Rispetto all’emersione delle biennali e mostre cosiddette politiche, che non hanno prodotto alcuna trasformazione reale (ne lo vogliono), Disobedience Archive, a cura di Marco Scotini, ha assunto una posizione radicale già a partire dalla sua prima apparizione a Berlino nel 2005, e oggi, dopo quasi vent’anni di ricerca, esperimenti e collaborazioni, ci permette di sviluppare un ragionamento sulla genealogia della mobilitazione antagonista a partire dai modi della sua rappresentazione dentro lo spazio dell’arte.
Esposto nelle principali istituzioni museali internazionali, il progetto è cresciuto nel tempo e ha raccolto un centinaio di materiali video e filmici che documentano istanze autonome di resistenza e conflitto, senza prescindere da un’analisi politica del grande ciclo di lotte iniziato in quel laboratorio italiano degli anni Settanta, che ha trovato una forte eco sia nelle sollevazioni moltitudinarie successive che nella prospettiva esodante: de-archiviati e re-archiviati costantemente, continuano a sopravvivere alle (violente) spinte reazionarie e di carattere repressivo in atto.
In occasione della 60. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, Disobedience Archive (The Zoetrope) risponde all’invito di Adriano Pedrosa e al tema dell’attraversamento geografico, etnico e identitario di Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere con due ulteriori sezioni “Diaspora Activism”, “Gender Disobedience” e con un nuovo paradigma espositivo: lo zootropio. Scotini si riferisce allo spazio primordiale della rappresentazione del movimento – tra il proto-cinema dello Zoetrope e il Kaiserpanorama di cui parla Benjamin come “una sorta di precursore del cinema” – e lo racconta attraverso un’incisione di Max Ernst, A Little Girl Dreams of Taking the Veil (Rêve d’une petite fille qui voulut entrer au Carmel) del 1930 che raffigura proprio uno zootropio con all’interno una donna con le mani sulla testa spaventata che gli uccelli le si attacchino ai capelli. Ma uno dei volatili riesce a scappare da una fessura dello zootropio e a questo punto la rappresentazione diventa realtà, quasi una metafora dei cliché sulla diaspora geografica e la dissidenza di genere: il rifugiato, il transessuale, l’omosessuale, il soggetto coloniale o minoritario che rompe le gabbie binarie (neoliberali) e riesce a liberarsi.
Disobedience è uno strumento comune per la pratica artistica e la mobilitazione politica, vive nel tempo e nello spazio dell’esposizione e lascia al fruitore la decisione di cosa guardare e cosa scegliere, perché tutto in esso è posto in modo orizzontale: nei venti anni di spostamenti la sua natura di raccolta documentale audio-visiva ha assunto, ad ogni sua presentazione, una differente struttura spaziale. Alcune di queste conformazioni hanno incontrato il modello della scuola (Istanbul Biennale), oppure quello del Parlamento (Castello di Rivoli) o del community garden (MIT, Boston), della piazza o del parco, come focolai della protesta. Ma Disobedience è un’esposizione politica non perché mette in scena, nel teatro della rappresentazione contemporanea, una grammatica del dissenso attraverso format sempre diversi, ma perché in questa discontinuità è in grado di definire una durata per le soggettività militanti. La pratica di archivio (una pratica dinamica) fa fronte dunque ad un’epoca in cui il tempo è l’oggetto di espropriazione. Ricomporre la dispersione e la frammentazione delle insorgenze attuali è uno dei compiti più urgenti del presente. La riattivazione di memorie contro-storiografiche radicali, sia storicamente che sul terreno dei movimenti e dei protagonismi sociali, trasforma lo spettatore in soggetto politico e a differenza di altri dispositivi narrativi l’archivio diventa un tool, che sfuggendo all’autorità della storia produce traiettorie di fuga: non obbedire più all’ordine sociale apre uno spazio costituente dove non riconosci più il potere ma solo il conflitto.
Pubblichiamo una straordinaria analisi di Marcelo Expósito, artista presente sin dalla prima esposizione di Disobedience a Berlino e che ne ha accompagnato la storia, nel suo intervento preparato per la conferenza sui vent’anni del progetto, lo scorso 13 aprile 2024, presso FM Centro per l’Arte Contemporanea a Milano, insieme a Marco Scotini, Arnold Braho, Angela Melitopoulos e Carlos Motta.
Disobedience Archive alla Biennale 2024: dispositivo pubblico, soggettivazione politica e genealogia del movimento
di Marcelo Expósito
Disobedience è stato esposto per la prima volta nel 2005 in diversi luoghi della città di Berlino. Sebbene all’epoca si trattasse di una manciata di opere video, quella prima materializzazione mostra già almeno alcune caratteristiche che mi sembrano aver costituito le potenzialità che il progetto ha dispiegato nel corso di due decenni.
In primo luogo, contrariamente al senso comune secondo cui un archivio consiste in una raccolta concreta di materiali in attesa di essere organizzati o consultati in qualche modo, in Disobedience questo magazzino di materiali non è preesistente alla sua organizzazione. Disobedience sconvolge la consueta sequenza delle pratiche archivistiche (come organizzare un volume di materiali preesistenti) per far sì che la compilazione dei materiali e la loro organizzazione consistano nella stessa operazione. Sarebbe addirittura forte la tentazione di affermare che Disobedience consideri il suo “archivio” originario l’insieme delle pratiche contemporanee e storiche di disobbedienza che cerca di mostrare in rassegne specifiche, ma questa identificazione dell’archivio originario con tutti i suoi riferimenti sarebbe troppo idealista. Preferisco pensarla più strettamente in termini di epistemologia politica: negli anni 2000, Disobedience propone una storia delle pratiche di disobbedienza che si costituisce nell’atto stesso di identificarle, selezionarle, organizzarle e manifestarle. La raccolta, il patrimonio, la ricchezza delle pratiche di disobbedienza si materializzano a Berlino proprio nel momento in cui per la prima volta viene organizzato pubblicamente l’archivio.
In secondo luogo, potremmo chiederci: perché allora chiamarlo archivio della disobbedienza, invece di presentarlo in modo più semplice come una raccolta di mostre e di materiali soprattutto audiovisivi? Perché Disobedience ripropone a questo punto ancora un problema di politica epistemologica: cerca di pensare l’archivio proprio in modo opposto alla mera raccolta di materiali, di concettualizzarlo piuttosto come un dispositivo, letteralmente nel modo in cui Giorgio Agamben ha cercato di concretizzare le idee di Foucault su cosa sia un dispositivo, cioè un insieme materiale e immateriale di disposizioni, metodologie e forme di organizzazione. Chiamare continuamente Disobedience un archivio, invece che semplicemente una mostra, è un modo per rivolgere l’attenzione al problema di come inventiamo dispositivi che ci permettano di organizzare i materiali del presente e del passato, non mostrandoli in modo naturalizzato, ma attraverso un discorso che aggiorna questi materiali in ogni nuovo momento sotto forma di dispositivo. Voglio insistere su questa idea, anche se non c’è tempo per svilupparla ulteriormente: in Disobedience le nozioni di archivio e dispositivo sono praticamente equivalenti.
In terzo luogo, già dalla sua prima esecuzione a Berlino constatiamo il fatto che, se nel momento della compilazione dei materiali e della loro organizzazione in un dispositivo esposto pubblicamente, allora possiamo dire che Disobedience è un progetto che contrasta fin dal suo inizio l’immaginario secondo cui un archivio è un luogo pronto a lavorare individualmente o in solitudine. Mi è stato chiesto molte volte perché Disobedience non sia adeguatamente costituito come un fondo stabile di materiali che chiunque possa consultare. E anche se questa idea non è da scartare, per me la cosa più interessante di Disobedience sta nel suo funzionamento come un archivio che consiste sempre in un dispositivo aperto al pubblico per un certo periodo, in modo tale da evidenziare la simultaneità di uso individuale condiviso in uno spazio collettivo. Di più: a differenza di una biblioteca, proprio per questa dimensione espositiva, a mio avviso Disobedience consiste sia nell’esposizione dei materiali, sia nell’esposizione del pubblico che la consulta. Direi di più: Disobedience mostra in acto come una comunità politica si costruisce attraverso la consultazione di materiali contemporanei e passati. Ogni materializzazione di Disobedience istituisce di fatto un prototipo di comunità politica.
In quarto luogo, è così, a mio avviso, perché, allo stesso modo in cui avviene nella nozione foucaultiana di dispositivo, anche secondo come Agamben la concepisce, in un dispositivo archivistico come Disobedience, i materiali che sono organizzati sono importanti tanto quanto la soggettività che si produce attraverso la loro consultazione. Sviluppando la mia idea precedente, si potrebbe dire che Disobedience non solo comprende o espone un pubblico empirico o oggettivo, ma si configura anche come un dispositivo che cerca di produrre politicamente un tipo di soggettività spettatoriale. In una mostra il pubblico viene solitamente, diciamo, reso invisibile, oppure viene preso in considerazione come una quantificazione: quante persone hanno visitato questa o quella mostra; ovvero il pubblico è considerato come un insieme di soggetti preesistenti che visitano la mostra per acquisire una serie di conoscenze o vivere un’esperienza estetica. Se guardiamo da vicino, tutte le materializzazioni dei dispositivi di Disobedience, tutte le sue costruzioni architettoniche, incorporano in una maniera molto evidente lo spazio che i soggetti devono occupare per consultare i materiali. Voglio ribadire questa idea che mi sembra cruciale: Disobedience consiste sia nell’esibizione dei suoi materiali che dei soggetti che li consultano, mettendo allo stesso tempo in atto una produzione politica di soggettività. La forma di Disobedience è un assemblaggio tra la costruzione materiale del dispositivo, le sue metodologie di organizzazione dei materiali, i materiali scelti di volta in volta e i soggetti che partecipano al suo funzionamento, essendo allo stesso tempo un dispositivo di soggettivazione, di produzione spettatoriale, in una situazione sempre pubblica.
In quinto luogo, credo che anche Disobedience sia abitualmente un meta-dispositivo, nel senso che spesso imita un dispositivo istituzionale, urbano o sociale preesistente, riproducendolo in modo archetipico, proprio per farci riflettere sullo stato attuale dei dispositivi istituzionali. Ciò mi sembra evidente dal momento che Disobedience ha adottato sottotitoli come: il parlamento, il parco, la repubblica o l’università, replicando anche le strutture materiali archetipiche di questi altri dispositivi preesistenti. Mi sembra inoltre evidente che la scelta di questi riferimenti così totalmente carichi di significato (parlamento, piazza, repubblica, università…) non può essere un caso, e questa decisione è legata alla volontà che ha l’archivio Disobedience di proporre ciò che è la funzione della disobbedienza e delle pratiche dissidenti nella riconfigurazione di quelle istituzioni sociali. Propongo di sollevare questa idea: fin dalla sua prima formalizzazione a Berlino, ciò che Disobedience propone è fondamentalmente questa dicotomia: come, nella crisi sistemica che stiamo attraversando, la trasformazione delle istituzioni sociali avvenga attraverso un impulso tra la loro riconfigurazione autoritaria e la sua modificazione attraverso pratiche dissidenti. Paradossalmente, il dissenso radicale è oggi una pratica fondamentale della ricostruzione democratica. Ciò ci porta a una lunga discussione sulle tensioni attualmente esistenti tra dissidenza e istituzionalizzazione, una discussione che non possiamo sviluppare in questo momento, ma che voglio menzionare perché mi sembra che sia anche al centro stesso del progetto Disobedience.
Sulla base di tutto quanto sopra, penso che si possa affermare che ogni manifestazione di Disobedience costituisce un prototipo per la ricostruzione della sfera pubblica democratica globale attraverso le pratiche di dissidenza radicale.
E in sesto luogo, e per concludere il mio intervento, voglio toccare il motivo centrale perché mi sembra che tutte queste riflessioni su Disobedience non operano, in questo progetto, a livello meramente speculativo. Quando Disobedience si tenne per la prima volta nel 2005, erano trascorsi appena quattro anni dalle giornate di Genova, quando il movimento no global lanciava la sua sfida all’ordine neoliberista sulla sua scala più massiccia fino ad allora. Come sappiamo, quei giorni costituirono anche il più massiccio esperimento di repressione statale violenta che avessimo subito in Europa almeno dagli anni ‘70. A Berlino, Disobedience incorporò molti materiali di Indymedia, una rete di comunicazione indipendente, decentralizzata e partecipativa che costituiva uno dei sistemi nervosi del movimento no global e dei suoi ambienti: ad esempio, dei movimenti no border contro la necropolitica di confine. Questi materiali di Indymedia avevano uno status molto ambivalente a quel tempo, perché non erano solo documenti “grezzi”, per così dire, che testimoniavano la portata che la repressione organizzata dal governo Berlusconi aveva adottato per ordine della governance neoliberista, ma costituivano anche documenti che venivano raccolti come prova nel procedimento giudiziario avviato per denunciare la violenza militarista a Genova.
Senza tempo ora per soffermarmi ulteriormente su questo aspetto, voglio sottolineare che questo carattere ambivalente o polivalente influenza l’insieme dei materiali contenuti da Disobedience in ciascuna delle sue materializzazioni, sia che tali materiali siano originariamente percepiti come artistici, documentaristici, sperimentali, qualunque cosa. In altre parole: Disobedience è un dispositivo archivistico, nei termini che ho proposto in questo intervento, allo stesso modo che ciascuna delle singolari opere che contiene, in quanto si collocano all’interno di una narrazione storiografica, o per meglio dire: essendo parte di una genealogia aggiornata della disobbedienza, ciascuno dei loro materiali singolari funzionano anche come elementi archivistici.
E non mi fermo qui non solo per mancanza di tempo, ma anche perché voglio arrivare velocemente all’argomento finale del mio intervento. La presentazione di Disobedience a Venezia non costituisce un culmine o un punto di arrivo, ma piuttosto ne riafferma la natura circolare, ovvero la sua evoluzione a spirale. Mi sembra evidente che sia così se ci atteniamo al fatto che Genova 2001 è il vero momento originario di Disobedience e verrà riproposto due decenni dopo nuovamente in Italia, nel contesto di una Biennale che mette al centro i problemi che ha proposto Adriano Pedrosa e in un momento politico e storico italiano e globale che sicuramente non ha bisogno di essere spiegato perché è nella mente di tuttx noi.
La forma archetipica che Marco Scotini ha scelto per quest’ultima materializzazione di Disobedience a Venezia è sicuramente la meno ovvia tra tutte quelle che ho precedentemente citato: la piazza, la repubblica, ecc. In questo caso, Disobedience si materializza dalla figura di uno zootropio, cioè un artefatto che è all’origine del modo in cui le immagini acquisiscono capacità motorie. Disobedience Venezia 2024, come ho voluto proporre in questo intervento, dimostra come questo progetto avanza sempre di più riferendosi alle origini, ricostruendo in ogni nuova occasione in modo complesso una genealogia del “movimento” che per noi è letteralmente vitale in questo momento storico.
Introduzione (Elvira Vannini)
Rispetto all’emersione delle biennali e mostre cosiddette politiche, che non hanno prodotto alcuna trasformazione reale (ne lo vogliono), Disobedience Archive, a cura di Marco Scotini, ha assunto una posizione radicale già a partire dalla sua prima apparizione a Berlino nel 2005, e oggi, dopo quasi vent’anni di ricerca, esperimenti e collaborazioni, ci permette di sviluppare un ragionamento sulla genealogia della mobilitazione antagonista a partire dai modi della sua rappresentazione dentro lo spazio dell’arte.
Esposto nelle principali istituzioni museali internazionali, il progetto è cresciuto nel tempo e ha raccolto un centinaio di materiali video e filmici che documentano istanze autonome di resistenza e conflitto, senza prescindere da un’analisi politica del grande ciclo di lotte iniziato in quel laboratorio italiano degli anni Settanta, che ha trovato una forte eco sia nelle sollevazioni moltitudinarie successive che nella prospettiva esodante: de-archiviati e re-archiviati costantemente, continuano a sopravvivere alle (violente) spinte reazionarie e di carattere repressivo in atto.
In occasione della 60. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, Disobedience Archive (The Zoetrope) risponde all’invito di Adriano Pedrosa e al tema dell’attraversamento geografico, etnico e identitario di Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere con due ulteriori sezioni “Diaspora Activism”, “Gender Disobedience” e con un nuovo paradigma espositivo: lo zootropio. Scotini si riferisce allo spazio primordiale della rappresentazione del movimento – tra il proto-cinema dello Zoetrope e il Kaiserpanorama di cui parla Benjamin come “una sorta di precursore del cinema” – e lo racconta attraverso un’incisione di Max Ernst, A Little Girl Dreams of Taking the Veil (Rêve d’une petite fille qui voulut entrer au Carmel) del 1930 che raffigura proprio uno zootropio con all’interno una donna con le mani sulla testa spaventata che gli uccelli le si attacchino ai capelli. Ma uno dei volatili riesce a scappare da una fessura dello zootropio e a questo punto la rappresentazione diventa realtà, quasi una metafora dei cliché sulla diaspora geografica e la dissidenza di genere: il rifugiato, il transessuale, l’omosessuale, il soggetto coloniale o minoritario che rompe le gabbie binarie (neoliberali) e riesce a liberarsi.
Disobedience è uno strumento comune per la pratica artistica e la mobilitazione politica, vive nel tempo e nello spazio dell’esposizione e lascia al fruitore la decisione di cosa guardare e cosa scegliere, perché tutto in esso è posto in modo orizzontale: nei venti anni di spostamenti la sua natura di raccolta documentale audio-visiva ha assunto, ad ogni sua presentazione, una differente struttura spaziale. Alcune di queste conformazioni hanno incontrato il modello della scuola (Istanbul Biennale), oppure quello del Parlamento (Castello di Rivoli) o del community garden (MIT, Boston), della piazza o del parco, come focolai della protesta. Ma Disobedience è un’esposizione politica non perché mette in scena, nel teatro della rappresentazione contemporanea, una grammatica del dissenso attraverso format sempre diversi, ma perché in questa discontinuità è in grado di definire una durata per le soggettività militanti. La pratica di archivio (una pratica dinamica) fa fronte dunque ad un’epoca in cui il tempo è l’oggetto di espropriazione. Ricomporre la dispersione e la frammentazione delle insorgenze attuali è uno dei compiti più urgenti del presente. La riattivazione di memorie contro-storiografiche radicali, sia storicamente che sul terreno dei movimenti e dei protagonismi sociali, trasforma lo spettatore in soggetto politico e a differenza di altri dispositivi narrativi l’archivio diventa un tool, che sfuggendo all’autorità della storia produce traiettorie di fuga: non obbedire più all’ordine sociale apre uno spazio costituente dove non riconosci più il potere ma solo il conflitto.
Pubblichiamo una straordinaria analisi di Marcelo Expósito, artista presente sin dalla prima esposizione di Disobedience a Berlino e che ne ha accompagnato la storia, nel suo intervento preparato per la conferenza sui vent’anni del progetto, lo scorso 13 aprile 2024, presso FM Centro per l’Arte Contemporanea a Milano, insieme a Marco Scotini, Arnold Braho, Angela Melitopoulos e Carlos Motta.
Disobedience Archive alla Biennale 2024: dispositivo pubblico, soggettivazione politica e genealogia del movimento
di Marcelo Expósito
Disobedience è stato esposto per la prima volta nel 2005 in diversi luoghi della città di Berlino. Sebbene all’epoca si trattasse di una manciata di opere video, quella prima materializzazione mostra già almeno alcune caratteristiche che mi sembrano aver costituito le potenzialità che il progetto ha dispiegato nel corso di due decenni.
In primo luogo, contrariamente al senso comune secondo cui un archivio consiste in una raccolta concreta di materiali in attesa di essere organizzati o consultati in qualche modo, in Disobedience questo magazzino di materiali non è preesistente alla sua organizzazione. Disobedience sconvolge la consueta sequenza delle pratiche archivistiche (come organizzare un volume di materiali preesistenti) per far sì che la compilazione dei materiali e la loro organizzazione consistano nella stessa operazione. Sarebbe addirittura forte la tentazione di affermare che Disobedience consideri il suo “archivio” originario l’insieme delle pratiche contemporanee e storiche di disobbedienza che cerca di mostrare in rassegne specifiche, ma questa identificazione dell’archivio originario con tutti i suoi riferimenti sarebbe troppo idealista. Preferisco pensarla più strettamente in termini di epistemologia politica: negli anni 2000, Disobedience propone una storia delle pratiche di disobbedienza che si costituisce nell’atto stesso di identificarle, selezionarle, organizzarle e manifestarle. La raccolta, il patrimonio, la ricchezza delle pratiche di disobbedienza si materializzano a Berlino proprio nel momento in cui per la prima volta viene organizzato pubblicamente l’archivio.
In secondo luogo, potremmo chiederci: perché allora chiamarlo archivio della disobbedienza, invece di presentarlo in modo più semplice come una raccolta di mostre e di materiali soprattutto audiovisivi? Perché Disobedience ripropone a questo punto ancora un problema di politica epistemologica: cerca di pensare l’archivio proprio in modo opposto alla mera raccolta di materiali, di concettualizzarlo piuttosto come un dispositivo, letteralmente nel modo in cui Giorgio Agamben ha cercato di concretizzare le idee di Foucault su cosa sia un dispositivo, cioè un insieme materiale e immateriale di disposizioni, metodologie e forme di organizzazione. Chiamare continuamente Disobedience un archivio, invece che semplicemente una mostra, è un modo per rivolgere l’attenzione al problema di come inventiamo dispositivi che ci permettano di organizzare i materiali del presente e del passato, non mostrandoli in modo naturalizzato, ma attraverso un discorso che aggiorna questi materiali in ogni nuovo momento sotto forma di dispositivo. Voglio insistere su questa idea, anche se non c’è tempo per svilupparla ulteriormente: in Disobedience le nozioni di archivio e dispositivo sono praticamente equivalenti.
In terzo luogo, già dalla sua prima esecuzione a Berlino constatiamo il fatto che, se nel momento della compilazione dei materiali e della loro organizzazione in un dispositivo esposto pubblicamente, allora possiamo dire che Disobedience è un progetto che contrasta fin dal suo inizio l’immaginario secondo cui un archivio è un luogo pronto a lavorare individualmente o in solitudine. Mi è stato chiesto molte volte perché Disobedience non sia adeguatamente costituito come un fondo stabile di materiali che chiunque possa consultare. E anche se questa idea non è da scartare, per me la cosa più interessante di Disobedience sta nel suo funzionamento come un archivio che consiste sempre in un dispositivo aperto al pubblico per un certo periodo, in modo tale da evidenziare la simultaneità di uso individuale condiviso in uno spazio collettivo. Di più: a differenza di una biblioteca, proprio per questa dimensione espositiva, a mio avviso Disobedience consiste sia nell’esposizione dei materiali, sia nell’esposizione del pubblico che la consulta. Direi di più: Disobedience mostra in acto come una comunità politica si costruisce attraverso la consultazione di materiali contemporanei e passati. Ogni materializzazione di Disobedience istituisce di fatto un prototipo di comunità politica.
In quarto luogo, è così, a mio avviso, perché, allo stesso modo in cui avviene nella nozione foucaultiana di dispositivo, anche secondo come Agamben la concepisce, in un dispositivo archivistico come Disobedience, i materiali che sono organizzati sono importanti tanto quanto la soggettività che si produce attraverso la loro consultazione. Sviluppando la mia idea precedente, si potrebbe dire che Disobedience non solo comprende o espone un pubblico empirico o oggettivo, ma si configura anche come un dispositivo che cerca di produrre politicamente un tipo di soggettività spettatoriale. In una mostra il pubblico viene solitamente, diciamo, reso invisibile, oppure viene preso in considerazione come una quantificazione: quante persone hanno visitato questa o quella mostra; ovvero il pubblico è considerato come un insieme di soggetti preesistenti che visitano la mostra per acquisire una serie di conoscenze o vivere un’esperienza estetica. Se guardiamo da vicino, tutte le materializzazioni dei dispositivi di Disobedience, tutte le sue costruzioni architettoniche, incorporano in una maniera molto evidente lo spazio che i soggetti devono occupare per consultare i materiali. Voglio ribadire questa idea che mi sembra cruciale: Disobedience consiste sia nell’esibizione dei suoi materiali che dei soggetti che li consultano, mettendo allo stesso tempo in atto una produzione politica di soggettività. La forma di Disobedience è un assemblaggio tra la costruzione materiale del dispositivo, le sue metodologie di organizzazione dei materiali, i materiali scelti di volta in volta e i soggetti che partecipano al suo funzionamento, essendo allo stesso tempo un dispositivo di soggettivazione, di produzione spettatoriale, in una situazione sempre pubblica.
In quinto luogo, credo che anche Disobedience sia abitualmente un meta-dispositivo, nel senso che spesso imita un dispositivo istituzionale, urbano o sociale preesistente, riproducendolo in modo archetipico, proprio per farci riflettere sullo stato attuale dei dispositivi istituzionali. Ciò mi sembra evidente dal momento che Disobedience ha adottato sottotitoli come: il parlamento, il parco, la repubblica o l’università, replicando anche le strutture materiali archetipiche di questi altri dispositivi preesistenti. Mi sembra inoltre evidente che la scelta di questi riferimenti così totalmente carichi di significato (parlamento, piazza, repubblica, università…) non può essere un caso, e questa decisione è legata alla volontà che ha l’archivio Disobedience di proporre ciò che è la funzione della disobbedienza e delle pratiche dissidenti nella riconfigurazione di quelle istituzioni sociali. Propongo di sollevare questa idea: fin dalla sua prima formalizzazione a Berlino, ciò che Disobedience propone è fondamentalmente questa dicotomia: come, nella crisi sistemica che stiamo attraversando, la trasformazione delle istituzioni sociali avvenga attraverso un impulso tra la loro riconfigurazione autoritaria e la sua modificazione attraverso pratiche dissidenti. Paradossalmente, il dissenso radicale è oggi una pratica fondamentale della ricostruzione democratica. Ciò ci porta a una lunga discussione sulle tensioni attualmente esistenti tra dissidenza e istituzionalizzazione, una discussione che non possiamo sviluppare in questo momento, ma che voglio menzionare perché mi sembra che sia anche al centro stesso del progetto Disobedience.
Sulla base di tutto quanto sopra, penso che si possa affermare che ogni manifestazione di Disobedience costituisce un prototipo per la ricostruzione della sfera pubblica democratica globale attraverso le pratiche di dissidenza radicale.
E in sesto luogo, e per concludere il mio intervento, voglio toccare il motivo centrale perché mi sembra che tutte queste riflessioni su Disobedience non operano, in questo progetto, a livello meramente speculativo. Quando Disobedience si tenne per la prima volta nel 2005, erano trascorsi appena quattro anni dalle giornate di Genova, quando il movimento no global lanciava la sua sfida all’ordine neoliberista sulla sua scala più massiccia fino ad allora. Come sappiamo, quei giorni costituirono anche il più massiccio esperimento di repressione statale violenta che avessimo subito in Europa almeno dagli anni ‘70. A Berlino, Disobedience incorporò molti materiali di Indymedia, una rete di comunicazione indipendente, decentralizzata e partecipativa che costituiva uno dei sistemi nervosi del movimento no global e dei suoi ambienti: ad esempio, dei movimenti no border contro la necropolitica di confine. Questi materiali di Indymedia avevano uno status molto ambivalente a quel tempo, perché non erano solo documenti “grezzi”, per così dire, che testimoniavano la portata che la repressione organizzata dal governo Berlusconi aveva adottato per ordine della governance neoliberista, ma costituivano anche documenti che venivano raccolti come prova nel procedimento giudiziario avviato per denunciare la violenza militarista a Genova.
Senza tempo ora per soffermarmi ulteriormente su questo aspetto, voglio sottolineare che questo carattere ambivalente o polivalente influenza l’insieme dei materiali contenuti da Disobedience in ciascuna delle sue materializzazioni, sia che tali materiali siano originariamente percepiti come artistici, documentaristici, sperimentali, qualunque cosa. In altre parole: Disobedience è un dispositivo archivistico, nei termini che ho proposto in questo intervento, allo stesso modo che ciascuna delle singolari opere che contiene, in quanto si collocano all’interno di una narrazione storiografica, o per meglio dire: essendo parte di una genealogia aggiornata della disobbedienza, ciascuno dei loro materiali singolari funzionano anche come elementi archivistici.
E non mi fermo qui non solo per mancanza di tempo, ma anche perché voglio arrivare velocemente all’argomento finale del mio intervento. La presentazione di Disobedience a Venezia non costituisce un culmine o un punto di arrivo, ma piuttosto ne riafferma la natura circolare, ovvero la sua evoluzione a spirale. Mi sembra evidente che sia così se ci atteniamo al fatto che Genova 2001 è il vero momento originario di Disobedience e verrà riproposto due decenni dopo nuovamente in Italia, nel contesto di una Biennale che mette al centro i problemi che ha proposto Adriano Pedrosa e in un momento politico e storico italiano e globale che sicuramente non ha bisogno di essere spiegato perché è nella mente di tuttx noi.
La forma archetipica che Marco Scotini ha scelto per quest’ultima materializzazione di Disobedience a Venezia è sicuramente la meno ovvia tra tutte quelle che ho precedentemente citato: la piazza, la repubblica, ecc. In questo caso, Disobedience si materializza dalla figura di uno zootropio, cioè un artefatto che è all’origine del modo in cui le immagini acquisiscono capacità motorie. Disobedience Venezia 2024, come ho voluto proporre in questo intervento, dimostra come questo progetto avanza sempre di più riferendosi alle origini, ricostruendo in ogni nuova occasione in modo complesso una genealogia del “movimento” che per noi è letteralmente vitale in questo momento storico.