere. Le nostre iniziative volevano presentare artisti stranieri a Belgrado. La scena si muoveva, mutava, era in continua trasformazione. I giovani cambiavano il linguaggio culturale e artistico. Era tutto un’innovazione, non era mai accaduta una cosa del genere a Belgrado. Anche a Roma i giovani curatori, figli dei galleristi, aprivano nuove Gallerie, come Sargentini e Sperone. C’era una ricerca straordinaria, un’immaginazione meravigliosa soprattutto legata all’Arte povera. In Jugoslavia, a Belgrado così come a Zagabria, incominciavano le nuove tendenze, artisti che lavoravano su aspetti legati alla geometria, al movimento, all’ambiente e un’apertura verso la scienza: i primi computer, l’Arte cinetica. Io conoscevo tutti. In quel periodo era stata inaugurata a Zagabria la mostra “Nova tendencija” (“Nuova tendenza”), un evento importante, che presentava i nuovi movimenti artistici che stavano nascendo in Jugoslavia. Qualcosa stava cambiando, c’era qualcosa di nuovo su diversi livelli. Era un cambiamento generale ma così forte, così pieno di energia che i nostri rapporti erano molto solidi. Pur non conoscendoci, ci sentivamo vicini. Io scrivevo a diverse persone, nonostante non sapevo chi fossero e cosa facessero, e loro scrivevano a me. Pur essendo sconosciuti ci sentivamo in contatto. Era una cosa bellissima. Aver ricevuto una lettera significava conoscere di più una persona, essere più vicini, aver ricevuto per sempre qualcosa di suo. Così iniziava quello che noi abbiamo chiamato la scena internazionale. Eravamo giovani, matti e tutti insieme, non importava da quale Paese provenissimo.
Nel 1963 ho incontrato a Zagabria Germano Celant, a Roma ho conosciuto il giovane Achille Bonito Oliva, Giancarlo Politi con i primi Flash Art e molti artisti come Jannis Kounellis e Pino Pascali. Nel 1967 a San Marino c’è stata la mostra “Nuove tecniche d’immagine”. È stata la cosa più bella che mi sia successa nella vita, perché è stata l’ultima volta in cui tutte le tendenze artistiche si sono trovate insieme in un unico luogo. Era una vera gioia assistere a una situazione così bella, amichevole e vivace, dove erano presenti tutti i critici, direttori e artisti più importanti del momento. Io potevo parlare con Alberto Burri, Lucio Fontana… Eravamo tutti cari amici ed era un’emozione incredibile. Le donne rivestivano un ruolo fondamentale per l’Arte povera. Il concetto di coppia, formato dall’artista e dalla propria compagna, era molto importante. Infatti, in quel periodo le ragazze davano una mano concreta nella realizzazione delle opere. Si sapeva che anche le donne contribuivano in maniera attiva e di questo erano molto fiere. Eravamo tutte molto amiche e io le sento ancora come sorelle, sorelle nate da una lotta. È un legame molto forte che non si dimentica. Ci sentivamo parte di qualcosa. Io e mio marito Ješa Denegri, anche se non eravamo nessuno ci sentivamo felici, avvertivamo di essere parte di qualcosa che stava accadendo ed è stata l’ultima volta che mi sono sentita così. Era un momento importante perché si iniziava a parlare di cambiamenti, a presentare nuovi movimenti artistici. In quegli anni Tommaso Trini cominciava con sua moglie a pubblicare la rivista Data Arte. Le nuove riviste erano molto importanti in quanto contribuivano a creare il linguaggio nascente. Nel 1968 ero a Venezia, insieme agli studenti abbiamo chiuso la Biennale. Io avevo chiuso il Padiglione della Jugoslavia… Come erano arrabbiati. Dopo ho chiesto a Pino Pascali se volesse venire a Belgrado e lui mi ha risposto: “Perché no!”. Allora, abbiamo chiamato subito Germano Celant per chiedergli se avesse voluto curare una mostra dedicata all’Arte povera a Belgrado e lui ha risposto: “Perché no!”. La mostra si sarebbe tenuta nel teatro anche se, quando glielo chiesi, non sapevo ancora se avrei avuto lo spazio a disposizione. Volevo solo sapere se sarebbero venuti a Belgrado. Era l’occasione per fare qualcosa di importante a livello internazionale. Quando il teatro mi disse va bene, subito ho detto: “Venite!”.
La mostra non si è più fatta quando ho appreso da un telegramma che era morto Pino Pascali. Sono stata così triste, era come se fosse morto un fratello. Nessuno si è sentito di venire, ho fatto la mostra con le foto delle opere.
[si
commuove]
Qualche tempo dopo è venuto Germano Celant a tenere una conferenza sull’Arte povera, l’Arte concettuale e la Land Art. Dopo, è venuto Michelangelo Pistoletto con il suo teatro di strada Lo Zoo. A Belgrado, dopo il 1968, lo Stato ha deciso di aprire il Centro Culturale Studentesco di Belgrado (SKC). Quando ha aperto SKC nel 1971 io lavoravo ancora al teatro, fino al 1973. Al Centro venivano studenti e studentesse dell’Accademia di Belle Arti. Erano i giovani artisti e le giovani artiste a creare il nuovo linguaggio. Io in quanto curatrice li appoggiavo ma erano loro a doversi scontrare.
[ride]
Era un luogo molto attivo, molto vivace. Ci sono state tante lotte, tanti amori, tante critiche.
Bojana
Pejić: Nel 1969 avevo
iniziato a studiare Storia dell’Arte presso il Dipartimento di Filosofia
dell’Università di Belgrado insieme a Goranka Matić. Goranka è sempre stata più
curiosa di me e mi invitò ad andare con lei all’inaugurazione del Centro
Culturale Studentesco il 3 aprile 1971. Il 4 aprile ricorreva la Giornata degli
studenti dell’Università di Belgrado. Allora, Goranka mi presentò Dunja
Blažević, che mi propose di diventare assistente della Galleria del SKC.
Iniziai a lavorare quando ero ancora studentessa e nel 1976 iniziai a gestire
il programma di Informazioni e Documentazione. Ho lavorato presso il Centro
fino al 1991, quando mi sono trasferita a Berlino.
Dragica Vukadinović: Ho iniziato a frequentare il Centro Culturale Studentesco fin dall’inizio, nell’aprile 1971. Allora ero una studentessa di Storia dell’Arte e, insieme a un gruppo di compagni della facoltà e alcuni artisti, divenni membro della cosiddetta redazione allargata della Galleria, formata da Dunja Blažević, allora redattrice del programma artistico e curatrice, e da Biljana Tomić, responsabile del servizio Informazioni e Documentazione. Era un nuovo modo di “produrre cultura”, c’erano altri centri seri che seguivano le nuove pratiche artistiche ma per quasi due decenni SKC ha avuto l’intensità maggiore, con un’attività interdisciplinare informale ed immediata che interessava sia gli artisti sia un pubblico culturale e sociale più ampio.
Jasmina
Tesanović: Con i soldi
che avevo guadagnato, grazie a una sceneggiatura realizzata a Roma, per la
quale mi avevano pagato tantissimo, invece di comprarmi una casa, ho acquistato
tutta l’attrezzatura necessaria per produrre Arte alternativa. Sono stata la
prima ad avere una videocamera Sony a Belgrado! Chiunque frequentava il Centro poteva
usufruire della strumentazione che avevo comprato.
Biljana
Tomić: La mia amica Dunja
Blažević era la direttrice della Galleria. Quando è partita per New York, mi ha
invitata a prendere il suo posto e ad occuparmi del programma artistico e
curatoriale finché non fosse tornata.
Bojana
Pejić: Il Centro
Culturale Studentesco di Belgrado è stato fondato in seguito alle proteste
studentesche del 1968. L’SCC, istituzione che riceveva i fondi per il materiale
e i programmi dell’Università, era parte dell’Università di Belgrado. A
Zagabria, i Centri Studenteschi esistevano già dal 1959 e dal 1966 la Galleria
del SC (Studentski Centar u Zagrebu) contribuiva alla promozione della “New
Art”. Il primo direttore del SCC di Belgrado era Petar Ignjatović, il quale aveva
studiato Storia dell’Arte insieme a Dunja Blažević. Le attività promosse dal
Centro erano modellate sul concetto occidentale di ICA (Institute of
Contemporary Art). C’era un programma legato alle attività della Galleria, a
cura di Dunja, un Filmforum, un programma di conferenze e uno dedicato alla
musica classica, un teatro sperimentale e in seguito è stata aperta la Happy
New Art Gallery, inizialmente incentrata sulla ricerca fotografica. Per me,
era molto importante la Biblioteca, specializzata in Scienze Sociali, che
riceveva regolarmente circa quattrocento riviste provenienti da tutto il mondo.
Dragica Vukadinović: Qualche mese dopo, Biljana ha assunto noi tre storiche dell’arte (Bojana Pejić, Zorica Lojpur e me) per lavorare come assistenti e imparare il mestiere della gallerista. È stata una pratica innovativa e preziosa, rara per l’epoca. Biljana ha poi “allevato” diverse generazioni di futuri curatori, critici d’arte, professori universitari, giornalisti e, soprattutto, artisti. Tutte noi, indipendentemente dal nostro impegno ufficiale, abbiamo trascorso molto tempo al Centro Culturale, curando gli eventi quotidiani, prendendo parte a conversazioni formali e informali, seguendo conferenze in diversi ambiti – filosofia, scienza, arte, politica. Abbiamo assistito alla proiezione di film alternativi, performance di danza, spettacoli teatrali d’avanguardia, con ospiti jugoslavi e stranieri. Era molto dinamico, impegnativo ma promettente, a tal punto che qualche anno dopo ho rifiutato la proposta di diventare una curatrice “rispettata” presso il Museo d’Arte Contemporanea di Belgrado perché pensavo fosse più valido rimanere una semplice collaboratrice in una piccola Galleria come quella del SKC.
Bojana
Pejić: Dunja ha
indirizzato il programma della Galleria verso la “New Art”, anche chiamata a
partire dagli anni Settanta “New Art Practice”. Questo termine indicava la
produzione artistica di una giovane generazione di artisti, attivi a partire
dagli anni Sessanta, i quali si servivano di nuovi media come la fotografia, il
video, la performance, di interventi spaziali e installazioni non solo come
mezzo di espressione ed esplorazione, ma anche per sostenere una posizione
critica nei confronti della quotidianità mettendo in discussione l’idea stessa
di Arte e sottolineando la necessità di un suo impegno sociale.
Per
quanto riguarda l’attività di gallerista, Dunja era solita definirla “applied
(art) criticism”, ovvero invece di fare critica d’arte, lei l’arte la
“applicava”. Oggi chiamiamo questo tipo di approccio, che comprende il
confronto con gli artisti, l’allestimento delle mostre, la realizzazione di
cataloghi e l’organizzazione di conferenze, curatela.
Biljana Tomić: In quel periodo, si è formato il Gruppo 6 (composto da Raša Todosijević, Era Milivojević, Marina Abramović, Zoran Popović, Neša Paripović, Gergelj Urkom) che realizzava azioni performative e spaziali. Era una generazione con un linguaggio diverso rispetto agli artisti degli anni Sessanta.
Bojana
Pejić: Questa generazione
si era ribellata alla tradizione modernista, riconosciuta come arte ufficiale
in Jugoslavia, per adottare nuovi media. Nel Centro Culturale Studentesco
avvenivano riunioni collettive quasi una volta alla settimana, per decidere
insieme i programmi futuri e parlare delle mostre passate. Il gruppo era
costituito da artisti e giovani storici dell’arte. Quasi dopo ogni mostra, sia
che fosse di un artista locale o internazionale, c’era una sezione dedicata al
dibattito. Si svolgevano anche conferenze con critici d’arte internazionali.
Noi ci sentivamo parte del Big World. Non abbiamo mai mancato a
un’inaugurazione della Biennale di Venezia o di una Documenta di Kassel.
Biljana
Tomić: A Belgrado sono
poi venuti Gina Pane, Joseph Beuys… Beuys l’ho conosciuto tramite il suo
gallerista di Napoli, Lucio Amelio. Amelio mi disse: “Brava, brava Biljana,
ottimo! Mi piace quelloche fai, dovresti invitare Beuys a Belgrado.”.
E così siamo diventati amici, ho contattato Beuys che è venuto per un’intera
settimana. È stato l’ultimo momento in cui ho sentito questa vicinanza. È stata
la prima e ultima volta in cui i nostri linguaggi erano uguali, quando
parlavamo la stessa lingua. Questo era fantastico perché ci univa. Invitare
ospiti internazionali a Belgrado significava avere una testimonianza diretta
del loro lavoro, di cosa significasse, della situazione culturale del loro
Paese, tutto ciò era importante per capire cosa stesse accadendo all’estero.
Erano spesso anche discorsi politici, ed era normale. In Serbia, essendo stati
comunisti, non puoi parlare d’arte senza toccare la politica. La Jugoslavia era
un Paese aperto, si poteva viaggiare ed io mi sentivo estremamente libera di poter
fare tutto. Questa libertà ti dava coraggio. Sentivo una grande apertura. A
partire dal 1975, venivo molto spesso in Italia e ho iniziato ad avvertire un
cambiamento politico, cominciavano a nascere i primi movimenti legati alle
libertà delle donne che, ad essere molto sincera, inizialmente non capivo fino
in fondo perché sentivo di poter comunicare apertamente con qualsiasi persona,
a prescindere che fosse donna o uomo.
Jasmina Tesanović: In Italia non c’era la possibilità di divorziare o di abortire. Le donne si sono ribellate e hanno ottenuto questi diritti. Tutto si creava a partire dall’esperienza quotidiana, dove spesso si vivevano situazioni molto difficili. In Jugoslavia la situazione era un po’ diversa, c’erano leggi più avanzate ma la prassi era orribile: le donne erano sottopagate, non uscivano e dovevano prendersi cura della casa e della famiglia. In Italia vedevo donne più emancipate, nonostante le leggi retrograde, rispetto al sistema patriarcale molto duro che vigeva in Jugoslavia. Nei giorni della conferenza abbiamo portato alla luce la realtà quotidiana delle donne, per questo poi ci hanno criticate.
Biljana Tomić: Mi creava confusione, in quegli anni collaborare con un Paese comunista aveva delle implicazioni politiche e culturali. La Jugoslavia aveva abbandonato l’arte figurativa e questo veniva riconosciuto a livello europeo. Scambiare, viaggiare, presentare era un sogno. Tu non puoi immaginare quante mostre abbiamo fatto in Italia e quanti artisti siano venuti a Belgrado. Io sono sempre stata una pecora nera, sono sempre stata molto attiva e alla gente non piacevo per questo. Non avevo successo, non posso dire di aver fatto qualcosa di speciale, ma avevo tanti contatti. Mi invidiavano per la libertà che avevo nelle relazioni. E grazie a questo riuscivo a creare i programmi della Galleria. Gli altri erano molto gelosi, e questa invidia si avvertiva delle volte anche all’interno del Centro. Sai, eravamo tanti storici dell’arte e ognuno aveva le proprie visioni. Il Centro, devi sapere, inizialmente non era tanto voluto, non solo per i cambiamenti che ha comportato nell’ambito artistico, ma anche per la posizione ricoperta dagli artisti. Tutti i giovani che venivano erano figli delle famiglie più importanti del Paese a livello politico e questo creava dei problemi. Si diceva che il Centro fosse un luogo per i privilegiati, per i figli del comunismo. Per me questo non significava niente, erano miei cari amici, intelligenti e ben educati. Erano persone colte, che parlavano perfettamente tre lingue e questo era fondamentale per poter comunicare con l’estero. Io parlavo l’italiano, altri il francese o l’inglese e questo ci ha permesso di essere un luogo internazionale. Non eravamo soltanto una novità culturale ma eravamo anche capaci di instaurare relazioni con il resto del mondo grazie ad un altissimo livello intellettuale. Avevamo un linguaggio troppo internazionale rispetto al resto della Jugoslavia. Eravamo distaccati rispetto alla reale situazione culturale del Paese, eravamo pochi e per questo a volte venivamo aspramente criticati. Era una situazione delle volte molto dura ma eravamo giovani e non ci interessava tanto.
Francesca Barberi:Parlando nello specifico della conferenza del 1978, vennero organizzate due mostre documentarie: Jugoslovenska žena u statistici (The Jugoslav Woman in Statistics), che presentava dei dati raccolti dai media ufficiali di Stato (come lo Statistički godišnjak – Rapporto Statistico Annuale), l’esposizione Seksizam oko nas (The Sexism That Surround Us), riguardante una selezione di estratti dalla stampa jugoslava. E, infine, la pubblicazione Žena u statistici Jugoslavije (A Woman in Statistics of Yugoslavia), curata dall’organizzazione CSAW (Conferenza per l’Attività Sociale delle Donne). Se le ricorda? Potrebbe descrivermele?
Biljana
Tomić: L’arte era il
linguaggio. Nell’Arte concettuale, quello che scrivi diventa l’opera.
Utilizzavamo un linguaggio contro l’altro. Io in realtà non ero parte
dell’organizzazione né delle mostre né della conferenza. Dunja Blažević era
molto attenta ai primi movimenti femministi che stavano nascendo in Europa, si
informava sempre di più grazie a tutti i contatti che aveva instaurato nei
diversi Paesi.
Dragica
Vukadinović: In realtà mi
stupì che la conferenza non avesse un programma artistico più ricco.
Biljana Tomić: Verso la fine degli anni Settanta, abbiamo iniziato a parlare della posizione della donna all’interno dello Stato. A Belgrado nasceva una nuova tendenza da parte delle artiste che cercavano la propria libertà. Si opponevano, a volte in maniera anche violenta, agli uomini. Ma questo desiderio, di avere una posizione contraria rispetto al genere maschile, nasceva dalla necessità di ricercare la propria libertà di donna. Il movimento femminista, almeno in Serbia, nasceva da una sincera voglia da parte dei giovani di cambiare la situazione, di essere qualcosa di nuovo e di combattere le vecchie teorie. Era la voglia di uscire e di presentarsi, così è stata organizzata la conferenza. Sono venuti gruppi di femministe provenienti da diversi Paesi: Italia, Francia, Inghilterra.
Jasmina
Tesanović: Alla
conferenza si sono presentate donne provenienti da tutto il mondo, alcune non
le avevamo invitate ma volevano esserci, altre che avevamo invitato non si sono
presentate. Così alla fine abbiamo fatto fatica a capire chi fosse realmente
presente. In quel momento non ci rendevamo conto che sarebbe diventato un
evento importante.
Dragica Vukadinović: Da quello che ricordo, tutti i programmi artistici, che si sono svolti in contemporanea ai dibattiti, sono stati concepiti da Žarana Papić, una sociologa. Se escludiamo la mostra dedicata all’opera di Goranka Matić, la maggior parte delle esposizioni avevano una natura informativa e documentaria, senza la partecipazione diretta delle artiste. Due anni prima, durante il festival di Extended Media, si era tenuta presso la Galleria una conversazione molto fruttuosa con artiste e partecipanti sul tema Donne nell’arte, alla quale aveva partecipato, tra gli altri, Žarana. Ho sempre pensato che quell’evento abbia in qualche modo ispirato Žarana a intraprendere questa avventura. Ci furono sicuramente delle discussioni su quell’argomento, ma non me lo ricordo più, e non ho potuto seguire molto i dibattiti perché lavoravo e cercavo soprattutto di guardare i film che venivano proiettati e che non avevo mai visto prima. Mi sembra che ci fossero delle tabelle che riportavano dati statistici e che queste fossero collocate su pannelli temporanei. Per la mostra Seksizam oko nas(The Sexism That Surround Us) c’erano anche alcuni ritagli di giornale che riportavano messaggi sessisti o patriarcali. L’esposizione dedicata a Claire Bretécher consisteva in alcuni dei suoi fumetti, raccolti personalmente da Žarana Papić, disposti sempre su pannelli mobili. Non era quindi particolarmente attraente come mostra, e credo sia possibile che i resti di quel materiale si trovino ancora nell’archivio di Žarana, che dovrebbe essere conservato presso il Centro degli Studi sulle Donne di Belgrado. Per quanto riguarda, infine, la pubblicazione Žena u statistici Jugoslavije (A Woman in Statistics of Yugoslavia) dovrebbero esistere almeno due copie nella Biblioteca Nazionale della Serbia [ii].
Biljana
Tomić: Io ero presente ed
ascoltavo. Poi era l’inizio, non c’erano delle teorie precise e ognuna diceva
le proprie impressioni. Ci si poneva tante domande relative alla posizione
della donna nella società, nella famiglia, nei rapporti con l’altro sesso ma
non mi sono occupata della curatela di questo evento. Erano stati presentati
anche dei film, ma non ricordo bene.
Jasmina
Tesanović: Quello che
posso raccontare parte dal 1978, quando presi parte all’organizzazione della
conferenza, occupandomi del programma filmico. Avevo una casa in affitto, molto
grande e molto bella, senza niente dentro. Tutti dormivano per terra, ma noi
eravamo punk, eravamo artisti.
[ride]
A casa mia c’era Dacia Maraini e Anna Marie Boetti, che realizzò una performance durante i tre giorni. Mi sono occupata personalmente della documentazione dell’evento. L’unico materiale che sono riuscita a salvare, nonostante le guerre e i bombardamenti, è parte delle riprese dei dibattiti. Inizialmente dovevano poi essere trasmessi in un programma televisivo. In più, ho realizzato un paio di performance. Nella prima, ho messo la mia videocamera al centro della Galleria del SKC con un nastro magnetico visivo che durava solamente 30 minuti. Chiunque entrava nello spazio poteva usare la camera e registrare quello che voleva. Dopo 30 minuti, però, era necessario cancellare qualcosa per continuare a riprendere, era un momento di creatività e di partecipazione. La stampa, i giornalisti non avevano capito niente del mio lavoro. A quei tempi dare la possibilità al pubblico di partecipare a livello tecnologico era qualcosa di totalmente nuovo. Questo nastro credo sia andato perduto. La performance è durata tre giorni e si intitolava L’essere artistico non montato perché tutti i partecipanti prendevano parte attivamente al montaggio. Avevo proiettato anche un film Love is Basically Spoken Words. Purtroppo, è andato quasi tutto perduto a causa della guerra, si sono salvati solo i primi tre minuti. In realtà era una performance. Durava 15-20 minuti, durante i quali giravo all’interno di uno spazio chiuso. Diversi artisti entravano nell’inquadratura, parlavano e poi uscivano. Io credevo, e credo tutt’ora, nel concetto del “one and for all”, alla base dell’arte performativa. Non si può rifare una performance, avviene in quel momento e basta.
E
anche quello che viene registrato non è mai realmente uguale a quello che è
successo. È come un abbraccio, un bacio, non lo si può ripetere. Tutto quello
che è stato fatto e proiettato in quei giorni era qualcosa al di fuori del
mainstream.
Bojana Pejić: Durante la conferenza ero molto impegnata nell’organizzazione, ho partecipato solo per alcune ore a delle discussioni. Ricordo però l’energia che si respirava durante i dibattiti e ho poi seguito gli attacchi che ci sono stati rivolti dalla stampa di Belgrado. Ricordo vagamente l’installazione di Goranka. Anzi, ora che ci penso, guardando le fotografie della mostra, mi ricordo di essere anche stata fotografata. Conosco tutti i lavori fotografici realizzati da Goranka dal 1978 ad oggi. Nel 2021 è stata organizzata una retrospettiva della sua pratica fotografica intitolata Iskustvo u gužvi (Crowd Experience), a cura di Una Popović presso il Museo di Arte Contemporanea di Belgrado, per la quale ho scritto un testo sul catalogo.
Dragica Vukadinović: Credo che anche la mostra di Goranka sia nata da un’idea di Žarana e che fosse in linea con il progetto di attivismo sociologico-femminista portato avanti tramite la realizzazione, insieme al sociologo Ivan Vejvoda e al grafico Dragan Stojanovski, di manifesti, affissi in luoghi pubblici e nelle facoltà universitarie. All’epoca Goranka non si occupava ancora di fotografia. Infatti, è stato il fotografo ufficiale del Centro, Nebojša Čanković, a scattare i ritratti. Goranka, inoltre, poneva alle donne fotografate domande del tipo: “Come vorresti essere chiamata?” o “Cosa vorresti fare?”. Le risposte accompagnavano i loro ritratti. Il lavoro era, quindi, concettuale-attivista e non si presentava come una tradizionale mostra fotografica. Tra l’altro, io e Goranka siamo diventate amiche mentre studiavamo Storia dell’Arte e insieme abbiamo condiviso molto nel corso della vita. Nel 1985, nella Happy Gallery del SKC, organizzai la sua prima mostra fotografica e scrissi il testo del catalogo, poi, in occasione della minirassegna “Beorama”, dove curavo la sezione fotografica, pubblicai un suo piccolo portfolio fotografico.
Francesca Barberi: Quale pensa sia stato il lascito più significativo di questa conferenza? Come ha inciso sulle donne e sul movimento femminista nella Jugoslavia di quegli anni? Avere un confronto con femministe provenienti da altri Paesi come Italia, Francia, Germania e Inghilterra, che impatto ha avuto sulle donne jugoslave?
Biljana Tomić: Penso che questo incontro sia stato importante e molto positivo. È stato l’inizio di qualcosa di interessante. Sono stati incontri che hanno avuto grande influenza, hanno cambiato certi rapporti e presentato il futuro della comunicazione, dell’espressione. Nella vecchia Jugoslavia, ma in tutto il mondo in realtà, c’era una posizione molto conservatrice nei confronti del ruolo della donna. Si volevano rompere tutte le imposizioni negative che esistevano tra la donna e la vita e questa conferenza ha fatto molto, ha aperto le speranze di un cambiamento. Le ragazze degli altri Paesi erano molto più avanti, noi in confronto sembravamo delle bambine.
[ride]
Jasmina
Tesanović: Alla fine
siamo state additate come delle streghe che avevano fatto qualcosa contro il
regime.
Bojana Pejić: La Conferenza ha avuto un impatto immeditato sulla stampa locale serba, siamo state fortemente attaccate! Nel 2003 l’Asocijacijaza ženske incijative (Association for Women’s Initiative) ha pubblicato, a cura di Dragica Vukadinović, una raccolta dei principali articoli diffusi durante e subito dopo l’evento. Da questi articoli, emerge con chiarezza la posizione della CSAW (Conferenza per l’Attività Sociale delle Donne), secondo la quale il socialismo jugoslavo aveva “risolto” la questione femminile concedendo alle donne il diritto di voto, il diritto all’aborto e un accesso paritario all’istruzione e al mondo del lavoro. Il “New Approach” su cui ci siamo interrogate con Drug-ca Žena voleva, invece, affrontare i problemi delle donne all’interno della cosiddetta sfera privata, governata da un patriarcato “socialista”. Questo appare chiaro nello slogan: “Proletari di tutti i Paesi chi lava i vostri calzini?”, presente nella vignetta realizzata dal famoso grafico croato Mirko Ilić, pubblicata nel quotidiano croato Jutarnji list nel 1978.
Dragica Vukadinović: Pensando a quale possa essere l’eredità della conferenza, non credo di essere veramente qualificata per rispondere seriamente a questa domanda. Dopo l’evento, a Belgrado è stato fondato il gruppo di ricerca femminista Women and Society, all’interno del Centro Culturale Studentesco, da cui in seguito è nato il Centro per gli Studi sulle Donne, che ha lanciato una linea telefonica SOS per aiutare le donne vulnerabili. All’inizio degli anni Novanta, è stato fondato il Women Party, e in seguito si sono formati molti altri gruppi femministi con obiettivi diversi, come l’organizzazione Women’sMovement – Women’s Network, Women in Black, Women’s Documentation Center, etc. Sicuramente Drug-ca Žena: Žensko Pitanje – Novi Pristup? ha avuto un’influenza indiretta sulla creatività e sull’attenzione delle artiste, sull’espansione della cosiddetta letteratura femminile e persino sulla critica d’arte.
Biljana
Tomić: Ho visto grande
coraggio. Mia madre era una vera femminista. Io e Bojana siamo state
intervistate dalle partecipanti francesi per raccontare la storia delle nostre
madri. Si dice che le persone di città e quelle di campagna abbiano caratteri
diversi. Io sono una contadina, sono molto curiosa, sono molto libera, posso
dire tutto e non ho paura di niente. Sono nata nel 1940, nel 1944 una notte mi
sono svegliata e ho visto mia mamma che raccoglieva le sue cose. Le ho detto:
“Mamma, cosa fai?”. E lei mi ha risposto: “Devo andare.”
Allora le ho detto che sarei andata con lei e così siamo andate via. Mia mamma ha lasciato la sua casa per trovare la propria libertà, era molto aperta. Abbiamo iniziato la nostra nuova vita a Belgrado. Io da lei ho preso questo coraggio, di dire sempre quello che penso. Questo coraggio l’ho impiegato anche per svolgere il mio lavoro al Centro. In particolare, ho sentito di essere libera quando ho trovato il mio modo di comunicare grazie all’arte. È stata l’arte a darmi la possibilità di esprimere le mie libertà di donna. Penso che ogni donna debba credere in sé stessa, essere forte. Io ero molto innamorata dell’arte. Insieme a mio marito, curatore e critico, abbiamo fatto molto per i giovani artisti, per farli conoscere e scrivere di loro. Abbiamo fatto quello che è stato possibile, facevamo l’impossibile nella posizione del possibile. E sono felice che quelli che allora erano i giovani artisti sono ora i maestri delle nuove generazioni. Il mio ruolo è sempre stato quello di aiutare i giovani. Ho lottato molto per creare nuove situazioni, nuovi spazi, aprire gli occhi delle persone. L’arte è sempre stata la mia prima ragione di vita.
Bojana Pejić (Belgrado, 1948) è curatrice, storica dell’arte e docente. Dal 1977 al 1991 è stata curatrice del Centro Culturale Studentesco di Belgrado. Tra le sue numerose mostre, nel 2007 ha seguito il progetto espositivo Gender Check – Femininity and Masculinity in the Art of Eastern Europe (from the 1960s to mid-1990s), organizzato dalla Erste Foundation di Vienna e inaugurato nel 2009. La mostra presentava opere relative alla questione di genere provenienti da 24 Paesi post-socialisti. È stata allestita al MUMOK di Vienna (2009-2010) e alla Zacheta Gallery di Varsavia (2010).
Jasmina
Tesanović (Belgrado,
1954) è scrittrice, attivista, giornalista, traduttrice, regista e
sceneggiatrice. La sua opera più famosa è Diary of a Political Idiot
(2000), tradotto in 12 lingue, pubblicato in italiano col titolo Normalità.
Operetta morale di un’idiota politica (Fandango, 2000), un diario di guerra
scritto durante il conflitto del 1999 in Kosovo. Realizza tutti i suoi lavori,
film e documentari affrontando tematiche sempre connesse al mondo di internet e
alla tech art.
Biljana Tomić (Novo Selo, 1940) grazie al suo prezioso lavoro curatoriale ha introdotto nella scena artistica di Belgrado nuovi movimenti artistici internazionali, storici, critici e galleristi. Ha collaborato, fin dalla sua inaugurazione, con la galleria del SKC a fianco di Dunja Blazević. Dal 1968 al 1973 è stata curatrice della Galleria 212, dal 1971 al 1972 curatrice del Centro Culturale Studentesco e dal 1976 fino al 1999 direttrice del programma di arti visive della Galerija SKC di Belgrado. È stata curatrice di numerose manifestazioni di rilievo internazionale come la Biennale di Parigi, la Biennale di Venezia, la Documenta di Kassel. Nel 1978 ha partecipato alla mostra Materializzazione del linguaggio, a cura di Mirella Bentivoglio, alla Biennale di Venezia.
Dragica
Vukadinović (Raška, 1949)
critica d’arte, ha lavorato dal 1971 al 2012 presso il Centro Culturale
Studentesco, prima come assistente al Fine Arts Program, poi come assistente
curatrice presso la Happy Gallery e redattrice del Documentation Program.
Istituisce l’Archivio del Centro Culturale Studentesco e parallelamente
sviluppa una propria produzione artistica che vede nell’utilizzo del mezzo
fotografico la ricerca di procedure e pratiche sperimentali.
Francesca
Barberi è una curatrice e
ricercatrice indipendente. I suoi studi recenti indagano i rapporti tra le
pratiche curatoriali sperimentali e la produzione artistica, legata a tematiche
femministe e inerenti la questione di genere, sviluppatesi in Jugoslavia
durante gli anni Settanta.
Note
[i]
Žarana Papić, “Women’s Movement in Former Yugoslavia: 1970s and 1980s” in What
Can We Do for Ourself? East European Feminist Conference, Center for
Women’s Studies, Belgrado, 1994, pp. 19-22.
[ii] Ho verificato, purtroppo non esistono copie disponibili presso la Biblioteca Nazionale della Serbia.
Intervista a Bojana Pejić, Jasmina Tesanović, Biljana Tomić e Dragica Vukadinović, a cura di Francesca Barberi.
•
“In Jugoslavia non avevamo un movimento femminista, avevamo le femministe” [i] così afferma Žarana Papić mentre ricostruisce il movimento femminista nella ex-Jugoslavia tra gli anni Settanta e Ottanta.
Papić, teorica e antropologa sociale, in quegli anni fa parte di un nutrito gruppo di sociologhe e storiche dell’arte – tra le quali Dunja Blažević, Slavenka Drakulić, Rada Iveković, Vesna Kesić, Nada Ler-Sofronić, Bojana Pejić e Lidija Sklevicky – che inizia ad occuparsi in maniera sistematica della questione di genere e femminista, mossa dall’esigenza di teorizzare una critica femminista al socialismo attraverso incontri accademici nelle istituzioni culturali di Lubiana, Zagabria e Belgrado.
In particolare, Dunja Blažević, allora direttrice della Galleria SCC del Centro Culturale Studentesco (SKC) di Belgrado, intreccia proficue collaborazioni con artiste, curatrici e intellettuali provenienti da tutto il mondo, le quali consentono di far confluire a Belgrado le principali esperienze artistiche femministe. La conferenza Drug-ca Žena: Žensko Pitanje – Novi Pristup? (Comrade Woman: Women’s Question – A New Approach?), tenutasi nell’ottobre 1978, rappresenta il culmine di questa fitta rete di scambi internazionali che si traducono nell’organizzazione di importanti eventi multidisciplinari.
Momento fondativo per il femminismo jugoslavo, per la prima volta le donne hanno la possibilità di mettere pubblicamente in discussione il dominio del patriarcato nella società socialista. La rivoluzione che accompagna questo evento risiede non solo nella possibilità di confronto con delegazioni provenienti da Francia, Germania dell’Ovest, Inghilterra, Italia, Polonia e Ungheria, ma anche nella decisione di voler affiancare ai tre giorni di dibattiti un ricco programma artistico e di proiezioni. Se da un lato le profonde differenze nell’organizzazione politica e sociale della Jugoslavia socialista, rispetto agli altri Paesi, generano incomprensioni, tensioni e perplessità, il programma di arti visive pone l’attenzione, attraverso la raccolta di estratti di articoli, ritagli di giornali, immagini e illustrazioni, sulla reale condizione femminile nella sfera privata e familiare jugoslava, caratterizzata ancora da una matrice fortemente patriarcale. Infatti, nonostante la propaganda promossa dal regime sostenesse una tendenza progressista ed egualitaria tra i generi, il patriarcato non scompare dal contesto socialista, il quale per molti versi preserva e persino riproduce i rapporti di potere basati sul dominio maschile, sulla subordinazione femminile e sull’economia eterosessuale normativa. In questa occasione, Goranka Matić espone le sue prime sperimentazioni legate al mezzo fotografico, presentando la serie The Portraits of Women (1978). L’opera, scattata per le strade di Belgrado insieme a Nebojša Čankarović, fotografo ufficiale del SKC, si compone di circa una quarantina di ritratti femminili. Matić si serve del genere del ritratto, da sempre mezzo per veicolare identità e simboli di potere, per indagare i desideri delle donne, i loro sogni. I nuovi media – tra i quali il video, l’installazione e la performance – sono utilizzati come strumento attraverso il quale combattere le costruzioni culturali, sociali e storiche relative al genere. La proiezione di film non solo di artiste jugoslave ma, e soprattutto, di registe estere – Liliana Cavani, Věra Chytilová, Rony Daopoulo, Dacia Maraini, Annabella Miscuglio, Nil Yalter – mostra il forte interesse da parte delle organizzatrici jugoslave nei confronti delle sperimentazioni del mezzo filmico come strumento politico e di sensibilizzazione su lotte e tematiche femministe. Tutti i film declinano nelle sue diverse sfaccettature la vita delle donne all’interno della società: le relazioni con gli uomini, il rapporto, spesso complesso, con la figura paterna, le difficoltà del mondo del lavoro, la lotta per l’ottenimento dei propri diritti ma anche l’esplorazione di sé e del proprio corpo nel tentativo di sovvertire i ruoli di genere che, nel cinema così come nelle arti visive e nei mass media, vengono fissati e rafforzati.
A quasi cinquant’anni di distanza dalla conferenza, le testimonianze di Bojana Pejić e Biljana Tomić, curatrici insieme a Dunja Blažević della Galleria SCC del SKC, Jasmina Tesanović, curatrice del programma di video screening e artista, e Dragica Vukadinović, archivista del Centro Culturale Studentesco ricostruiscono la rete di connessioni e relazioni internazionali, le iniziative curatoriali e le produzioni artistiche più significative che caratterizzarono Belgrado in un periodo di forti cambiamenti, lotte e una straordinaria ricchezza artistica.
Francesca Barberi: Ho letto che la Galleria del Centro Culturale Studentesco di Belgrado si fondava sulla collaborazione tra dipendenti regolarmente assunti e persone esterne (artisti, storici dell’arte, designer, studenti di filosofia e sociologia etc.). Uno scambio proficuo, basato su un approccio orizzontale e non gerarchico, la cui informalità ha permesso ai giovani artisti di organizzare iniziative collettive, mostre e proiezioni in una forma libera e autogestita. Lei frequentava il Centro Culturale Studentesco di Belgrado? Si ricorda di queste dinamiche? Era un nuovo modo di fare arte a Belgrado e in tutta la Jugoslavia?
Biljana Tomić: Quello che è successo a Belgrado negli anni Sessanta e Settanta è stato un cambiamento generale e culturale, che ha trasformato per sempre il comportamento di un’intera società. Tutto questo è iniziato in maniera molto semplice. Ho cominciato a studiare Storia dell’Arte perché pensavo di lavorare come guida turistica, per avere la possibilità di guadagnare qualche soldo. Agli inizi degli anni Sessanta, grazie a un programma di scambio per studenti, sono andata a Perugia per imparare la lingua italiana. Seguivo le lezioni di Storia dell’Arte del professore Carlo Argan e, tutto il tempo libero che avevo, lo passavo andando in giro, insieme ad altre ragazze, facendo l’autostop. Così ho avuto la possibilità di visitare città, chiese, monumenti e palazzi. Sono andata anche a Roma, dove a Piazza del Popolo c’era un’atmosfera così vivace. C’erano due ristoranti: Canova, più conservatore, e Rosati, innovativo, dove si trovavano i giovani artisti. C’era grande entusiasmo, gli artisti più anziani e gli uomini di cultura importanti solitamente avevano i soldi per sedersi, mentre i giovani stavano in piedi. Ero molto curiosa, chiedevo a tutti chi fossero e cosa facessero, era un periodo di grandi libertà. C’erano enormi possibilità di conoscersi, dicendo anche solo: “Ciao, come stai? Possiamo parlare?”. Era molto facile. Il mio percorso, dunque, è iniziato a Roma, grazie ai viaggi che facevo e ai contatti che ho instaurato.
Jasmina Tesanović: A quei tempi, non vivevo a Belgrado ma da undici anni abitavo a Roma, dove praticavo Arte concettuale. Sono andata via di casa molto giovane, per poter sperimentare la mia pratica artistica. In Italia lavoravo nel cinema, scrivevo molte sceneggiature. Ho incontrato Alighiero Boetti e Umberto Silva. Ho collaborato con la rivista La città di Riga, Pier Paolo Pasolini e Bernardo Bertolucci.
Biljana Tomić: Erano gli anni della Poesia visuale: anche io ho iniziato a inviare lettere a tantissimi contatti e ne ricevevo altrettante. La cosa interessante è che ciò che tu spedisci non ritorna, io ad oggi non ho nessuna mia lettera, non ho nulla della mia produzione visuale. Mirella Bentivoglio aveva alcune mie lettere che ha esposto in diverse mostre (ad esempio: “Poesia visiva”, a cura di Mirella Bentivoglio e Sylvia Franchi. Roma, Studio d’Arte Contemporanea Artivisive, 20-31 marzo 1974). In questi contesti nascevano delle amicizie che, inizialmente sembravano più un gioco, ma che poi diventavano molto profonde. Negli anni Sessanta non esisteva ancora il Centro Culturale Studentesco. C’era una generazione di artisti e storici dell’arte, di cui anche io facevo parte, che ha cominciato verso la metà degli anni Sessanta a collaborare con un importante teatro di Belgrado, Atelje 212. Usavamo lo spazio del teatro come una Galleria, così è nata la Galleria 212. Questi sono stati i miei primi passi. Ognuno di noi aveva diversi contatti, tutti portavano qualcosa dai Paesi in cui erano stati e delle esperienze che avevano vissuto. Così pian piano abbiamo aperto uno spazio molto importante, con ospiti internazionali. Era molto facile spedire le opere. Le nostre iniziative volevano presentare artisti stranieri a Belgrado. La scena si muoveva, mutava, era in continua trasformazione. I giovani cambiavano il linguaggio culturale e artistico. Era tutto un’innovazione, non era mai accaduta una cosa del genere a Belgrado. Anche a Roma i giovani curatori, figli dei galleristi, aprivano nuove Gallerie, come Sargentini e Sperone. C’era una ricerca straordinaria, un’immaginazione meravigliosa soprattutto legata all’Arte povera. In Jugoslavia, a Belgrado così come a Zagabria, incominciavano le nuove tendenze, artisti che lavoravano su aspetti legati alla geometria, al movimento, all’ambiente e un’apertura verso la scienza: i primi computer, l’Arte cinetica. Io conoscevo tutti. In quel periodo era stata inaugurata a Zagabria la mostra “Nova tendencija” (“Nuova tendenza”), un evento importante, che presentava i nuovi movimenti artistici che stavano nascendo in Jugoslavia. Qualcosa stava cambiando, c’era qualcosa di nuovo su diversi livelli. Era un cambiamento generale ma così forte, così pieno di energia che i nostri rapporti erano molto solidi. Pur non conoscendoci, ci sentivamo vicini. Io scrivevo a diverse persone, nonostante non sapevo chi fossero e cosa facessero, e loro scrivevano a me. Pur essendo sconosciuti ci sentivamo in contatto. Era una cosa bellissima. Aver ricevuto una lettera significava conoscere di più una persona, essere più vicini, aver ricevuto per sempre qualcosa di suo. Così iniziava quello che noi abbiamo chiamato la scena internazionale. Eravamo giovani, matti e tutti insieme, non importava da quale Paese provenissimo.
Nel 1963 ho incontrato a Zagabria Germano Celant, a Roma ho conosciuto il giovane Achille Bonito Oliva, Giancarlo Politi con i primi Flash Art e molti artisti come Jannis Kounellis e Pino Pascali. Nel 1967 a San Marino c’è stata la mostra “Nuove tecniche d’immagine”. È stata la cosa più bella che mi sia successa nella vita, perché è stata l’ultima volta in cui tutte le tendenze artistiche si sono trovate insieme in un unico luogo. Era una vera gioia assistere a una situazione così bella, amichevole e vivace, dove erano presenti tutti i critici, direttori e artisti più importanti del momento. Io potevo parlare con Alberto Burri, Lucio Fontana… Eravamo tutti cari amici ed era un’emozione incredibile. Le donne rivestivano un ruolo fondamentale per l’Arte povera. Il concetto di coppia, formato dall’artista e dalla propria compagna, era molto importante. Infatti, in quel periodo le ragazze davano una mano concreta nella realizzazione delle opere. Si sapeva che anche le donne contribuivano in maniera attiva e di questo erano molto fiere. Eravamo tutte molto amiche e io le sento ancora come sorelle, sorelle nate da una lotta. È un legame molto forte che non si dimentica. Ci sentivamo parte di qualcosa. Io e mio marito Ješa Denegri, anche se non eravamo nessuno ci sentivamo felici, avvertivamo di essere parte di qualcosa che stava accadendo ed è stata l’ultima volta che mi sono sentita così. Era un momento importante perché si iniziava a parlare di cambiamenti, a presentare nuovi movimenti artistici. In quegli anni Tommaso Trini cominciava con sua moglie a pubblicare la rivista Data Arte. Le nuove riviste erano molto importanti in quanto contribuivano a creare il linguaggio nascente. Nel 1968 ero a Venezia, insieme agli studenti abbiamo chiuso la Biennale. Io avevo chiuso il Padiglione della Jugoslavia… Come erano arrabbiati. Dopo ho chiesto a Pino Pascali se volesse venire a Belgrado e lui mi ha risposto: “Perché no!”. Allora, abbiamo chiamato subito Germano Celant per chiedergli se avesse voluto curare una mostra dedicata all’Arte povera a Belgrado e lui ha risposto: “Perché no!”. La mostra si sarebbe tenuta nel teatro anche se, quando glielo chiesi, non sapevo ancora se avrei avuto lo spazio a disposizione. Volevo solo sapere se sarebbero venuti a Belgrado. Era l’occasione per fare qualcosa di importante a livello internazionale. Quando il teatro mi disse va bene, subito ho detto: “Venite!”.
La mostra non si è più fatta quando ho appreso da un telegramma che era morto Pino Pascali. Sono stata così triste, era come se fosse morto un fratello. Nessuno si è sentito di venire, ho fatto la mostra con le foto delle opere.
[si commuove]
Qualche tempo dopo è venuto Germano Celant a tenere una conferenza sull’Arte povera, l’Arte concettuale e la Land Art. Dopo, è venuto Michelangelo Pistoletto con il suo teatro di strada Lo Zoo. A Belgrado, dopo il 1968, lo Stato ha deciso di aprire il Centro Culturale Studentesco di Belgrado (SKC). Quando ha aperto SKC nel 1971 io lavoravo ancora al teatro, fino al 1973. Al Centro venivano studenti e studentesse dell’Accademia di Belle Arti. Erano i giovani artisti e le giovani artiste a creare il nuovo linguaggio. Io in quanto curatrice li appoggiavo ma erano loro a doversi scontrare.
[ride]
Era un luogo molto attivo, molto vivace. Ci sono state tante lotte, tanti amori, tante critiche.
Bojana Pejić: Nel 1969 avevo iniziato a studiare Storia dell’Arte presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Belgrado insieme a Goranka Matić. Goranka è sempre stata più curiosa di me e mi invitò ad andare con lei all’inaugurazione del Centro Culturale Studentesco il 3 aprile 1971. Il 4 aprile ricorreva la Giornata degli studenti dell’Università di Belgrado. Allora, Goranka mi presentò Dunja Blažević, che mi propose di diventare assistente della Galleria del SKC. Iniziai a lavorare quando ero ancora studentessa e nel 1976 iniziai a gestire il programma di Informazioni e Documentazione. Ho lavorato presso il Centro fino al 1991, quando mi sono trasferita a Berlino.
Dragica Vukadinović: Ho iniziato a frequentare il Centro Culturale Studentesco fin dall’inizio, nell’aprile 1971. Allora ero una studentessa di Storia dell’Arte e, insieme a un gruppo di compagni della facoltà e alcuni artisti, divenni membro della cosiddetta redazione allargata della Galleria, formata da Dunja Blažević, allora redattrice del programma artistico e curatrice, e da Biljana Tomić, responsabile del servizio Informazioni e Documentazione. Era un nuovo modo di “produrre cultura”, c’erano altri centri seri che seguivano le nuove pratiche artistiche ma per quasi due decenni SKC ha avuto l’intensità maggiore, con un’attività interdisciplinare informale ed immediata che interessava sia gli artisti sia un pubblico culturale e sociale più ampio.
Jasmina Tesanović: Con i soldi che avevo guadagnato, grazie a una sceneggiatura realizzata a Roma, per la quale mi avevano pagato tantissimo, invece di comprarmi una casa, ho acquistato tutta l’attrezzatura necessaria per produrre Arte alternativa. Sono stata la prima ad avere una videocamera Sony a Belgrado! Chiunque frequentava il Centro poteva usufruire della strumentazione che avevo comprato.
Biljana Tomić: La mia amica Dunja Blažević era la direttrice della Galleria. Quando è partita per New York, mi ha invitata a prendere il suo posto e ad occuparmi del programma artistico e curatoriale finché non fosse tornata.
Bojana Pejić: Il Centro Culturale Studentesco di Belgrado è stato fondato in seguito alle proteste studentesche del 1968. L’SCC, istituzione che riceveva i fondi per il materiale e i programmi dell’Università, era parte dell’Università di Belgrado. A Zagabria, i Centri Studenteschi esistevano già dal 1959 e dal 1966 la Galleria del SC (Studentski Centar u Zagrebu) contribuiva alla promozione della “New Art”. Il primo direttore del SCC di Belgrado era Petar Ignjatović, il quale aveva studiato Storia dell’Arte insieme a Dunja Blažević. Le attività promosse dal Centro erano modellate sul concetto occidentale di ICA (Institute of Contemporary Art). C’era un programma legato alle attività della Galleria, a cura di Dunja, un Filmforum, un programma di conferenze e uno dedicato alla musica classica, un teatro sperimentale e in seguito è stata aperta la Happy New Art Gallery, inizialmente incentrata sulla ricerca fotografica. Per me, era molto importante la Biblioteca, specializzata in Scienze Sociali, che riceveva regolarmente circa quattrocento riviste provenienti da tutto il mondo.
Dragica Vukadinović: Qualche mese dopo, Biljana ha assunto noi tre storiche dell’arte (Bojana Pejić, Zorica Lojpur e me) per lavorare come assistenti e imparare il mestiere della gallerista. È stata una pratica innovativa e preziosa, rara per l’epoca. Biljana ha poi “allevato” diverse generazioni di futuri curatori, critici d’arte, professori universitari, giornalisti e, soprattutto, artisti. Tutte noi, indipendentemente dal nostro impegno ufficiale, abbiamo trascorso molto tempo al Centro Culturale, curando gli eventi quotidiani, prendendo parte a conversazioni formali e informali, seguendo conferenze in diversi ambiti – filosofia, scienza, arte, politica. Abbiamo assistito alla proiezione di film alternativi, performance di danza, spettacoli teatrali d’avanguardia, con ospiti jugoslavi e stranieri. Era molto dinamico, impegnativo ma promettente, a tal punto che qualche anno dopo ho rifiutato la proposta di diventare una curatrice “rispettata” presso il Museo d’Arte Contemporanea di Belgrado perché pensavo fosse più valido rimanere una semplice collaboratrice in una piccola Galleria come quella del SKC.
Bojana Pejić: Dunja ha indirizzato il programma della Galleria verso la “New Art”, anche chiamata a partire dagli anni Settanta “New Art Practice”. Questo termine indicava la produzione artistica di una giovane generazione di artisti, attivi a partire dagli anni Sessanta, i quali si servivano di nuovi media come la fotografia, il video, la performance, di interventi spaziali e installazioni non solo come mezzo di espressione ed esplorazione, ma anche per sostenere una posizione critica nei confronti della quotidianità mettendo in discussione l’idea stessa di Arte e sottolineando la necessità di un suo impegno sociale.
Per quanto riguarda l’attività di gallerista, Dunja era solita definirla “applied (art) criticism”, ovvero invece di fare critica d’arte, lei l’arte la “applicava”. Oggi chiamiamo questo tipo di approccio, che comprende il confronto con gli artisti, l’allestimento delle mostre, la realizzazione di cataloghi e l’organizzazione di conferenze, curatela.
Biljana Tomić: In quel periodo, si è formato il Gruppo 6 (composto da Raša Todosijević, Era Milivojević, Marina Abramović, Zoran Popović, Neša Paripović, Gergelj Urkom) che realizzava azioni performative e spaziali. Era una generazione con un linguaggio diverso rispetto agli artisti degli anni Sessanta.
Bojana Pejić: Questa generazione si era ribellata alla tradizione modernista, riconosciuta come arte ufficiale in Jugoslavia, per adottare nuovi media. Nel Centro Culturale Studentesco avvenivano riunioni collettive quasi una volta alla settimana, per decidere insieme i programmi futuri e parlare delle mostre passate. Il gruppo era costituito da artisti e giovani storici dell’arte. Quasi dopo ogni mostra, sia che fosse di un artista locale o internazionale, c’era una sezione dedicata al dibattito. Si svolgevano anche conferenze con critici d’arte internazionali. Noi ci sentivamo parte del Big World. Non abbiamo mai mancato a un’inaugurazione della Biennale di Venezia o di una Documenta di Kassel.
Biljana Tomić: A Belgrado sono poi venuti Gina Pane, Joseph Beuys… Beuys l’ho conosciuto tramite il suo gallerista di Napoli, Lucio Amelio. Amelio mi disse: “Brava, brava Biljana, ottimo! Mi piace quello che fai, dovresti invitare Beuys a Belgrado.”. E così siamo diventati amici, ho contattato Beuys che è venuto per un’intera settimana. È stato l’ultimo momento in cui ho sentito questa vicinanza. È stata la prima e ultima volta in cui i nostri linguaggi erano uguali, quando parlavamo la stessa lingua. Questo era fantastico perché ci univa. Invitare ospiti internazionali a Belgrado significava avere una testimonianza diretta del loro lavoro, di cosa significasse, della situazione culturale del loro Paese, tutto ciò era importante per capire cosa stesse accadendo all’estero. Erano spesso anche discorsi politici, ed era normale. In Serbia, essendo stati comunisti, non puoi parlare d’arte senza toccare la politica. La Jugoslavia era un Paese aperto, si poteva viaggiare ed io mi sentivo estremamente libera di poter fare tutto. Questa libertà ti dava coraggio. Sentivo una grande apertura. A partire dal 1975, venivo molto spesso in Italia e ho iniziato ad avvertire un cambiamento politico, cominciavano a nascere i primi movimenti legati alle libertà delle donne che, ad essere molto sincera, inizialmente non capivo fino in fondo perché sentivo di poter comunicare apertamente con qualsiasi persona, a prescindere che fosse donna o uomo.
Jasmina Tesanović: In Italia non c’era la possibilità di divorziare o di abortire. Le donne si sono ribellate e hanno ottenuto questi diritti. Tutto si creava a partire dall’esperienza quotidiana, dove spesso si vivevano situazioni molto difficili. In Jugoslavia la situazione era un po’ diversa, c’erano leggi più avanzate ma la prassi era orribile: le donne erano sottopagate, non uscivano e dovevano prendersi cura della casa e della famiglia. In Italia vedevo donne più emancipate, nonostante le leggi retrograde, rispetto al sistema patriarcale molto duro che vigeva in Jugoslavia. Nei giorni della conferenza abbiamo portato alla luce la realtà quotidiana delle donne, per questo poi ci hanno criticate.
Biljana Tomić: Mi creava confusione, in quegli anni collaborare con un Paese comunista aveva delle implicazioni politiche e culturali. La Jugoslavia aveva abbandonato l’arte figurativa e questo veniva riconosciuto a livello europeo. Scambiare, viaggiare, presentare era un sogno. Tu non puoi immaginare quante mostre abbiamo fatto in Italia e quanti artisti siano venuti a Belgrado. Io sono sempre stata una pecora nera, sono sempre stata molto attiva e alla gente non piacevo per questo. Non avevo successo, non posso dire di aver fatto qualcosa di speciale, ma avevo tanti contatti. Mi invidiavano per la libertà che avevo nelle relazioni. E grazie a questo riuscivo a creare i programmi della Galleria. Gli altri erano molto gelosi, e questa invidia si avvertiva delle volte anche all’interno del Centro. Sai, eravamo tanti storici dell’arte e ognuno aveva le proprie visioni. Il Centro, devi sapere, inizialmente non era tanto voluto, non solo per i cambiamenti che ha comportato nell’ambito artistico, ma anche per la posizione ricoperta dagli artisti. Tutti i giovani che venivano erano figli delle famiglie più importanti del Paese a livello politico e questo creava dei problemi. Si diceva che il Centro fosse un luogo per i privilegiati, per i figli del comunismo. Per me questo non significava niente, erano miei cari amici, intelligenti e ben educati. Erano persone colte, che parlavano perfettamente tre lingue e questo era fondamentale per poter comunicare con l’estero. Io parlavo l’italiano, altri il francese o l’inglese e questo ci ha permesso di essere un luogo internazionale. Non eravamo soltanto una novità culturale ma eravamo anche capaci di instaurare relazioni con il resto del mondo grazie ad un altissimo livello intellettuale. Avevamo un linguaggio troppo internazionale rispetto al resto della Jugoslavia. Eravamo distaccati rispetto alla reale situazione culturale del Paese, eravamo pochi e per questo a volte venivamo aspramente criticati. Era una situazione delle volte molto dura ma eravamo giovani e non ci interessava tanto.
Francesca Barberi: Parlando nello specifico della conferenza del 1978, vennero organizzate due mostre documentarie: Jugoslovenska žena u statistici (The Jugoslav Woman in Statistics), che presentava dei dati raccolti dai media ufficiali di Stato (come lo Statistički godišnjak – Rapporto Statistico Annuale), l’esposizione Seksizam oko nas (The Sexism That Surround Us), riguardante una selezione di estratti dalla stampa jugoslava. E, infine, la pubblicazione Žena u statistici Jugoslavije (A Woman in Statistics of Yugoslavia), curata dall’organizzazione CSAW (Conferenza per l’Attività Sociale delle Donne). Se le ricorda? Potrebbe descrivermele?
Biljana Tomić: L’arte era il linguaggio. Nell’Arte concettuale, quello che scrivi diventa l’opera. Utilizzavamo un linguaggio contro l’altro. Io in realtà non ero parte dell’organizzazione né delle mostre né della conferenza. Dunja Blažević era molto attenta ai primi movimenti femministi che stavano nascendo in Europa, si informava sempre di più grazie a tutti i contatti che aveva instaurato nei diversi Paesi.
Dragica Vukadinović: In realtà mi stupì che la conferenza non avesse un programma artistico più ricco.
Biljana Tomić: Verso la fine degli anni Settanta, abbiamo iniziato a parlare della posizione della donna all’interno dello Stato. A Belgrado nasceva una nuova tendenza da parte delle artiste che cercavano la propria libertà. Si opponevano, a volte in maniera anche violenta, agli uomini. Ma questo desiderio, di avere una posizione contraria rispetto al genere maschile, nasceva dalla necessità di ricercare la propria libertà di donna. Il movimento femminista, almeno in Serbia, nasceva da una sincera voglia da parte dei giovani di cambiare la situazione, di essere qualcosa di nuovo e di combattere le vecchie teorie. Era la voglia di uscire e di presentarsi, così è stata organizzata la conferenza. Sono venuti gruppi di femministe provenienti da diversi Paesi: Italia, Francia, Inghilterra.
Jasmina Tesanović: Alla conferenza si sono presentate donne provenienti da tutto il mondo, alcune non le avevamo invitate ma volevano esserci, altre che avevamo invitato non si sono presentate. Così alla fine abbiamo fatto fatica a capire chi fosse realmente presente. In quel momento non ci rendevamo conto che sarebbe diventato un evento importante.
Dragica Vukadinović: Da quello che ricordo, tutti i programmi artistici, che si sono svolti in contemporanea ai dibattiti, sono stati concepiti da Žarana Papić, una sociologa. Se escludiamo la mostra dedicata all’opera di Goranka Matić, la maggior parte delle esposizioni avevano una natura informativa e documentaria, senza la partecipazione diretta delle artiste. Due anni prima, durante il festival di Extended Media, si era tenuta presso la Galleria una conversazione molto fruttuosa con artiste e partecipanti sul tema Donne nell’arte, alla quale aveva partecipato, tra gli altri, Žarana. Ho sempre pensato che quell’evento abbia in qualche modo ispirato Žarana a intraprendere questa avventura. Ci furono sicuramente delle discussioni su quell’argomento, ma non me lo ricordo più, e non ho potuto seguire molto i dibattiti perché lavoravo e cercavo soprattutto di guardare i film che venivano proiettati e che non avevo mai visto prima. Mi sembra che ci fossero delle tabelle che riportavano dati statistici e che queste fossero collocate su pannelli temporanei. Per la mostra Seksizam oko nas (The Sexism That Surround Us) c’erano anche alcuni ritagli di giornale che riportavano messaggi sessisti o patriarcali. L’esposizione dedicata a Claire Bretécher consisteva in alcuni dei suoi fumetti, raccolti personalmente da Žarana Papić, disposti sempre su pannelli mobili. Non era quindi particolarmente attraente come mostra, e credo sia possibile che i resti di quel materiale si trovino ancora nell’archivio di Žarana, che dovrebbe essere conservato presso il Centro degli Studi sulle Donne di Belgrado. Per quanto riguarda, infine, la pubblicazione Žena u statistici Jugoslavije (A Woman in Statistics of Yugoslavia) dovrebbero esistere almeno due copie nella Biblioteca Nazionale della Serbia [ii].
Biljana Tomić: Io ero presente ed ascoltavo. Poi era l’inizio, non c’erano delle teorie precise e ognuna diceva le proprie impressioni. Ci si poneva tante domande relative alla posizione della donna nella società, nella famiglia, nei rapporti con l’altro sesso ma non mi sono occupata della curatela di questo evento. Erano stati presentati anche dei film, ma non ricordo bene.
Jasmina Tesanović: Quello che posso raccontare parte dal 1978, quando presi parte all’organizzazione della conferenza, occupandomi del programma filmico. Avevo una casa in affitto, molto grande e molto bella, senza niente dentro. Tutti dormivano per terra, ma noi eravamo punk, eravamo artisti.
[ride]
A casa mia c’era Dacia Maraini e Anna Marie Boetti, che realizzò una performance durante i tre giorni. Mi sono occupata personalmente della documentazione dell’evento. L’unico materiale che sono riuscita a salvare, nonostante le guerre e i bombardamenti, è parte delle riprese dei dibattiti. Inizialmente dovevano poi essere trasmessi in un programma televisivo. In più, ho realizzato un paio di performance. Nella prima, ho messo la mia videocamera al centro della Galleria del SKC con un nastro magnetico visivo che durava solamente 30 minuti. Chiunque entrava nello spazio poteva usare la camera e registrare quello che voleva. Dopo 30 minuti, però, era necessario cancellare qualcosa per continuare a riprendere, era un momento di creatività e di partecipazione. La stampa, i giornalisti non avevano capito niente del mio lavoro. A quei tempi dare la possibilità al pubblico di partecipare a livello tecnologico era qualcosa di totalmente nuovo. Questo nastro credo sia andato perduto. La performance è durata tre giorni e si intitolava L’essere artistico non montato perché tutti i partecipanti prendevano parte attivamente al montaggio. Avevo proiettato anche un film Love is Basically Spoken Words. Purtroppo, è andato quasi tutto perduto a causa della guerra, si sono salvati solo i primi tre minuti. In realtà era una performance. Durava 15-20 minuti, durante i quali giravo all’interno di uno spazio chiuso. Diversi artisti entravano nell’inquadratura, parlavano e poi uscivano. Io credevo, e credo tutt’ora, nel concetto del “one and for all”, alla base dell’arte performativa. Non si può rifare una performance, avviene in quel momento e basta.
E anche quello che viene registrato non è mai realmente uguale a quello che è successo. È come un abbraccio, un bacio, non lo si può ripetere. Tutto quello che è stato fatto e proiettato in quei giorni era qualcosa al di fuori del mainstream.
Bojana Pejić: Durante la conferenza ero molto impegnata nell’organizzazione, ho partecipato solo per alcune ore a delle discussioni. Ricordo però l’energia che si respirava durante i dibattiti e ho poi seguito gli attacchi che ci sono stati rivolti dalla stampa di Belgrado. Ricordo vagamente l’installazione di Goranka. Anzi, ora che ci penso, guardando le fotografie della mostra, mi ricordo di essere anche stata fotografata. Conosco tutti i lavori fotografici realizzati da Goranka dal 1978 ad oggi. Nel 2021 è stata organizzata una retrospettiva della sua pratica fotografica intitolata Iskustvo u gužvi (Crowd Experience), a cura di Una Popović presso il Museo di Arte Contemporanea di Belgrado, per la quale ho scritto un testo sul catalogo.
Dragica Vukadinović: Credo che anche la mostra di Goranka sia nata da un’idea di Žarana e che fosse in linea con il progetto di attivismo sociologico-femminista portato avanti tramite la realizzazione, insieme al sociologo Ivan Vejvoda e al grafico Dragan Stojanovski, di manifesti, affissi in luoghi pubblici e nelle facoltà universitarie. All’epoca Goranka non si occupava ancora di fotografia. Infatti, è stato il fotografo ufficiale del Centro, Nebojša Čanković, a scattare i ritratti. Goranka, inoltre, poneva alle donne fotografate domande del tipo: “Come vorresti essere chiamata?” o “Cosa vorresti fare?”. Le risposte accompagnavano i loro ritratti. Il lavoro era, quindi, concettuale-attivista e non si presentava come una tradizionale mostra fotografica. Tra l’altro, io e Goranka siamo diventate amiche mentre studiavamo Storia dell’Arte e insieme abbiamo condiviso molto nel corso della vita. Nel 1985, nella Happy Gallery del SKC, organizzai la sua prima mostra fotografica e scrissi il testo del catalogo, poi, in occasione della minirassegna “Beorama”, dove curavo la sezione fotografica, pubblicai un suo piccolo portfolio fotografico.
Francesca Barberi: Quale pensa sia stato il lascito più significativo di questa conferenza? Come ha inciso sulle donne e sul movimento femminista nella Jugoslavia di quegli anni? Avere un confronto con femministe provenienti da altri Paesi come Italia, Francia, Germania e Inghilterra, che impatto ha avuto sulle donne jugoslave?
Biljana Tomić: Penso che questo incontro sia stato importante e molto positivo. È stato l’inizio di qualcosa di interessante. Sono stati incontri che hanno avuto grande influenza, hanno cambiato certi rapporti e presentato il futuro della comunicazione, dell’espressione. Nella vecchia Jugoslavia, ma in tutto il mondo in realtà, c’era una posizione molto conservatrice nei confronti del ruolo della donna. Si volevano rompere tutte le imposizioni negative che esistevano tra la donna e la vita e questa conferenza ha fatto molto, ha aperto le speranze di un cambiamento. Le ragazze degli altri Paesi erano molto più avanti, noi in confronto sembravamo delle bambine.
[ride]
Jasmina Tesanović: Alla fine siamo state additate come delle streghe che avevano fatto qualcosa contro il regime.
Bojana Pejić: La Conferenza ha avuto un impatto immeditato sulla stampa locale serba, siamo state fortemente attaccate! Nel 2003 l’Asocijacijaza ženske incijative (Association for Women’s Initiative) ha pubblicato, a cura di Dragica Vukadinović, una raccolta dei principali articoli diffusi durante e subito dopo l’evento. Da questi articoli, emerge con chiarezza la posizione della CSAW (Conferenza per l’Attività Sociale delle Donne), secondo la quale il socialismo jugoslavo aveva “risolto” la questione femminile concedendo alle donne il diritto di voto, il diritto all’aborto e un accesso paritario all’istruzione e al mondo del lavoro. Il “New Approach” su cui ci siamo interrogate con Drug-ca Žena voleva, invece, affrontare i problemi delle donne all’interno della cosiddetta sfera privata, governata da un patriarcato “socialista”. Questo appare chiaro nello slogan: “Proletari di tutti i Paesi chi lava i vostri calzini?”, presente nella vignetta realizzata dal famoso grafico croato Mirko Ilić, pubblicata nel quotidiano croato Jutarnji list nel 1978.
Dragica Vukadinović: Pensando a quale possa essere l’eredità della conferenza, non credo di essere veramente qualificata per rispondere seriamente a questa domanda. Dopo l’evento, a Belgrado è stato fondato il gruppo di ricerca femminista Women and Society, all’interno del Centro Culturale Studentesco, da cui in seguito è nato il Centro per gli Studi sulle Donne, che ha lanciato una linea telefonica SOS per aiutare le donne vulnerabili. All’inizio degli anni Novanta, è stato fondato il Women Party, e in seguito si sono formati molti altri gruppi femministi con obiettivi diversi, come l’organizzazione Women’s Movement – Women’s Network, Women in Black, Women’s Documentation Center, etc. Sicuramente Drug-ca Žena: Žensko Pitanje – Novi Pristup? ha avuto un’influenza indiretta sulla creatività e sull’attenzione delle artiste, sull’espansione della cosiddetta letteratura femminile e persino sulla critica d’arte.
Biljana Tomić: Ho visto grande coraggio. Mia madre era una vera femminista. Io e Bojana siamo state intervistate dalle partecipanti francesi per raccontare la storia delle nostre madri. Si dice che le persone di città e quelle di campagna abbiano caratteri diversi. Io sono una contadina, sono molto curiosa, sono molto libera, posso dire tutto e non ho paura di niente. Sono nata nel 1940, nel 1944 una notte mi sono svegliata e ho visto mia mamma che raccoglieva le sue cose. Le ho detto: “Mamma, cosa fai?”. E lei mi ha risposto: “Devo andare.”
Allora le ho detto che sarei andata con lei e così siamo andate via. Mia mamma ha lasciato la sua casa per trovare la propria libertà, era molto aperta. Abbiamo iniziato la nostra nuova vita a Belgrado. Io da lei ho preso questo coraggio, di dire sempre quello che penso. Questo coraggio l’ho impiegato anche per svolgere il mio lavoro al Centro. In particolare, ho sentito di essere libera quando ho trovato il mio modo di comunicare grazie all’arte. È stata l’arte a darmi la possibilità di esprimere le mie libertà di donna. Penso che ogni donna debba credere in sé stessa, essere forte. Io ero molto innamorata dell’arte. Insieme a mio marito, curatore e critico, abbiamo fatto molto per i giovani artisti, per farli conoscere e scrivere di loro. Abbiamo fatto quello che è stato possibile, facevamo l’impossibile nella posizione del possibile. E sono felice che quelli che allora erano i giovani artisti sono ora i maestri delle nuove generazioni. Il mio ruolo è sempre stato quello di aiutare i giovani. Ho lottato molto per creare nuove situazioni, nuovi spazi, aprire gli occhi delle persone. L’arte è sempre stata la mia prima ragione di vita.
Bojana Pejić (Belgrado, 1948) è curatrice, storica dell’arte e docente. Dal 1977 al 1991 è stata curatrice del Centro Culturale Studentesco di Belgrado. Tra le sue numerose mostre, nel 2007 ha seguito il progetto espositivo Gender Check – Femininity and Masculinity in the Art of Eastern Europe (from the 1960s to mid-1990s), organizzato dalla Erste Foundation di Vienna e inaugurato nel 2009. La mostra presentava opere relative alla questione di genere provenienti da 24 Paesi post-socialisti. È stata allestita al MUMOK di Vienna (2009-2010) e alla Zacheta Gallery di Varsavia (2010).
Jasmina Tesanović (Belgrado, 1954) è scrittrice, attivista, giornalista, traduttrice, regista e sceneggiatrice. La sua opera più famosa è Diary of a Political Idiot (2000), tradotto in 12 lingue, pubblicato in italiano col titolo Normalità. Operetta morale di un’idiota politica (Fandango, 2000), un diario di guerra scritto durante il conflitto del 1999 in Kosovo. Realizza tutti i suoi lavori, film e documentari affrontando tematiche sempre connesse al mondo di internet e alla tech art.
Biljana Tomić (Novo Selo, 1940) grazie al suo prezioso lavoro curatoriale ha introdotto nella scena artistica di Belgrado nuovi movimenti artistici internazionali, storici, critici e galleristi. Ha collaborato, fin dalla sua inaugurazione, con la galleria del SKC a fianco di Dunja Blazević. Dal 1968 al 1973 è stata curatrice della Galleria 212, dal 1971 al 1972 curatrice del Centro Culturale Studentesco e dal 1976 fino al 1999 direttrice del programma di arti visive della Galerija SKC di Belgrado. È stata curatrice di numerose manifestazioni di rilievo internazionale come la Biennale di Parigi, la Biennale di Venezia, la Documenta di Kassel. Nel 1978 ha partecipato alla mostra Materializzazione del linguaggio, a cura di Mirella Bentivoglio, alla Biennale di Venezia.
Dragica Vukadinović (Raška, 1949) critica d’arte, ha lavorato dal 1971 al 2012 presso il Centro Culturale Studentesco, prima come assistente al Fine Arts Program, poi come assistente curatrice presso la Happy Gallery e redattrice del Documentation Program. Istituisce l’Archivio del Centro Culturale Studentesco e parallelamente sviluppa una propria produzione artistica che vede nell’utilizzo del mezzo fotografico la ricerca di procedure e pratiche sperimentali.
Francesca Barberi è una curatrice e ricercatrice indipendente. I suoi studi recenti indagano i rapporti tra le pratiche curatoriali sperimentali e la produzione artistica, legata a tematiche femministe e inerenti la questione di genere, sviluppatesi in Jugoslavia durante gli anni Settanta.
Note
[i] Žarana Papić, “Women’s Movement in Former Yugoslavia: 1970s and 1980s” in What Can We Do for Ourself? East European Feminist Conference, Center for Women’s Studies, Belgrado, 1994, pp. 19-22.
[ii] Ho verificato, purtroppo non esistono copie disponibili presso la Biblioteca Nazionale della Serbia.