Foreigners everywhere/Stranieri ovunque è il titolo della 60. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, a cura di Adriano Pedrosa. Una mostra che, citando Pedrosa stesso, “punta […] i riflettori su artisti che sono essi stessi stranieri, immigrati, espatriati, diasporici, emigrati, esiliati o rifugiati, in particolare quelli che si muovono tra il Sud e il Nord del mondo. E qui i temi chiave sono migrazione e decolonizzazione. […] Mi identifico anche come queer, il primo curatore dichiaratamente queer nella storia della Biennale Arte”.In sintesi una Biennale che, analogamente alla scorsa edizione a cura di Cecilia Alemani, pone al centro del proprio discorso la rappresentazione etnica e di genere come paradigma teorico, insistendo sull’inclusione di voci che sono state e sono tutt’ora largamente represse o dimenticate. É vero che la rappresentazione è uno strumento potente capace di innescare slanci decisivi per l’autodeterminazione e la validazione ontologica, oltre che culturale, di realtà rimaste per secoli subalterne, eppure il rappresentare, inteso come semplice mettere in presenza, non basta.
La ricerca di
artisti non bianchi e queer presentata da Pedrosa e il suo team curatoriale è
estesa e articolata, ma la buona riuscita dei suoi intenti diventa dubbiosa se
associata alla narrativa diluita e pericolosamente generalista promossa. Invece
di esaltare le produzioni culturali di paesaggi culturali eterogenei, il
discorso museografico tessuto dalla curatela le omologa a favore di una
fruibilità specificamente occidentale. Di fatti non sfugge il carattere
accomodante della mostra, che rimarca feticci modernisti in sottile consonanza
con le politiche della grande macchina espositiva della Biennale, da tempo
indubbiamente impegnata nella mansuefazione degli slanci critici che la
attraversano. É importante non dimenticare che queste proposizioni teoriche si
contestualizzano all’interno di un’istituzione centenaria che ha vissuto ampie
oscillazioni nel suo posizionamento politico. Un’istituzione che oggi, in
questa sua mobilità, si presenta protesa verso una disposizione conservatrice
destrorsa. La Biennale di Venezia soffre da diverse
edizioni, di una cecità etica abilmente camuffata dalla selezione di direzioni
curatoriali, che a loro volta selezionano temi, artiste e artisti, a costituire
un’epidermide teorica iper-contemporanea. Un involucro elastico ancorato a un
nucleo istituzionale duro e dispotico. Una complicata cristallizzazione di
normative strumentali alla soddisfazione di interessi economici e politici, a
diretto discapito di una produzione liberata del sapere.
In questa edizione, il termine “rappresentare” è spesso sostituito da “celebrare”, ma cosa intende Pedrosa come celebrazione? Nel suo stato attuale la Biennale è un palco globale, sì di rappresentazione, ma agibile da sole soggettività almeno parzialmente addomesticate. È questo un fatto da celebrare? O è la mansuefazione stessa da celebrare inneggiando sommessamente ai, sempre meno lontani, valori della modernità più feroce?
La Biennale di Venezia è l’unica manifestazione artistica internazionale che si costituisce sull’impianto delle esposizioni universali: fiere nate per mostrare, sul piano geopolitico, il potere d’innovazione di nazioni il cui patrimonio era definito dalla più o meno riuscita delle proprie imprese coloniali. La stessa tradizione che, per aprire il pubblico occidentale alla sua alterità, ha messo in scena, le esibizioni antropozoologiche (gli zoo umani). Chiaramente non ci troviamo più nello stesso contesto storico e intellettuale. Le critiche e le sperimentazioni postmoderne dell’impianto espositivo, che ne hanno messo in crisi le forme e le partecipazioni, hanno attraversato più volte l’Arsenale e i Giardini, posizionando, in determinate istanze, la Biennale come un reale polo di innovazione. Eppure il paradigma moderno persiste con una rinnovata fame coloniale che ben si adatta alle sottili articolazioni del contemporaneo. Adattando i più aggiornati registri dialettici, si evitano profonde fenditure alle narrazioni storiche e ai paradigmi egemonici di eredità moderna. Ci si approfitta di un pubblico generalista reso ottuso dall’incoerenza delle narrazioni promosse, e che si accontenta dunque di leggere abrasioni performative, come momenti di rottura per lenire un malessere che fatica ad esprimere oltre ad una manifesta indisposizione prossima alla noia.
Come può un’autorità
culturale come la Biennale svincolarsi da questo paradigma storico? Come può
trovare un nuovo assetto che risponda in maniera decisiva ai bisogni del
contemporaneo?
L’analisi dei modernismi internazionali è certamente un tentativo.Il presupposto di Pedrosa è benaugurante e pone degli spunti di riflessione densi di possibilità, eppure la mostra non sembra volersi avventurare in una reale e profonda esplorazione di questa poliformità modernista. Qui, oltre alla presenza di artiste e artisti da diverse parti del mondo, è importante soffermarsi sul rapporto tra decolonialità e museografia. Foreigners everywhere/Stranieri ovunque si compone di diverse citazioni museografiche, presentate come brevi passaggi critici all’interno di una solida, e pericolosamente scontata, adesione ai paradigmi occidentalocentrici della quadreria e del white cube. Alcune di queste inclusioni risultano portare un peso specifico in reale discrepanza dal tono anacronisticamente gentile e accomodante della mostra. Si tratta di passaggi densi, concentrati e innervati di disposizioni politicamente trasparenti. Disobedience Archivea cura di Marco Scotini e i cavaletes di Lina Bo Bardi ne sono due esempi, seppur distanti.
Pedrosa fa inoltre
un altro riferimento importante, citandolo, “[…] al concetto di antropofagia di
Oswald de Andrade, proposto all’intellettuale moderno ai margini dell’Europa
come strumento per impadronirsi della cultura metropolitana, cannibalizzandola
e producendo qualcosa di proprio, con ciò evocando la pratica cannibalica degli
indigeni tupinambá nel Brasile pre-invasione”.
Ecco che nuovamente,
col movente della rappresentazione esteso all’identità etnica, Pedrosa rilascia
questa dichiarazione fuorviante. Che sia invece la Biennale a fagocitare gli
sforzi di artisti indigeni, stranieri e queer per obliterarne la densità, rendendoli
prodotti di facile ricezione estetica e, dunque, esotizzandoli? Che sia il
ripresentarsi di un rinnovato mito del buon selvaggio riscritto a prova
dell’attento e politicamente corretto white saviour da tastiera?
Se la mostra di
Pedrosa, insieme ad alcuni interventi nei padiglioni nazionali, lascia spazi
sottili a possibilità generative, la Biennale di Venezia in quanto istituzione,
si chiude ermeticamente. Con il supporto alla partecipazione del padiglione
Israeliano e l’incapacità di esporre un discorso critico e di protesta
comunitaria alle recrudescenze moderne nel contemporaneo, si dichiara con
innegabile chiarezza un braccio dei neofascismi.
Sorgono, dunque,
diversi quesiti: Come può una biennale internazionale, ancora europea e
modernista, definirsi decoloniale? Può definirsi decoloniale una biennale che
preserva un paradigma politico-espositivo sviluppato nel periodo di massima
espressione degli imperialismi moderni? Come può una biennale definirsi
decoloniale quando, di fronte alle più feroci manifestazioni dei
neocolonialismi, supporta i governi di nazioni colpevoli di crimini contro
l’umanità? E direttamente a Pedrosa, come può l’esperienza queer non bianca
essere usata come edulcorante strumentale al supporto di politiche d’odio?
Queste sono domande
che oggi bruciano incandescenti davanti all’ipocrisia dei temi promossi nelle
ultime due edizioni della Biennale d’Arte. Edizioni fronteggiate da curatrici e
curatori che con orgoglio si sono riempiti le fauci di parole come
“femminismi”, “decolonialità” e “queer”, col risultato di dimostrare la caducità
dei discorsi critici all’interno delle istituzioni pubbliche. Allora qual è il
ruolo dell’arte in relazione a questo fatto? Si parla di arte intesa nella sua
capacità emancipatrice o di un’arte di convenienza come ingranaggio della
macchina neoliberale? In quali termini le capacità trasformative dell’arte
diventano di ausilio a sforzi generativi di autodeterminazione?
Dalla forte presenza
dell’entità sionista, all’edulcorazione delle differenze e dei fenomeni
culturali che fanno del mondo un paesaggio complesso e diversificato composto
di istanze specifiche e creolizzazioni, la Biennale Arte 2024 si presenta come
una manifestazione melliflua, che necessita di essere analizzata in termini il
più possibile radicali. Ciò risulta decisivo per rispondere ad un ultimo paio
di domande. La Biennale di Venezia ha il potenziale per produrre effettivamente
del sapere critico e disinibito? In base alla risposta al quesito precedente,
la Biennale di Venezia potrà rimanere rilevante nei discorsi
post-contemporanei?
Kenny Alexander Laurence
L’immagine in miniatura è stata esposta per la prima volta alla Biennale Arte: Barrington Watson, A conversation, 1981.
I contributi sono stati elaborati come momento conclusivo del corso di Museologia tenuto da Elvira Vannini con gli artisti e curatori del 2^ anno del Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali di Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.
Foreigners everywhere/Stranieri ovunque è il titolo della 60. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, a cura di Adriano Pedrosa. Una mostra che, citando Pedrosa stesso, “punta […] i riflettori su artisti che sono essi stessi stranieri, immigrati, espatriati, diasporici, emigrati, esiliati o rifugiati, in particolare quelli che si muovono tra il Sud e il Nord del mondo. E qui i temi chiave sono migrazione e decolonizzazione. […] Mi identifico anche come queer, il primo curatore dichiaratamente queer nella storia della Biennale Arte”. In sintesi una Biennale che, analogamente alla scorsa edizione a cura di Cecilia Alemani, pone al centro del proprio discorso la rappresentazione etnica e di genere come paradigma teorico, insistendo sull’inclusione di voci che sono state e sono tutt’ora largamente represse o dimenticate. É vero che la rappresentazione è uno strumento potente capace di innescare slanci decisivi per l’autodeterminazione e la validazione ontologica, oltre che culturale, di realtà rimaste per secoli subalterne, eppure il rappresentare, inteso come semplice mettere in presenza, non basta.
La ricerca di artisti non bianchi e queer presentata da Pedrosa e il suo team curatoriale è estesa e articolata, ma la buona riuscita dei suoi intenti diventa dubbiosa se associata alla narrativa diluita e pericolosamente generalista promossa. Invece di esaltare le produzioni culturali di paesaggi culturali eterogenei, il discorso museografico tessuto dalla curatela le omologa a favore di una fruibilità specificamente occidentale. Di fatti non sfugge il carattere accomodante della mostra, che rimarca feticci modernisti in sottile consonanza con le politiche della grande macchina espositiva della Biennale, da tempo indubbiamente impegnata nella mansuefazione degli slanci critici che la attraversano. É importante non dimenticare che queste proposizioni teoriche si contestualizzano all’interno di un’istituzione centenaria che ha vissuto ampie oscillazioni nel suo posizionamento politico. Un’istituzione che oggi, in questa sua mobilità, si presenta protesa verso una disposizione conservatrice destrorsa. La Biennale di Venezia soffre da diverse edizioni, di una cecità etica abilmente camuffata dalla selezione di direzioni curatoriali, che a loro volta selezionano temi, artiste e artisti, a costituire un’epidermide teorica iper-contemporanea. Un involucro elastico ancorato a un nucleo istituzionale duro e dispotico. Una complicata cristallizzazione di normative strumentali alla soddisfazione di interessi economici e politici, a diretto discapito di una produzione liberata del sapere.
In questa edizione, il termine “rappresentare” è spesso sostituito da “celebrare”, ma cosa intende Pedrosa come celebrazione? Nel suo stato attuale la Biennale è un palco globale, sì di rappresentazione, ma agibile da sole soggettività almeno parzialmente addomesticate. È questo un fatto da celebrare? O è la mansuefazione stessa da celebrare inneggiando sommessamente ai, sempre meno lontani, valori della modernità più feroce?
La Biennale di Venezia è l’unica manifestazione artistica internazionale che si costituisce sull’impianto delle esposizioni universali: fiere nate per mostrare, sul piano geopolitico, il potere d’innovazione di nazioni il cui patrimonio era definito dalla più o meno riuscita delle proprie imprese coloniali. La stessa tradizione che, per aprire il pubblico occidentale alla sua alterità, ha messo in scena, le esibizioni antropozoologiche (gli zoo umani). Chiaramente non ci troviamo più nello stesso contesto storico e intellettuale. Le critiche e le sperimentazioni postmoderne dell’impianto espositivo, che ne hanno messo in crisi le forme e le partecipazioni, hanno attraversato più volte l’Arsenale e i Giardini, posizionando, in determinate istanze, la Biennale come un reale polo di innovazione. Eppure il paradigma moderno persiste con una rinnovata fame coloniale che ben si adatta alle sottili articolazioni del contemporaneo. Adattando i più aggiornati registri dialettici, si evitano profonde fenditure alle narrazioni storiche e ai paradigmi egemonici di eredità moderna. Ci si approfitta di un pubblico generalista reso ottuso dall’incoerenza delle narrazioni promosse, e che si accontenta dunque di leggere abrasioni performative, come momenti di rottura per lenire un malessere che fatica ad esprimere oltre ad una manifesta indisposizione prossima alla noia.
Come può un’autorità culturale come la Biennale svincolarsi da questo paradigma storico? Come può trovare un nuovo assetto che risponda in maniera decisiva ai bisogni del contemporaneo?
L’analisi dei modernismi internazionali è certamente un tentativo.Il presupposto di Pedrosa è benaugurante e pone degli spunti di riflessione densi di possibilità, eppure la mostra non sembra volersi avventurare in una reale e profonda esplorazione di questa poliformità modernista. Qui, oltre alla presenza di artiste e artisti da diverse parti del mondo, è importante soffermarsi sul rapporto tra decolonialità e museografia. Foreigners everywhere/Stranieri ovunque si compone di diverse citazioni museografiche, presentate come brevi passaggi critici all’interno di una solida, e pericolosamente scontata, adesione ai paradigmi occidentalocentrici della quadreria e del white cube. Alcune di queste inclusioni risultano portare un peso specifico in reale discrepanza dal tono anacronisticamente gentile e accomodante della mostra. Si tratta di passaggi densi, concentrati e innervati di disposizioni politicamente trasparenti. Disobedience Archive a cura di Marco Scotini e i cavaletes di Lina Bo Bardi ne sono due esempi, seppur distanti.
Pedrosa fa inoltre un altro riferimento importante, citandolo, “[…] al concetto di antropofagia di Oswald de Andrade, proposto all’intellettuale moderno ai margini dell’Europa come strumento per impadronirsi della cultura metropolitana, cannibalizzandola e producendo qualcosa di proprio, con ciò evocando la pratica cannibalica degli indigeni tupinambá nel Brasile pre-invasione”.
Ecco che nuovamente, col movente della rappresentazione esteso all’identità etnica, Pedrosa rilascia questa dichiarazione fuorviante. Che sia invece la Biennale a fagocitare gli sforzi di artisti indigeni, stranieri e queer per obliterarne la densità, rendendoli prodotti di facile ricezione estetica e, dunque, esotizzandoli? Che sia il ripresentarsi di un rinnovato mito del buon selvaggio riscritto a prova dell’attento e politicamente corretto white saviour da tastiera?
Se la mostra di Pedrosa, insieme ad alcuni interventi nei padiglioni nazionali, lascia spazi sottili a possibilità generative, la Biennale di Venezia in quanto istituzione, si chiude ermeticamente. Con il supporto alla partecipazione del padiglione Israeliano e l’incapacità di esporre un discorso critico e di protesta comunitaria alle recrudescenze moderne nel contemporaneo, si dichiara con innegabile chiarezza un braccio dei neofascismi.
Sorgono, dunque, diversi quesiti: Come può una biennale internazionale, ancora europea e modernista, definirsi decoloniale? Può definirsi decoloniale una biennale che preserva un paradigma politico-espositivo sviluppato nel periodo di massima espressione degli imperialismi moderni? Come può una biennale definirsi decoloniale quando, di fronte alle più feroci manifestazioni dei neocolonialismi, supporta i governi di nazioni colpevoli di crimini contro l’umanità? E direttamente a Pedrosa, come può l’esperienza queer non bianca essere usata come edulcorante strumentale al supporto di politiche d’odio?
Queste sono domande che oggi bruciano incandescenti davanti all’ipocrisia dei temi promossi nelle ultime due edizioni della Biennale d’Arte. Edizioni fronteggiate da curatrici e curatori che con orgoglio si sono riempiti le fauci di parole come “femminismi”, “decolonialità” e “queer”, col risultato di dimostrare la caducità dei discorsi critici all’interno delle istituzioni pubbliche. Allora qual è il ruolo dell’arte in relazione a questo fatto? Si parla di arte intesa nella sua capacità emancipatrice o di un’arte di convenienza come ingranaggio della macchina neoliberale? In quali termini le capacità trasformative dell’arte diventano di ausilio a sforzi generativi di autodeterminazione?
Dalla forte presenza dell’entità sionista, all’edulcorazione delle differenze e dei fenomeni culturali che fanno del mondo un paesaggio complesso e diversificato composto di istanze specifiche e creolizzazioni, la Biennale Arte 2024 si presenta come una manifestazione melliflua, che necessita di essere analizzata in termini il più possibile radicali. Ciò risulta decisivo per rispondere ad un ultimo paio di domande. La Biennale di Venezia ha il potenziale per produrre effettivamente del sapere critico e disinibito? In base alla risposta al quesito precedente, la Biennale di Venezia potrà rimanere rilevante nei discorsi post-contemporanei?
Kenny Alexander Laurence
L’immagine in miniatura è stata esposta per la prima volta alla Biennale Arte: Barrington Watson, A conversation, 1981.
I contributi sono stati elaborati come momento conclusivo del corso di Museologia tenuto da Elvira Vannini con gli artisti e curatori del 2^ anno del Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali di Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.