Cosa conferisce a una fotografia – e alle tante che circolano sui social delle insurrezioni in Iran dopo l’uccisione di Jîna Mahsa Amini – questo incredibile potere rispetto a un video? Il tempo incapsulato nell’immagine porta con sé l’intera storia a cui il corpo è soggiogato.La rivolta delle donne in Iran è fotocentrica, è stato detto. Cosa amplifica questa impronta femminista e non la lascia svanire? Oltre al nome di Mahsa Amini e “Donna, Vita, Libertà”, la portata della repressione è tale che non è più possibile riunirsi e le proteste non si affidano agli slogan o alle parole, ma sono le figure iconiche delle donne a trasformare questa sollevazione in una rivoluzione femminile.
Il tempo incapsulato nell’immagine problematizza la narrazione storica lineare ed evidenzia la tipologia della situazione: i gesti, i momenti, le micro-battaglie che portiamo avanti ogni giorno. Il tempo della foto è al passato prossimo: suscita desideri, fa rivivere quello che è accaduto, lo estende a un momento prima dell’ora e, nell’ora, consegna la successione di momenti alla foto e alla figura successiva, da quando, dopo quel 16 settembre 2022, le ragazze sono scese in strada e hanno dato fuoco al velo. Il volto di Mahsa Amini è ormai noto ovunque ma chi lo guarda oggi non vede la morte delle donne e dei giovani in Iran ma la loro resistenza.
Donna
Vita Libertá. Voci della rivoluzione iraniana è un laboratorio
teorico e un’esposizione research-based, con interventi artistici,
performance e reading group, aperti al pubblico, che si svolgerà nel Campus
NABA, insieme al seminario If I Choose Silence… (titolo tratto da una
poesia di Forough Farrokhzad) come approfondimento del sistema
artistico-espositivo iraniano, sia come momento di solidarietà con le lotte dei
giovani e delle donne in Iran, per non rimanere in silenzio. Può quindi l’arte
occidentale dare forma alla rivoluzione senza snaturarne e svuotarne il
significato?
Con la
partecipazione speciale dell’artista Mahnaz Ekhtiary.
Pubblichiamo un primo intervento, a seguire il programma del seminario.
La mercificazione di Jin, Jiyan, Azadî, (Woman, Life, Freedom) dalle istituzioni artistiche Occidentali
di Francesca Grossi e Nicolò Martinelli
«La nostra battaglia è molteplice e non è nata da un giorno
all’altro: è una battaglia combattuta nelle strade, così come nei media, nelle
università e nel mondo dell’arte, contro la Repubblica islamica, che ci ha
intrappolato nei confini dell’immagine che occupa il nucleo della sua ideologia
islamofascista patriarcale. Le immagini dinamiche, fluide e in continua
metamorfosi delle donne iraniane sono in netto contrasto con le opere statiche
e prive di equilibrio riprodotte in continuazione dalle istituzioni artistiche
occidentali».
Con queste parole si conclude il saggio The Commodification of Jin, Jiyan, Azadî, (Woman, Life, Freedom) by Art Institutions in the Westdi Pegah Pasalar, Katayoon Barzegar e Niloufar Nematollahi pubblicato in occasione del progetto Films from Iran for Iran (2023).Una rassegna cinematografica che vuole estendere la propria solidarietà verso le lotte in Iran e sostenere, con sfumature e contesti necessari, la lunga resistenza femminista attiva nello Stato.
All’interno del saggio viene affrontato l’errato utilizzo dell’immagine della donna iraniana da parte del circuito artistico occidentale. Rappresentata da quest’ultimo in maniera stereotipata, statica, indifesa, passiva e bloccata in paradigmi ormai superati. L’insieme di queste caratteristiche è lontano anni luce dalla rappresentazione della donna che oggi sta combattendo con la vita per i propri diritti, ovvero una figura giovane, sola, con il volto e i capelli scoperti che dà fuoco al suo hijab, immagine diventata emblematica dall’inizio della rivoluzione.
Al centro della critica,
all’interno del dibattito riportato nel saggio, c’è la sovrarappresentazionedel lavoro di Shirin Neshat (1957)
nelle istituzioni artistiche. L’artista iraniana, che
vive e lavora a New York, viene definita dal mondo dell’arte come il simbolo artistico della denuncia
sociale, e, spesso, proclamata come il volto
della rivoluzione per i diritti delle donne in Iran.
Secondo le autrici del testo, però, la realtà è totalmente opposta. L’immaginario prodotto da Neshat, infatti, arrecherebbe un danno alle donne iraniane sul campo, che tutti i giorni lottano per i propri diritti, un danno prodotto dagli intrecci tra orientalismo, dominio istituzionale occidentale e retorica visiva della Repubblica islamica – la stessa Repubblica islamica contro la quale la popolazione di tutto l’Iran sta protestando.
In particolare, si fa riferimento all’installazione esposta sul cartellone digitale di Piccadilly Circus a Londra, commissionata dal Cultural Institute of Radical Contemporary Art (CIRCA) e dichiarata dall’artista come gesto di solidarietà nei confronti delle rivolte, scaturite in seguito alla morte di Mahsa Amini nell’ottobre 2022. L’immagine esposta, nel cuore della città, rappresentava la sovrapposizione della scritta Jin, Jiyan, Azadî, sia in farsi che in inglese (Woman, Life, Freedom), con una fotografia di Neshat, appartenente alla serie Women of Allah, realizzata dall’artista tra il 1993 e il 1997. Questa serie è caratterizzata da immagini di donne iraniane rappresentate con lo chador, che impugnano pistole o fiori. Le mani e i piedi dei soggetti mostrati sono decorati dalla calligrafia farsi, riportano passaggi riprese dal Corano o da poesie di Forough Farokhzad, ritenuta una pioniera delle rivolte femministe in Iran.
È proprio l’accostamento di versi religiosi a delle poesie radicali a essere problematico. Le immagini rappresentano quella donna iraniana orientalizzata, stereotipata, vicina alla concezione femminile imposta dal Regime. La Repubblica islamica è uno Stato la cui ideologia e sopravvivenza dipendono dalla costruzione dell’immagine della donna iraniana, velata, come parte importante del suo discorso politico. Nel caso del cartellone di Piccadilly Circus, perciò, lo slogan Jin, Jiyan, Azadî, è stato mercificato e separato dalle sue radici, sovrapposto a un’immagine che non è nata dalla rivoluzione in corso.
L’esposizione di Neshat ha provocato sentimenti di delusione e rabbia: ancora una volta, uno stereotipo passivo, un’immagine arcaica di una donna musulmana, il cui corpo è decorato con una calligrafia illeggibile, viene riprodotta dai discorsi occidentali come unica rappresentazione delle donne iraniane. Prima della rivoluzione, le comunità di artisti all’interno dell’Iran e della diaspora avevano già espresso apertamente il loro scetticismo nei confronti del lavoro e del successo di Neshat, ma queste critiche non erano mai diventate pubbliche.
Osservando le opere di Shirin Neshat non si nota un’evoluzione nella rappresentazione della donna dopo la produzione di queste fotografie, ma una continua riproduzione propagandistica della Repubblica islamica degli anni Novanta, un decennio segnato dal tentativo dello Stato di rafforzare la propria ideologia dopo la fine della guerra Iran-Iraq nel 1988.
In Iran, invece, i modi in cui le donne rappresentano sé stesse si sono metamorfizzati e sono stati veicolati attraverso i social network. Mediante queste piattaforme abbiamo visto coppie queer baciarsi nelle piazze principali delle città iraniane, ragazze che si coprono il viso, espongono il corpo e stanno per strada con la pelle segnata da Jin, Jiyan, Azadî scritta con il rossetto e, ancora, video di donne che cantano, ballano e ridono ad alta voce. Le autrici del saggio sostengono come in Iran la rappresentazione di una donna, in chador nero con in mano una pistola, sia vista come l’immagine della figura femminile voluta dalla polizia morale, rappresenta la censura e la sorveglianza. È ben diversa, quindi, dall’immagine del corpo femminile creata nella sfera privata e conservata al sicuro negli album di famiglia.
Un’altra esposizione dell’artista, posizionata al centro delle critiche, è quella inaugurata Il 26 gennaio 2023 alla Gladstone Gallery di New York. Un solo show di Shirin Neshat intitolato The Fury. In mostra, oltre alle fotografie già citate, si trova una nuova videoinstallazione, che dà il titolo alla mostra, girata nella primavera del 2022, prima dell’attuale rivoluzione. Una donna nuda accerchiata da un gruppo di uomini in divisa militare.
Il lavoro cerca di mettere in luce le gravi torture e le violenze sessuali a cui sono sottoposte le donne prigioniere politiche del regime della Repubblica Islamica, ripercorre il viaggio psicologico ed emotivo di una giovane donna iraniana che, sebbene ora viva liberamente negli Stati Uniti, rimane traumatizzata dai ricordi della prigionia. Pur volendo denunciare una situazione tragica e reale, l’immagine della donna riportata ancora una volta dall’artista è quella di una figura debole, indifesa, una rappresentazione disumanizzata e feticizzata della vittima iraniana, sempre più distante dalle immagini di donne forti e coraggiose condivise durante le lotte contemporanee. La “donna iraniana” costruita dalla Repubblica islamica e le immagini di donne create da Neshat si assomigliano dolorosamente.
«Nello stesso momento in cui assistiamo a un
aumento delle lotte di liberazione delle donne, vediamo come il liberalismo
venga imposto come
l’opzione più sicura e praticabile per l’uguaglianza e il cambiamento. Oggi
vediamo che gli slogan e i simboli rivoluzionari radicali vengono sempre più
mercificati, prodotti in serie, svuotati del loro significato e rivenduti in
plastica alle stesse persone che hanno dato la vita per creare questi valori».
Afferma la sociologa e scrittrice curda Dilar Dirik alla Conferenza
internazionale delle donne a Berlino. Se
quindi la mercificazione diJin,
Jiyan, Azadî, non si traduce direttamente in
aumento di capitale per l’istituzione e l’artista, sicuramente porta
benefici per la reputazione e la fama.
Per Pegah Pasalar, Katayoon Barzegar e Niloufar Nematollahi questo non significa che l’estetica e i canti rivoluzionari non debbano essere riprodotti. L’arte può ovviamente essere un potente contenitore in cui portare prospettive personali o collettive su questioni sociali, politiche e culturali. Ma gli artisti della diaspora, e con loro le istituzioni occidentali, devono saper riconoscere la loro distanza e la loro disgiunzione dal nucleo del campo politico da cui Jin, Jiyan, Azadî, è emerso in Kurdistan.
Abstract degli interventi del seminario If I Choose Silence
Enqelab. Radiografia di una rivoluzione, di Francesca Barberi, Elisabetta Bottura, Elisabetta Calligaro, Francesca De Chiara.
A partire dal documentario Radiography of a Family (2020) di Firouzeh Kosrovani una riflessione sulle complessità che nel corso della storia hanno determinato la tragicità degli eventi legati alla rivoluzione iraniana contemporanea. Dal regime dello Scià e l’imposizione del modello occidentale, alla rivoluzione del ’79, fino alla rivolta che oggi sconvolge il Paese. Il percorso storico e quello personale si intrecciano in una narrazione che restituisce la violenza con cui la scissione si è inscritta non solo sul piano politico, sociale e culturale ma anche e soprattutto sui soggetti, sui corpi, sui volti di chi vive la lotta in prima persona.
L’insurrezione delle donne iraniane è una rivolta incentrata sulle foto, dove i corpi delle donne sono i protagonisti. Le figure si rendono sempre più visibili, si affermano in tutta la loro presenza partecipando unite alla lotta per la libertà. Fotografie, video, immagini documentano la riappropriazione del corpo da parte delle donne, un corpo collettivo, che agisce e protesta, che non può più nascondersi e che si afferma nello spazio per rivendicare la propria presenza.
La sollevazione in Iran: una rivoluzione femminista?, di Irene Follador.
Qual è l’idea dell’occidentale sulla condizione femminile
islamica? Probabilmente quella di donne vittime, oppresse dal potere
patriarcale, spesso anche incapaci di ribellarsi al dominio. Il panorama molto
più complesso è stato analizzato dalla docente di islamistica, Renata Pepicelli
che dichiara le ragioni per cui le donne si velano oggi sono plurali. Volontà
di rivendicazione identitaria contro l’occidente, volontà di sottrazione dalla
sessualizzazione del corpo e volontà di libera scelta religiosa, tutto questo è
condensato nelle proteste e nei movimenti femminili islamici. Ancora nella
società contemporanea è presente la narrazione di un “femminismo” islamico
debole e sottomesso rispetto a quello occidentale.
Registrare le rivolte: femminismo, collettività e scie transnazionali, di Giulia Elisa Bianchi.
8 marzo 1979. Un collettivo di femministe francesi invitate dai comitati locali filma la protesta che esplode a seguito della legge sul velo proposta da Khomeini. È da questo sguardo, raccolto nel Centro Audiovisuale Simone de Beauvoir che si collega l’esperienza delle filmmaker Delphine Sygner, Iona Wieder e Carole Rousspolous: le lotte negli anni ‘60 a partire dal maggio francese, al femminismo radicale fino ai temi che segneranno gli altri femminismi, mostrando come le pratiche artistiche e mediali possano trasformare il linguaggio e lo sguardo in contesti di protesta.
Citando Sygner come risposta alla domanda in cosa consiste il suo femminismo “è nel comunicare con le altre donne, non esisterebbe senza parlare con le altre donne”. Il femminismo genera potenze e non potere, ed è interessante come questi collettivi trasformano i punti di vista in moltitudini per una presa di coscienza plurale.
Le radici di Jin, Jiyan, Azadî. Jineologjî come metodo radicale per una società comunitaria libera ed equa, di Alessia Riva e Yanbo Wang.
Il 15
agosto 2022 il presidente Ebrahim Raisi firma il decreto nel quale annuncia
l’introduzione di telecamere di sorveglianza per monitorare e multare le donne
che non portano, o indossano “impropriamente”, il velo e dichiara la pena
detentiva imposta per qualsiasi iraniana che metta in discussione la legge
sull’hijab obbligatorio.
Il 16 settembre, dopo l’uccisione di Jîna Amini, scoppiano le proteste in Iran e nel mondo al grido dello slogan Jin, Jiyan, Azadî, ma qual è la sua origine? Le radici di quest’ultimo sono ben più profonde: non è solo un motto, ma una filosofia espressa per la prima volta dalle donne guerrigliere del Pkk e dal rappresentante del popolo curdo Abdullah Öcalan.
Oggi tutti coloro che si uniscono all’urlo di Jin, Jiyan, Azadî dovrebbero sapere che le donne curde hanno adottato Jineologjî (la scienza delle donne) come strategia per superare il sistema d’oppressione patriarcale in campo scientifico e hanno fondato un’Accademia che ha l’obiettivo di diffondere un metodo alternativo, liberato dal sessismo, riscoprendo i saperi antichi della scienza femminile.
Il legame tra le donne iraniane come forma di ribellione all’architettura dell’oppressione, di Rosaria Murolo e Veronica Pirovano.
Le strutture della repressione hanno le loro fondamenta nella ricostruzione degli spazi pubblici: sul modello del panottico foucaultiano, gli ambienti sociali divengono mero luogo di controllo, la cui logica repressiva si nasconde dietro le mura dell’imposizione sul corpo, sulla vita e sui legami tra individui. La riprogrammazione morale del popolo islamico passò per la riqualificazione della città, tra cui il quartiere di Shar-e No, casa per centinaia di identità marginalizzate, come prostitute, transessuali, orfani e malati di mente. Attraverso i loro ritratti pre-rivoluzione del fotografo Kaveh Golestan e quelli degli anni 2000 dell’artista Tamine Monzavi, i luoghi della marginalità diventano architettura della resistenza.
Ancor più in profondità in questa struttura ai bordi, i legami stretti in condizioni repressive, come quello tra le prostitute nei sobborghi di Teheran testimoniati dalla regista Nahid Persson, e tra le donne rivoluzionarie di ieri come di oggi, lascia intendere l’esistenza di fondamenta impossibili da distruggere, la cui forza è dovuta solo al legame che si costruisce tra gli oppressi, che inganna le strutture del potere ramificandosi intorno ad esso, e che come le radici degli alberi coperte dall’asfalto, è destinato a riemergere.
Storie non editate, un’esposizione di Catherine David, Matilde Crucitti, Barbara Niniano e Federica Rizzo.
Quale è stata l’ambizione politica e curatoriale di Catherine David all’interno dell’esposizione Unedited History. Iran 1960-2014? Sicuramente quella di definire la storia della modernità nel mondo delle arti visive in Iran nel corso della seconda metà del XX secolo. Questo processo, profondamente influenzato dalla realtà politica e sociale iraniana dagli anni Settanta fino ai giorni nostri, è strutturato attraverso tre diverse sequenze: gli anni della “modernizzazione” (1960-1978), il decennio della Rivoluzione e la guerra Iran-Iraq (1979-1988) e le implicazioni contemporanee che i due precedenti avvenimenti hanno portato (1989-2014).
Grazie a un particolare focus sul festival delle arti di Shiraz-Persepoli (che si propose come nuovo modello globale e terzomondista per accogliere le distanti voci asiatiche e africane nel dibattito culturale internazionale contrapponendole alle espressioni e alle dinamiche occidentali) la mostra reinventa una tradizione documentaria e artistica impegnata a confrontarsi con gli individui e con il mondo.
If I Choose Silence, Only the Sound Remains, di Elena Marcon, Myrta Mognoni, Chiara Meloni, Martina Pozzari, Mibong Kim.
If I choose silence […], only the sound remains, versi tratti da due differenti raccolte di poesie, “Captured” e “Let Us Believe in the Beginning of the Cold Season” (1974) di Forough Farrokhzad, poetessa persiana che ha sfidato le autorità parlando della situazione delle donne all’interno della società iraniana degli anni Cinquanta-Sessanta.
Un raccoglitore di immagini d’archivio,
articoli, traduzioni, interviste inedite, e un sunto degli accadimenti storici
dalla rivoluzione del 1979 ad oggi. Tra i contributi: intervista a Mashid Mohadjerin (1976), artista
multidisciplinare iraniana il cui lavoro documentaristico mescola la sfera
soggettiva, i luoghi della sua infanzia e il contesto pubblico delle donne
iraniane. Un articolo di impronta tessile scritto dalla ricercatrice
universitaria Farimah Bayat e da Nancy Hodges, vicepresidente per la
pianificazione dell’Associazione internazionale del tessile e
dell’abbigliamento (ITAA), intitolato Basta dire “no” all’obbligo hijab:
Esplorare le motivazioni e i significati del Bad-Hijabi in Iran. Un altro
contributo, Rappresentazione dell’identità islamico-iraniana nell’arte
iraniana contemporanea, èun saggio storico-artistico di impronta
psicologica, scritto da Kazem Khorasani, artista visuale e calligrafo, assieme
ad Asghar Kafshchian Moghdam, professore di arti visive all’Università di
Teheran.
Donna
Vita Libertá. Voci della rivoluzione iraniana | a partire dalleore 15 | spazi
esterni edificio T | Campus NABA
Cosa conferisce a una fotografia – e alle tante che circolano sui social delle insurrezioni in Iran dopo l’uccisione di Jîna Mahsa Amini – questo incredibile potere rispetto a un video? Il tempo incapsulato nell’immagine porta con sé l’intera storia a cui il corpo è soggiogato. La rivolta delle donne in Iran è fotocentrica, è stato detto. Cosa amplifica questa impronta femminista e non la lascia svanire? Oltre al nome di Mahsa Amini e “Donna, Vita, Libertà”, la portata della repressione è tale che non è più possibile riunirsi e le proteste non si affidano agli slogan o alle parole, ma sono le figure iconiche delle donne a trasformare questa sollevazione in una rivoluzione femminile.
Il tempo incapsulato nell’immagine problematizza la narrazione storica lineare ed evidenzia la tipologia della situazione: i gesti, i momenti, le micro-battaglie che portiamo avanti ogni giorno. Il tempo della foto è al passato prossimo: suscita desideri, fa rivivere quello che è accaduto, lo estende a un momento prima dell’ora e, nell’ora, consegna la successione di momenti alla foto e alla figura successiva, da quando, dopo quel 16 settembre 2022, le ragazze sono scese in strada e hanno dato fuoco al velo. Il volto di Mahsa Amini è ormai noto ovunque ma chi lo guarda oggi non vede la morte delle donne e dei giovani in Iran ma la loro resistenza.
Donna Vita Libertá. Voci della rivoluzione iraniana è un laboratorio teorico e un’esposizione research-based, con interventi artistici, performance e reading group, aperti al pubblico, che si svolgerà nel Campus NABA, insieme al seminario If I Choose Silence… (titolo tratto da una poesia di Forough Farrokhzad) come approfondimento del sistema artistico-espositivo iraniano, sia come momento di solidarietà con le lotte dei giovani e delle donne in Iran, per non rimanere in silenzio. Può quindi l’arte occidentale dare forma alla rivoluzione senza snaturarne e svuotarne il significato?
Con la partecipazione speciale dell’artista Mahnaz Ekhtiary.
Pubblichiamo un primo intervento, a seguire il programma del seminario.
La mercificazione di Jin, Jiyan, Azadî, (Woman, Life, Freedom) dalle istituzioni artistiche Occidentali
di Francesca Grossi e Nicolò Martinelli
«La nostra battaglia è molteplice e non è nata da un giorno all’altro: è una battaglia combattuta nelle strade, così come nei media, nelle università e nel mondo dell’arte, contro la Repubblica islamica, che ci ha intrappolato nei confini dell’immagine che occupa il nucleo della sua ideologia islamofascista patriarcale. Le immagini dinamiche, fluide e in continua metamorfosi delle donne iraniane sono in netto contrasto con le opere statiche e prive di equilibrio riprodotte in continuazione dalle istituzioni artistiche occidentali».
Con queste parole si conclude il saggio The Commodification of Jin, Jiyan, Azadî, (Woman, Life, Freedom) by Art Institutions in the West di Pegah Pasalar, Katayoon Barzegar e Niloufar Nematollahi pubblicato in occasione del progetto Films from Iran for Iran (2023). Una rassegna cinematografica che vuole estendere la propria solidarietà verso le lotte in Iran e sostenere, con sfumature e contesti necessari, la lunga resistenza femminista attiva nello Stato.
All’interno del saggio viene affrontato l’errato utilizzo dell’immagine della donna iraniana da parte del circuito artistico occidentale. Rappresentata da quest’ultimo in maniera stereotipata, statica, indifesa, passiva e bloccata in paradigmi ormai superati. L’insieme di queste caratteristiche è lontano anni luce dalla rappresentazione della donna che oggi sta combattendo con la vita per i propri diritti, ovvero una figura giovane, sola, con il volto e i capelli scoperti che dà fuoco al suo hijab, immagine diventata emblematica dall’inizio della rivoluzione.
Al centro della critica, all’interno del dibattito riportato nel saggio, c’è la sovrarappresentazionedel lavoro di Shirin Neshat (1957) nelle istituzioni artistiche. L’artista iraniana, che vive e lavora a New York, viene definita dal mondo dell’arte come il simbolo artistico della denuncia sociale, e, spesso, proclamata come il volto della rivoluzione per i diritti delle donne in Iran.
Secondo le autrici del testo, però, la realtà è totalmente opposta. L’immaginario prodotto da Neshat, infatti, arrecherebbe un danno alle donne iraniane sul campo, che tutti i giorni lottano per i propri diritti, un danno prodotto dagli intrecci tra orientalismo, dominio istituzionale occidentale e retorica visiva della Repubblica islamica – la stessa Repubblica islamica contro la quale la popolazione di tutto l’Iran sta protestando.
In particolare, si fa riferimento all’installazione esposta sul cartellone digitale di Piccadilly Circus a Londra, commissionata dal Cultural Institute of Radical Contemporary Art (CIRCA) e dichiarata dall’artista come gesto di solidarietà nei confronti delle rivolte, scaturite in seguito alla morte di Mahsa Amini nell’ottobre 2022. L’immagine esposta, nel cuore della città, rappresentava la sovrapposizione della scritta Jin, Jiyan, Azadî, sia in farsi che in inglese (Woman, Life, Freedom), con una fotografia di Neshat, appartenente alla serie Women of Allah, realizzata dall’artista tra il 1993 e il 1997. Questa serie è caratterizzata da immagini di donne iraniane rappresentate con lo chador, che impugnano pistole o fiori. Le mani e i piedi dei soggetti mostrati sono decorati dalla calligrafia farsi, riportano passaggi riprese dal Corano o da poesie di Forough Farokhzad, ritenuta una pioniera delle rivolte femministe in Iran.
È proprio l’accostamento di versi religiosi a delle poesie radicali a essere problematico. Le immagini rappresentano quella donna iraniana orientalizzata, stereotipata, vicina alla concezione femminile imposta dal Regime. La Repubblica islamica è uno Stato la cui ideologia e sopravvivenza dipendono dalla costruzione dell’immagine della donna iraniana, velata, come parte importante del suo discorso politico. Nel caso del cartellone di Piccadilly Circus, perciò, lo slogan Jin, Jiyan, Azadî, è stato mercificato e separato dalle sue radici, sovrapposto a un’immagine che non è nata dalla rivoluzione in corso.
L’esposizione di Neshat ha provocato sentimenti di delusione e rabbia: ancora una volta, uno stereotipo passivo, un’immagine arcaica di una donna musulmana, il cui corpo è decorato con una calligrafia illeggibile, viene riprodotta dai discorsi occidentali come unica rappresentazione delle donne iraniane. Prima della rivoluzione, le comunità di artisti all’interno dell’Iran e della diaspora avevano già espresso apertamente il loro scetticismo nei confronti del lavoro e del successo di Neshat, ma queste critiche non erano mai diventate pubbliche.
Osservando le opere di Shirin Neshat non si nota un’evoluzione nella rappresentazione della donna dopo la produzione di queste fotografie, ma una continua riproduzione propagandistica della Repubblica islamica degli anni Novanta, un decennio segnato dal tentativo dello Stato di rafforzare la propria ideologia dopo la fine della guerra Iran-Iraq nel 1988.
In Iran, invece, i modi in cui le donne rappresentano sé stesse si sono metamorfizzati e sono stati veicolati attraverso i social network. Mediante queste piattaforme abbiamo visto coppie queer baciarsi nelle piazze principali delle città iraniane, ragazze che si coprono il viso, espongono il corpo e stanno per strada con la pelle segnata da Jin, Jiyan, Azadî scritta con il rossetto e, ancora, video di donne che cantano, ballano e ridono ad alta voce. Le autrici del saggio sostengono come in Iran la rappresentazione di una donna, in chador nero con in mano una pistola, sia vista come l’immagine della figura femminile voluta dalla polizia morale, rappresenta la censura e la sorveglianza. È ben diversa, quindi, dall’immagine del corpo femminile creata nella sfera privata e conservata al sicuro negli album di famiglia.
Un’altra esposizione dell’artista, posizionata al centro delle critiche, è quella inaugurata Il 26 gennaio 2023 alla Gladstone Gallery di New York. Un solo show di Shirin Neshat intitolato The Fury. In mostra, oltre alle fotografie già citate, si trova una nuova videoinstallazione, che dà il titolo alla mostra, girata nella primavera del 2022, prima dell’attuale rivoluzione. Una donna nuda accerchiata da un gruppo di uomini in divisa militare.
Il lavoro cerca di mettere in luce le gravi torture e le violenze sessuali a cui sono sottoposte le donne prigioniere politiche del regime della Repubblica Islamica, ripercorre il viaggio psicologico ed emotivo di una giovane donna iraniana che, sebbene ora viva liberamente negli Stati Uniti, rimane traumatizzata dai ricordi della prigionia. Pur volendo denunciare una situazione tragica e reale, l’immagine della donna riportata ancora una volta dall’artista è quella di una figura debole, indifesa, una rappresentazione disumanizzata e feticizzata della vittima iraniana, sempre più distante dalle immagini di donne forti e coraggiose condivise durante le lotte contemporanee. La “donna iraniana” costruita dalla Repubblica islamica e le immagini di donne create da Neshat si assomigliano dolorosamente.
«Nello stesso momento in cui assistiamo a un aumento delle lotte di liberazione delle donne, vediamo come il liberalismo venga imposto come l’opzione più sicura e praticabile per l’uguaglianza e il cambiamento. Oggi vediamo che gli slogan e i simboli rivoluzionari radicali vengono sempre più mercificati, prodotti in serie, svuotati del loro significato e rivenduti in plastica alle stesse persone che hanno dato la vita per creare questi valori».
Afferma la sociologa e scrittrice curda Dilar Dirik alla Conferenza internazionale delle donne a Berlino. Se quindi la mercificazione diJin, Jiyan, Azadî, non si traduce direttamente in aumento di capitale per l’istituzione e l’artista, sicuramente porta benefici per la reputazione e la fama.
Per Pegah Pasalar, Katayoon Barzegar e Niloufar Nematollahi questo non significa che l’estetica e i canti rivoluzionari non debbano essere riprodotti. L’arte può ovviamente essere un potente contenitore in cui portare prospettive personali o collettive su questioni sociali, politiche e culturali. Ma gli artisti della diaspora, e con loro le istituzioni occidentali, devono saper riconoscere la loro distanza e la loro disgiunzione dal nucleo del campo politico da cui Jin, Jiyan, Azadî, è emerso in Kurdistan.
Abstract degli interventi del seminario If I Choose Silence
Enqelab. Radiografia di una rivoluzione, di Francesca Barberi, Elisabetta Bottura, Elisabetta Calligaro, Francesca De Chiara.
A partire dal documentario Radiography of a Family (2020) di Firouzeh Kosrovani una riflessione sulle complessità che nel corso della storia hanno determinato la tragicità degli eventi legati alla rivoluzione iraniana contemporanea. Dal regime dello Scià e l’imposizione del modello occidentale, alla rivoluzione del ’79, fino alla rivolta che oggi sconvolge il Paese. Il percorso storico e quello personale si intrecciano in una narrazione che restituisce la violenza con cui la scissione si è inscritta non solo sul piano politico, sociale e culturale ma anche e soprattutto sui soggetti, sui corpi, sui volti di chi vive la lotta in prima persona.
L’insurrezione delle donne iraniane è una rivolta incentrata sulle foto, dove i corpi delle donne sono i protagonisti. Le figure si rendono sempre più visibili, si affermano in tutta la loro presenza partecipando unite alla lotta per la libertà. Fotografie, video, immagini documentano la riappropriazione del corpo da parte delle donne, un corpo collettivo, che agisce e protesta, che non può più nascondersi e che si afferma nello spazio per rivendicare la propria presenza.
La sollevazione in Iran: una rivoluzione femminista?, di Irene Follador.
Qual è l’idea dell’occidentale sulla condizione femminile islamica? Probabilmente quella di donne vittime, oppresse dal potere patriarcale, spesso anche incapaci di ribellarsi al dominio. Il panorama molto più complesso è stato analizzato dalla docente di islamistica, Renata Pepicelli che dichiara le ragioni per cui le donne si velano oggi sono plurali. Volontà di rivendicazione identitaria contro l’occidente, volontà di sottrazione dalla sessualizzazione del corpo e volontà di libera scelta religiosa, tutto questo è condensato nelle proteste e nei movimenti femminili islamici. Ancora nella società contemporanea è presente la narrazione di un “femminismo” islamico debole e sottomesso rispetto a quello occidentale.
Registrare le rivolte: femminismo, collettività e scie transnazionali, di Giulia Elisa Bianchi.
8 marzo 1979. Un collettivo di femministe francesi invitate dai comitati locali filma la protesta che esplode a seguito della legge sul velo proposta da Khomeini. È da questo sguardo, raccolto nel Centro Audiovisuale Simone de Beauvoir che si collega l’esperienza delle filmmaker Delphine Sygner, Iona Wieder e Carole Rousspolous: le lotte negli anni ‘60 a partire dal maggio francese, al femminismo radicale fino ai temi che segneranno gli altri femminismi, mostrando come le pratiche artistiche e mediali possano trasformare il linguaggio e lo sguardo in contesti di protesta.
Citando Sygner come risposta alla domanda in cosa consiste il suo femminismo “è nel comunicare con le altre donne, non esisterebbe senza parlare con le altre donne”. Il femminismo genera potenze e non potere, ed è interessante come questi collettivi trasformano i punti di vista in moltitudini per una presa di coscienza plurale.
Le radici di Jin, Jiyan, Azadî. Jineologjî come metodo radicale per una società comunitaria libera ed equa, di Alessia Riva e Yanbo Wang.
Il 15 agosto 2022 il presidente Ebrahim Raisi firma il decreto nel quale annuncia l’introduzione di telecamere di sorveglianza per monitorare e multare le donne che non portano, o indossano “impropriamente”, il velo e dichiara la pena detentiva imposta per qualsiasi iraniana che metta in discussione la legge sull’hijab obbligatorio.
Il 16 settembre, dopo l’uccisione di Jîna Amini, scoppiano le proteste in Iran e nel mondo al grido dello slogan Jin, Jiyan, Azadî, ma qual è la sua origine? Le radici di quest’ultimo sono ben più profonde: non è solo un motto, ma una filosofia espressa per la prima volta dalle donne guerrigliere del Pkk e dal rappresentante del popolo curdo Abdullah Öcalan.
Oggi tutti coloro che si uniscono all’urlo di Jin, Jiyan, Azadî dovrebbero sapere che le donne curde hanno adottato Jineologjî (la scienza delle donne) come strategia per superare il sistema d’oppressione patriarcale in campo scientifico e hanno fondato un’Accademia che ha l’obiettivo di diffondere un metodo alternativo, liberato dal sessismo, riscoprendo i saperi antichi della scienza femminile.
Il legame tra le donne iraniane come forma di ribellione all’architettura dell’oppressione, di Rosaria Murolo e Veronica Pirovano.
Le strutture della repressione hanno le loro fondamenta nella ricostruzione degli spazi pubblici: sul modello del panottico foucaultiano, gli ambienti sociali divengono mero luogo di controllo, la cui logica repressiva si nasconde dietro le mura dell’imposizione sul corpo, sulla vita e sui legami tra individui. La riprogrammazione morale del popolo islamico passò per la riqualificazione della città, tra cui il quartiere di Shar-e No, casa per centinaia di identità marginalizzate, come prostitute, transessuali, orfani e malati di mente. Attraverso i loro ritratti pre-rivoluzione del fotografo Kaveh Golestan e quelli degli anni 2000 dell’artista Tamine Monzavi, i luoghi della marginalità diventano architettura della resistenza.
Ancor più in profondità in questa struttura ai bordi, i legami stretti in condizioni repressive, come quello tra le prostitute nei sobborghi di Teheran testimoniati dalla regista Nahid Persson, e tra le donne rivoluzionarie di ieri come di oggi, lascia intendere l’esistenza di fondamenta impossibili da distruggere, la cui forza è dovuta solo al legame che si costruisce tra gli oppressi, che inganna le strutture del potere ramificandosi intorno ad esso, e che come le radici degli alberi coperte dall’asfalto, è destinato a riemergere.
Storie non editate, un’esposizione di Catherine David, Matilde Crucitti, Barbara Niniano e Federica Rizzo.
Quale è stata l’ambizione politica e curatoriale di Catherine David all’interno dell’esposizione Unedited History. Iran 1960-2014? Sicuramente quella di definire la storia della modernità nel mondo delle arti visive in Iran nel corso della seconda metà del XX secolo. Questo processo, profondamente influenzato dalla realtà politica e sociale iraniana dagli anni Settanta fino ai giorni nostri, è strutturato attraverso tre diverse sequenze: gli anni della “modernizzazione” (1960-1978), il decennio della Rivoluzione e la guerra Iran-Iraq (1979-1988) e le implicazioni contemporanee che i due precedenti avvenimenti hanno portato (1989-2014).
Grazie a un particolare focus sul festival delle arti di Shiraz-Persepoli (che si propose come nuovo modello globale e terzomondista per accogliere le distanti voci asiatiche e africane nel dibattito culturale internazionale contrapponendole alle espressioni e alle dinamiche occidentali) la mostra reinventa una tradizione documentaria e artistica impegnata a confrontarsi con gli individui e con il mondo.
If I Choose Silence, Only the Sound Remains, di Elena Marcon, Myrta Mognoni, Chiara Meloni, Martina Pozzari, Mibong Kim.
If I choose silence […], only the sound remains, versi tratti da due differenti raccolte di poesie, “Captured” e “Let Us Believe in the Beginning of the Cold Season” (1974) di Forough Farrokhzad, poetessa persiana che ha sfidato le autorità parlando della situazione delle donne all’interno della società iraniana degli anni Cinquanta-Sessanta.
Un raccoglitore di immagini d’archivio, articoli, traduzioni, interviste inedite, e un sunto degli accadimenti storici dalla rivoluzione del 1979 ad oggi. Tra i contributi: intervista a Mashid Mohadjerin (1976), artista multidisciplinare iraniana il cui lavoro documentaristico mescola la sfera soggettiva, i luoghi della sua infanzia e il contesto pubblico delle donne iraniane. Un articolo di impronta tessile scritto dalla ricercatrice universitaria Farimah Bayat e da Nancy Hodges, vicepresidente per la pianificazione dell’Associazione internazionale del tessile e dell’abbigliamento (ITAA), intitolato Basta dire “no” all’obbligo hijab: Esplorare le motivazioni e i significati del Bad-Hijabi in Iran. Un altro contributo, Rappresentazione dell’identità islamico-iraniana nell’arte iraniana contemporanea, èun saggio storico-artistico di impronta psicologica, scritto da Kazem Khorasani, artista visuale e calligrafo, assieme ad Asghar Kafshchian Moghdam, professore di arti visive all’Università di Teheran.
Donna Vita Libertá. Voci della rivoluzione iraniana | a partire dalleore 15 | spazi esterni edificio T | Campus NABA
Performance ||| Marilù Falconieri con Mahnaz Ekhtiary, Chiara Smedile, Francesca Palmieri.
Contributi artistici ||| Camilla Gurgone, Veronica Fiordi, Isabelle Noyer e Sara Verde, Francesca Bullo, Michelle Ucci e Iris Volpato, Katherine Teran, Luca Celè, Yuzhe Wang, Hu Jiaoming, Yuming Zhou, Xizi Du, Liu Tian.
Contributi teorico-testuali e visuali ||| Francesca Barberi, Elisabetta Bottura, Elisabetta Calligaro, Francesca De Chiara, Francesca Grossi, Nicolò Martinelli, Irene Follador, Elisa Giulia Bianchi, Alessia Riva e Yanbo Wang, Rosaria Murolo e Veronica Pirovano, Matilde Crucitti, Barbara Niniano e Federica Rizzo, Diego Giannettoni, Jacopo Bosetti, Lucrezia Vimini, Noemi Tumminelli, Zhou Xingyu.
Contributi editoriali ||| Elena Marcon, Myrta Mognoni, Chiara Meloni, Martina Pozzari, Mibong Kim.