«Noi
Nemesiache vogliamo creare aprire gli occhi sull’originaria diversità questa femminilità
estesa profonda vera la femminilità l’alterità la vitale indomita ribellione l’insofferenza
d’ogni legame l’amore come magia creazione di ninfe ed acqua incantata.
Insieme
ritroveremo il sentiero calpestato violentato nascosto il nostro sentiero bruciato».
“Manifesto delle femministe napoletane: Le Nemesiache”, 1970.
SFIDIAMO
(a dama) tutte le estetiche e filosofi che da secoli si sono avvicendati nello
stabilire e decidere chi e come doveva o non doveva essere creativo, quindi dissacriamo
tutte le cattedrali, i capi carismatici, i miti e simboli denunciandone tutta
la mistica fallocentrica perpetrata sulla nostra storia.
BRUCIAMO
pubblicamente tutti i manifesti espressionisti cubisti, futuristi, astrattisti,
dadaisti, surrealisti scoprendo nelle loro elaborazioni attraverso le
giustificazioni dell’arte la riappropriazione di contenuti e scoperte
specifiche delle donne per ritorcerli nuovamente contro di esse.
SIAMO
NOI ad aver partorito la Body-Art, e rigettiamo le elaborazioni mostruose e
violente che sul nostro concetto di corpo di fisicità come forma d’arte l’artista
maschio ha utilizzato per l’espressione della sua violenza. E cosa dire della
grande scoperta dell’arte povera?
Le Nemesiache, “Manifesto per la riappropriazione della nostra creatività”, 1977.
Milano, Fondazione Badaracco. Scorrendo tutto il materiale d’archivio dello storico gruppo femminista Le Nemesiache riconosco un pilastro fondante nella loro ricerca artistica. Sono delle domande: cosa esiste fuori dalla cultura patriarcale? Chi siamo noi se usciamo da quei modelli di pensiero? Come può l’arte ribellarsi e affrancarsi da quel retaggio culturale ed essere libera?
Da queste domande si dirama in varie direzioni la ricerca di una possibilità di cultura “altra”, di una storia non macchiata dai dogmi (temporali, spaziali, razziali…) che caratterizzano il modo di pensare occidentale. Una cultura assimilata che, come notano nei loro scritti Le Nemesiache, richiede lo sforzo costante di essere messa completamente in discussione per costruire un terreno fertile di creatività e immaginazione politica.
Guardando dei materiali che risalgono principalmente agli anni Settanta si rivela un approccio teorico e pratico fondato su un pensiero irriducibile e con un grado di libertà che risulta più che mai attuale, le stesse questioni sono rimaste e continuano a essere territorio di indagine per molti artisti. Chiaramente si vedono anche le differenze. Il mondo oggi soffre di un cinismo che negli anni ‘70 non esisteva in questa forma, nella mancanza di speranza che porta alla disperazione endemica, ormai assimilata sottopelle dalle persone. Anche Le Nemesiache scrivevano di disperazione, legandola alla sensibilità femminile che si fa carico emotivo delle varie situazioni disperate che incontra, trovando una via d’uscita nella comunicazione all’interno del proprio gruppo di autocoscienza. Ma rispetto alla pratica politica dei piccoli gruppi di autocoscienza negli anni ’70, Le Nemesiache, come scrive Rachele Borghi “preferiscono sondare un terreno più creativo, nel quale si entri in contatto con le altre non solo attraverso la parola ma anche tramite il corpo, la gestualità e le emozioni”. Il metodo teatrale della psico-favola è una forma di liberazione.
«Come
mai una donna riesce a partecipare intensamente alla disperazione e fare sua la
disperazione di tutte?», Esperienza della Cenerella, psico-favola al femminile.
La disperazione è parte della narrazione occidentale. Per molto tempo, e spesso ancora oggi, la maggior parte delle storie degne di essere lette custodivano nel cuore della trama una componente acuta di disperazione. Molto frequentemente, per esempio, nella cultura tradizionale l’amore conduce a delle tragedie degne di spezzare chiunque generando una visione bidimensionale dell’amore che è diventata nei secoli un modello da idealizzare.
Il
modo di assimilare una narrazione come unica e dominante è rimasto in larga
parte e serpeggia, portato avanti da una cultura ormai molto stanca.
In
questo contesto esistono allo stesso tempo gli sforzi di filosofi, artisti,
storici per proporre una cultura creata tramite il respiro del pensiero, nella
quale i vari femminismi sono una colonna importante. Le Nemesiache avevano lo
stesso proposito, affrontando il discorso da un punto di vista creativo.
Molti
dei loro scritti si concentrano sull’uscire dall’individualismo come soluzione
al terrore dell’ambiente circostante, distaccandosi di conseguenza anche dalla
violenza che si genera quando un individuo pensa sé stesso come un’isola
connessa solo marginalmente al resto del mondo.
Le proposte artistiche e teatrali si muovevano dal valorizzare la voce e la soggettività femminile che individuavano nelle donne – e che fa parte di tutti gli esseri umani – evidenziando l’inferiorità a cui sono sempre state relegate dalla cultura tradizionale e identificandole come il nucleo che permette di rovesciare quello stesso sistema sociale opprimente.
Così Le Nemesiache elaborano espressioni creative sospese “tra la realtà e la poesia” integrando una dimensione onirica nel meccanismo di realtà sempre in perenne costruzione e legittimando le donne a far emergere il loro vero sé. Scrivevano infatti che la storia di ogni donna è importante incitando a non considerarla insignificante in quanto generatrice di un impulso per le compagne.
«La nostra storia è da costruire e sentire di trasmettere alle altre le proprie esperienze può essere una spinta a fermare la propria storia, a valutarla, a non vederla come episodio insignificante», Manifesto metaspaziale delle Nemesiache, 1973.
Nella pratica creativa sottolineavano l’importanza della fuoriuscita dai rigidi schemi del professionismo, che definivano un’arma soffocante del pensiero patriarcale, per lasciarsi andare verso una dimensione libera di scoperta e meraviglia di tutto ciò che esiste.
Noi denunciamo, noi rigettiamo, noi rivendichiamo, noi ci esprimiamo, noi……è il teatro: «Per noi il teatro è una forma di lotta un metodo, non intendiamo più lasciare spazi culturali al maschio per cui ciò che ci viene impedito nella storia di ogni giorno nella nostra realtà concreta viene accettato nel teatro come creazione dell’artista» (dattiloscritto, 1973). Essendo un gruppo molto attivo a livello teatrale questa ricerca si connotava nell’abolizione di ruoli, orari di rappresentazione, ordine di comparsa sulla scena, dello studio e della finzione del personaggio.
Cercavano una strada alternativa alla narrazione dominante in contemporanea all’abbattimento delle strutture portanti di quella stessa narrazione.
Identificavano il teatro come mezzo di lotta attiva e unica realtà non completamente razionalizzata che potesse offrire quindi un varco per la ricerca e la liberazione di sé stesse e delle altre.
Emerge dai loro scritti che un punto fondamentale da affrontare – che in realtà vale per l’approccio teatrale in generale: la perdita della critica e del giudizio. Per essere liberi è necessario spogliarsi di tutte le coercizioni mentali che spingono alla critica di sé stessi e degli altri, della chiusura sottointesa nei meccanismi di giudizio che configuravano come quel impulso a essere brave, l’inseguimento di un gesto perfetto o di un pensiero esemplare che è così contrario alla natura stessa dell’essere umano. Esiste solo l’azione in teatro e “nessuno può criticare nella misura in cui agisce”.
Un’altra parte importante della loro ricerca è dedicata alla corporeità. Rilevavano la paralisi del corpo insieme all’incapacità di comunicazione e l’insicurezza come effetti della violenza della società patriarcale contro le donne, esortando alla resistenza tramite la liberazione del corpo propria delle pratiche teatrali.
«Quando hanno finito di bruciare le streghe hanno aperto i manicomi. Quando finirà la guerra tra i sessi bruceremo i manicomi. Ogni nostra espressione è ridotta a follia, malattia, devianza. Ogni nostra rivolta è imprigionata, confinata, bruciata sui roghi di tutte le culture e le ideologie […] Fuori e dentro la nostra lotta, la nostra rivolta non può continuare a ignorare le altre prigioniere politiche». [Le Nemesiache, “PRIGIONIERE POLITICHE…DELLA NOSTRA FOLLIA NON PIU’ COME MALATTIA MA RIVOLTA, Frullone, 1978].
In un periodo storico che veicola l’immagine di una strada senza via d’uscita è necessario recuperare queste voci di soggettività eddedenti e fuori-norma che invitano alla lotta poetica e non-violenta ricordando la possibilità di una ricerca orientata a far emergere le voci poetiche all’interno di ognuno che ancora oggi sono considerate disfunzionali.
È da un loro scritto poetico che ho tratto la parola strada. Scrivevano di una lunga strada bianca in cui ci si unisce a camminare insieme, lasciando dietro di sé tutte le maschere. In questa poesia esiste anche l’ammonimento a non assumere l’egoismo del sistema patriarcale ma a resistere e lottare. Scrivevano anche «la nostra canzone è amore», ma non l’amore impregnato della cultura patriarcale che propone modelli di passione distruttiva che conducono alla disperazione, ma un amore che è la spinta per uscire dalla propria torre d’avorio e incontrare l’altro senza maschere e che rimanda alla costruzione delle fondamenta. La casa si costruisce con il tempo e con molta fatica, ci si deve confrontare con molti elementi: gli eventi atmosferici, le differenze di ognuno, le attese quindi i tempi – non il tempo singolare – perché ognuna ha il suo ritmo.
L’eredità lasciata dalle Nemesiache sono le fondamenta di una casa aperta a tutti e in costante cambiamento, che accoglie le possibili mutazioni, fondata su principi etici molto precisi: la lotta all’individualismo, la non-violenza, la valorizzazione della donna come figura storica e sociale e la Speranza che unendo le forze si possa uscire dal buio della storia, perché come scrivono nel Manifesto «questa storia noi la rifiutiamo e la rigettiamo».
«L’altra notte il mare ci ha chiamate e noi, superando cumuli di immondizie catene di autovetture, fogne puzzolenti, divieti di accesso, semafori, strade private, spiagge private…siamo infine arrivate a lui! Varie terre, avendo un grosso problema di sovrappopolamento, tentavano di prosciugare il mare per il proprio bisogno di spazio vitale. Ma i problemi del mare sono tanti: la puzza del petrolio fa morire la popolazione, distrugge la flora, crea forme di generazione dell’ambiente; lo sfruttamento irrazionale delle risorse porta al grave problema della crisi delle energie marine. Abbiamo deciso di fare questa festa della poesia come una forma di rituale propiziatorio per aprire la discussione e i dibattiti e le proposte in tutta la popolazione su questi gravi problemi che ci riguardano come popoli della terra e soprattutto come abitanti di una città sorta da una figlia del mare “la sirena Partenope”».
Le Nemesiache, Manifesto. Festa della poesia alla Gaiola, 11 giugno 1978.
di Chiara Sforazzini.
«Noi Nemesiache vogliamo creare aprire gli occhi sull’originaria diversità questa femminilità estesa profonda vera la femminilità l’alterità la vitale indomita ribellione l’insofferenza d’ogni legame l’amore come magia creazione di ninfe ed acqua incantata.
Insieme ritroveremo il sentiero calpestato violentato nascosto il nostro sentiero bruciato».
“Manifesto delle femministe napoletane: Le Nemesiache”, 1970.
SFIDIAMO (a dama) tutte le estetiche e filosofi che da secoli si sono avvicendati nello stabilire e decidere chi e come doveva o non doveva essere creativo, quindi dissacriamo tutte le cattedrali, i capi carismatici, i miti e simboli denunciandone tutta la mistica fallocentrica perpetrata sulla nostra storia.
BRUCIAMO pubblicamente tutti i manifesti espressionisti cubisti, futuristi, astrattisti, dadaisti, surrealisti scoprendo nelle loro elaborazioni attraverso le giustificazioni dell’arte la riappropriazione di contenuti e scoperte specifiche delle donne per ritorcerli nuovamente contro di esse.
SIAMO NOI ad aver partorito la Body-Art, e rigettiamo le elaborazioni mostruose e violente che sul nostro concetto di corpo di fisicità come forma d’arte l’artista maschio ha utilizzato per l’espressione della sua violenza. E cosa dire della grande scoperta dell’arte povera?
Le Nemesiache, “Manifesto per la riappropriazione della nostra creatività”, 1977.
Milano, Fondazione Badaracco. Scorrendo tutto il materiale d’archivio dello storico gruppo femminista Le Nemesiache riconosco un pilastro fondante nella loro ricerca artistica. Sono delle domande: cosa esiste fuori dalla cultura patriarcale? Chi siamo noi se usciamo da quei modelli di pensiero? Come può l’arte ribellarsi e affrancarsi da quel retaggio culturale ed essere libera?
Da queste domande si dirama in varie direzioni la ricerca di una possibilità di cultura “altra”, di una storia non macchiata dai dogmi (temporali, spaziali, razziali…) che caratterizzano il modo di pensare occidentale. Una cultura assimilata che, come notano nei loro scritti Le Nemesiache, richiede lo sforzo costante di essere messa completamente in discussione per costruire un terreno fertile di creatività e immaginazione politica.
Guardando dei materiali che risalgono principalmente agli anni Settanta si rivela un approccio teorico e pratico fondato su un pensiero irriducibile e con un grado di libertà che risulta più che mai attuale, le stesse questioni sono rimaste e continuano a essere territorio di indagine per molti artisti. Chiaramente si vedono anche le differenze. Il mondo oggi soffre di un cinismo che negli anni ‘70 non esisteva in questa forma, nella mancanza di speranza che porta alla disperazione endemica, ormai assimilata sottopelle dalle persone. Anche Le Nemesiache scrivevano di disperazione, legandola alla sensibilità femminile che si fa carico emotivo delle varie situazioni disperate che incontra, trovando una via d’uscita nella comunicazione all’interno del proprio gruppo di autocoscienza. Ma rispetto alla pratica politica dei piccoli gruppi di autocoscienza negli anni ’70, Le Nemesiache, come scrive Rachele Borghi “preferiscono sondare un terreno più creativo, nel quale si entri in contatto con le altre non solo attraverso la parola ma anche tramite il corpo, la gestualità e le emozioni”. Il metodo teatrale della psico-favola è una forma di liberazione.
«Come mai una donna riesce a partecipare intensamente alla disperazione e fare sua la disperazione di tutte?», Esperienza della Cenerella, psico-favola al femminile.
La disperazione è parte della narrazione occidentale. Per molto tempo, e spesso ancora oggi, la maggior parte delle storie degne di essere lette custodivano nel cuore della trama una componente acuta di disperazione. Molto frequentemente, per esempio, nella cultura tradizionale l’amore conduce a delle tragedie degne di spezzare chiunque generando una visione bidimensionale dell’amore che è diventata nei secoli un modello da idealizzare.
Il modo di assimilare una narrazione come unica e dominante è rimasto in larga parte e serpeggia, portato avanti da una cultura ormai molto stanca.
In questo contesto esistono allo stesso tempo gli sforzi di filosofi, artisti, storici per proporre una cultura creata tramite il respiro del pensiero, nella quale i vari femminismi sono una colonna importante. Le Nemesiache avevano lo stesso proposito, affrontando il discorso da un punto di vista creativo.
Molti dei loro scritti si concentrano sull’uscire dall’individualismo come soluzione al terrore dell’ambiente circostante, distaccandosi di conseguenza anche dalla violenza che si genera quando un individuo pensa sé stesso come un’isola connessa solo marginalmente al resto del mondo.
Le proposte artistiche e teatrali si muovevano dal valorizzare la voce e la soggettività femminile che individuavano nelle donne – e che fa parte di tutti gli esseri umani – evidenziando l’inferiorità a cui sono sempre state relegate dalla cultura tradizionale e identificandole come il nucleo che permette di rovesciare quello stesso sistema sociale opprimente.
Così Le Nemesiache elaborano espressioni creative sospese “tra la realtà e la poesia” integrando una dimensione onirica nel meccanismo di realtà sempre in perenne costruzione e legittimando le donne a far emergere il loro vero sé. Scrivevano infatti che la storia di ogni donna è importante incitando a non considerarla insignificante in quanto generatrice di un impulso per le compagne.
«La nostra storia è da costruire e sentire di trasmettere alle altre le proprie esperienze può essere una spinta a fermare la propria storia, a valutarla, a non vederla come episodio insignificante», Manifesto metaspaziale delle Nemesiache, 1973.
Nella pratica creativa sottolineavano l’importanza della fuoriuscita dai rigidi schemi del professionismo, che definivano un’arma soffocante del pensiero patriarcale, per lasciarsi andare verso una dimensione libera di scoperta e meraviglia di tutto ciò che esiste.
Noi denunciamo, noi rigettiamo, noi rivendichiamo, noi ci esprimiamo, noi……è il teatro: «Per noi il teatro è una forma di lotta un metodo, non intendiamo più lasciare spazi culturali al maschio per cui ciò che ci viene impedito nella storia di ogni giorno nella nostra realtà concreta viene accettato nel teatro come creazione dell’artista» (dattiloscritto, 1973). Essendo un gruppo molto attivo a livello teatrale questa ricerca si connotava nell’abolizione di ruoli, orari di rappresentazione, ordine di comparsa sulla scena, dello studio e della finzione del personaggio.
Cercavano una strada alternativa alla narrazione dominante in contemporanea all’abbattimento delle strutture portanti di quella stessa narrazione.
Identificavano il teatro come mezzo di lotta attiva e unica realtà non completamente razionalizzata che potesse offrire quindi un varco per la ricerca e la liberazione di sé stesse e delle altre.
Emerge dai loro scritti che un punto fondamentale da affrontare – che in realtà vale per l’approccio teatrale in generale: la perdita della critica e del giudizio. Per essere liberi è necessario spogliarsi di tutte le coercizioni mentali che spingono alla critica di sé stessi e degli altri, della chiusura sottointesa nei meccanismi di giudizio che configuravano come quel impulso a essere brave, l’inseguimento di un gesto perfetto o di un pensiero esemplare che è così contrario alla natura stessa dell’essere umano. Esiste solo l’azione in teatro e “nessuno può criticare nella misura in cui agisce”.
Un’altra parte importante della loro ricerca è dedicata alla corporeità. Rilevavano la paralisi del corpo insieme all’incapacità di comunicazione e l’insicurezza come effetti della violenza della società patriarcale contro le donne, esortando alla resistenza tramite la liberazione del corpo propria delle pratiche teatrali.
«Quando hanno finito di bruciare le streghe hanno aperto i manicomi. Quando finirà la guerra tra i sessi bruceremo i manicomi. Ogni nostra espressione è ridotta a follia, malattia, devianza. Ogni nostra rivolta è imprigionata, confinata, bruciata sui roghi di tutte le culture e le ideologie […] Fuori e dentro la nostra lotta, la nostra rivolta non può continuare a ignorare le altre prigioniere politiche». [Le Nemesiache, “PRIGIONIERE POLITICHE…DELLA NOSTRA FOLLIA NON PIU’ COME MALATTIA MA RIVOLTA, Frullone, 1978].
In un periodo storico che veicola l’immagine di una strada senza via d’uscita è necessario recuperare queste voci di soggettività eddedenti e fuori-norma che invitano alla lotta poetica e non-violenta ricordando la possibilità di una ricerca orientata a far emergere le voci poetiche all’interno di ognuno che ancora oggi sono considerate disfunzionali.
È da un loro scritto poetico che ho tratto la parola strada. Scrivevano di una lunga strada bianca in cui ci si unisce a camminare insieme, lasciando dietro di sé tutte le maschere. In questa poesia esiste anche l’ammonimento a non assumere l’egoismo del sistema patriarcale ma a resistere e lottare. Scrivevano anche «la nostra canzone è amore», ma non l’amore impregnato della cultura patriarcale che propone modelli di passione distruttiva che conducono alla disperazione, ma un amore che è la spinta per uscire dalla propria torre d’avorio e incontrare l’altro senza maschere e che rimanda alla costruzione delle fondamenta. La casa si costruisce con il tempo e con molta fatica, ci si deve confrontare con molti elementi: gli eventi atmosferici, le differenze di ognuno, le attese quindi i tempi – non il tempo singolare – perché ognuna ha il suo ritmo.
L’eredità lasciata dalle Nemesiache sono le fondamenta di una casa aperta a tutti e in costante cambiamento, che accoglie le possibili mutazioni, fondata su principi etici molto precisi: la lotta all’individualismo, la non-violenza, la valorizzazione della donna come figura storica e sociale e la Speranza che unendo le forze si possa uscire dal buio della storia, perché come scrivono nel Manifesto «questa storia noi la rifiutiamo e la rigettiamo».
«L’altra notte il mare ci ha chiamate e noi, superando cumuli di immondizie catene di autovetture, fogne puzzolenti, divieti di accesso, semafori, strade private, spiagge private…siamo infine arrivate a lui! Varie terre, avendo un grosso problema di sovrappopolamento, tentavano di prosciugare il mare per il proprio bisogno di spazio vitale. Ma i problemi del mare sono tanti: la puzza del petrolio fa morire la popolazione, distrugge la flora, crea forme di generazione dell’ambiente; lo sfruttamento irrazionale delle risorse porta al grave problema della crisi delle energie marine. Abbiamo deciso di fare questa festa della poesia come una forma di rituale propiziatorio per aprire la discussione e i dibattiti e le proposte in tutta la popolazione su questi gravi problemi che ci riguardano come popoli della terra e soprattutto come abitanti di una città sorta da una figlia del mare “la sirena Partenope”».
Le Nemesiache, Manifesto. Festa della poesia alla Gaiola, 11 giugno 1978.