“Un mondo di sopra e un mondo di sotto”: solidarietà portuale al popolo palestinese. Una conversazione con José Nivoi

a cura di Stefano Serretta.

Il CALP, Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali fondato nel 2011, dal 2014 si occupa di contrastare il traffico di armi di passaggio nello scalo genovese, cercando contemporaneamente di costruire una rete di solidarietà internazionale che unisca le portualità italiane ed europee in questa lotta. Nel 2019 sono stati protagonisti del blocco della nave saudita Bahri Yambu, carica di armamenti da usare nella guerra in Yemen. Dal 7 ottobre si sono occupati attivamente di rispondere alla richiesta di aiuto del popolo palestinese. Di seguito, la conversazione con José Nivoi, portuale e sindacalista, sull’economia di guerra e sui modi per dare solidarietà attiva ai popoli in rivolta.

Genova, 10 novembre 2023, foto di Stefano Serretta.

Il 12 aprile avete partecipato al Palästina Kongress 2024 a Berlino, puoi raccontarmi com’è andata e quali sono state le problematiche che avete riscontrato in quell’occasione di confronto, rispetto alla libertà di espressione in relazione alla questione palestinese?

Intanto c’è da dire che in Germania ci portano come esempio a livello europeo, perché da loro c’è il divieto di fare scioperi che abbiano finalità politiche e ci chiamano a fare tutta una serie di interventi da un lato di sensibilizzazione e anche per sottolineare come, se si applicano determinati tipi di lotta anche su principi di etica e morale, la cosa possa funzionare nel concreto. Ci hanno chiamato quindi anche al Congresso Internazionale della Palestina del 2024 – dove tra gli interlocutori doveva esserci anche Yanis Varoufakis, che si sta spendendo molto sulla questione palestinese e che non hanno nemmeno fatto entrare in Germania, ma che hanno bloccato all’aeroporto e rispedito in Grecia. Stessa cosa è avvenuta con Ghassan Abu Sitta, medico chirurgo palestinese che lavora a Londra ed è stato invitato perché nell’ultimo periodo era stato a Gaza per portare il proprio contributo anche pratico sul campo e salvare la vita di bambini e famiglie che stanno sotto i bombardamenti. Anche lui bloccato all’aeroporto e rispedito a Londra. Noi non abbiamo avuto problemi di questo tipo perché siamo arrivati in Germania il giorno prima del convegno. A perimetro della palazzina che ospitava il Congresso, tutta la zona era delimitata da barriere, mentre 2.500 poliziotti sorvegliavano il quartiere, proprio perché l’attenzione era alta. Non ti dico la quantità di furgoni, macchine e camionette, un volume che ho visto giusto il 15 ottobre 2011 o durante il G8, quando si sapeva che si andava a fare scontri. Qui però si trattava di portare una testimonianza contro la guerra. Per accedere alla palazzina bisognava consegnare un documento ed essere nella lista dei relatori. A questo congresso dovevano essere presenti 500 persone, ma la polizia le ha limitate a 250, quindi relatori, giornalisti e un piccolo pubblico di associazioni.

Quanto ci avete messo per entrare?

Dopo circa due ore di attesa riusciamo ad accedere e prendere posto. All’interno c’erano già una ventina di poliziotti, tra cui l’equivalente della nostra digos e altri in tenuta antisommossa. Apre il congresso una ragazza palestinese che ha fatto il quadro generale della situazione sia a Gaza sia di quanto accaduto in Germania nei mesi precedenti.

La repressione del dissenso lì ha colpito più duramente che altrove.

Noi eravamo seduti vicino a Udi Raz, che è diventato un po’ il simbolo della questione palestinese a Berlino, perché lui è ebreo e lavorava al Museo della Memoria, ed è stato licenziato perché ha espresso solidarietà al popolo palestinese. Dopo doveva intervenire Ghassan, il medico bloccato all’aeroporto, ma vista l’impossibilità per via del fermo hanno provato a collegarsi in video. Dopo pochi minuti, i poliziotti staccano la corrente ed entrano almeno in ottanta nella sala congressi, cominciando a creare dei perimetri interni che separavano i vari gruppi e creando di fatto il panico. La polizia accusava i presenti e gli organizzatori di essere pro-Hamas e antisemiti. Non hanno voluto sentire questioni. Un conto sono le tensioni di piazza, altra cosa è vedere la limitazione del dissenso e della libertà di espressione in un contesto ufficiale, è una sensazione strana e brutta che abbiamo vissuto in maniera diretta e che finora avevamo solo letto sui libri o sentito nei racconti dei nonni partigiani.

Com’è evoluta poi la situazione?

Mentre i compagni provavano a mediare per riuscire almeno a portare a termine il congresso, arriva un poliziotto con un altoparlante e comincia a dire che se la palazzina non fosse stata sgomberata entro 15 minuti sarebbero entrati e avrebbero usato la forza per farci uscire. Nel frattempo, hanno arrestato Udi Raz e poi dopo altri due compagni. Si decide quindi di uscire, scortati da due trecento poliziotti, fino a settecento metri dalla palazzina. Il giorno dopo il secondo congresso è stato annullato e il proprietario della palazzina è stato minacciato dalla polizia di ritorsioni per aver ospitato l’evento. Tutto questo è legato a un senso di colpa collettivo, che si chiama “anti Deutsche” e riguarda anche la sinistra e compagni che quando si arriva alla questione palestinese sono totalmente spostati dalla parte israeliana. Una conseguenza di settant’anni di costruzione collettiva seguita all’Olocausto, e che quindi è proprio radicato nella società. Questo fa sì che anche se scattano questo tipo di operazioni di polizia tutta una parte anche della sinistra non si opponga alla cosa.

Stefano Serretta, Portuali Genova, 2023, inchiostro su carta.

Al posto del convegno avete fatto uno corteo.

Sì, siamo scesi letteralmente in migliaia di fronte al parlamento tedesco per manifestare contro questa azione poliziesca e per il diritto di parola. Lungo tutti i 4 km di corteo erano schierati sui lati due cordoni di polizia che limitavano le possibilità di movimento, con qualche piccolo episodio di frizione e tafferugli, nonostante tutto sia proceduto bene. Questo tipo di atteggiamento riflette la visione europea a trazione unica nei confronti della questione palestinese e lo schieramento unidirezionale pro-israeliano. Anche in Italia, il fatto che oltre ad essere un crocevia si stia passando ad essere anche un centro di stazionamento delle armi americane (dirette in Israele ma non solo) riflette il posizionamento delle nostre politiche economiche e strategiche in merito, e di come stia cambiando anche il fronte interno, vedi la questione Ucraina. Non si vede la guerra in termini concreti ma si assistono a quelli che sono i preparativi di un conflitto, come denunciavamo già nel 2019 in merito allo Yemen.

A riprova di questo ci posizioniamo come quarto esportatore di armi verso Israele. Essendo attivi principalmente nel Porto di Genova quali ricadute avete percepito in seguito al propagarsi del conflitto in Palestina di questi mesi?

Come ti dicevo, la fase che stiamo vivendo è una sorta di ritorno della guerra in casa nostra in altri tipi di forma, tra cui quello dell’inflazione, se si parla di portualità. Da ottobre ad oggi abbiamo notato un aumento del costo del posizionamento a terra del container (si è passati dai 1400 dollari del costo del nolo, a 6400 dollari: un aumento di circa il 350%). Nel canale di Suez passano circa il 12% delle merci a livello globale e di quel 12% il 40% è destinato all’Italia.

Questo cosa vuol dire?

L’aumento del costo del nolo non va ad incidere sugli utili delle aziende ma ricade nella soglia inflazionistica, va cioè ad aumentare il costo della farina, della benzina, dell’energia, di tutto quello che è il potere d’acquisto dei lavoratori. Gli attacchi da parte degli Houthi alle navi commerciali e alle catene di foraggiamento dell’Europa, in solidarietà al popolo palestinese, hanno fatto sì che molte navi si siano rifiutate di passare in quel lembo di mare o di circumnavigare l’Africa e quindi non arrivino più nei porti italiani.

C’è dunque anche una questione di lavoro, oltre a quella inflazionistica.

Si è verificata una diminuzione delle chiamate tra i portuali, dei container stessi e dell’arrivo delle navi nei porti, come anche degli approvvigionamenti delle fabbriche. Le scelte del governo italiano (nei termini, ad esempio, della coalizione europea Ispide) vanno contro gli interessi stessi della propria nazione, invece di provare a introdurre risoluzioni diplomatiche per garantirsi continuità economica e commerciale e placare il genocidio portato avanti da Israele sulla popolazione di Gaza.  

Perché avete sentito il dovere di esporvi attivamente?

Siamo stati chiamati dai sindacati palestinesi che, con un comunicato lanciato il 16 ottobre, hanno fatto un appello a livello internazionale per provare a bloccare le catene di foraggiamento e la logistica che va ad alimentare la guerra in Palestina. Abbiamo cercato di legare i due elementi, sottolineando come siano importanti le mobilitazioni pro Palestina anche dal punto di vista lavorativo e sociale, perché non si tratta più di una questione portuale ma va a colpire diversi settori come l’industria e la logistica, la vendita anche al dettaglio e via dicendo.

Genova, 10 novembre 2023, foto di Stefano Serretta.

Abbiamo comunque visto un peggioramento della situazione.

Quello che sta accadendo nel Mar Rosso con l’Operazione Ispide non è un modo per calmare le acque ma sta allargando a macchia d’olio il conflitto. L’Occidente oggi (inteso come Europa e Stati Uniti d’America) sta diventando il vero cancro del mondo e l’unico stato che sta garantendo una sorta di egemonia occidentale in Medio Oriente è Israele e quindi non si possono permettere di accusarla di essere il malvagio della situazione. Per l’Europa appoggiare realmente Gaza, recriminando quindi Israele di genocidio, vorrebbe dire perdere una pedina in quello che è lo scacchiere internazionale in Medio Oriente. Quindi ci troviamo in una situazione che ha della follia pura, perché oltretutto non stiamo parlando di stati come può essere lo Yemen, che ha un esercito di tutto punto ma senza la bomba nucleare, si stanno andando ad alimentare dei conflitti – vedi Iran, il Pakistan, Israele stessa – che hanno un’arma letale come l’atomica.

 È un contesto che allarma molto, come anche le reazioni monodirezionali della politica nazionale.

Le dichiarazioni dei politici da Meloni a Crosetto, allo stesso Piantedosi, su quelle che sono le logiche interne alla guerra, il recriminare le mobilitazioni come tentativi di insurrezione (vedi l’aggressione agli studenti di Pisa), sta tutto dentro un meccanismo di guerra.  Come portuali a fine novembre abbiamo avuto un incontro ad Atene dove, sotto il cappello del World Trade Union (la Federazione Mondiale dei Sindacati) e nello specifico del TUI che è il settore dei trasporti, abbiamo avuto modo di parlare con portuali indiani, sudamericani, nordafricani, turchi, ciprioti… L’elemento di forza era la presenza di una sindacalista palestinese che ha rimarcato l’appello che ci avevano comunicato il 16 di ottobre.

A novembre avevate già prodotto due mobilitazioni.

Una l’abbiamo fatta il 10 di novembre a Genova e l’altra il 17 di novembre a Salerno: abbiamo letteralmente inseguito la stessa nave per tutta l’Italia cercando di bloccarla. Dopo l’appello del 16 di ottobre, abbiamo cominciato a lavorare sulla compagnia ZIM perché nelle settimane successive, sulle varie riviste di categoria, abbiamo letto che la ZIM (la famosa compagnia marittima israeliana) avrebbe offerto le proprie infrastrutture logistiche in appoggio a Israele.

Cosa non scontata perché per quelle che sono le logiche del mercato oggi certe cose si tenta di non dichiararle, specie per quanto concerne gli armatori. A quel punto, come vi siete mossi?

Cominciamo a cercare dov’è la compagnia ZIM, che tratte fa, quali sono le sedi, e vediamo questa nave che avrebbe fatto tratta su Genova il 10 di novembre per poi passare a Salerno il 17 dello stesso mese. Creiamo quindi due momenti di mobilitazione, il primo su Genova dove abbiamo bloccato i due varchi principali, l’Albertazzi e il San Benigno. Siamo partiti alle 6 e mezza del mattino, pensando non avrebbe aderito nessuno e invece si sono presentati circa 600 compagni.

Sono rimasto stupito anche io quella mattina dall’enorme risposta alla chiamata, quali erano gli obiettivi che vi eravate preposti?

Il tentativo era quello di impedire ai camion di portare le navi a scaricare, cosa che di fatto è anche poi in parte riuscita. Vedendo che la nave faceva Genova-Salerno-Ashdod ci siamo poi coordinati coi portuali salernitani, ripetendo di fatto lo stesso blocco.  Successivamente siamo stati invitati ad Atene a questo congresso e forti di quest’esperienza, dopo tutta una serie di interventi di vari paesi, abbiamo rimarcato il fatto che ci sono i modi per dare solidarietà attiva al popolo palestinese, lanciando un appello ai delegati sindacali presenti (l’FSM è uno dei sindacati con il più alto numero di iscritti e di paesi che aderiscono, circa 132 milioni di persone). Abbiamo rimarcato la necessità di allargare la mobilitazione contro il conflitto in Palestina a tutti i portuali che hanno una sorta di sensibilità o anche i sindacati stessi che ritengono necessario cominciare a praticarla. Bene che ci sia il comunicato ma accompagnato poi da una azione concreta, come un blocco o un presidio.

Questo appello a cosa ha portato?

A questa riunione ha partecipato la European Dockworkers Council (organizzazione che raggruppa tutti i portuali a livello europeo) che ha prodotto la data del 30 di novembre dove noi, in concomitanza con un blocco per la questione della riforma portuale (perché si sta tentando di privatizzare completamente i porti), abbiamo rimarcato il fatto che i portuali italiani sono contro il conflitto palestinese. In concomitanza l’EDC ha lanciato una giornata di mobilitazione a livello europeo e tre mobilitazioni a livello internazionale con dichiarazioni a mio avviso molto forti: una dei portuali turchi che hanno bloccato anche loro un varco portuale e una dei portuali indiani che hanno annunciato il rifiuto di caricare qualunque merce destinata a Israele. Invece che essere una sanzione economica da parte di uno stato a un altro stato l’India, per tramite del suo sindacato che in questo momento rappresenta 11.000 portuali, ha fatto una sanzione popolare nei confronti di Israele.

È come se avessimo un mondo diviso in due: la parte decisionale, economica, politica che è completamente slegata dalla base.

Un mondo di sopra e un mondo di sotto. Inoltre, il fatto che in Italia ci siano tante mobilitazioni che non partono unicamente dai portuali (vedi Milano o Roma) a noi fa piacere e ci toglie anche un po’ di ruolo rispetto a quello che è il problema. Se penso che nel 2014, quando abbiamo intrapreso questo percorso, venivamo visti come un gruppo di matti all’interno del porto rispetto a oggi che tu vedi i portuali e i sindacati del Belgio che fanno dichiarazioni, piuttosto che quelli di Barcellona, Turchia, India o Cipro, sembra che il tempo ci stia dando ragione. Adesso è più un lavoro di burocrazia, di comunicazione, anche mediatica, di riunioni e assemblee. Ti faccio un esempio: qualche tempo fa mi hanno contattato i portuali di Amburgo chiedendomi come potevano mettere in pratica qualche mobilitazione partendo dal presupposto che, come ti dicevo già prima, in Germania non puoi fare scioperi politici ma puoi legare lo sciopero unicamente a questioni economiche, o per rinnovi contrattuali. Siamo stati invitati di nuovo a Berlino per un congresso dei gruppi pacifisti e antimilitaristi dove chiedono un nostro intervento come catalizzatori di lotte ma anche per cercare di capire come potersi mobilitare nei loro posti di lavoro, come ci siamo mossi, quali mezzi abbiamo utilizzato… in questa fase è più un lavoro del genere.

L’Italia non è solo uno scalo commerciale ma è anche una nazione che produce ed esporta armi; quindi, ha degli interessi economici diretti nel conflitto palestinese.

Non so se ti ricordi che a novembre Crosetto fece una dichiarazione dicendo che l’Italia non avrebbe più inviato armi a Israele, quella è stata una fortissima bugia perché non si intendeva che l’Italia non avrebbe spedito più armi ma che tutti i brevetti dal 7 di ottobre a oggi non sarebbero stati rinnovati.

Cosa significa esattamente?

Che tutti i brevetti dal 2011 al 7 ottobre 2023 sono già stati confermati e che tutte le armi e i brevetti delle armi pre 7 ottobre continuano ad andare.

Mi spieghi meglio questa faccenda dei brevetti?

C’è un accordo tra Italia e Israele, se l’Italia ad esempio crea un nuovo caricatore più preciso e Israele crea un nuovo sistema di intercettazione delle telefonate più performante questo accordo prevede uno scambio di brevetti, come degli armamenti sempre con stessa la logica di prima. Tutto quello che è stato fatto pre 7 ottobre continua ad andare, continua ad esserci lo spostamento di armi, di sistemi di puntamento della Leonardo, delle cannoniere della Bombardier, degli aerei dell’OTO Melara, e via dicendo.

Sono armi che uccidono oggi migliaia di civili.

C’è appunto un forte interesse economico da parte dell’Italia, oltretutto viene poco rimarcata come cosa ma il più alto numero di brevetti italiani venduti a Israele da vent’anni a questa parte è stato nel momento del governo Conte, lo stesso che ha fatto il decreto Cabras, che era quello che limitava l’esportazione di missili dell’Rwm – scattato grazie alle mobilitazioni dei compagni dell’Rwm e anche grazie alle mobilitazioni dei portuali genovesi. La logica del “svuotiamo i granai riempiamo le caserme” va proprio in questa direzione: più io uso armi più devo comprare armamenti, più devo fare accordi commerciali con la Leonardo, con la Fincantieri, con la Beretta e Rwm perché mi forniscano il necessario per continuare la protezione delle catene di foraggiamento europeo. È veramente un circolo economico si auto regge su sé stesso.

Le vostre mobilitazioni hanno un impatto diretto sul traffico marittimo, che va dalle fabbriche ai porti alla consegna al dettaglio: intervenire in questo nervo scoperto vi fa avere voce in capitolo contro chi da questa catena ci guadagna?

Noi siamo in quello che è il cosiddetto cono di bottiglia: nei porti arrivano migliaia di merci e poi di lì devono passare. Bloccare quel sistema da una forte leva contrattuale perché con un minimo sforzo si fa un danno economico enorme. Poi in Italia i portuali sono anche pochi, parliamo di 12-13.000 persone, ma c’è un indotto che è enorme e per questo i lavoratori portuali, che ripeto sono veramente pochi, hanno una fortissima leva contrattuale.

Sembra un po’ quello che sta facendo, con altri mezzi, lo Yemen.

La logica che oggi usano gli Houthi sta in questo elemento qua: cosa colpisco io per far male all’Occidente? Il commercio. Il fatto che gli Houthi oggi riescano a mettere in crisi un sistema economico come quello europeo e armatori come MSC (che è il più importante al mondo), Mersk o Evergreen, che hanno utili che sono da piccola nazione (MSC ha chiuso l’anno 2023 con 36 miliardi di utili, una somma enorme, parliamo di due finanziarie italiane per capirci), deve farci pensare di quanto sia fragile, come sia una tigre di carta, l’economia occidentale.

Oltre a questo, c’è anche un’altra questione, apparentemente scollegata, che è quella del canale di Panama.

Quella è una questione prettamente ambientale, poiché il canale di Panama (che interessa le merci dalle Americhe all’Europa) è in secca per un innalzamento delle temperature. Il canale, che è artificiale, non ha un bacino in grado di sopperire in questo momento alla quantità d’acqua necessaria e tutto un certo tipo di navi da gigantismo navale non riesce più a passare. Quindi l’Europa è strangolata non solo dal conflitto ma anche dalla questione ambientale che si continua a fingere non esista.

Voi non siete stati protagonisti solo di blocchi e mobilitazioni, ma avete fatto anche operazioni di supporto attivo in alcuni di quegli scenari, come nel caso dei Curdi.

Dopo i primi blocchi contro le navi che andavano İskenderun in Turchia ci siamo resi conto che gli armamenti erano diversi rispetto a quelli che andavano a Gedda, e che si trattava di gas. Da lì siamo entrati in contatto con un giro di compagni svizzeri che ci hanno chiesto di segnalargli le armi in transito dal porto di Genova. Inizia quindi un percorso di comunicazione, anche fotografica, di questi gas con cui i turchi bombardavano le caverne dove si nascondono i guerriglieri, tra la Siria e la Turchia. Ci chiedono quindi se potessimo spedirgli un migliaio di maschere antigas e (te la faccio breve perché non posso andare troppo nel dettaglio) dopo tutto un percorso che abbiamo intrapreso, a una certa riusciamo ad avere queste mille maschere. La triangolazione è stata Italia – Francia – Svizzera, è stato poi usato un canale tramite l’Iraq per fargliele avere e di fatto da quel momento i curdi sono riusciti a salvaguardarsi rispetto agli attacchi turchi. È stato anche prodotto un video dove si vedono i guerriglieri del TIKKO che, armati di AK 47, fanno un ringraziamento ai militanti genovesi che gli hanno fatto avere la solidarietà internazionale. Questo esempio per dire che non solo blocchiamo ma che se ci fosse bisogno spediamo anche.

Screenshot da video di TIKKO, Rojava, 2021.

Vi chiamano spesso a parlare ad assemblee di studenti medi piuttosto che universitari, per condividere il vostro percorso di lotta e provare a ragionare nuove strategie d’azione. Come valuti l’importanza del collegamento tra voi e le associazioni studentesche?

Il collegamento operai / studenti è fondamentale perché porta nuova linfa ed esce un po’ da quella stagnazione operaia del solo mondo del lavoro, riallacciare anche questo tipo di rapporto è qualcosa che abbiamo provato a fare già a fine 2019 localmente e oggi si traduce in iniziative con organizzazioni molto serie tipo OSA, che ha un carattere nazionale, o Cambiare Rotta – quindi medi e università. Crediamo che raccontare un’esperienza come la nostra all’interno di una scuola possa essere anche tradotta in ragionamenti tipo: dove va a finire il mio studio? In che scuola vado a studiare? Vado a studiare in una scuola che è finanziata da Leonardo? Il mio studio specifico va ad alimentare un sistema di puntamento che poi andrà ad essere utilizzato per una missilistica? Questo genere di sensibilità è importante a livello culturale, come anche instillare già nei giovani il tarlo di cosa sia politicamente ed eticamente più giusto, di modo che possano indirizzare il loro studio consapevoli del fatto che in quella tale scuola ci sia la NATO di mezzo o no. Il fatto che Leonardo finanzi milioni di euro in determinati tipi di università è un po’ come la Bocconi, che crea i quadri politici ed economici del futuro. E infatti, se tu guardi negli ultimi trent’anni chi ha fatto più danni in Italia, son tutti usciti dalla Bocconi, perché non guardano a una logica di socialità ma in un termine economico privato e ti portano a privatizzare il patrimonio pubblico. Quindi partendo dall’università abbiamo portato le nostre esperienze anche in termini di scelta e di quelle che sono le ricadute, vedi il mio caso, ne ho passate di tutti i colori perché ho fatto delle scelte specifiche su quello che è il problema delle guerre o comunque del conflitto sociale. Portare un ragazzino di 15 anni a prendere consapevolezza di sé stesso, consapevolezza che poi porta più avanti nel proseguimento dei suoi studi fa sì che tu in futuro possa avere una classe dirigente, dei quadri politici o comunque dei militanti consapevoli di ciò che hanno studiato e che non hanno alimentato questo sistema malato che è l’Occidente oggi.

Si è spesso parlato trappola anche sindacale (leggi: CGIL) dell’industria degli armamenti, che non può essere boicottata perché altrimenti si taglierebbero posti di lavoro. La vostra fuoriuscita da CGIL (adesso siete all’interno di USB) partiva anche da questo.

Quando nel 2020 abbiamo chiesto a CGIL lo sciopero cittadino contro il transito di armi nel porto, ci hanno risposto che loro non potevano appoggiare lo sciopero con la scusa che la nave in questione, oltre che armamenti, portava lavoro nel porto di Genova in termini di chiamate. Parliamo di una nave che fa una toccata ogni 24 giorni su un porto che, parlando solo di turistico e container, fa 1700 turisti e 2700 container l’anno. Quindi una nave come quella, che è sporca fino al midollo di tutto quello che ti dicevo prima, che fa tre ore al mese con una chiamata in cui ci saranno esagerando sei portuali, non è l’elemento che va ad avere una reale ricaduta in termini lavorativi. Lì abbiamo notato quale fosse il vero interesse della CGIL e siamo fuoriusciti.

Ci sarebbero le premesse per ragionare nei termini della riconversione?

La riconversione in porto di fatto è semplice: già dicendoti quanti turisti vengono a Genova e quanti containers, senza considerare i traghetti e le merci in rotabile che viaggiano sui traghetti (parliamo di migliaia di tonnellate e milioni di turisti), possiamo ragionare su come introdurre questo elemento. Leonardo invece cosa ha fatto in questi anni? Sta continuando a togliere dal comparto civile per rimetterlo nel comparto militare. Ne risulta una sostanziale diminuzione della forza lavoro perché più specializzato, meno di massa e più automatizzato. Si stanno andando a perdere migliaia di posti di lavoro a livello nazionale, anche perché non si tratta di produzione dall’inizio alla fine ma di assemblamento di certi elementi che vengono dall’estero. Questo significa che il comparto militare non è neanche fatto di produzione ma semplicemente di assemblamento e quindi ha bisogno di ancora meno gente.

Esistono in Italia degli esempi virtuosi di riconversione?

Sì, ad esempio la Tecnovar di Bari, una grossa fabbrica a conduzione familiare, che ha prodotto tutte le mine antiuomo che sono andate nei Balcani e hanno fatto migliaia di vittime. A un certo punto il proprietario, l’ingegnere pugliese Vito Alfieri Fontana, ha preso coscienza di cosa stesse producendo e ha riconvertito la fabbrica, passando da produttore di mine a sminatore. Ha messo su un gruppo di sminatori che è l’unico al mondo che non ha nemmeno un morto tra le sue fila, data proprio l’esperienza nella produzione. Il problema, secondo me, è che manca la volontà politica: pensa a Crosetto, che fino a un periodo fa era il massimo lobbista della Leonardo all’interno del parlamento italiano e che oggi ci ritroviamo al Ministero della Difesa. Già questo sposta gli interessi più verso un comparto militare che civile. Manca la volontà politica di dire no, l’Italia essendo che ha l’articolo 11 della propria Costituzione e la legge 185/90 deve fare di tutto per essere un paese che non alimenta determinati conflitti e che non produce armi, senza svendersi il patrimonio pubblico per trovare fondi e far in modo di stare dentro quello che è il comparto NATO oggi.

 

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