Nei processi di decolonizzazione, come diceva Franz Fanon, “c’è dunque un’esigenza di ripresa in esame integrale della situazione coloniale. La sua definizione si può racchiudere, a volerla descrivere con esattezza, nella frase ben nota: «gli ultimi saranno i primi». La decolonizzazione è la verifica di tale frase. Perciò, sul piano della descrizione, ogni decolonizzazione è un successo”. Ma è davvero così? Se la decolonizzazione è un programma di disordine assoluto e un atto violento, quella che viene rievocata da Adriano Pedrosa nella kermesse veneziana è una versione addomesticata e misurata; non ci sono voci urlate, non si va mai fuori dalle righe. Siamo ancora all’interno di una tassonomia museale di matrice coloniale ed eurocentrica. Servendoci, quindi, del mezzo del glossario – attraverso le parole di Frantz Fanon, Françoise Vergès, Walter Mignolo, Aníbal Quijano, María Lugones, Gayatri Chakravorty Spivak, Edward Said e David Clarke – diamo voce alle problematiche e criticità che la decolonizzazione solleva, come supporto alla rilettura della Biennale di Venezia 2024.
DECOLONIZZAZIONE
“C’è un fatto: i bianchi si ritengono
superiori ai neri” [i]. Così Frantz Fanon esordisce nella sua
analisi: ma che cos’è davvero la decolonialità?
È un processo radicale e trasformativo che non si limita alla semplice sostituzione di una classe dominante coloniale con un’élite indigena. La decolonizzazione è un atto violento e catartico, è una creazione, una liberazione, una scoperta e un’affermazione; tutto necessario per ribaltare l’ordine del mondo imposto dal colonialismo, che disumanizza i colonizzati e riduce intere popolazioni a strumenti di sfruttamento. Fenomeno intrinsecamente politico, richiede un completo rovesciamento delle strutture sociali, economiche e culturali. Non è un processo graduale o riformista, ma un movimento rivoluzionario che rompe con il passato e restituisce dignità e sovranità ai popoli oppressi. Il colonialismo non può essere “umanizzato” o corretto; la sua stessa logica si basa sulla violenza sistematica e sul dominio. Di conseguenza, la liberazione deve avvenire attraverso uno scontro che non è solo fisico, ma anche psicologico: è necessario decolonizzare le menti, superando l’interiorizzazione della subordinazione. Nella storia, le élite locali hanno spesso, una volta ottenuta l’indipendenza formale, replicato i modelli coloniali di sfruttamento, perpetuando le disuguaglianze. La vera decolonizzazione richiede un nuovo ordine sociale, radicato nella giustizia e nella partecipazione collettiva, nonché una presa di coscienza delle masse, che devono essere protagoniste del cambiamento. Questa strategia è fondamentale non solo poiché va a mutare l’ordine prestabilito, ma perché agisce direttamente sull’essere, andando a rappresentare la realizzazione di uomini nuovi. Esplorando gli effetti psicologici del colonialismo risulta ben chiaro quel senso di inferiorità inculcato dai colonizzatori: quando il colonizzato, ben consapevole di essere dominato e inferiorizzato, ma pienamente convinto di questa ingiusta condizione, decide di scagliarsi contro il peso e la prepotenza del colono, è proprio in quel momento che questo avverte pericolosi sentori. Nella propria coscienza, la paura più grande del colono è infatti la rivendicazione del colonizzato.
La decolonizzazione non è un semplice trasferimento di potere, ma una completa trasformazione della società. Per cambiare veramente le cose è necessario che la violenza divenga uno strumento utile non solo ad abbattere il potere coloniale, ma anche a rigenerare la coscienza di coloro che sono stati sottomessi. Il colonialismo ha infatti causato profonde ferite psicologiche nei colonizzati, instillando un senso di inferiorità e alienazione; la lotta per la liberazione dal giogo coloniale deve quindi includere, a prescindere, anche un processo di guarigione psicologica, per riuscire a ricostruire l’identità e la dignità umane. Per raggiungere l’emancipazione e la liberazione, i colonizzati sono pertanto costretti a partecipare a una lotta armata che però diviene simbolo dell’avvento del “Terzo Mondo” come protagonista della nuova storia che sta andando ad affermarsi, con una nuova speranza di indipendenza.
La
decolonizzazione è quindi un atto rivoluzionario e violento che scaturisce dalla
presa di coscienza che non vi è superiorità alcuna fra gli individui, ed è
proprio questa consapevolezza a guidare nell’atto rivoluzionario e a
risvegliare gli animi dei colonizzati.
Nel contesto decoloniale appena accennato, trova posto la video performance Torita-encuetada (2023), dell’artista nicaraguense Elyla, per la prima volta alla Biennale. Si tratta di una cerimonia anticoloniale, che si svolge attraverso un rituale del fuoco che affonda le radici in una pratica culturale nicaraguense denominata toro encuetado. “La danza rituale, o mitote – struggente atto di ricordo politico -, sollecita il ritorno a pratiche di rispetto della terra e alla decolonizzazione del mestizaje delle identità sessuali e di genere in Mesoamerica”, invitando gli spettatori ad assistere alle intersezioni tra cultura, prassi artistica anticoloniale e sacralità. Nella sfida alle norme sociali, l’artista trasforma infatti l’utopia cochón (queer) in una pratica artistica rivoluzionaria del presente.
DISORDINE
“Tanti conti da
regolare e così pochi effetti. Tutto è pulito, ordinato”, Louisa Yousfi, Rester
barbare, 2022.
Ad oggi sempre
più biennali, festival, mostre, opere d’arte, celebrano artisti Neri, indigeni,
razzializzati, offrendo al pubblico nuove narrative. Ma nessuno di questi gesti
potrebbe essere definito decoloniale nel senso introdotto da Françoise Vergès,
nel libro Programme de désordre absolu. Décoloniser le musée. Per dirla
ancora con Fanon, la decolonizzazione è “un programma di disordine assoluto”. Un
disordine assoluto come fonte di salvezza, perché nient’altro può porre fine a
un mondo fatto di oppressione, espropriazione, razzismo e sfruttamento. Il
disordine, in tal senso, non va inteso come caos, ma come una messa in
discussione di quello che i potenti chiamano ordine del mondo: un mondo che
hanno costruito e che continuano a costruire, un mondo che vorrebbero rimanesse
immutabile, anche se la sua organizzazione e il suo funzionamento continuano ad
essere contestati. Ma l’ordine del mondo non è più lo stesso di quando lo
propose Fanon negli anni Sessanta; dobbiamo perciò domandarci se questo
programma di disordine assoluto sia ancora attuale. Che cosa significa un
programma di disordine assoluto oggi? È davvero possibile decolonizzare? E che
ruolo gioco il museo?
Se quasi tutti oggi vogliono “ripensare il museo”, pochi hanno l’audacia di interrogarsi sui presupposti stessi del museo universale, prodotto dell’Illuminismo e del colonialismo, di un’Europa che si presenta come custode del patrimonio dell’intera umanità. Il museo, secondo Vergès, ha infatti compiuto un formidabile capovolgimento retorico, mascherando le sue forme di sfruttamento sotto il velo dell’universale, presentandosi come emancipatore, in uno spazio sacro lontano dai disordini del mondo [ii]. Può essere una storia dell’arte e del mondo, che ospita oggetti e resti umani rubati, saccheggiati o acquisiti in modo disonesto, un’azione decoloniale?
È proprio tra le
mura del museo occidentale, che Vergès tenta di dare risposta: la
decolonizzazione non è una postura, nessuna istituzione potrà definirsi
decoloniale se la società non viene decolonizzata, e il museo non può esistere
al di fuori dell’organizzazione sociale che l’ha fondato e istituito [iii]. Decolonizzare
è infatti un verbo che indica un’azione, un’azione di disordine, che mira
all’abolizione di una società, una “sostituzione totale, completa, assoluta” di
un mondo con un altro, scrive ancora Fanon. Bisogna così irrompere in quel
mondo pacifico del postcoloniale, che si presenta come colui che ha posto fine
al passato coloniale e parla di progresso, mentre il razzismo persiste [iv]. Questo
significa disordine assoluto.
Non si tratta di
sognare un futuro così lontano da diventare totalmente astratto. Al contrario,
questo programma di disordine assoluto è un invito a informarsi sulle lotte,
per quanto “piccole e minori” possano essere, al fine di organizzarsi e
svolgere un urgente lavoro immaginifico, riattivando utopie emancipatorie e
pragmatiche. La decolonizzazione non sarà il risultato di un’operazione magica,
di uno shock naturale o un accordo amichevole, ma piuttosto un programma in
grado di abbracciare la costruzione di un mondo post-razzista,
post-imperialista e post-patriarcale.
Non possiamo
credere ancora una volta che l’Europa sia l’unico continente ad aver definito
le migliori modalità di emancipazione e i veri diritti umani, insomma che
avrebbe meglio compreso i principi di libertà e uguaglianza [v].
A parlare non solo le parole ma anche i fatti: in una Biennale 2024 che si annuncia come emancipatrice di quella classe marginalizzata, oppressa ormai da tempo, il curatore Adriano Pedrosa ha voluto dare spazio ad artisti indigeni, queer, outsider, folk. Un’azione che potrebbe essere a tutti gli effetti decoloniale viene però presentata nella laguna veneziana come elegante e composta, pulita e ben educata. Ancora una volta viene riproposto quell’ordine del mondo di cui ci parla Vergès, quell’ordine per cui la storia definisce la decolonizzazione come già avvenuta.
MODERNITÀ
“La colonialità è il lato oscuro della modernità”,
sostiene il semiologo, filosofo e critico letterario argentino Walter Mignolo, così come la modernità non
possa esistere senza la sua controparte coloniale. La
modernità europea nasconde la sua oscura componente coloniale, evidenziando come
non possa esistere modernità senza globalità, e che le modernità globali
implicano inevitabilmente colonialità globali.
Dal XVI secolo i pensieri e le azioni decoloniali sono emersi come risposta alla tendenza oppressiva e imperialista degli ideali europei moderni, proiettati e attuati nei territori extraeuropei. All’inizio del XXI secolo, il mondo è connesso da un’economia capitalista unica, ma presenta varie teorie e pratiche politiche; per questo Mignolo sottolinea che stanno emergendo organizzazioni transnazionali che mettono in discussione la modernità, aprendo prospettive non capitalistiche. La modernità non va rifiutata del tutto, ma deve essere accettata con le sue glorie e i suoi crimini; in questa analisi risultano fondamentali gli artisti e i musei che giocano un ruolo fondamentale nelle nuove formazioni globali di soggettività transmoderne e decoloniali.
Il filosofo, nel riprendere Armstrong, evidenzia la singolarità delle conquiste occidentali rispetto alla storia premoderna. La rivoluzione scientifica europea, nota, ha sicuramente dato un controllo sull’ambiente mai visto prima, ma ha anche portato alla mercificazione delle vite umane, giustificata dalla classificazione razziale. Dietro la retorica della modernità, quindi, le vite umane diventavano sacrificabili per la ricchezza crescente. La modernità è stata poi criticata nella sua cronologia, nei suoi presupposti e nei suoi ideali nell’ultimo quarto del XX secolo, con l’emergere di concetti come altermodernità, modernità subalterne e periferiche. Tuttavia, queste rimangono subordinate alla centralità euro-americana. Il futuro globale risiede nel rifiuto della modernità
genocida e nell’adozione dei suoi ideali emancipatori, promuovendo una
transmodernità decoloniale.
Il
concetto di “modernità” divenne sinonimo di salvezza e novità. La retorica
della salvezza attraverso la conversione al cristianesimo si tradusse nella
retorica della salvezza attraverso la missione civilizzatrice. La retorica
della novità fu accompagnata dall’idea di progresso, andata di pari passo con
la logica della colonialità – per questo la colonialità è parte integrante
della modernità. L’idea di modernità è stata costruita come esclusivamente
europea, i problemi e le preoccupazioni riguardanti modernità e tradizione sono
enunciati da, o in relazione, al Terzo mondo. Pertanto, possiamo dire che la
modernità è essenzialmente un progetto occidentale; accettando questo, dobbiamo
prenderci la responsabilità della colonialità.
Partha
Chatterjee, storico e teorico politico indiano, ha esplorato il problema della “modernità
in due lingue”, distinguendo tra “la nostra modernità” e “la loro modernità”. Ha
sostenuto che la modernità è associata all’Illuminismo e al Rinascimento,
citando “Che cos’è l’Illuminismo” di Kant come fondamento dell’idea europea di
modernità. Secondo Kant, il concetto di uomo e umanità è basato sull’idea
europea di umanità, sviluppata dal Rinascimento all’Illuminismo, escludendo i “minori”.
Durante l’Illuminismo, l’uomo raggiungeva la maturità e la libertà, ma questo
processo non era universale: era riservato solo a coloro che abbracciavano la
modernità secondo i canoni europei.
L’Altro ha così deciso di ribellarsi: una disobbedienza epistemica e politica che consiste nell’appropriarsi della modernità europea pur vivendo all’interno della realtà coloniale. I musei sono parte integrante della costruzione della modernità, perpetuano la colonialità.
Notiamo
che non sono state, però, poste domande sui musei come istituzioni e sulla
colonialità come logica nascosta della modernità.
Nell’immaginario
europeo, questi svolgono il ruolo di custodi della memoria occidentale e di
riconoscimento delle diversità culturali delle tradizioni non europee.
Tuttavia, queste istituzioni raramente mettono in discussione in modo critico
la loro stessa natura istituzionale e il loro legame con la colonialità. I
musei, come li conosciamo oggi, sono stati creati e trasformati con l’intento
di soddisfare due funzioni principali. Da un lato, essi sono stati concepiti
come luoghi dove la memoria e il patrimonio culturale occidentale vengono
onorati, esposti e preservati per le future generazioni. Questo include la
celebrazione delle conquiste artistiche, scientifiche e storiche dell’Occidente,
offrendo una narrazione che spesso esalta il progresso e la civiltà
occidentale. Dall’altro lato, i musei sono stati ideati per riconoscere e
mostrare le diversità delle tradizioni non europee. Essi espongono artefatti,
opere d’arte e testimonianze culturali provenienti da diverse parti del mondo,
spesso presentando queste culture attraverso una lente che enfatizza l’esotismo
e la differenza rispetto ai canoni occidentali. Questo approccio, pur
apparentemente inclusivo, non riesce a interrogarsi criticamente sulla storia
di come tali oggetti siano stati acquisiti e sulle dinamiche di potere che
hanno permesso il loro trasferimento e la loro esposizione nei musei
occidentali.
Questa
duplice funzione dei musei, come custodi della memoria occidentale e come
riconoscitori della diversità culturale, evidenzia un mancato esame delle
implicazioni coloniali che sottendono la loro esistenza. Mentre celebrano la
propria storia, i musei non affrontano adeguatamente le questioni legate al
colonialismo e di conseguenza, i musei perpetuano una narrativa che, pur
riconoscendo la diversità, non riesce a liberarsi completamente dal retaggio
della colonialità.
Nel caso della Biennale di Venezia 2024 vediamo come
questa contiene una selezione di opere che rappresentano i modernismi non
euro-americani. L’obiettivo è approfondire la conoscenza dell’arte prodotta in
America Latina, Africa e Asia, o in contesti non-bianchi e non-eteronormativi.
Tuttavia, il tentativo di annullare la centralità occidentale finisce per
ottenere l’effetto opposto: ribadisce l’esistenza di questa centralità attraverso
un’esposizione pensata per un certo tipo di internazionalità, quella dello spettatore
occidentale che deve scoprire il “Nuovo Mondo”.
Nel padiglione della Spagna, per fare un esempio e, in particolare, nella sezione del “Gabinetto del razzismo”, vengono messi in luce i processi di classificazione e modernità che hanno generato colonialità e hanno allevato i semi del razzismo. In questo gabinetto, il razzismo – come il suo stesso titolo rende esplicito – si perpetua fin dall’illuminismo, passando attraverso la modernità fino ad arrivare al presente. Il Gabinetto del razzismo illuminato mette in dubbio le prove del razzismo strutturale imposte durante il colonialismo, che promuovono l’idea della superiorità occidentale, perpetuando un’immagine distorta che nasconde la dipendenza del Nord globale dalle risorse del Sud globale.
EUROCENTRISMO
“Dunque, nel contesto contemporaneo è fondamentale […]
lottare per la differenza, intesa filosoficamente come capace di posporre
all’infinito l’identità e sovvertire le tendenze ad assumere una struttura di
comportamento univoco”, Trinh T. Minh-ha [vi]
L’eurocentrismo è una visione del mondo che privilegia la cultura, la storia e i valori europei rispetto a quelli di altre civiltà. Questo approccio è emerso nel contesto dell’espansione coloniale e si è radicato attraverso la dominazione politica, economica e culturale del mondo da parte delle potenze occidentali [vii]. Con tale pratica, afferma Aníbal Quijano, è stato più facile naturalizzare il controllo dei territori e delle risorse da parte del potere eurocentrato [viii]. L’eurocentrismo si manifesta nella storiografia, nella geografia, nell’arte, nella letteratura e nelle scienze sociali, spesso relegando le altre culture a un ruolo marginale o inferiore. Sicuramente un effetto dannoso dell’eurocentrismo è la distorsione della storia globale, che riducendo le civiltà africane, asiatiche e latinoamericane a preamboli della storia europea, ignora i loro contributi significativi e la loro complessità [ix]. Questo porta a una comprensione parziale e inaccurata delle dinamiche storiche globali. L’eurocentrismo ha anche implicazioni contemporanee, nella nostra vita quotidiana, nelle scuole, nelle istituzioni, nelle relazioni internazionali e negli studi culturali, in quanto, la prospettiva eurocentrica può influenzare le politiche e le percezioni, perpetuando stereotipi e pregiudizi. Ognuna di queste categorie, imposte dall’eurocentrismo del potere, è stata infine accettata dalla maggioranza fino ad oggi come espressione della “natura” e della geografia, piuttosto che come risultato della storia del potere nel mondo [x]. Questo è evidente nei dibattiti sull’immigrazione, sullo sviluppo economico e sui diritti umani, dove spesso le soluzioni europee vengono presentate come universalmente applicabili, senza tener conto delle specificità locali. Per contrastare l’eurocentrismo, è necessario adottare un approccio più inclusivo e plurale, impegnandosi a valorizzare le narrazioni e le prospettive delle diverse culture del mondo, riconoscendo la loro autonomia e il loro valore intrinseco.
“Ciò è vero anche per le razze, dal momento che così tanti popoli diversi ed eterogenei furono assimilati sotto la stessa etichetta” [xi]. Questo richiede un ripensamento critico delle metodologie e dei canoni accademici, promuovendo un dialogo interculturale autentico e rispettoso. In sintesi, l’eurocentrismo non è solo una questione accademica, ma un problema che influisce sulla comprensione e sulle interazioni globali. Dunque, superarlo è essenziale per costruire un mondo più equo e rispettoso delle diversità culturali.
COLONIALITÀ DEL POTERE
La colonialità del potere è un concetto sviluppato dal sociologo peruviano Aníbal Quijano che si riferisce alla persistenza delle strutture di dominio e di sfruttamento stabilite durante il periodo coloniale e che continuano a influenzare le dinamiche sociali, economiche e culturali nel mondo contemporaneo [xii]. Questa teoria va oltre l’analisi del colonialismo come evento storico, evidenziando come le logiche coloniali si siano radicate nelle società moderne e globalizzate. Uno degli elementi chiave della colonialità del potere è la classificazione razziale, che ha creato gerarchie di superiorità e inferiorità basate sulla razza [xiii]. Questo sistema di classificazione non solo ha giustificato la schiavitù e lo sfruttamento coloniale, ma perdura nei sistemi contemporanei discriminazione e disuguaglianza razziale. Secondo Quijano il concetto di razza è un’ideologia che è stata strutturata per organizzare la nuova società americana con l’obiettivo di distinguere nettamente i conquistatori dai conquistati [xiv]. La razza, secondo Quijano, è una costruzione sociale che continua a influenzare le relazioni di potere nel mondo postcoloniale, producendo effetti sull’economia globale. Queste politiche spesso perpetuano la dipendenza economica dei paesi del Sud del mondo, replicando le dinamiche di sfruttamento coloniale [xv]. Culturalmente, la colonialità del potere si manifesta chiaramente nella predominanza dei modelli di conoscenza occidentali [xvi]. Ciò che la storia ci insegna è che le epistemologie indigene e non occidentali sono state sistematicamente emarginate, ritenute inferiori o irrilevanti. Questo processo di “colonizzazione della mente” ha imposto un’unica visione del mondo, soffocando la diversità culturale, nonché gli aspetti teorici ed empirici. Per affrontare la colonialità del potere, è necessario un impegno verso la decolonizzazione, che implica il riconoscimento e la valorizzazione delle voci e delle prospettive subalterne [xvii]. Questo richiede un cambiamento radicale nelle strutture economiche, politiche e culturali globali, promuovendo un ordine mondiale più giusto ed equo. La colonialità del potere riguarda tutti noi.
“Per ora siamo stati sconfitti sul fronte di entrambe le
prospettive rivoluzionarie. Qualsiasi diritto civile e politico siamo stati in
grado di promuovere e conquistare nell’ambito dell’indispensabile
redistribuzione del potere e della decolonizzazione della nostra società e del
nostro stato oggi sta tornando sotto il controllo degli stessi funzionari della
colonialità del potere. Sarebbe giunta da tempo l’ora d’imparare a liberarci dalla nostra
prospettiva distorta”. [xviii]
Il padiglione di Porto Rico, all’interno della 60ª Esposizione Internazionale d’Arte, si distingue per la sua vasta raccolta di documenti d’archivio che trattano il persistere delle strutture coloniali. L’isola caraibica, ex colonia spagnola e attualmente territorio associato degli Stati Uniti, non ha mai avuto un governo autonomo [xix]. Avendo vissuto oltre cinquecento anni di dominio coloniale, i portoricani sono stati costretti a condurre una vita da sudditi coloniali. Questo immaginario perpetuato nei secoli viene usato per giustificare il dominio sull’isola caraibica.
Oggi, a causa di un enorme debito pubblico, Puerto Rico sta affrontando un collasso economico, una crisi umanitaria e un massiccio esodo della popolazione. Sebbene i portoricani siano cittadini statunitensi, vivono come stranieri nel loro Paese, nella terra del loro colonizzatore e in qualsiasi altro paese decidano di viaggiare. Pablo Delano (San Juan, 1954, vive a West Hartford, Stati Uniti), artista visivo e fotografo, utilizza l’archivio con l’obiettivo di raccogliere testimonianze che esaminano le persistenti strutture coloniali legate all’isola caraibica. La sua installazione, presente alla Biennale di Venezia 2024, ci aiuta a comprendere come la gerarchia razziale e lo sfruttamento siano ancora problemi irrisolti [xx]. Delano afferma che la nascita di The Museum of the Old Colony si ispira ad esperienze vissute durante l’infanzia, in quanto testimone, portavoce, messaggero: in altre parole, lancia un grido di aiuto su una situazione tuttora attuale. Evocando le tragiche ingiustizie e l’eredità paralizzante dello sfruttamento subite da Porto Rico e dalla sua gente, Delano invita i visitatori, portoricani e non, a riflettere sulla propria complicità nel sistema coloniale. La Biennale è riuscita a farli sentire a casa almeno nel territorio italiano? O, forse, è lo stesso padiglione di Porto Rico a ricordarci che, dovremmo mantenere viva la curiosità e la volontà di esplorare, comprendere e apprezzare la ricchezza culturale e la storia di questa affascinante isola caraibica?
THE
COLONIAL/MODERN GENDER SYSTEM
“The Colonial/Modern Gender System” [xxi] è il termine che María Lugones utilizza per spiegare la logica categoriale e gerarchica centrale nel pensiero moderno, su razza, genere e sessualità. Decolonizzare il genere significa mettere in atto una critica all’oppressione di genere eterosessista, razziale, coloniale e capitalista. Nel XX secolo le femministe borghesi bianche hanno teorizzato il senso bianco dell’essere donna come se tutte le donne fossero bianche, senza quindi esplicitare la connessione tra il genere, la razza, l’eterosessualità e la classe. Con “The Colonial/Modern Gender System” si sottolinea invece l’importanza di portare l’attenzione sull’indifferenza verso le violenze che lo Stato e il patriarcato bianco perpetuano contro le donne delle comunità nere, in tutto il mondo. L’importante lavoro sul genere, la razza e la colonizzazione che hanno svolto le femministe Nere negli Stati Uniti dimostra l’esclusione storica delle donne non bianche nelle lotte di liberazione condotte in nome della donna.
Nella colonizzazione delle Americhe solo i “civilizzati” erano considerati uomini e donne. “Le donne indigene erano classificate come specie non umana, come animali” [xxii]. Femmine ma non donne. Tutti i parametri come razza o genere sono un’introduzione coloniale e violenta e sono da sempre utilizzati per distruggere popoli e comunità in nome di una civilizzazione che avviene appunto secondo criteri prestabiliti da chi detiene il potere. Il compito della femminista decoloniale è innanzitutto quello di far prendere coscienza di questo sistema superando l’abitudine a pensare secondo questi dogmi che hanno fatto parte della cultura occidentale da sempre, imponendo modelli di comportamento che limitano gran parte della popolazione.
Nil
Yalter, un’artista il cui lavoro esplora in modo incisivo le dinamiche di
genere, migrazione e identità, rappresenta un esempio di come l’arte possa
essere un potente strumento di critica sociale e politica, espone per la prima
volta alla Biennale ed è stata premiata con il Leone d’oro. Le sue opere, come Exile Is a Hard Job, mettono in luce le
esperienze delle persone marginalizzate e denunciano le ingiustizie sistemiche.
Exile is a hard job è un titolo significativo che racconta tante cose
dell’artista. Fa pensare a tutti coloro che per motivi diversi si trovano in
esilio e a come combattano per non perdere il loro retaggio culturale e le loro
tradizioni pur dovendosi adattare a realtà di vita completamente diverse dalle
loro. Yalter, nata in Egitto e cresciuta in Turchia prima di trasferirsi in
Francia, ha sviluppato una sensibilità unica verso le dinamiche di potere e le
ingiustizie sociali che affliggono le donne, specialmente quelle appartenenti a
contesti marginalizzati. L’artista dichiara “non mi sono mai definita
un’artista femminista. Negli anni ‘70, così come oggi, mi sono sempre sentita
un’artista marxista-leninista, perché considero la lotta di classe l’elemento
essenziale della mia visione del mondo” [xxiii].
Nella sua ricerca combina attivismo e arte per portare luce sulle storie invisibili delle donne immigrate, mettendo in discussione le rappresentazioni stereotipate e coloniali e promuovendo una visione più inclusiva e complessa della società. L’esposizione delle sue opere in un contesto così istituzionalizzato come la Biennale non deve essere interpretata solo come un gesto simbolico, ma come un vero impegno verso il cambiamento strutturale.
VENTRILOQUISMO DEL SUBALTERNO
Subalterno: coniato da Antonio Gramsci e utilizzato da
quest’ultimo per la prima volta in ambito postcoloniale, il termine intende
riferirsi alla classe della gente subordinata, più bassa del proletariato,
senza la propria voce e incapace di formare un’autonomia politica, in
conseguenza dell’egemonia culturale che nega la loro agency escludendola
dalle istituzioni sociali ed economiche del tempo [xxiv]. Differentemente, Gayatri
Spivak – femminista postcoloniale e filosofa – parla invece di subalterna,
al femminile.
There
is no space from which the sexed subaltern subject can speak [xxv], dice Spivak: la sua subalterna è una
figura neutralizzata, zittita, marginalizzata, il cui luogo prediletto è il
luogo dell’esclusione, perché esistente in quest’ultimo come soggettività non
costituita, non essendole mai stata concessa la possibilità di
auto-articolarsi; è una donna che non può parlare – e se parlasse, non verrebbe
ascoltata – ma al posto della quale parlano altri, intrappolandola in
narrazioni che non le appartengono. A tal proposito, per ventriloquismo del
subalterno s’intende proprio il processo all’interno del quale la donna
scompare – dissolvendosi, diviene evanescenza – catturata nel continuo
andirivieni fra patriarcato e imperialismo.
Spivak restituisce
chiaramente il suo pensiero attraverso storie di donne la cui voce non viene
ascoltata, donne soggette spesso a una doppia subalternità, quella coloniale e
quella patriarcale.
Ed ecco che ci racconta
della Rani di Sirmur, vissuta durante il corso del XIX, una regina che nel 1829
esprime la volontà di compiere il rituale del sati [xxvi], nonostante il
marito sia ancora in vita. Gli ufficiali britannici che si trovano al tempo in
India glielo impediscono: si dicono portatori di una missione civilizzatrice –
che altro non è che imperialismo – considerando il sati una pratica
violenta e barbara e autoproclamandosi così salvatori e liberatori della donna
nativa. La donna subalterna, dunque, non ha una voce libera: al suo posto,
decidono altri. E non solo i missionari britannici, ma anche il patriarcato
locale: proprio così, per gli uomini nativi la donna indiana è ben felice di
salire sul rogo assieme al marito e sacrificare la propria vita. Entrambe le
parti escludono la donna da una discussione che riguarda il suo stesso corpo.
Bhubaneswari Bhaduri,
invece, vive un secolo più tardi: nel 1926, a soli diciassette anni, s’impicca
nell’appartamento del padre a Calcutta. È un’attivista politica – si scopre un
decennio più tardi – che, dopo aver fallito nella realizzazione di un
assassinio politico, con la volontà di proteggere i suoi compagni, decide di
togliersi la vita. Attendendo il momento delle mestruazioni. Si tratta di una
scelta apparentemente superflua, e invece nasconde un potente significato
politico e linguistico. Compiendo una decisione strategica, l’attivista fa
parlare il proprio corpo: “no, non si tratta di una gravidanza illecita!” urla
il suo cadavere. Non vuole, cioè, che la sua voce possa diventare ventriloqua. Cosa
che inevitabilmente succede. Ancora oggi, infatti, le rappresentazioni la
dipingono come borderline, una ragazza interrotta che si è uccisa in preda al
delirio.
La voce della subalterna,
ancora una volta, non trova spazio. Non trova ascolto. Non trova giustizia.
Storie di voci che vengono
ascoltate si ritrovano invece all’interno di Personal Accounts,
installazione audiovisiva di Gabriella Goliath, alla Biennale di Venezia 2024.
Il progetto, che registra le testimonianze di persone Nere, queer, indigene,
non binarie, trans, fa luce sui modi creativi attraverso cui i sopravvissuti
affermano la propria vita. Come scelta intenzionale, dall’audio vengono rimosse
le parole, enfatizzando gli elementi paralinguistici come respiri e deglutizioni.
Un gesto artistico, questo, che sfida le nozioni di credibilità e leggibilità,
tipicamente associate a narrazioni di questo tipo. Ne deriva un ambiente sicuro
in cui la voce del subalterno, della subalterna, del subalternə trova finalmente ascolto.
ORIENTALISMO
“È
il termine generale […] per indicare l’approccio occidentale nei confronti
dell’Oriente; è la disciplina teorica con cui l’Occidente si è avvicinato (e si
avvicina) all’Est in modo sistematico, attraverso lo studio, l’esplorazione
geografica e lo sfruttamento economico” [xxvii].
Introdotto
da Edward W. Said nel suo libro “Orientalismo” (1978), il termine rappresenta
molto più di una semplice designazione geografica o culturale. È un concetto
complesso che si riferisce a un insieme di pratiche e discorsi attraverso i
quali l’Occidente ha guardato e interpretato l’Oriente, spesso distorcendone la
realtà per fini di controllo e dominazione. Secondo Said, l’orientalismo non è
solo un insieme di studi accademici sull’Oriente, ma è un discorso potente che
ha radici profonde nella storia europea. Questo discorso è caratterizzato da rappresentazioni
stereotipate e riduttive dell’Oriente, presentato come esotico, arretrato,
misterioso e pericoloso. Tali rappresentazioni non sono semplici descrizioni,
ma costruzioni ideologiche che servono a giustificare il dominio coloniale e
l’egemonia culturale dell’Occidente. L’orientalismo ha radici profonde nella
storia europea che risalgono alle crociate medievali e che si sono sviluppate
attraverso i secoli, fino ad arrivare all’era del colonialismo del XIX e XX
secolo, andando a influenzare la letteratura, l’arte e la scienza europee.
Durante l’era coloniale questo approccio si istituzionalizza attraverso gli
studi orientali o l’orientalistica, che producono una conoscenza dell’Oriente
profondamente intrecciata con le ideologie coloniali. Said, cita numerosi
studiosi che hanno contribuito a creare questa conoscenza distorta
sull’Oriente, criticando principalmente figure come Ernest Renan e Silvestre de
Sacy, due orientalisti che hanno contribuito notevolmente a una visione
monolitica e stereotipata dell’Oriente.
“Parlare
di qualcuno come di un “orientale”, come facevano gli orientalisti, non
significava soltanto designarlo come qualcuno il cui linguaggio, geografia e
storia erano oggetto di trattati eruditi: spesso questa espressione era
interpretata in modo negativo, come se fosse adatta a indicare un genere
inferiore di esseri umani” [xxviii].
Uno degli aspetti più innovativi dell’analisi di Said è il legame tra orientalismo e potere politico. Egli sostiene che l’orientalismo non è mai stato un campo neutrale di studio, ma è sempre stato strettamente connesso alle strutture di potere occidentali. L’orientalismo ha giustificato l’imperialismo britannico e francese, presentando l’Oriente come un luogo bisognoso dell’intervento civilizzatore dell’Occidente. Un legame che persiste nelle politiche estere contemporanee, dove le rappresentazioni distorte dell’Oriente continuano a influenzare le decisioni politiche e militari, tramite film, notizie e programmi televisivi, i quali rafforzano spesso gli stereotipi negativi, presentando l’Oriente come un luogo di violenza, fanatismo e oppressione. Attraverso l’orientalismo, quindi, l’Occidente cerca di comprendere, controllare e assimilare un mondo diverso. L’orientalismo rappresenta una parte significativa della cultura moderna, influenzando il nostro mondo più dell’Oriente stesso, andando a trasformare quindi la cultura orientale in un “museo senza pareti” e continuando tutt’oggi a permanere e influenzare le nostre vite.
“È
chiaro che le circostanze che fanno dell’orientalismo un tipo di pensiero
tuttora persuasivo non sono destinate a breve vita: prospettiva, tutto sommato,
abbastanza sconfortante. Nutro però la speranza che l’orientalismo potrà in
futuro essere messo in questione, intellettualmente, ideologicamente e
politicamente, più di quanto sia accaduto sinora” [xxix].
In
tema di orientalismo, significativa è l’opera Tekkà di Nenne Sanguineti
Poggi, realizzata nel 1948, esposta per la prima volta alla Biennale di Venezia
2024. È situata nella sezione del Nucleo Storico “Italiani Ovunque”, dove si trovano
una serie di opere di artisti italiani che hanno viaggiato e vissuto
all’estero, costruendo la propria carriera in Africa, Asia e America Latina.
Gli artisti presentati hanno lasciato l’Italia per svariate ragioni; si va
dagli orientalisti agli artisti al seguito dei convogli inviati durante le
imprese coloniali. Fu realizzata dall’artista quando si stabilì nuovamente in
Eritrea dopo il Trattato di Parigi del 1947. Raffigura Tekkà, una donna che
apparteneva al popolo Beni-Amer delle pianure occidentali, verso il confine con
il Sudan. In quest’opera la composizione riflette l’affetto che lega la
pittrice al suo soggetto e questo la salva da un “vuoto estetismo”. Infatti,
nel corso della sua vita l’artista si interrogò molto sul ruolo di donna
italiana privilegiata che viveva ed era attiva in paesi precedentemente
coloniali. Grazie a questa profondità di pensiero è riuscita quindi ad andare
oltre la tipica rappresentazione esotica, superficiale e priva di significato che
ha caratterizzato la maggior parte degli orientalisti e degli artisti nel corso
dei secoli.
DECOLONIZZAZIONE PSICOLOGICA
La storia dell’arte ha
spesso emarginato la cultura visiva non occidentale nel mondo occidentale. Il
ruolo della Cina nel contesto della “decolonizzazione” è complesso e
stratificato, soprattutto per Hong Kong, che ha alle spalle 155 anni di storia
coloniale. La cultura e il pensiero artistico di Hong Kong sono stati
fortemente influenzati non solo dalla sua storia coloniale, ma anche dalla
posizione geografica unica e dal suo diverso background culturale.
Nel suo libro Hong Kong Art: Culture and Decolonization, David Clarke scrive: “Durante la cerimonia di restituzione di Hong Kong nel 1997, i pianificatori hanno affiancato simboli cinesi e britannici, tentando di mantenere entrambe le narrazioni nello stesso spazio”. Questa disposizione riflette la situazione singolare di Hong Kong come punto di incontro tra le culture orientali e occidentali e suggerisce che la restituzione non è solo un trasferimento di potere politico, ma anche una complessa ristrutturazione culturale e identitaria. Clarke sottolinea che, sebbene questa giustapposizione tenda a mantenere un equilibrio superficiale, in realtà, negli anni intorno alla restituzione, lo spazio culturale di Hong Kong ha subito enormi cambiamenti. Questi cambiamenti si manifestano non solo nella cultura materiale, ma anche a livello psicologico. Clarke descrive questo cambiamento come una “decolonizzazione psicologica”, in cui Hong Kong, attraverso la riflessione e la ridefinizione di sé, si libera dall’ombra dell’identità coloniale. In questo processo di decolonizzazione psicologica, gli artisti hanno svolto un ruolo importante. Non solo sono stati testimoni dei cambiamenti culturali, ma anche partecipanti attivi e promotori. Attraverso le loro opere, gli artisti hanno esplorato ed espresso un nuovo senso di identità locale, sfidando il vecchio discorso “Est-Ovest”. Questa nuova identità non si basa più sugli standard occidentali dell’era coloniale e non accetta completamente l’identità nazionale unica promossa da Pechino.
Il curatore cinese Hou Hanru, alla Biennale di Johannesburg del 1997 ha curato l’esposizione intitolata Hong Kong, etc. [xxx], in cui assumeva la teoria di Homi K. Bhabha per descrivere l’identità di Hong Kong, la storia e la realtà come “terzo spazio”: “Questo spazio contribuisce a formare il nuovo ordine del prossimo secolo” [xxxi]. È proprio grazie all’esistenza della “cultura del terzo spazio” che l’identità culturale apparentemente senza nome e senza radici di Hong Kong si trasforma in un’identità complessa di “esistenza”. Questo ha plasmato l’ordine politico, culturale, linguistico e visivo di Hong Kong. Nonostante questo nuovo senso di identità locale sia relativamente fragile, senza profonde radici storiche o un forte sostegno politico, la sua comparsa è significativa. Questo senso di identità riflette la rinnovata consapevolezza e ridefinizione da parte degli abitanti di Hong Kong della propria cultura e storia, superando la semplice dicotomia “Est-Ovest”. Questo significa anche che il discorso precedente, che descriveva Hong Kong come un punto di incontro tra Oriente e Occidente, è ormai superato; Hong Kong sta formando una propria identità culturale unica.
Isaac Chong Wai, nato nel
1990 a Hong Kong, Cina, partecipa per la prima volta alla Biennale di Venezia
con la sua opera Falling Reversely (2021-2024). Prendendo spunto da un’aggressione
subita da Chong Wai nei pressi di un’impalcatura, l’installazione ha un
carattere scultoreo che rimanda all’edilizia civile. Alla sua struttura è
collegata una serie di video che mostrano l’artista e un gruppo di ballerini
che reagiscono all’atto di un corpo che cade di fronte a una comunità. Gli
attori cercano di invertire l’azione della caduta, rispondendo alla violenza e
alle aggressioni con forme di solidarietà e resistenza. In questa lotta
collettiva, condividono il dolore dell’abuso e riconquistano l’autonomia dei
propri corpi.
Chong Wai esamina la fragilità del corpo e la violenza insita nei sistemi sociali e nei traumi storici, trasformando la tensione, l’intervento e l’interazione tra i corpi in una metafora delle relazioni nei sistemi sociali umani. Chong Wai ha indagato a fondo le violenze subite da molte comunità di immigrati asiatici in Europa e all’estero, in particolare quelle cinesi, così come le aggressioni contro la comunità queer. La restituzione di Hong Kong non è stata solo un trasferimento di potere politico, ma una profonda trasformazione culturale. In questo processo, gli artisti, attraverso le loro creazioni, hanno partecipato attivamente e promosso la decolonizzazione culturale di Hong Kong, contribuendo a plasmare un nuovo senso di identità locale. Questa identità supera la vecchia dicotomia “Est-Ovest” e non è più limitata a una singola identità nazionale, ma riflette l’unicità di Hong Kong come società multiculturale.
Testi di Elisa Caggiula, Vittoria Cisi Dessy, Lei Dong, Bianca Fabbri, Camilla Ferrone, Sofia Gonzalez, Alessia Luigetti, Federica Zauli.
I contributi sono stati elaborati come momento conclusivo del corso di Museologia tenuto da Elvira Vannini con gli artisti e curatori del 2^ anno del Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali di Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.
Note
[i] cfr. Franz Fanon, I dannati della terra,
Einaudi, Torino 2007.
[ii]
F. Vergès, Programme de désordre absolu. Décoloniser le musée, La
Fabrique éditions, Parigi 2023, p.8.
[iii] ibidem,
p.36-37.
[iv] ibidem,
p.58.
[v] ibidem, p.21.
[vi] Trinh T. Minh-ha, La differenza: una questione “speciale per le donne del Terzo mondo”, in Femminismo Contro. Pratiche artistiche e cartografie di genere, (a cura di Elvira Vannini), Meltemi Editore, 2023, p. 156.
[vii] Aníbal Quijano (1928-2018) ritiene che il capitalismo
sia iniziato a partire dalla Conquista; si tratta dell’esordio del
“Sistema-Mondo”.
[viii] Domenico Branca, Colonialità, modernità e identità
sociali in alcune categorie di Quijano e Dussel, in “Visioni
LatinoAmericane – EUT”, a. VI, n.10, Luglio 2014, p. 89.
[ix] Aníbal Quijano, Colonialidad del poder, eurocentrismo
y América Latina, CLACSO, Buenos Aires 2000, p.73.
[x] D.Branca, op.
cit., p. 89.
[xi] A.Quijano, op.
cit.,p.80.
[xii] Ivi, p.74.
[xiii] Ivi, p.75.
[xiv] Manuel Romero Tenorio, Davide Riccardi, Adriano Díez
Jiménez, La colonialità del potere nei mezzi di comunicazione, in
“Comparative Cultural Studies: European and Latin American Perspectives” 8:
93-104, 2019, p.94.
[xxiv] Antonio
Gramsci, I quaderni dal carcere (1948-1951).
[xxv] Gayatri Spivak, Can
the Subaltern Speak? (1988).
[xxvi] Sati,
chiamato anche suttee, era una pratica funeraria diffusa in India fino
al XIX secolo, per cui la vedova, una volta morto il marito, aveva l’obbligo di
bruciarsi viva sulla sua pira funeraria. Tuttavia, esistevano anche altre forme
di sati, tra cui essere sepolte vive con il cadavere del marito e
l’annegamento.
[xxvii] Edward W. Said, Orientalismo.
L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli Editore, Milano, 2013, pp.
78-79.
[xxviii] Ivi, p. 338.
[xxix] Ivi, p. 323.
[xxx]
Hong Kong, etc. è una delle cinque mostre all’interno della 2a Biennale
di Johannesburg, intitolata Trades Routes: History and Geography, a cura
di Okwui Enwezor del 1997.
Nei processi di decolonizzazione, come diceva Franz Fanon, “c’è dunque un’esigenza di ripresa in esame integrale della situazione coloniale. La sua definizione si può racchiudere, a volerla descrivere con esattezza, nella frase ben nota: «gli ultimi saranno i primi». La decolonizzazione è la verifica di tale frase. Perciò, sul piano della descrizione, ogni decolonizzazione è un successo”. Ma è davvero così? Se la decolonizzazione è un programma di disordine assoluto e un atto violento, quella che viene rievocata da Adriano Pedrosa nella kermesse veneziana è una versione addomesticata e misurata; non ci sono voci urlate, non si va mai fuori dalle righe. Siamo ancora all’interno di una tassonomia museale di matrice coloniale ed eurocentrica. Servendoci, quindi, del mezzo del glossario – attraverso le parole di Frantz Fanon, Françoise Vergès, Walter Mignolo, Aníbal Quijano, María Lugones, Gayatri Chakravorty Spivak, Edward Said e David Clarke – diamo voce alle problematiche e criticità che la decolonizzazione solleva, come supporto alla rilettura della Biennale di Venezia 2024.
DECOLONIZZAZIONE
“C’è un fatto: i bianchi si ritengono superiori ai neri” [i]. Così Frantz Fanon esordisce nella sua analisi: ma che cos’è davvero la decolonialità?
È un processo radicale e trasformativo che non si limita alla semplice sostituzione di una classe dominante coloniale con un’élite indigena. La decolonizzazione è un atto violento e catartico, è una creazione, una liberazione, una scoperta e un’affermazione; tutto necessario per ribaltare l’ordine del mondo imposto dal colonialismo, che disumanizza i colonizzati e riduce intere popolazioni a strumenti di sfruttamento. Fenomeno intrinsecamente politico, richiede un completo rovesciamento delle strutture sociali, economiche e culturali. Non è un processo graduale o riformista, ma un movimento rivoluzionario che rompe con il passato e restituisce dignità e sovranità ai popoli oppressi. Il colonialismo non può essere “umanizzato” o corretto; la sua stessa logica si basa sulla violenza sistematica e sul dominio. Di conseguenza, la liberazione deve avvenire attraverso uno scontro che non è solo fisico, ma anche psicologico: è necessario decolonizzare le menti, superando l’interiorizzazione della subordinazione. Nella storia, le élite locali hanno spesso, una volta ottenuta l’indipendenza formale, replicato i modelli coloniali di sfruttamento, perpetuando le disuguaglianze. La vera decolonizzazione richiede un nuovo ordine sociale, radicato nella giustizia e nella partecipazione collettiva, nonché una presa di coscienza delle masse, che devono essere protagoniste del cambiamento. Questa strategia è fondamentale non solo poiché va a mutare l’ordine prestabilito, ma perché agisce direttamente sull’essere, andando a rappresentare la realizzazione di uomini nuovi. Esplorando gli effetti psicologici del colonialismo risulta ben chiaro quel senso di inferiorità inculcato dai colonizzatori: quando il colonizzato, ben consapevole di essere dominato e inferiorizzato, ma pienamente convinto di questa ingiusta condizione, decide di scagliarsi contro il peso e la prepotenza del colono, è proprio in quel momento che questo avverte pericolosi sentori. Nella propria coscienza, la paura più grande del colono è infatti la rivendicazione del colonizzato.
La decolonizzazione non è un semplice trasferimento di potere, ma una completa trasformazione della società. Per cambiare veramente le cose è necessario che la violenza divenga uno strumento utile non solo ad abbattere il potere coloniale, ma anche a rigenerare la coscienza di coloro che sono stati sottomessi. Il colonialismo ha infatti causato profonde ferite psicologiche nei colonizzati, instillando un senso di inferiorità e alienazione; la lotta per la liberazione dal giogo coloniale deve quindi includere, a prescindere, anche un processo di guarigione psicologica, per riuscire a ricostruire l’identità e la dignità umane. Per raggiungere l’emancipazione e la liberazione, i colonizzati sono pertanto costretti a partecipare a una lotta armata che però diviene simbolo dell’avvento del “Terzo Mondo” come protagonista della nuova storia che sta andando ad affermarsi, con una nuova speranza di indipendenza.
La decolonizzazione è quindi un atto rivoluzionario e violento che scaturisce dalla presa di coscienza che non vi è superiorità alcuna fra gli individui, ed è proprio questa consapevolezza a guidare nell’atto rivoluzionario e a risvegliare gli animi dei colonizzati.
Nel contesto decoloniale appena accennato, trova posto la video performance Torita-encuetada (2023), dell’artista nicaraguense Elyla, per la prima volta alla Biennale. Si tratta di una cerimonia anticoloniale, che si svolge attraverso un rituale del fuoco che affonda le radici in una pratica culturale nicaraguense denominata toro encuetado. “La danza rituale, o mitote – struggente atto di ricordo politico -, sollecita il ritorno a pratiche di rispetto della terra e alla decolonizzazione del mestizaje delle identità sessuali e di genere in Mesoamerica”, invitando gli spettatori ad assistere alle intersezioni tra cultura, prassi artistica anticoloniale e sacralità. Nella sfida alle norme sociali, l’artista trasforma infatti l’utopia cochón (queer) in una pratica artistica rivoluzionaria del presente.
DISORDINE
“Tanti conti da regolare e così pochi effetti. Tutto è pulito, ordinato”, Louisa Yousfi, Rester barbare, 2022.
Ad oggi sempre più biennali, festival, mostre, opere d’arte, celebrano artisti Neri, indigeni, razzializzati, offrendo al pubblico nuove narrative. Ma nessuno di questi gesti potrebbe essere definito decoloniale nel senso introdotto da Françoise Vergès, nel libro Programme de désordre absolu. Décoloniser le musée. Per dirla ancora con Fanon, la decolonizzazione è “un programma di disordine assoluto”. Un disordine assoluto come fonte di salvezza, perché nient’altro può porre fine a un mondo fatto di oppressione, espropriazione, razzismo e sfruttamento. Il disordine, in tal senso, non va inteso come caos, ma come una messa in discussione di quello che i potenti chiamano ordine del mondo: un mondo che hanno costruito e che continuano a costruire, un mondo che vorrebbero rimanesse immutabile, anche se la sua organizzazione e il suo funzionamento continuano ad essere contestati. Ma l’ordine del mondo non è più lo stesso di quando lo propose Fanon negli anni Sessanta; dobbiamo perciò domandarci se questo programma di disordine assoluto sia ancora attuale. Che cosa significa un programma di disordine assoluto oggi? È davvero possibile decolonizzare? E che ruolo gioco il museo?
Se quasi tutti oggi vogliono “ripensare il museo”, pochi hanno l’audacia di interrogarsi sui presupposti stessi del museo universale, prodotto dell’Illuminismo e del colonialismo, di un’Europa che si presenta come custode del patrimonio dell’intera umanità. Il museo, secondo Vergès, ha infatti compiuto un formidabile capovolgimento retorico, mascherando le sue forme di sfruttamento sotto il velo dell’universale, presentandosi come emancipatore, in uno spazio sacro lontano dai disordini del mondo [ii]. Può essere una storia dell’arte e del mondo, che ospita oggetti e resti umani rubati, saccheggiati o acquisiti in modo disonesto, un’azione decoloniale?
È proprio tra le mura del museo occidentale, che Vergès tenta di dare risposta: la decolonizzazione non è una postura, nessuna istituzione potrà definirsi decoloniale se la società non viene decolonizzata, e il museo non può esistere al di fuori dell’organizzazione sociale che l’ha fondato e istituito [iii]. Decolonizzare è infatti un verbo che indica un’azione, un’azione di disordine, che mira all’abolizione di una società, una “sostituzione totale, completa, assoluta” di un mondo con un altro, scrive ancora Fanon. Bisogna così irrompere in quel mondo pacifico del postcoloniale, che si presenta come colui che ha posto fine al passato coloniale e parla di progresso, mentre il razzismo persiste [iv]. Questo significa disordine assoluto.
Non si tratta di sognare un futuro così lontano da diventare totalmente astratto. Al contrario, questo programma di disordine assoluto è un invito a informarsi sulle lotte, per quanto “piccole e minori” possano essere, al fine di organizzarsi e svolgere un urgente lavoro immaginifico, riattivando utopie emancipatorie e pragmatiche. La decolonizzazione non sarà il risultato di un’operazione magica, di uno shock naturale o un accordo amichevole, ma piuttosto un programma in grado di abbracciare la costruzione di un mondo post-razzista, post-imperialista e post-patriarcale.
Non possiamo credere ancora una volta che l’Europa sia l’unico continente ad aver definito le migliori modalità di emancipazione e i veri diritti umani, insomma che avrebbe meglio compreso i principi di libertà e uguaglianza [v].
A parlare non solo le parole ma anche i fatti: in una Biennale 2024 che si annuncia come emancipatrice di quella classe marginalizzata, oppressa ormai da tempo, il curatore Adriano Pedrosa ha voluto dare spazio ad artisti indigeni, queer, outsider, folk. Un’azione che potrebbe essere a tutti gli effetti decoloniale viene però presentata nella laguna veneziana come elegante e composta, pulita e ben educata. Ancora una volta viene riproposto quell’ordine del mondo di cui ci parla Vergès, quell’ordine per cui la storia definisce la decolonizzazione come già avvenuta.
MODERNITÀ
“La colonialità è il lato oscuro della modernità”, sostiene il semiologo, filosofo e critico letterario argentino Walter Mignolo, così come la modernità non possa esistere senza la sua controparte coloniale. La modernità europea nasconde la sua oscura componente coloniale, evidenziando come non possa esistere modernità senza globalità, e che le modernità globali implicano inevitabilmente colonialità globali.
Dal XVI secolo i pensieri e le azioni decoloniali sono emersi come risposta alla tendenza oppressiva e imperialista degli ideali europei moderni, proiettati e attuati nei territori extraeuropei. All’inizio del XXI secolo, il mondo è connesso da un’economia capitalista unica, ma presenta varie teorie e pratiche politiche; per questo Mignolo sottolinea che stanno emergendo organizzazioni transnazionali che mettono in discussione la modernità, aprendo prospettive non capitalistiche. La modernità non va rifiutata del tutto, ma deve essere accettata con le sue glorie e i suoi crimini; in questa analisi risultano fondamentali gli artisti e i musei che giocano un ruolo fondamentale nelle nuove formazioni globali di soggettività transmoderne e decoloniali.
Il filosofo, nel riprendere Armstrong, evidenzia la singolarità delle conquiste occidentali rispetto alla storia premoderna. La rivoluzione scientifica europea, nota, ha sicuramente dato un controllo sull’ambiente mai visto prima, ma ha anche portato alla mercificazione delle vite umane, giustificata dalla classificazione razziale. Dietro la retorica della modernità, quindi, le vite umane diventavano sacrificabili per la ricchezza crescente. La modernità è stata poi criticata nella sua cronologia, nei suoi presupposti e nei suoi ideali nell’ultimo quarto del XX secolo, con l’emergere di concetti come altermodernità, modernità subalterne e periferiche. Tuttavia, queste rimangono subordinate alla centralità euro-americana. Il futuro globale risiede nel rifiuto della modernità genocida e nell’adozione dei suoi ideali emancipatori, promuovendo una transmodernità decoloniale.
Il concetto di “modernità” divenne sinonimo di salvezza e novità. La retorica della salvezza attraverso la conversione al cristianesimo si tradusse nella retorica della salvezza attraverso la missione civilizzatrice. La retorica della novità fu accompagnata dall’idea di progresso, andata di pari passo con la logica della colonialità – per questo la colonialità è parte integrante della modernità. L’idea di modernità è stata costruita come esclusivamente europea, i problemi e le preoccupazioni riguardanti modernità e tradizione sono enunciati da, o in relazione, al Terzo mondo. Pertanto, possiamo dire che la modernità è essenzialmente un progetto occidentale; accettando questo, dobbiamo prenderci la responsabilità della colonialità.
Partha Chatterjee, storico e teorico politico indiano, ha esplorato il problema della “modernità in due lingue”, distinguendo tra “la nostra modernità” e “la loro modernità”. Ha sostenuto che la modernità è associata all’Illuminismo e al Rinascimento, citando “Che cos’è l’Illuminismo” di Kant come fondamento dell’idea europea di modernità. Secondo Kant, il concetto di uomo e umanità è basato sull’idea europea di umanità, sviluppata dal Rinascimento all’Illuminismo, escludendo i “minori”. Durante l’Illuminismo, l’uomo raggiungeva la maturità e la libertà, ma questo processo non era universale: era riservato solo a coloro che abbracciavano la modernità secondo i canoni europei.
L’Altro ha così deciso di ribellarsi: una disobbedienza epistemica e politica che consiste nell’appropriarsi della modernità europea pur vivendo all’interno della realtà coloniale. I musei sono parte integrante della costruzione della modernità, perpetuano la colonialità.
Notiamo che non sono state, però, poste domande sui musei come istituzioni e sulla colonialità come logica nascosta della modernità.
Nell’immaginario europeo, questi svolgono il ruolo di custodi della memoria occidentale e di riconoscimento delle diversità culturali delle tradizioni non europee. Tuttavia, queste istituzioni raramente mettono in discussione in modo critico la loro stessa natura istituzionale e il loro legame con la colonialità. I musei, come li conosciamo oggi, sono stati creati e trasformati con l’intento di soddisfare due funzioni principali. Da un lato, essi sono stati concepiti come luoghi dove la memoria e il patrimonio culturale occidentale vengono onorati, esposti e preservati per le future generazioni. Questo include la celebrazione delle conquiste artistiche, scientifiche e storiche dell’Occidente, offrendo una narrazione che spesso esalta il progresso e la civiltà occidentale. Dall’altro lato, i musei sono stati ideati per riconoscere e mostrare le diversità delle tradizioni non europee. Essi espongono artefatti, opere d’arte e testimonianze culturali provenienti da diverse parti del mondo, spesso presentando queste culture attraverso una lente che enfatizza l’esotismo e la differenza rispetto ai canoni occidentali. Questo approccio, pur apparentemente inclusivo, non riesce a interrogarsi criticamente sulla storia di come tali oggetti siano stati acquisiti e sulle dinamiche di potere che hanno permesso il loro trasferimento e la loro esposizione nei musei occidentali.
Questa duplice funzione dei musei, come custodi della memoria occidentale e come riconoscitori della diversità culturale, evidenzia un mancato esame delle implicazioni coloniali che sottendono la loro esistenza. Mentre celebrano la propria storia, i musei non affrontano adeguatamente le questioni legate al colonialismo e di conseguenza, i musei perpetuano una narrativa che, pur riconoscendo la diversità, non riesce a liberarsi completamente dal retaggio della colonialità.
Nel caso della Biennale di Venezia 2024 vediamo come questa contiene una selezione di opere che rappresentano i modernismi non euro-americani. L’obiettivo è approfondire la conoscenza dell’arte prodotta in America Latina, Africa e Asia, o in contesti non-bianchi e non-eteronormativi. Tuttavia, il tentativo di annullare la centralità occidentale finisce per ottenere l’effetto opposto: ribadisce l’esistenza di questa centralità attraverso un’esposizione pensata per un certo tipo di internazionalità, quella dello spettatore occidentale che deve scoprire il “Nuovo Mondo”.
Nel padiglione della Spagna, per fare un esempio e, in particolare, nella sezione del “Gabinetto del razzismo”, vengono messi in luce i processi di classificazione e modernità che hanno generato colonialità e hanno allevato i semi del razzismo. In questo gabinetto, il razzismo – come il suo stesso titolo rende esplicito – si perpetua fin dall’illuminismo, passando attraverso la modernità fino ad arrivare al presente. Il Gabinetto del razzismo illuminato mette in dubbio le prove del razzismo strutturale imposte durante il colonialismo, che promuovono l’idea della superiorità occidentale, perpetuando un’immagine distorta che nasconde la dipendenza del Nord globale dalle risorse del Sud globale.
EUROCENTRISMO
“Dunque, nel contesto contemporaneo è fondamentale […] lottare per la differenza, intesa filosoficamente come capace di posporre all’infinito l’identità e sovvertire le tendenze ad assumere una struttura di comportamento univoco”, Trinh T. Minh-ha [vi]
L’eurocentrismo è una visione del mondo che privilegia la cultura, la storia e i valori europei rispetto a quelli di altre civiltà. Questo approccio è emerso nel contesto dell’espansione coloniale e si è radicato attraverso la dominazione politica, economica e culturale del mondo da parte delle potenze occidentali [vii]. Con tale pratica, afferma Aníbal Quijano, è stato più facile naturalizzare il controllo dei territori e delle risorse da parte del potere eurocentrato [viii]. L’eurocentrismo si manifesta nella storiografia, nella geografia, nell’arte, nella letteratura e nelle scienze sociali, spesso relegando le altre culture a un ruolo marginale o inferiore. Sicuramente un effetto dannoso dell’eurocentrismo è la distorsione della storia globale, che riducendo le civiltà africane, asiatiche e latinoamericane a preamboli della storia europea, ignora i loro contributi significativi e la loro complessità [ix]. Questo porta a una comprensione parziale e inaccurata delle dinamiche storiche globali. L’eurocentrismo ha anche implicazioni contemporanee, nella nostra vita quotidiana, nelle scuole, nelle istituzioni, nelle relazioni internazionali e negli studi culturali, in quanto, la prospettiva eurocentrica può influenzare le politiche e le percezioni, perpetuando stereotipi e pregiudizi. Ognuna di queste categorie, imposte dall’eurocentrismo del potere, è stata infine accettata dalla maggioranza fino ad oggi come espressione della “natura” e della geografia, piuttosto che come risultato della storia del potere nel mondo [x]. Questo è evidente nei dibattiti sull’immigrazione, sullo sviluppo economico e sui diritti umani, dove spesso le soluzioni europee vengono presentate come universalmente applicabili, senza tener conto delle specificità locali. Per contrastare l’eurocentrismo, è necessario adottare un approccio più inclusivo e plurale, impegnandosi a valorizzare le narrazioni e le prospettive delle diverse culture del mondo, riconoscendo la loro autonomia e il loro valore intrinseco.
“Ciò è vero anche per le razze, dal momento che così tanti popoli diversi ed eterogenei furono assimilati sotto la stessa etichetta” [xi]. Questo richiede un ripensamento critico delle metodologie e dei canoni accademici, promuovendo un dialogo interculturale autentico e rispettoso. In sintesi, l’eurocentrismo non è solo una questione accademica, ma un problema che influisce sulla comprensione e sulle interazioni globali. Dunque, superarlo è essenziale per costruire un mondo più equo e rispettoso delle diversità culturali.
COLONIALITÀ DEL POTERE
La colonialità del potere è un concetto sviluppato dal sociologo peruviano Aníbal Quijano che si riferisce alla persistenza delle strutture di dominio e di sfruttamento stabilite durante il periodo coloniale e che continuano a influenzare le dinamiche sociali, economiche e culturali nel mondo contemporaneo [xii]. Questa teoria va oltre l’analisi del colonialismo come evento storico, evidenziando come le logiche coloniali si siano radicate nelle società moderne e globalizzate. Uno degli elementi chiave della colonialità del potere è la classificazione razziale, che ha creato gerarchie di superiorità e inferiorità basate sulla razza [xiii]. Questo sistema di classificazione non solo ha giustificato la schiavitù e lo sfruttamento coloniale, ma perdura nei sistemi contemporanei discriminazione e disuguaglianza razziale. Secondo Quijano il concetto di razza è un’ideologia che è stata strutturata per organizzare la nuova società americana con l’obiettivo di distinguere nettamente i conquistatori dai conquistati [xiv]. La razza, secondo Quijano, è una costruzione sociale che continua a influenzare le relazioni di potere nel mondo postcoloniale, producendo effetti sull’economia globale. Queste politiche spesso perpetuano la dipendenza economica dei paesi del Sud del mondo, replicando le dinamiche di sfruttamento coloniale [xv]. Culturalmente, la colonialità del potere si manifesta chiaramente nella predominanza dei modelli di conoscenza occidentali [xvi]. Ciò che la storia ci insegna è che le epistemologie indigene e non occidentali sono state sistematicamente emarginate, ritenute inferiori o irrilevanti. Questo processo di “colonizzazione della mente” ha imposto un’unica visione del mondo, soffocando la diversità culturale, nonché gli aspetti teorici ed empirici. Per affrontare la colonialità del potere, è necessario un impegno verso la decolonizzazione, che implica il riconoscimento e la valorizzazione delle voci e delle prospettive subalterne [xvii]. Questo richiede un cambiamento radicale nelle strutture economiche, politiche e culturali globali, promuovendo un ordine mondiale più giusto ed equo. La colonialità del potere riguarda tutti noi.
“Per ora siamo stati sconfitti sul fronte di entrambe le prospettive rivoluzionarie. Qualsiasi diritto civile e politico siamo stati in grado di promuovere e conquistare nell’ambito dell’indispensabile redistribuzione del potere e della decolonizzazione della nostra società e del nostro stato oggi sta tornando sotto il controllo degli stessi funzionari della colonialità del potere. Sarebbe giunta da tempo l’ora d’imparare a liberarci dalla nostra prospettiva distorta”. [xviii]
Il padiglione di Porto Rico, all’interno della 60ª Esposizione Internazionale d’Arte, si distingue per la sua vasta raccolta di documenti d’archivio che trattano il persistere delle strutture coloniali. L’isola caraibica, ex colonia spagnola e attualmente territorio associato degli Stati Uniti, non ha mai avuto un governo autonomo [xix]. Avendo vissuto oltre cinquecento anni di dominio coloniale, i portoricani sono stati costretti a condurre una vita da sudditi coloniali. Questo immaginario perpetuato nei secoli viene usato per giustificare il dominio sull’isola caraibica.
Oggi, a causa di un enorme debito pubblico, Puerto Rico sta affrontando un collasso economico, una crisi umanitaria e un massiccio esodo della popolazione. Sebbene i portoricani siano cittadini statunitensi, vivono come stranieri nel loro Paese, nella terra del loro colonizzatore e in qualsiasi altro paese decidano di viaggiare. Pablo Delano (San Juan, 1954, vive a West Hartford, Stati Uniti), artista visivo e fotografo, utilizza l’archivio con l’obiettivo di raccogliere testimonianze che esaminano le persistenti strutture coloniali legate all’isola caraibica. La sua installazione, presente alla Biennale di Venezia 2024, ci aiuta a comprendere come la gerarchia razziale e lo sfruttamento siano ancora problemi irrisolti [xx]. Delano afferma che la nascita di The Museum of the Old Colony si ispira ad esperienze vissute durante l’infanzia, in quanto testimone, portavoce, messaggero: in altre parole, lancia un grido di aiuto su una situazione tuttora attuale. Evocando le tragiche ingiustizie e l’eredità paralizzante dello sfruttamento subite da Porto Rico e dalla sua gente, Delano invita i visitatori, portoricani e non, a riflettere sulla propria complicità nel sistema coloniale. La Biennale è riuscita a farli sentire a casa almeno nel territorio italiano? O, forse, è lo stesso padiglione di Porto Rico a ricordarci che, dovremmo mantenere viva la curiosità e la volontà di esplorare, comprendere e apprezzare la ricchezza culturale e la storia di questa affascinante isola caraibica?
THE COLONIAL/MODERN GENDER SYSTEM
“The Colonial/Modern Gender System” [xxi] è il termine che María Lugones utilizza per spiegare la logica categoriale e gerarchica centrale nel pensiero moderno, su razza, genere e sessualità. Decolonizzare il genere significa mettere in atto una critica all’oppressione di genere eterosessista, razziale, coloniale e capitalista. Nel XX secolo le femministe borghesi bianche hanno teorizzato il senso bianco dell’essere donna come se tutte le donne fossero bianche, senza quindi esplicitare la connessione tra il genere, la razza, l’eterosessualità e la classe. Con “The Colonial/Modern Gender System” si sottolinea invece l’importanza di portare l’attenzione sull’indifferenza verso le violenze che lo Stato e il patriarcato bianco perpetuano contro le donne delle comunità nere, in tutto il mondo. L’importante lavoro sul genere, la razza e la colonizzazione che hanno svolto le femministe Nere negli Stati Uniti dimostra l’esclusione storica delle donne non bianche nelle lotte di liberazione condotte in nome della donna.
Nella colonizzazione delle Americhe solo i “civilizzati” erano considerati uomini e donne. “Le donne indigene erano classificate come specie non umana, come animali” [xxii]. Femmine ma non donne. Tutti i parametri come razza o genere sono un’introduzione coloniale e violenta e sono da sempre utilizzati per distruggere popoli e comunità in nome di una civilizzazione che avviene appunto secondo criteri prestabiliti da chi detiene il potere. Il compito della femminista decoloniale è innanzitutto quello di far prendere coscienza di questo sistema superando l’abitudine a pensare secondo questi dogmi che hanno fatto parte della cultura occidentale da sempre, imponendo modelli di comportamento che limitano gran parte della popolazione.
Nil Yalter, un’artista il cui lavoro esplora in modo incisivo le dinamiche di genere, migrazione e identità, rappresenta un esempio di come l’arte possa essere un potente strumento di critica sociale e politica, espone per la prima volta alla Biennale ed è stata premiata con il Leone d’oro. Le sue opere, come Exile Is a Hard Job, mettono in luce le esperienze delle persone marginalizzate e denunciano le ingiustizie sistemiche. Exile is a hard job è un titolo significativo che racconta tante cose dell’artista. Fa pensare a tutti coloro che per motivi diversi si trovano in esilio e a come combattano per non perdere il loro retaggio culturale e le loro tradizioni pur dovendosi adattare a realtà di vita completamente diverse dalle loro. Yalter, nata in Egitto e cresciuta in Turchia prima di trasferirsi in Francia, ha sviluppato una sensibilità unica verso le dinamiche di potere e le ingiustizie sociali che affliggono le donne, specialmente quelle appartenenti a contesti marginalizzati. L’artista dichiara “non mi sono mai definita un’artista femminista. Negli anni ‘70, così come oggi, mi sono sempre sentita un’artista marxista-leninista, perché considero la lotta di classe l’elemento essenziale della mia visione del mondo” [xxiii].
Nella sua ricerca combina attivismo e arte per portare luce sulle storie invisibili delle donne immigrate, mettendo in discussione le rappresentazioni stereotipate e coloniali e promuovendo una visione più inclusiva e complessa della società. L’esposizione delle sue opere in un contesto così istituzionalizzato come la Biennale non deve essere interpretata solo come un gesto simbolico, ma come un vero impegno verso il cambiamento strutturale.
VENTRILOQUISMO DEL SUBALTERNO
Subalterno: coniato da Antonio Gramsci e utilizzato da quest’ultimo per la prima volta in ambito postcoloniale, il termine intende riferirsi alla classe della gente subordinata, più bassa del proletariato, senza la propria voce e incapace di formare un’autonomia politica, in conseguenza dell’egemonia culturale che nega la loro agency escludendola dalle istituzioni sociali ed economiche del tempo [xxiv]. Differentemente, Gayatri Spivak – femminista postcoloniale e filosofa – parla invece di subalterna, al femminile.
There is no space from which the sexed subaltern subject can speak [xxv], dice Spivak: la sua subalterna è una figura neutralizzata, zittita, marginalizzata, il cui luogo prediletto è il luogo dell’esclusione, perché esistente in quest’ultimo come soggettività non costituita, non essendole mai stata concessa la possibilità di auto-articolarsi; è una donna che non può parlare – e se parlasse, non verrebbe ascoltata – ma al posto della quale parlano altri, intrappolandola in narrazioni che non le appartengono. A tal proposito, per ventriloquismo del subalterno s’intende proprio il processo all’interno del quale la donna scompare – dissolvendosi, diviene evanescenza – catturata nel continuo andirivieni fra patriarcato e imperialismo.
Spivak restituisce chiaramente il suo pensiero attraverso storie di donne la cui voce non viene ascoltata, donne soggette spesso a una doppia subalternità, quella coloniale e quella patriarcale.
Ed ecco che ci racconta della Rani di Sirmur, vissuta durante il corso del XIX, una regina che nel 1829 esprime la volontà di compiere il rituale del sati [xxvi], nonostante il marito sia ancora in vita. Gli ufficiali britannici che si trovano al tempo in India glielo impediscono: si dicono portatori di una missione civilizzatrice – che altro non è che imperialismo – considerando il sati una pratica violenta e barbara e autoproclamandosi così salvatori e liberatori della donna nativa. La donna subalterna, dunque, non ha una voce libera: al suo posto, decidono altri. E non solo i missionari britannici, ma anche il patriarcato locale: proprio così, per gli uomini nativi la donna indiana è ben felice di salire sul rogo assieme al marito e sacrificare la propria vita. Entrambe le parti escludono la donna da una discussione che riguarda il suo stesso corpo.
Bhubaneswari Bhaduri, invece, vive un secolo più tardi: nel 1926, a soli diciassette anni, s’impicca nell’appartamento del padre a Calcutta. È un’attivista politica – si scopre un decennio più tardi – che, dopo aver fallito nella realizzazione di un assassinio politico, con la volontà di proteggere i suoi compagni, decide di togliersi la vita. Attendendo il momento delle mestruazioni. Si tratta di una scelta apparentemente superflua, e invece nasconde un potente significato politico e linguistico. Compiendo una decisione strategica, l’attivista fa parlare il proprio corpo: “no, non si tratta di una gravidanza illecita!” urla il suo cadavere. Non vuole, cioè, che la sua voce possa diventare ventriloqua. Cosa che inevitabilmente succede. Ancora oggi, infatti, le rappresentazioni la dipingono come borderline, una ragazza interrotta che si è uccisa in preda al delirio.
La voce della subalterna, ancora una volta, non trova spazio. Non trova ascolto. Non trova giustizia.
Storie di voci che vengono ascoltate si ritrovano invece all’interno di Personal Accounts, installazione audiovisiva di Gabriella Goliath, alla Biennale di Venezia 2024. Il progetto, che registra le testimonianze di persone Nere, queer, indigene, non binarie, trans, fa luce sui modi creativi attraverso cui i sopravvissuti affermano la propria vita. Come scelta intenzionale, dall’audio vengono rimosse le parole, enfatizzando gli elementi paralinguistici come respiri e deglutizioni. Un gesto artistico, questo, che sfida le nozioni di credibilità e leggibilità, tipicamente associate a narrazioni di questo tipo. Ne deriva un ambiente sicuro in cui la voce del subalterno, della subalterna, del subalternə trova finalmente ascolto.
ORIENTALISMO
“È il termine generale […] per indicare l’approccio occidentale nei confronti dell’Oriente; è la disciplina teorica con cui l’Occidente si è avvicinato (e si avvicina) all’Est in modo sistematico, attraverso lo studio, l’esplorazione geografica e lo sfruttamento economico” [xxvii].
Introdotto da Edward W. Said nel suo libro “Orientalismo” (1978), il termine rappresenta molto più di una semplice designazione geografica o culturale. È un concetto complesso che si riferisce a un insieme di pratiche e discorsi attraverso i quali l’Occidente ha guardato e interpretato l’Oriente, spesso distorcendone la realtà per fini di controllo e dominazione. Secondo Said, l’orientalismo non è solo un insieme di studi accademici sull’Oriente, ma è un discorso potente che ha radici profonde nella storia europea. Questo discorso è caratterizzato da rappresentazioni stereotipate e riduttive dell’Oriente, presentato come esotico, arretrato, misterioso e pericoloso. Tali rappresentazioni non sono semplici descrizioni, ma costruzioni ideologiche che servono a giustificare il dominio coloniale e l’egemonia culturale dell’Occidente. L’orientalismo ha radici profonde nella storia europea che risalgono alle crociate medievali e che si sono sviluppate attraverso i secoli, fino ad arrivare all’era del colonialismo del XIX e XX secolo, andando a influenzare la letteratura, l’arte e la scienza europee. Durante l’era coloniale questo approccio si istituzionalizza attraverso gli studi orientali o l’orientalistica, che producono una conoscenza dell’Oriente profondamente intrecciata con le ideologie coloniali. Said, cita numerosi studiosi che hanno contribuito a creare questa conoscenza distorta sull’Oriente, criticando principalmente figure come Ernest Renan e Silvestre de Sacy, due orientalisti che hanno contribuito notevolmente a una visione monolitica e stereotipata dell’Oriente.
“Parlare di qualcuno come di un “orientale”, come facevano gli orientalisti, non significava soltanto designarlo come qualcuno il cui linguaggio, geografia e storia erano oggetto di trattati eruditi: spesso questa espressione era interpretata in modo negativo, come se fosse adatta a indicare un genere inferiore di esseri umani” [xxviii].
Uno degli aspetti più innovativi dell’analisi di Said è il legame tra orientalismo e potere politico. Egli sostiene che l’orientalismo non è mai stato un campo neutrale di studio, ma è sempre stato strettamente connesso alle strutture di potere occidentali. L’orientalismo ha giustificato l’imperialismo britannico e francese, presentando l’Oriente come un luogo bisognoso dell’intervento civilizzatore dell’Occidente. Un legame che persiste nelle politiche estere contemporanee, dove le rappresentazioni distorte dell’Oriente continuano a influenzare le decisioni politiche e militari, tramite film, notizie e programmi televisivi, i quali rafforzano spesso gli stereotipi negativi, presentando l’Oriente come un luogo di violenza, fanatismo e oppressione. Attraverso l’orientalismo, quindi, l’Occidente cerca di comprendere, controllare e assimilare un mondo diverso. L’orientalismo rappresenta una parte significativa della cultura moderna, influenzando il nostro mondo più dell’Oriente stesso, andando a trasformare quindi la cultura orientale in un “museo senza pareti” e continuando tutt’oggi a permanere e influenzare le nostre vite.
“È chiaro che le circostanze che fanno dell’orientalismo un tipo di pensiero tuttora persuasivo non sono destinate a breve vita: prospettiva, tutto sommato, abbastanza sconfortante. Nutro però la speranza che l’orientalismo potrà in futuro essere messo in questione, intellettualmente, ideologicamente e politicamente, più di quanto sia accaduto sinora” [xxix].
In tema di orientalismo, significativa è l’opera Tekkà di Nenne Sanguineti Poggi, realizzata nel 1948, esposta per la prima volta alla Biennale di Venezia 2024. È situata nella sezione del Nucleo Storico “Italiani Ovunque”, dove si trovano una serie di opere di artisti italiani che hanno viaggiato e vissuto all’estero, costruendo la propria carriera in Africa, Asia e America Latina. Gli artisti presentati hanno lasciato l’Italia per svariate ragioni; si va dagli orientalisti agli artisti al seguito dei convogli inviati durante le imprese coloniali. Fu realizzata dall’artista quando si stabilì nuovamente in Eritrea dopo il Trattato di Parigi del 1947. Raffigura Tekkà, una donna che apparteneva al popolo Beni-Amer delle pianure occidentali, verso il confine con il Sudan. In quest’opera la composizione riflette l’affetto che lega la pittrice al suo soggetto e questo la salva da un “vuoto estetismo”. Infatti, nel corso della sua vita l’artista si interrogò molto sul ruolo di donna italiana privilegiata che viveva ed era attiva in paesi precedentemente coloniali. Grazie a questa profondità di pensiero è riuscita quindi ad andare oltre la tipica rappresentazione esotica, superficiale e priva di significato che ha caratterizzato la maggior parte degli orientalisti e degli artisti nel corso dei secoli.
DECOLONIZZAZIONE PSICOLOGICA
La storia dell’arte ha spesso emarginato la cultura visiva non occidentale nel mondo occidentale. Il ruolo della Cina nel contesto della “decolonizzazione” è complesso e stratificato, soprattutto per Hong Kong, che ha alle spalle 155 anni di storia coloniale. La cultura e il pensiero artistico di Hong Kong sono stati fortemente influenzati non solo dalla sua storia coloniale, ma anche dalla posizione geografica unica e dal suo diverso background culturale.
Nel suo libro Hong Kong Art: Culture and Decolonization, David Clarke scrive: “Durante la cerimonia di restituzione di Hong Kong nel 1997, i pianificatori hanno affiancato simboli cinesi e britannici, tentando di mantenere entrambe le narrazioni nello stesso spazio”. Questa disposizione riflette la situazione singolare di Hong Kong come punto di incontro tra le culture orientali e occidentali e suggerisce che la restituzione non è solo un trasferimento di potere politico, ma anche una complessa ristrutturazione culturale e identitaria. Clarke sottolinea che, sebbene questa giustapposizione tenda a mantenere un equilibrio superficiale, in realtà, negli anni intorno alla restituzione, lo spazio culturale di Hong Kong ha subito enormi cambiamenti. Questi cambiamenti si manifestano non solo nella cultura materiale, ma anche a livello psicologico. Clarke descrive questo cambiamento come una “decolonizzazione psicologica”, in cui Hong Kong, attraverso la riflessione e la ridefinizione di sé, si libera dall’ombra dell’identità coloniale. In questo processo di decolonizzazione psicologica, gli artisti hanno svolto un ruolo importante. Non solo sono stati testimoni dei cambiamenti culturali, ma anche partecipanti attivi e promotori. Attraverso le loro opere, gli artisti hanno esplorato ed espresso un nuovo senso di identità locale, sfidando il vecchio discorso “Est-Ovest”. Questa nuova identità non si basa più sugli standard occidentali dell’era coloniale e non accetta completamente l’identità nazionale unica promossa da Pechino.
Il curatore cinese Hou Hanru, alla Biennale di Johannesburg del 1997 ha curato l’esposizione intitolata Hong Kong, etc. [xxx], in cui assumeva la teoria di Homi K. Bhabha per descrivere l’identità di Hong Kong, la storia e la realtà come “terzo spazio”: “Questo spazio contribuisce a formare il nuovo ordine del prossimo secolo” [xxxi]. È proprio grazie all’esistenza della “cultura del terzo spazio” che l’identità culturale apparentemente senza nome e senza radici di Hong Kong si trasforma in un’identità complessa di “esistenza”. Questo ha plasmato l’ordine politico, culturale, linguistico e visivo di Hong Kong. Nonostante questo nuovo senso di identità locale sia relativamente fragile, senza profonde radici storiche o un forte sostegno politico, la sua comparsa è significativa. Questo senso di identità riflette la rinnovata consapevolezza e ridefinizione da parte degli abitanti di Hong Kong della propria cultura e storia, superando la semplice dicotomia “Est-Ovest”. Questo significa anche che il discorso precedente, che descriveva Hong Kong come un punto di incontro tra Oriente e Occidente, è ormai superato; Hong Kong sta formando una propria identità culturale unica.
Isaac Chong Wai, nato nel 1990 a Hong Kong, Cina, partecipa per la prima volta alla Biennale di Venezia con la sua opera Falling Reversely (2021-2024). Prendendo spunto da un’aggressione subita da Chong Wai nei pressi di un’impalcatura, l’installazione ha un carattere scultoreo che rimanda all’edilizia civile. Alla sua struttura è collegata una serie di video che mostrano l’artista e un gruppo di ballerini che reagiscono all’atto di un corpo che cade di fronte a una comunità. Gli attori cercano di invertire l’azione della caduta, rispondendo alla violenza e alle aggressioni con forme di solidarietà e resistenza. In questa lotta collettiva, condividono il dolore dell’abuso e riconquistano l’autonomia dei propri corpi.
Chong Wai esamina la fragilità del corpo e la violenza insita nei sistemi sociali e nei traumi storici, trasformando la tensione, l’intervento e l’interazione tra i corpi in una metafora delle relazioni nei sistemi sociali umani. Chong Wai ha indagato a fondo le violenze subite da molte comunità di immigrati asiatici in Europa e all’estero, in particolare quelle cinesi, così come le aggressioni contro la comunità queer. La restituzione di Hong Kong non è stata solo un trasferimento di potere politico, ma una profonda trasformazione culturale. In questo processo, gli artisti, attraverso le loro creazioni, hanno partecipato attivamente e promosso la decolonizzazione culturale di Hong Kong, contribuendo a plasmare un nuovo senso di identità locale. Questa identità supera la vecchia dicotomia “Est-Ovest” e non è più limitata a una singola identità nazionale, ma riflette l’unicità di Hong Kong come società multiculturale.
Testi di Elisa Caggiula, Vittoria Cisi Dessy, Lei Dong, Bianca Fabbri, Camilla Ferrone, Sofia Gonzalez, Alessia Luigetti, Federica Zauli.
I contributi sono stati elaborati come momento conclusivo del corso di Museologia tenuto da Elvira Vannini con gli artisti e curatori del 2^ anno del Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali di Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.
Note
[i] cfr. Franz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007.
[ii] F. Vergès, Programme de désordre absolu. Décoloniser le musée, La Fabrique éditions, Parigi 2023, p.8.
[iii] ibidem, p.36-37.
[iv] ibidem, p.58.
[v] ibidem, p.21.
[vi] Trinh T. Minh-ha, La differenza: una questione “speciale per le donne del Terzo mondo”, in Femminismo Contro. Pratiche artistiche e cartografie di genere, (a cura di Elvira Vannini), Meltemi Editore, 2023, p. 156.
[vii] Aníbal Quijano (1928-2018) ritiene che il capitalismo sia iniziato a partire dalla Conquista; si tratta dell’esordio del “Sistema-Mondo”.
[viii] Domenico Branca, Colonialità, modernità e identità sociali in alcune categorie di Quijano e Dussel, in “Visioni LatinoAmericane – EUT”, a. VI, n.10, Luglio 2014, p. 89.
[ix] Aníbal Quijano, Colonialidad del poder, eurocentrismo y América Latina, CLACSO, Buenos Aires 2000, p.73.
[x] D.Branca, op. cit., p. 89.
[xi] A.Quijano, op. cit.,p.80.
[xii] Ivi, p.74.
[xiii] Ivi, p.75.
[xiv] Manuel Romero Tenorio, Davide Riccardi, Adriano Díez Jiménez, La colonialità del potere nei mezzi di comunicazione, in “Comparative Cultural Studies: European and Latin American Perspectives” 8: 93-104, 2019, p.94.
[xv] A.Quijano, op. cit, p.91.
[xvi] A.Quijano, op. cit, p.93.
[xvii] Marie-Laure Allain Bonilla, Alcuni aspetti teorici ed empirici sulla decolonizzazione delle collezioni occidentali
[xviii] A.Quijano, op. cit, p.96.
[xix] Pablo Delano, pannello all’ingresso del padiglione Puerto Rico, Biennale di Venezia, 2024.
[xx] Manuela De Leonardis, Un archivio decoloniale di Porto Rico. L’opera di Pablo Delano alla Biennale, intervista in Artribune,
[xxi] María Lugones, Toward a Decolonial Feminism, in “Hypatia”, vol.25, n.4, 2010, p.742.
[xxii] Ibidem, p.743
[xxiii] Jasmina Trifioni, Nil Yalter, Leone d’oro a Venezia, in “Baazar”, 2024.
[xxiv] Antonio Gramsci, I quaderni dal carcere (1948-1951).
[xxv] Gayatri Spivak, Can the Subaltern Speak? (1988).
[xxvi] Sati, chiamato anche suttee, era una pratica funeraria diffusa in India fino al XIX secolo, per cui la vedova, una volta morto il marito, aveva l’obbligo di bruciarsi viva sulla sua pira funeraria. Tuttavia, esistevano anche altre forme di sati, tra cui essere sepolte vive con il cadavere del marito e l’annegamento.
[xxvii] Edward W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli Editore, Milano, 2013, pp. 78-79.
[xxviii] Ivi, p. 338.
[xxix] Ivi, p. 323.
[xxx] Hong Kong, etc. è una delle cinque mostre all’interno della 2a Biennale di Johannesburg, intitolata Trades Routes: History and Geography, a cura di Okwui Enwezor del 1997.
[xxix] Hou Hanru, On the Mid-Ground, 2013, p.195.