«Noi siamo le donne iraniane, non resteremo incatenate»
«Le proteste non sono solo per il velo ma anche per avere lo stesso
salario dei colleghi maschi, per i diritti delle donne che lavorano, per la libertà
di stampa, per la libertà di parlare, per la libertà di riunirsi»
«Vogliamo decidere, stiamo combattendo per i nostri diritti»
«Non ci sarà nessuna rivoluzione, senza la liberazione delle donne»
8 marzo
1979. Durante la più grande protesta a Teheran migliaia di donne dall’Iran e da
tutto il mondo (si contano tra le 10-15mila presenze) si riversano nelle
strade, proclamano la loro rivolta e celebrano la loro rabbia, segnando l’inizio
di un movimento rivoluzionario di liberazione in un paese islamico. La polizia
spara in aria e respinge la folla, poi carica violentemente ma le manifestanti
urlano: «Non abbiamo paura, noi non abbiamo paura!»
Le voci si sollevano dalla piazza: «Con o senza il velo, tutte noi combattiamo per la libertà». Delle bambine reggono un banner di cartone con scritto: «Siamo contro ogni tirannia» e «Abbatteremo ogni forma reazionaria».
Quelle che non indossano l’hijab dichiarano: «La protesta contro il velo è un’opportunità per incontrarci e solidarizzare. Il velo è una questione maschile. È incredibile. Gli uomini hanno sempre difeso il velo».
«Non sono qui perché non voglio più indossare lo chador, sono qui perché non voglio che le mie figlie siano obbligate a farlo». I soldati presidiano le strade e reagiscono con la forza. È pericoloso. Una ragazza con i capelli lunghi neri racconta: «Quando la nostra rivoluzione è cominciata, tutta la nazione lottava per la libertà contro la dittatura, contro l’imperialismo americano. Uomini e donne protestavano insieme per supportare le richieste politiche in modo unitario […] Quando l’esercito capitolava e la rivoluzione trionfava noi eravamo tutti nelle strade. Poi Khomeini disse “Basta protestare, lasciate le strade!”».
Le donne iraniane si sono radicalizzate in questa lotta. Dopo l’8 marzo, sono seguite altre marce di protesta, manifestazioni a Freedom Square, discussioni e meeting all’Università di Teheran, sit-in di fronte al Ministero della Giustizia. Tutti questi passaggi sono estratti dal documentario Le mouvement de libération des femmes iraniennes – Année zéro, girato in quelle giornate concitate, da filmamakers e giornaliste associate al gruppo francese Politique et Psychanalyse, fondato nel 1968 da Antoinette Fouque, che ha ispirato la “pratica dell’inconscio”, così come è stata chiamata in Italia nei piccoli gruppi di autocoscienza.
16 settembre 2022. Le ragazze sono scese in strada
e hanno dato fuoco al velo. Sono le figlie, le nipoti e le bambine delle donne
che manifestavano nel ‘79 e che ora escono a capo scoperto, si tagliano i
capelli nelle pubbliche piazze e per questo, molte di loro, muoiono.
Sono passati quasi due mesi dall’omicidio di Jîna Mahsa Amini, una giovane originaria della provincia del Kurdistan in visita ai parenti nella capitale, mentre era detenuta dalla polizia morale perché accusata di indossare l’hijab in maniera inappropriata e scorretta, lasciando intravedere una ciocca di capelli. L’episodio ha scatenato una sommossa inarrestabile in tutto il Paese nonostante la repressione brutale e violentissima di ogni dissenso. Dopo 43 anni da quel 8 marzo 1979 le donne e il popolo iraniano sono di nuovo in piazza insieme contro l’ennesimo attacco patriarcale, la violenza misogina della Repubblica islamica e l’obbedienza a una dottrina ultrareligiosa, non solo per i diritti fondamentali ma anche per la sistematica discriminazione delle minoranze, come quella curda e contro l’intero sistema di oppressione che domina l’Iran da oltre quattro decenni dopo la rivoluzione di Khomeini. Il volto di Mahsa Amini è ormai è diventato iconico e noto ovunque, spiega l’attivista Aso Komeni in un’intervista a Maria Edgarda Marcucci, ma chi lo guarda non vede “la morte delle donne e dei giovani in Iran”, vede la loro resistenza.
Nel pieno di una crisi economica aggravata
dalle politiche repressive e dalla crescente militarizzazione, la rimozione del
velo, che le ragazze si sono tolte e hanno sventolato, calpestato e bruciato,
si è trasformata nel simbolo di una rivolta contro il governo autoritario e fondamentalista
che applica la sharia, opprime duramente le donne, le loro vite e ogni libertà.
Contro la tirannia e l’ingiustizia ballano intorno al fuoco. «E noi siamo un
popolo che adora il fuoco – ha scritto la regista iraniana Bani Khoshunoudi, in
una storia su instagram – esso [il fuoco] purifica, pulisce, ci riporta alle
nostre radici. Che questo regime bruci, e che questi fuochi prodotti dalle mani
del nostro popolo, non dalle loro armi, ce ne liberino, una volta per tutte». Nel
2019 la repressione fece 1.500 morti ma questo non ha impedito il ritorno alla
contestazione. Circolano dai social video e immagini di ragazze iraniane che mostrano
quello che pensano del supremo leader e guida spirituale, ritratto in ogni
edificio pubblico, simbolo del regime teocratico degli ayatollah e dello Stato
islamico corrotto, dittatore e assassino: il dito medio. Studentesse e studenti
che cantano “Bella Ciao” in persiano «O tutti insieme o anche da sola / bella
ciao bella ciao / ci svegliamo al chiaro di luna / noi che resteremo svegli
fino all’indomani / alla fine le nostre mani romperanno / in tutto il mondo la
catena dell’oppressione».
Ma è lo slogan urlato da quel 16 settembre «Donne, vita e libertà» a risuonare in tutte le piazze del pianeta. È il potente messaggio del movimento di liberazione curdo e del protagonismo femminile in prima linea nella rivoluzione del Rojava: «Jin, Jiyan, Azadî» che deriva dalla Jineolojî, la scienza delle donne, ora diventato un contrassegno delle connessioni transnazionali oltre i confini dell’Iran e del Kurdistan (che esiste per la storia ma non per la geopolitica e la geografia), ispirando proteste solidali a ogni latitudine. Il popolo curdo combatte e resiste da decenni contro prevaricazioni, massacri e aggressioni sanguinose, tra cui quelle impunite da parte di Erdoğan. Il patriarcato è l’alleato inseparabile del fascismo.
Ora le donne curde e iraniane stanno dimostrando al mondo cos’è il femminismo.
Radicalità e potenza: la sezione femminista di Disobedience Archive [Ders Bitti]
Stiamo vivendo un momento di controffensiva, di reazione alla forza mostrata dal movimento femminista, scrive Verònica Gago, autrice e attivista di Ni Una Menos. La natura anti-capitalista, anti-coloniale e anti-patriarcale della nuova ondata femminista transnazionale, sia storicamente che nei femminismi popolari e di politica decoloniale, spaventa e minaccia il potere costituito perché attiva una dinamica di disobbedienza che le forze reazionarie temono e cercano di contenere o reprimere. “Siamo ovunque”: ora che il femminismo è un fenomeno mondiale, nato nel Sud Globale e con le sue radici più solide in America Latina, si nutre di un internazionalismo che oltrepassa i confini territoriali, crea alleanze transfrontaliere e connette lotte diverse: dall’organizzazione e la chiamata allo sciopero internazionale all’insurrezione Zapatista, l’autonomia del Rojava, le proteste studentesche in Cile, le mobilitazioni e il coordinamento di Nudm per la legalizzazione dell’aborto e la violenza di genere, le lotte di liberazione dei gruppi oppressi, delle soggettività minoritarie, genderizzate e razzializzate, contro povertà, femminicidio, politiche estrattiviste del capitale.
Un capitolo importante di Disobedience Archive [Ders Bitti], attualmente in mostra alla Central Greek High School for Girls di Istanbul e intitolato Feminism Gender Politics, riflette differenti fuochi e temporalità storiche tracciando una sorta di Internazionale Femminista, per dirla ancora con Verònica Gago, cui si aggiunge un’appendice situata nella storia delle lotte delle donne in Turchia, dalle campagne contro la violenza degli anni Ottanta ai movimenti LGBTI+ e le proteste dopo l’uscita dalla Convenzione di Istanbul. Il femminismo, ieri e oggi, ci offre una contro-lettura della forza di insubordinazione.
La moltitudine di insorgenze molecolari e di proteste documentate nel video-archivio Disobedience, ideato e curato da Marco Scotini fin dal 2004 e costruito con la collaborazione diretta di attivisti, artisti e filmmaker, dopo ormai vent’anni di ricerca, esposto nelle principali istituzioni museali internazionali, è cresciuto nel tempo raccogliendo istanze autonome di mobilitazione antagonista e conflitto, archiviando e dis-archiviando le forme della disobbedienza sociale. Invitato alla 17a Biennale di Istanbul, curata da Ute Meta Bauer, Amar Kanwar e David Teh, organizzata dalla Istanbul Foundation for Culture and Arts (İKSV), ospita molteplici “focolai d’enunciazione” – dall’uscita italiana del ’77 e l’analisi del ciclo di lotte operaiste alle proteste post-Seattle, fino alle recenti manifestazioni insurrezionali del mondo arabo – preludio inconsapevole delle forme di sollevazione globale dentro la crisi, nei vari Occupy, per arrivare all’intersezionalità dell’attuale ondata trasnfemminista. L’originaria e potente sezione storica si è ampliata in questa edizione attraverso tre capitoli, Feminism Gender Politics, Radical Pedagogies ed Ecologies, che sono stati riconfigurati da nuove collaborazioni a differenti latitudini con materiali disobbedienti davvero provenienti da ogni angolo del mondo.
La Central Greek High School for Girls è una scuola femminile, abbandonata da oltre vent’anni. Su una delle lavagne, c’era una frase rimasta ancora intatta e scritta con i gessetti che è diventata il sottotitolo di Disobedience Archive: “Ders Bitti”, che in turco significa “la lezione è finita”. La scuola è stata chiusa nel 1999 ma nelle aule sono ancora conservate le attrezzature didattiche, le tavole, i dipinti e le mappe. Istituita per garantire l’istruzione alle ragazze povere la sua missione originaria risuona ancora come un monito: la cultura è uno strumento di emancipazione sociale. L’exhibition display di Can Altay si sviluppa come base funzionale per quello che l’artista definisce il “setting to setting” e che porta in primo piano: banchi di scuola, lavagne e dispositivi, legati alla scolarizzazione femminile, trasformati in strutture espositive che fungono da marcatori spaziali e supporti di prossimità per diverse tipologie di opere e documenti: film d’essay, materiali di contro-informazione, cinema militante e agit-prop, collettivi di comunicazione popolare, video di attivisti.
L’affondo storico-politico sulla Turchia porta alla luce una narrazione potente, che l’artista Cana Bilir-Meier ci presenta attraverso racconti, lettere e frammenti di un archivio personale appartenuto alla sua famiglia, nel tentativo di tratteggiare la vicenda radicale della poetessa, traduttrice, operaia e militante politica Semra Ertan, sua zia che non ha mai conosciuto. La doppia posizione come soggetto di una storia drammatica di immigrazione oltre che oggetto del trauma delle politiche securitarie e dell’esclusione sociale, viene narrato dalla nipote Cana con estratti delle sue poesie e un archivio in formato filmico.
Nata a Mersin, in Turchia, nel 1956, Semra Ertan si era trasferita in Germania all’età di 14 anni, dove i suoi genitori vivevano e lavoravano come “lavoratori ospiti”, quei migranti “gastarbeiter*innen” che incontravano forti risentimenti razziali e violenze da parte dei tedeschi. Già a 15 anni iniziò a scrivere intensamente: oltre 350 poesie e satire politiche con cui ha raccontato sofferenza e rabbia, amore, speranza e uguaglianza sociale, insieme al coraggio di resistere e combattere tutte le ingiustizie. Una delle sue opere più importanti, “Mein Name ist Ausländer” (Il mio nome è straniero), è pubblicata nei libri di scuola turchi.
Come esponente della classe operaia, Semra
Ertan amplifica la denuncia della profonda ingiustizia sociale e dello
sfruttamento nella società capitalista, come donna si è espressa contro la
discriminazione di genere.
Quando nel 1981 alcune delle sue poesie furono pubblicate in un’antologia, Ertan iniziò a cercare altre opportunità editoriali per la propria raccolta in versi. In una lettera a un editore tedesco, scriveva: «Sono nata […] in Turchia e lì ho completato le scuole primarie e secondarie. Qui [in Germania] volevo frequentare il Gymnasium e ottenere un titolo accademico. Dico “volevo”, perché non mi è stato reso possibile […]». Dopo una formazione come disegnatrice tecnico-edile, ha lavorato in varie società. È stata traduttrice volontaria per gli stranieri che non parlavano il tedesco durante gli incontri con le autorità pubbliche. Semra Ertan era politicamente attiva e ha manifestato apertamente contro un’organizzazione di facciata del partito neonazista tedesco NPD, candidata alle elezioni come “Hamburger Liste für Ausländerstopp” (Lista per fermare gli Stranieri ad Amburgo) nel 1982. Ha lottato contro il razzismo e contro la separatezza di classe, per la parità di genere e la conquista dei diritti dei lavoratori.
«I tedeschi
dovrebbero vergognarsi di sé stessi. Nel 1961 avete detto: “Benvenuti,
lavoratori ospiti”. Se tutti noi ripartissimo, chi farebbe il lavoro sporco?
Chi lavorerebbe? Quale persona lavorerebbe in fonderia, facendo il lavoro
sporco?
Voglio che gli stranieri non solo abbiano il diritto di vivere come esseri umani, ma che abbiano anche il diritto di essere trattati come esseri umani. È tutto. Voglio che le persone si amino e si accettino. E voglio che pensino alla mia morte»: con queste parole, contatta l’emittente televisiva NDR (Norddeutscher Rundfunk) per attirare l’attenzione sulla miseria dei suoi connazionali turchi prima con uno sciopero della fame, poi annunciando il suo suicidio per auto-immolazione, cospargendosi di benzina per darsi fuoco. A soli 25 anni, si è bruciata pubblicamente nelle prime ore del mattino all’incrocio tra Simon-von-Utrecht-Strasse e Detlef-Bremer-Straße nel quartiere St. Pauli di Amburgo, il 24 maggio 1982. Ertan si è cosparsa con i 5 litri di benzina con cui aveva riempito una tanica la mattina stessa in una stazione di servizio e si è incendiata. Un’unità di polizia passava davanti al mercato e ha tentato di spegnere le fiamme ma Semra Ertan è morta dopo due giorni in ospedale.
La denuncia delle verità scomode dell’oppressione razziale, la crescente xenofobia e la discriminazione di classe, la miseria delle condizioni dei lavoratori stranieri e il rifiuto delle disuguaglianze di genere, attraverso il suo terribile gesto, invitava alla solidarietà e alla speranza per un futuro diverso, senza più ingiustizie. Le questioni che Semra Ertan ha affrontato nella sua breve attività poetica, dal desiderio di libertà e di indipendenza delle comunità di migranti, alla ribellione contro il fascismo, il capitalismo e il patriarcato, sono ancora oggi terreno di scontro politico nell’agenda femminista, innervate nelle lotte che stiamo ancora combattendo.
I tre contributi dell’artista turco Ege Berensel si concentrano su tre found footages politici, filmati separatamente negli anni ‘70 da donne cineaste e gruppi cinematografici femminili, ritrovati dall’artista dagli inizi degli anni 2000 in un mercatino delle pulci. Il primo racconta l’operazione di trasmissione di circa trenta rotoli da 8 mm, sulla corrispondenza mai recapitata dopo trent’anni di attesa, di una regista militante, che, costretta a scappare era rientrata nel settembre 1980 e obbligata a cambiare indirizzo, senza avere più la possibilità di recuperare i rotoli.
Il secondo filmato si concentra su un rullino da 8 mm di una ventina di minuti girato dalle donne di İKD (İlerici Kadınlar Derneği – Progressives Women Association). Con la testimonianza delle attiviste, questo documento si trasforma nella riproduzione di una marcia di protesta tenutasi ad Ankara contro la chiusura dell’Associazione da parte dello Stato nel 1979. Sempre recuperato dall’artista in un bazar, il terzo lavoro registra e racconta lo sciopero Bakırköy Sümerbank del 1977 di TEKSİF (un sindacato delle lavoratrici tessili) ripreso in 16 mm da donne.
La video-intervista di Doğa Yirik tenta di documentare alcuni dei ricordi dimenticati della nonna Kıymet Karakoç (1939) colpita da una crisi irreversibile e terminale di demenza. Il titolo si riferisce a una dichiarazione di Karakoç che mostra indifferenza per la sua identità. A causa di queste condizioni, le memorie sia personali che collettive, della sua famiglia e dell’epoca che ha attraversato, non hanno più alcun valore. Guidata dalle domande del nipote, Kıymet tenta di tratteggiare le vicende che ha vissuto, in un racconto incoerente e inconsistente che riaffiora forse per corroborare la paura della cancellazione della memoria pubblica e della nostra storia politica e sociale.
Dal 20 marzo 2021 in poi, i movimenti delle donne e LGBTI+ si sono attivati per difendere la Convenzione di Istanbul in molte province della Turchia. I video di Güliz Sağlam – regista indipendente e video-attivista, che affronta nella sua produzione temi sociali come l’immigrazione, gli scioperi delle lavoratrici, le campagne di solidarietà delle organizzazioni femminili – documentano le mobilitazioni seguite all’appello della campagna di attuazione della Convenzione di Istanbul a Tünel il 1 luglio 2021, per protestare contro lo Stato patriarcale in Turchia e il ritiro dal trattato.
Centinaia di donne in marcia scandiscono e cantano slogan come “Le donne sono forti quando unite”, “Azione immediata contro il femminicidio, ora!”, tra gli altri. Insieme ai lavori presenti in questa sezione, la registrazione della marcia e il comunicato stampa delle donne e della comunità LGBTQI+ davanti al Centro Culturale Francese per la 16th Feminist Night March tenutasi nel 2018, nonostante lo stato di emergenza, la pioggia e la barricata contrapposta dalle forze di sicurezza lungo Istiklal Caddesi. Segue la dimostrazione alla stampa e l’appello di Emergency Action Group against Femicide in risposta ai sei femminicidi avvenuti in soli due giorni. Dopo aver fatto irruzione nella Direzione Provinciale della Famiglia e delle Politiche Sociali a Istanbul le manifestanti hanno appeso uno striscione alla finestra dell’edificio.
Il Colectivo Cine-Mujer, attivo in Messico dal 1975 al 1987, nel mezzo dell’effervescenza sociale, politica e culturale degli anni ’70, è da considerarsi come precursore di un cinema femminista, emancipatore e politico. Formato da alcune studentesse del Centro Universitario de Estudios Cinematográficos (CUEC) de la Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM) – per citarne solo alcune, Rosa Martha Fernández, Maru Tamés, Mari Carmen de Lara e Beatriz Mira – Cine-Mujer ha usato il mezzo filmico come strumento per sovvertire le strutture e le rappresentazioni patriarcali della società messicana dell’epoca.
Il documentario Cosas de mujeres, diretto da Rosa Martha
Fernandez nel 1978 – una delle fondatrici del collettivo femminista messicano Cine-Mujer – narra, attraverso
l’intreccio di documentario e finzione, l’oppressione e i diversi tipi di
violenza che giovani donne delle classi popolari subiscono a causa di una
gravidanza indesiderata. La scelta dell’aborto clandestino, nonostante
l’infrazione del codice penale, si presenta come l’unica via di fuga contro la
violenza patriarcale.
Il 19 settembre 1985 un violento terremoto colpisce Città del Messico, provocando enormi danni e la morte di circa 5.000 persone. No les pedimos un viaje a la luna di Mari Carmen De Lara realizzato subito dopo, traccia l’impatto di questo terribile evento sugli oltre 40.000 operai tessili rimasti disoccupati e senza diritto alla liquidazione. Lavorando con un gruppo di sole donne, Mari Carmen de Lara è testimone della lotta delle sarte che, in seguito al crollo delle fabbriche di abbigliamento dove lavoravano, si sollevano per rivendicare i propri diritti, e cercano di istituire un sindacato indipendente, documentando i tentativi di ottenere un risarcimento e migliori condizioni lavorative all’indomani della catastrofe.
“Non stiamo chiedendo un viaggio sulla luna, stiamo semplicemente cercando i nostri diritti secondo la legge. Niente di più”, spiega la sarta Guadalupe Conde durante una protesta davanti al Mexican Secretariat of Labor and Social Welfare. Dall’inizio degli anni ‘80, Lara è stata membro di Cine Mujer, un collettivo fondato nel 1975. Nelle parole di una delle fondatrici Rosa Martha Fernandez, l’obiettivo del gruppo era “svelare ciò che è apparentemente ‘naturale’ nell’oppressione; per denunciare gli interessi politici, economici e culturali che sono dietro allo sfruttamento sociale”.
Sisters! è una collaborazione tra l’artista svedese Petra Bauer e Southall Black Sisters – l’organizzazione femminista radicale e pionieristica con sede a Londra, che dal 1979 è politicamente impegnata sul fronte delle condizioni politiche e sociali contemporanee delle donne nere e delle minoranze. Documentando una settimana della vita dell’organizzazione, il film utilizza le loro attività quotidiane come trampolino per una discussione visiva su femminismo, politica ed estetica nella società odierna. Il film si chiede cosa accade quando le istanze del Women’s Liberation movement degli anni ‘70 (in particolare quelle esplorate dai collettivi cinematografici femministi del tempo) sono collocate nel contesto politico contemporaneo, e di conseguenza, quali sono le questioni femministe rilevanti e quali sono le questioni più urgenti per le donne nere e delle minoranze oggi.
Archivi femministi alla 17th Istanbul Biennial: The Public Life of Women. A Feminist Memory Project e In Time/On Ground (Nepal-Turchia).
The Public Life of Women A Feminist Memory Project (2018-ongoing) è un archivio delle donne nepalesi raccolto da Nepal Picture Library ed esposto alla 17th Istanbul Biennial: «Diventare pubblico è diventare visibile e avere un peso nella storia». Il viaggio delle donne nepalesi dai confini della vita domestica all’apertura alla dimensione pubblica è un passaggio dall’oscurità alla memoria; rendere accessibile questi materiali è una strategia femminista, che fa riaffiorare il passato per avanzare con la causa della liberazione. L’esposizione di tracce documentali strutturata in più formati, nel contesto della Biennale è un atto di volontà delle donne nepalesi di riscrivere la memoria pubblica delle lotte politiche, le assemblee, le battaglie per i diritti civili e per l’istruzione, la libertà di raccontare il mondo, combattere la propria oppressione e rompere le norme sociali.
Il secondo archivio, In Time/On Ground, iniziato come dialogo con il Feminist Memory Project della Nepal Picture Library, è stato creato da Merve Elveren e Çağla Özbek in collaborazione con la Women’s Library e l’Information Centre Foundation (WLICF), invitando alcune interlocutrici – tra cui Ayşe Düzkan, Merve Kaptan, Zeynep Sayın, Dilek Winchester e Çatlak Zemin – a ricercare e attraversare gli archivi della Biblioteca delle donne, un’istituzione unica in Turchia, gestita dal 1990 da Istanbul Greater Municipality e WLICF, impegnata a sopravvivere in un clima politico instabile. Anziché ricostruire una cronologia del movimento femminista turco, il progetto si concentra sui folders della biblioteca, finora lasciati ai margini delle narrazioni femministe tradizionali, con l’apertura delle cartelle per tentare di completare, con le lotte intersezionali del presente, la più ampia collezione dedicata alla storia delle donne, organizzata negli anni Ottanta a partire dalla prima campagna contro la violenza di genere fino a trasformarsi in un’organizzazione collettiva, archiviando libri, riviste e pubblicazioni autoprodotte, fotografie, audiovisivi e documenti filmici e cartacei, in continuo dialogo con la recente ondata femminista transnazionale.
La piattaforma femminista Çatlak Zeminsin questo contesto ha dialogato con i materiali dell’archivio del Women’s Works Library and Information Center Foundation (WLCIF).
Uno degli sforzi maggiori
del contesto femminista in Turchia a partire dal 2016, quando è stata fondata Çatlak
Zemins, da donne che fanno parte del movimento di strada, è stato quello di
registrare la memoria femminista. Rendere accessibile a tutti la storia, che da
anni veniva trasmessa oralmente, creando una pratica di archiviazione (e di
storiografia) femminista. Come scrivono nell’editoriale sul sito web, Çatlak
Zemin è stata fondata per “rinnovare le nostre radici e le nostre relazioni femministe;
rafforzare il discorso femminista sulla base delle donne e potenziare le donne
sulla base del discorso femminista”.
Divulgare il discorso femminista, le esperienze delle donne e la politica femminista, le loro idee e prospettive sul movimento che ha le sue origini nelle battaglie degli anni Ottanta, con la Campaign Against Beating, la prima azione che ha avuto luogo nel parco Yoğurtçu, il Purple Needle e la mostra del Museo Kariye come componenti importanti dell’archivio femminista del WLCIF e che oggi dialoga con le sfide poste dal presente negli spazi del Pera Museum.
Archives des luttes des femmes en Algerie a documenta fifteen
«Gli archivi sono estremamente politici e possono decostruire, soprattutto, la storia ufficiale» ci dicono Archives des luttes des femmes en Algérie, tra le realtà invitate alla documenta fifteen. Disarmare il potere, rispetto all’eredità storicistica e coloniale delle istituzioni; rompere la centralità delle narrazioni eteronormative, fondate su rapporti di razza, classe e di ordine patriarcale, dare voce ai corpi disobbedienti, rimasti invisibilizzati e silenziati nei documenti ufficiali; aprire i sigilli della storia e creare delle contro-storie o delle narrazioni contro-egemoniche.
Archives des luttes des femmes en Algérie è infatti un’iniziativa collettiva indipendente che intende ricostruire la geneaologia politica delle organizzazioni femminili e femministe in Algeria del 1962 fino ad oggi. Nel cuore del Fridericianum, in un segmento temporale a partire dal 1989 attraverso crono-dissidenze, filmati, interviste e timelines, la rivolta delle donne occupa le strade, costruisce assemblee, crea potere nei corpi-territorio per rivendicare diritti e libertà. Le tracce documentarie sono state digitalizzate e rese accessibili non solo per far riaffiorare una storia che è stata marginalizzata e rimossa ma anche per fornire una serie di strumenti utili per la riflessione e la lotta politica nel presente, per arginare la controffensiva neoliberale, da una prospettiva decoloniale e intersezionale, aprendo spazi antagonisti anche dentro le istituzioni artistiche.
Testo di Elvira Vannini. Le sinossi di Ege Berensel, Güliz Sağlam e Petra Bauer sono riprese dalla brochure di Disobedience Archive [Ders Bitti], quelle del Colectivo Cine-Mujer e Mari Carmen De Lara sono di Roberta Garieri.
L’immagine di miniatura è di Ege Berensel, Fata Morgana, 2018.
«Noi siamo le donne iraniane, non resteremo incatenate»
«Le proteste non sono solo per il velo ma anche per avere lo stesso salario dei colleghi maschi, per i diritti delle donne che lavorano, per la libertà di stampa, per la libertà di parlare, per la libertà di riunirsi»
«Vogliamo decidere, stiamo combattendo per i nostri diritti»
«Non ci sarà nessuna rivoluzione, senza la liberazione delle donne»
8 marzo 1979. Durante la più grande protesta a Teheran migliaia di donne dall’Iran e da tutto il mondo (si contano tra le 10-15mila presenze) si riversano nelle strade, proclamano la loro rivolta e celebrano la loro rabbia, segnando l’inizio di un movimento rivoluzionario di liberazione in un paese islamico. La polizia spara in aria e respinge la folla, poi carica violentemente ma le manifestanti urlano: «Non abbiamo paura, noi non abbiamo paura!»
Le voci si sollevano dalla piazza: «Con o senza il velo, tutte noi combattiamo per la libertà». Delle bambine reggono un banner di cartone con scritto: «Siamo contro ogni tirannia» e «Abbatteremo ogni forma reazionaria».
Quelle che non indossano l’hijab dichiarano: «La protesta contro il velo è un’opportunità per incontrarci e solidarizzare. Il velo è una questione maschile. È incredibile. Gli uomini hanno sempre difeso il velo».
«Non sono qui perché non voglio più indossare lo chador, sono qui perché non voglio che le mie figlie siano obbligate a farlo». I soldati presidiano le strade e reagiscono con la forza. È pericoloso. Una ragazza con i capelli lunghi neri racconta: «Quando la nostra rivoluzione è cominciata, tutta la nazione lottava per la libertà contro la dittatura, contro l’imperialismo americano. Uomini e donne protestavano insieme per supportare le richieste politiche in modo unitario […] Quando l’esercito capitolava e la rivoluzione trionfava noi eravamo tutti nelle strade. Poi Khomeini disse “Basta protestare, lasciate le strade!”».
Le donne iraniane si sono radicalizzate in questa lotta. Dopo l’8 marzo, sono seguite altre marce di protesta, manifestazioni a Freedom Square, discussioni e meeting all’Università di Teheran, sit-in di fronte al Ministero della Giustizia. Tutti questi passaggi sono estratti dal documentario Le mouvement de libération des femmes iraniennes – Année zéro, girato in quelle giornate concitate, da filmamakers e giornaliste associate al gruppo francese Politique et Psychanalyse, fondato nel 1968 da Antoinette Fouque, che ha ispirato la “pratica dell’inconscio”, così come è stata chiamata in Italia nei piccoli gruppi di autocoscienza.
16 settembre 2022. Le ragazze sono scese in strada e hanno dato fuoco al velo. Sono le figlie, le nipoti e le bambine delle donne che manifestavano nel ‘79 e che ora escono a capo scoperto, si tagliano i capelli nelle pubbliche piazze e per questo, molte di loro, muoiono.
Sono passati quasi due mesi dall’omicidio di Jîna Mahsa Amini, una giovane originaria della provincia del Kurdistan in visita ai parenti nella capitale, mentre era detenuta dalla polizia morale perché accusata di indossare l’hijab in maniera inappropriata e scorretta, lasciando intravedere una ciocca di capelli. L’episodio ha scatenato una sommossa inarrestabile in tutto il Paese nonostante la repressione brutale e violentissima di ogni dissenso. Dopo 43 anni da quel 8 marzo 1979 le donne e il popolo iraniano sono di nuovo in piazza insieme contro l’ennesimo attacco patriarcale, la violenza misogina della Repubblica islamica e l’obbedienza a una dottrina ultrareligiosa, non solo per i diritti fondamentali ma anche per la sistematica discriminazione delle minoranze, come quella curda e contro l’intero sistema di oppressione che domina l’Iran da oltre quattro decenni dopo la rivoluzione di Khomeini. Il volto di Mahsa Amini è ormai è diventato iconico e noto ovunque, spiega l’attivista Aso Komeni in un’intervista a Maria Edgarda Marcucci, ma chi lo guarda non vede “la morte delle donne e dei giovani in Iran”, vede la loro resistenza.
Nel pieno di una crisi economica aggravata dalle politiche repressive e dalla crescente militarizzazione, la rimozione del velo, che le ragazze si sono tolte e hanno sventolato, calpestato e bruciato, si è trasformata nel simbolo di una rivolta contro il governo autoritario e fondamentalista che applica la sharia, opprime duramente le donne, le loro vite e ogni libertà. Contro la tirannia e l’ingiustizia ballano intorno al fuoco. «E noi siamo un popolo che adora il fuoco – ha scritto la regista iraniana Bani Khoshunoudi, in una storia su instagram – esso [il fuoco] purifica, pulisce, ci riporta alle nostre radici. Che questo regime bruci, e che questi fuochi prodotti dalle mani del nostro popolo, non dalle loro armi, ce ne liberino, una volta per tutte». Nel 2019 la repressione fece 1.500 morti ma questo non ha impedito il ritorno alla contestazione. Circolano dai social video e immagini di ragazze iraniane che mostrano quello che pensano del supremo leader e guida spirituale, ritratto in ogni edificio pubblico, simbolo del regime teocratico degli ayatollah e dello Stato islamico corrotto, dittatore e assassino: il dito medio. Studentesse e studenti che cantano “Bella Ciao” in persiano «O tutti insieme o anche da sola / bella ciao bella ciao / ci svegliamo al chiaro di luna / noi che resteremo svegli fino all’indomani / alla fine le nostre mani romperanno / in tutto il mondo la catena dell’oppressione».
Ma è lo slogan urlato da quel 16 settembre «Donne, vita e libertà» a risuonare in tutte le piazze del pianeta. È il potente messaggio del movimento di liberazione curdo e del protagonismo femminile in prima linea nella rivoluzione del Rojava: «Jin, Jiyan, Azadî» che deriva dalla Jineolojî, la scienza delle donne, ora diventato un contrassegno delle connessioni transnazionali oltre i confini dell’Iran e del Kurdistan (che esiste per la storia ma non per la geopolitica e la geografia), ispirando proteste solidali a ogni latitudine. Il popolo curdo combatte e resiste da decenni contro prevaricazioni, massacri e aggressioni sanguinose, tra cui quelle impunite da parte di Erdoğan. Il patriarcato è l’alleato inseparabile del fascismo.
Ora le donne curde e iraniane stanno dimostrando al mondo cos’è il femminismo.
Radicalità e potenza: la sezione femminista di Disobedience Archive [Ders Bitti]
Stiamo vivendo un momento di controffensiva, di reazione alla forza mostrata dal movimento femminista, scrive Verònica Gago, autrice e attivista di Ni Una Menos. La natura anti-capitalista, anti-coloniale e anti-patriarcale della nuova ondata femminista transnazionale, sia storicamente che nei femminismi popolari e di politica decoloniale, spaventa e minaccia il potere costituito perché attiva una dinamica di disobbedienza che le forze reazionarie temono e cercano di contenere o reprimere. “Siamo ovunque”: ora che il femminismo è un fenomeno mondiale, nato nel Sud Globale e con le sue radici più solide in America Latina, si nutre di un internazionalismo che oltrepassa i confini territoriali, crea alleanze transfrontaliere e connette lotte diverse: dall’organizzazione e la chiamata allo sciopero internazionale all’insurrezione Zapatista, l’autonomia del Rojava, le proteste studentesche in Cile, le mobilitazioni e il coordinamento di Nudm per la legalizzazione dell’aborto e la violenza di genere, le lotte di liberazione dei gruppi oppressi, delle soggettività minoritarie, genderizzate e razzializzate, contro povertà, femminicidio, politiche estrattiviste del capitale.
Un capitolo importante di Disobedience Archive [Ders Bitti], attualmente in mostra alla Central Greek High School for Girls di Istanbul e intitolato Feminism Gender Politics, riflette differenti fuochi e temporalità storiche tracciando una sorta di Internazionale Femminista, per dirla ancora con Verònica Gago, cui si aggiunge un’appendice situata nella storia delle lotte delle donne in Turchia, dalle campagne contro la violenza degli anni Ottanta ai movimenti LGBTI+ e le proteste dopo l’uscita dalla Convenzione di Istanbul. Il femminismo, ieri e oggi, ci offre una contro-lettura della forza di insubordinazione.
La moltitudine di insorgenze molecolari e di proteste documentate nel video-archivio Disobedience, ideato e curato da Marco Scotini fin dal 2004 e costruito con la collaborazione diretta di attivisti, artisti e filmmaker, dopo ormai vent’anni di ricerca, esposto nelle principali istituzioni museali internazionali, è cresciuto nel tempo raccogliendo istanze autonome di mobilitazione antagonista e conflitto, archiviando e dis-archiviando le forme della disobbedienza sociale. Invitato alla 17a Biennale di Istanbul, curata da Ute Meta Bauer, Amar Kanwar e David Teh, organizzata dalla Istanbul Foundation for Culture and Arts (İKSV), ospita molteplici “focolai d’enunciazione” – dall’uscita italiana del ’77 e l’analisi del ciclo di lotte operaiste alle proteste post-Seattle, fino alle recenti manifestazioni insurrezionali del mondo arabo – preludio inconsapevole delle forme di sollevazione globale dentro la crisi, nei vari Occupy, per arrivare all’intersezionalità dell’attuale ondata trasnfemminista. L’originaria e potente sezione storica si è ampliata in questa edizione attraverso tre capitoli, Feminism Gender Politics, Radical Pedagogies ed Ecologies, che sono stati riconfigurati da nuove collaborazioni a differenti latitudini con materiali disobbedienti davvero provenienti da ogni angolo del mondo.
La Central Greek High School for Girls è una scuola femminile, abbandonata da oltre vent’anni. Su una delle lavagne, c’era una frase rimasta ancora intatta e scritta con i gessetti che è diventata il sottotitolo di Disobedience Archive: “Ders Bitti”, che in turco significa “la lezione è finita”. La scuola è stata chiusa nel 1999 ma nelle aule sono ancora conservate le attrezzature didattiche, le tavole, i dipinti e le mappe. Istituita per garantire l’istruzione alle ragazze povere la sua missione originaria risuona ancora come un monito: la cultura è uno strumento di emancipazione sociale. L’exhibition display di Can Altay si sviluppa come base funzionale per quello che l’artista definisce il “setting to setting” e che porta in primo piano: banchi di scuola, lavagne e dispositivi, legati alla scolarizzazione femminile, trasformati in strutture espositive che fungono da marcatori spaziali e supporti di prossimità per diverse tipologie di opere e documenti: film d’essay, materiali di contro-informazione, cinema militante e agit-prop, collettivi di comunicazione popolare, video di attivisti.
L’affondo storico-politico sulla Turchia porta alla luce una narrazione potente, che l’artista Cana Bilir-Meier ci presenta attraverso racconti, lettere e frammenti di un archivio personale appartenuto alla sua famiglia, nel tentativo di tratteggiare la vicenda radicale della poetessa, traduttrice, operaia e militante politica Semra Ertan, sua zia che non ha mai conosciuto. La doppia posizione come soggetto di una storia drammatica di immigrazione oltre che oggetto del trauma delle politiche securitarie e dell’esclusione sociale, viene narrato dalla nipote Cana con estratti delle sue poesie e un archivio in formato filmico.
Nata a Mersin, in Turchia, nel 1956, Semra Ertan si era trasferita in Germania all’età di 14 anni, dove i suoi genitori vivevano e lavoravano come “lavoratori ospiti”, quei migranti “gastarbeiter*innen” che incontravano forti risentimenti razziali e violenze da parte dei tedeschi. Già a 15 anni iniziò a scrivere intensamente: oltre 350 poesie e satire politiche con cui ha raccontato sofferenza e rabbia, amore, speranza e uguaglianza sociale, insieme al coraggio di resistere e combattere tutte le ingiustizie. Una delle sue opere più importanti, “Mein Name ist Ausländer” (Il mio nome è straniero), è pubblicata nei libri di scuola turchi.
Come esponente della classe operaia, Semra Ertan amplifica la denuncia della profonda ingiustizia sociale e dello sfruttamento nella società capitalista, come donna si è espressa contro la discriminazione di genere.
Quando nel 1981 alcune delle sue poesie furono pubblicate in un’antologia, Ertan iniziò a cercare altre opportunità editoriali per la propria raccolta in versi. In una lettera a un editore tedesco, scriveva: «Sono nata […] in Turchia e lì ho completato le scuole primarie e secondarie. Qui [in Germania] volevo frequentare il Gymnasium e ottenere un titolo accademico. Dico “volevo”, perché non mi è stato reso possibile […]». Dopo una formazione come disegnatrice tecnico-edile, ha lavorato in varie società. È stata traduttrice volontaria per gli stranieri che non parlavano il tedesco durante gli incontri con le autorità pubbliche. Semra Ertan era politicamente attiva e ha manifestato apertamente contro un’organizzazione di facciata del partito neonazista tedesco NPD, candidata alle elezioni come “Hamburger Liste für Ausländerstopp” (Lista per fermare gli Stranieri ad Amburgo) nel 1982. Ha lottato contro il razzismo e contro la separatezza di classe, per la parità di genere e la conquista dei diritti dei lavoratori.
«I tedeschi dovrebbero vergognarsi di sé stessi. Nel 1961 avete detto: “Benvenuti, lavoratori ospiti”. Se tutti noi ripartissimo, chi farebbe il lavoro sporco? Chi lavorerebbe? Quale persona lavorerebbe in fonderia, facendo il lavoro sporco?
Voglio che gli stranieri non solo abbiano il diritto di vivere come esseri umani, ma che abbiano anche il diritto di essere trattati come esseri umani. È tutto. Voglio che le persone si amino e si accettino. E voglio che pensino alla mia morte»: con queste parole, contatta l’emittente televisiva NDR (Norddeutscher Rundfunk) per attirare l’attenzione sulla miseria dei suoi connazionali turchi prima con uno sciopero della fame, poi annunciando il suo suicidio per auto-immolazione, cospargendosi di benzina per darsi fuoco. A soli 25 anni, si è bruciata pubblicamente nelle prime ore del mattino all’incrocio tra Simon-von-Utrecht-Strasse e Detlef-Bremer-Straße nel quartiere St. Pauli di Amburgo, il 24 maggio 1982. Ertan si è cosparsa con i 5 litri di benzina con cui aveva riempito una tanica la mattina stessa in una stazione di servizio e si è incendiata. Un’unità di polizia passava davanti al mercato e ha tentato di spegnere le fiamme ma Semra Ertan è morta dopo due giorni in ospedale.
La denuncia delle verità scomode dell’oppressione razziale, la crescente xenofobia e la discriminazione di classe, la miseria delle condizioni dei lavoratori stranieri e il rifiuto delle disuguaglianze di genere, attraverso il suo terribile gesto, invitava alla solidarietà e alla speranza per un futuro diverso, senza più ingiustizie. Le questioni che Semra Ertan ha affrontato nella sua breve attività poetica, dal desiderio di libertà e di indipendenza delle comunità di migranti, alla ribellione contro il fascismo, il capitalismo e il patriarcato, sono ancora oggi terreno di scontro politico nell’agenda femminista, innervate nelle lotte che stiamo ancora combattendo.
I tre contributi dell’artista turco Ege Berensel si concentrano su tre found footages politici, filmati separatamente negli anni ‘70 da donne cineaste e gruppi cinematografici femminili, ritrovati dall’artista dagli inizi degli anni 2000 in un mercatino delle pulci. Il primo racconta l’operazione di trasmissione di circa trenta rotoli da 8 mm, sulla corrispondenza mai recapitata dopo trent’anni di attesa, di una regista militante, che, costretta a scappare era rientrata nel settembre 1980 e obbligata a cambiare indirizzo, senza avere più la possibilità di recuperare i rotoli.
Il secondo filmato si concentra su un rullino da 8 mm di una ventina di minuti girato dalle donne di İKD (İlerici Kadınlar Derneği – Progressives Women Association). Con la testimonianza delle attiviste, questo documento si trasforma nella riproduzione di una marcia di protesta tenutasi ad Ankara contro la chiusura dell’Associazione da parte dello Stato nel 1979. Sempre recuperato dall’artista in un bazar, il terzo lavoro registra e racconta lo sciopero Bakırköy Sümerbank del 1977 di TEKSİF (un sindacato delle lavoratrici tessili) ripreso in 16 mm da donne.
La video-intervista di Doğa Yirik tenta di documentare alcuni dei ricordi dimenticati della nonna Kıymet Karakoç (1939) colpita da una crisi irreversibile e terminale di demenza. Il titolo si riferisce a una dichiarazione di Karakoç che mostra indifferenza per la sua identità. A causa di queste condizioni, le memorie sia personali che collettive, della sua famiglia e dell’epoca che ha attraversato, non hanno più alcun valore. Guidata dalle domande del nipote, Kıymet tenta di tratteggiare le vicende che ha vissuto, in un racconto incoerente e inconsistente che riaffiora forse per corroborare la paura della cancellazione della memoria pubblica e della nostra storia politica e sociale.
Dal 20 marzo 2021 in poi, i movimenti delle donne e LGBTI+ si sono attivati per difendere la Convenzione di Istanbul in molte province della Turchia. I video di Güliz Sağlam – regista indipendente e video-attivista, che affronta nella sua produzione temi sociali come l’immigrazione, gli scioperi delle lavoratrici, le campagne di solidarietà delle organizzazioni femminili – documentano le mobilitazioni seguite all’appello della campagna di attuazione della Convenzione di Istanbul a Tünel il 1 luglio 2021, per protestare contro lo Stato patriarcale in Turchia e il ritiro dal trattato.
Centinaia di donne in marcia scandiscono e cantano slogan come “Le donne sono forti quando unite”, “Azione immediata contro il femminicidio, ora!”, tra gli altri. Insieme ai lavori presenti in questa sezione, la registrazione della marcia e il comunicato stampa delle donne e della comunità LGBTQI+ davanti al Centro Culturale Francese per la 16th Feminist Night March tenutasi nel 2018, nonostante lo stato di emergenza, la pioggia e la barricata contrapposta dalle forze di sicurezza lungo Istiklal Caddesi. Segue la dimostrazione alla stampa e l’appello di Emergency Action Group against Femicide in risposta ai sei femminicidi avvenuti in soli due giorni. Dopo aver fatto irruzione nella Direzione Provinciale della Famiglia e delle Politiche Sociali a Istanbul le manifestanti hanno appeso uno striscione alla finestra dell’edificio.
Il Colectivo Cine-Mujer, attivo in Messico dal 1975 al 1987, nel mezzo dell’effervescenza sociale, politica e culturale degli anni ’70, è da considerarsi come precursore di un cinema femminista, emancipatore e politico. Formato da alcune studentesse del Centro Universitario de Estudios Cinematográficos (CUEC) de la Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM) – per citarne solo alcune, Rosa Martha Fernández, Maru Tamés, Mari Carmen de Lara e Beatriz Mira – Cine-Mujer ha usato il mezzo filmico come strumento per sovvertire le strutture e le rappresentazioni patriarcali della società messicana dell’epoca.
Il documentario Cosas de mujeres, diretto da Rosa Martha Fernandez nel 1978 – una delle fondatrici del collettivo femminista messicano Cine-Mujer – narra, attraverso l’intreccio di documentario e finzione, l’oppressione e i diversi tipi di violenza che giovani donne delle classi popolari subiscono a causa di una gravidanza indesiderata. La scelta dell’aborto clandestino, nonostante l’infrazione del codice penale, si presenta come l’unica via di fuga contro la violenza patriarcale.
Il 19 settembre 1985 un violento terremoto colpisce Città del Messico, provocando enormi danni e la morte di circa 5.000 persone. No les pedimos un viaje a la luna di Mari Carmen De Lara realizzato subito dopo, traccia l’impatto di questo terribile evento sugli oltre 40.000 operai tessili rimasti disoccupati e senza diritto alla liquidazione. Lavorando con un gruppo di sole donne, Mari Carmen de Lara è testimone della lotta delle sarte che, in seguito al crollo delle fabbriche di abbigliamento dove lavoravano, si sollevano per rivendicare i propri diritti, e cercano di istituire un sindacato indipendente, documentando i tentativi di ottenere un risarcimento e migliori condizioni lavorative all’indomani della catastrofe.
“Non stiamo chiedendo un viaggio sulla luna, stiamo semplicemente cercando i nostri diritti secondo la legge. Niente di più”, spiega la sarta Guadalupe Conde durante una protesta davanti al Mexican Secretariat of Labor and Social Welfare. Dall’inizio degli anni ‘80, Lara è stata membro di Cine Mujer, un collettivo fondato nel 1975. Nelle parole di una delle fondatrici Rosa Martha Fernandez, l’obiettivo del gruppo era “svelare ciò che è apparentemente ‘naturale’ nell’oppressione; per denunciare gli interessi politici, economici e culturali che sono dietro allo sfruttamento sociale”.
Sisters! è una collaborazione tra l’artista svedese Petra Bauer e Southall Black Sisters – l’organizzazione femminista radicale e pionieristica con sede a Londra, che dal 1979 è politicamente impegnata sul fronte delle condizioni politiche e sociali contemporanee delle donne nere e delle minoranze. Documentando una settimana della vita dell’organizzazione, il film utilizza le loro attività quotidiane come trampolino per una discussione visiva su femminismo, politica ed estetica nella società odierna. Il film si chiede cosa accade quando le istanze del Women’s Liberation movement degli anni ‘70 (in particolare quelle esplorate dai collettivi cinematografici femministi del tempo) sono collocate nel contesto politico contemporaneo, e di conseguenza, quali sono le questioni femministe rilevanti e quali sono le questioni più urgenti per le donne nere e delle minoranze oggi.
Archivi femministi alla 17th Istanbul Biennial: The Public Life of Women. A Feminist Memory Project e In Time/On Ground (Nepal-Turchia).
The Public Life of Women A Feminist Memory Project (2018-ongoing) è un archivio delle donne nepalesi raccolto da Nepal Picture Library ed esposto alla 17th Istanbul Biennial: «Diventare pubblico è diventare visibile e avere un peso nella storia». Il viaggio delle donne nepalesi dai confini della vita domestica all’apertura alla dimensione pubblica è un passaggio dall’oscurità alla memoria; rendere accessibile questi materiali è una strategia femminista, che fa riaffiorare il passato per avanzare con la causa della liberazione. L’esposizione di tracce documentali strutturata in più formati, nel contesto della Biennale è un atto di volontà delle donne nepalesi di riscrivere la memoria pubblica delle lotte politiche, le assemblee, le battaglie per i diritti civili e per l’istruzione, la libertà di raccontare il mondo, combattere la propria oppressione e rompere le norme sociali.
Il secondo archivio, In Time/On Ground, iniziato come dialogo con il Feminist Memory Project della Nepal Picture Library, è stato creato da Merve Elveren e Çağla Özbek in collaborazione con la Women’s Library e l’Information Centre Foundation (WLICF), invitando alcune interlocutrici – tra cui Ayşe Düzkan, Merve Kaptan, Zeynep Sayın, Dilek Winchester e Çatlak Zemin – a ricercare e attraversare gli archivi della Biblioteca delle donne, un’istituzione unica in Turchia, gestita dal 1990 da Istanbul Greater Municipality e WLICF, impegnata a sopravvivere in un clima politico instabile. Anziché ricostruire una cronologia del movimento femminista turco, il progetto si concentra sui folders della biblioteca, finora lasciati ai margini delle narrazioni femministe tradizionali, con l’apertura delle cartelle per tentare di completare, con le lotte intersezionali del presente, la più ampia collezione dedicata alla storia delle donne, organizzata negli anni Ottanta a partire dalla prima campagna contro la violenza di genere fino a trasformarsi in un’organizzazione collettiva, archiviando libri, riviste e pubblicazioni autoprodotte, fotografie, audiovisivi e documenti filmici e cartacei, in continuo dialogo con la recente ondata femminista transnazionale.
La piattaforma femminista Çatlak Zemins in questo contesto ha dialogato con i materiali dell’archivio del Women’s Works Library and Information Center Foundation (WLCIF).
Uno degli sforzi maggiori del contesto femminista in Turchia a partire dal 2016, quando è stata fondata Çatlak Zemins, da donne che fanno parte del movimento di strada, è stato quello di registrare la memoria femminista. Rendere accessibile a tutti la storia, che da anni veniva trasmessa oralmente, creando una pratica di archiviazione (e di storiografia) femminista. Come scrivono nell’editoriale sul sito web, Çatlak Zemin è stata fondata per “rinnovare le nostre radici e le nostre relazioni femministe; rafforzare il discorso femminista sulla base delle donne e potenziare le donne sulla base del discorso femminista”.
Divulgare il discorso femminista, le esperienze delle donne e la politica femminista, le loro idee e prospettive sul movimento che ha le sue origini nelle battaglie degli anni Ottanta, con la Campaign Against Beating, la prima azione che ha avuto luogo nel parco Yoğurtçu, il Purple Needle e la mostra del Museo Kariye come componenti importanti dell’archivio femminista del WLCIF e che oggi dialoga con le sfide poste dal presente negli spazi del Pera Museum.
Archives des luttes des femmes en Algerie a documenta fifteen
«Gli archivi sono estremamente politici e possono decostruire, soprattutto, la storia ufficiale» ci dicono Archives des luttes des femmes en Algérie, tra le realtà invitate alla documenta fifteen. Disarmare il potere, rispetto all’eredità storicistica e coloniale delle istituzioni; rompere la centralità delle narrazioni eteronormative, fondate su rapporti di razza, classe e di ordine patriarcale, dare voce ai corpi disobbedienti, rimasti invisibilizzati e silenziati nei documenti ufficiali; aprire i sigilli della storia e creare delle contro-storie o delle narrazioni contro-egemoniche.
Archives des luttes des femmes en Algérie è infatti un’iniziativa collettiva indipendente che intende ricostruire la geneaologia politica delle organizzazioni femminili e femministe in Algeria del 1962 fino ad oggi. Nel cuore del Fridericianum, in un segmento temporale a partire dal 1989 attraverso crono-dissidenze, filmati, interviste e timelines, la rivolta delle donne occupa le strade, costruisce assemblee, crea potere nei corpi-territorio per rivendicare diritti e libertà. Le tracce documentarie sono state digitalizzate e rese accessibili non solo per far riaffiorare una storia che è stata marginalizzata e rimossa ma anche per fornire una serie di strumenti utili per la riflessione e la lotta politica nel presente, per arginare la controffensiva neoliberale, da una prospettiva decoloniale e intersezionale, aprendo spazi antagonisti anche dentro le istituzioni artistiche.
Testo di Elvira Vannini. Le sinossi di Ege Berensel, Güliz Sağlam e Petra Bauer sono riprese dalla brochure di Disobedience Archive [Ders Bitti], quelle del Colectivo Cine-Mujer e Mari Carmen De Lara sono di Roberta Garieri.
L’immagine di miniatura è di Ege Berensel, Fata Morgana, 2018.