Raccogliendo il lavoro sociale, ecologico, politico e artistico di gruppi e iniziative indipendenti, Disobedience Archive [Ders Bitti] presenta un Coro di Resistenza alla 17a Biennale di Istanbul
Ho visitato la Biennale di quest’anno senza troppe aspettative.
Questo sentimento nasce forse come reazione al tentativo di omettere il
passato da parte del mondo dell’arte, diffondendo la convinzione che “tutto è
come prima”. Ma con l’avvicinarsi della data dell’opening, ho pensato invece
che i curatori di questa edizione condividessero le mie stesse idee.
Rispetto alla 16ma Biennale intitolata Yedinci Kıta (il Settimo
Continente) diretta da Nicolas Bourriaud, che era per lo più incastrata in
spazi museali e che a volte ha affrontato in modo superficiale un tema così
importante come la crisi climatica, di questa edizione ho apprezzato l’anonimato,
la spontaneità e soprattutto la disorganizzazione.
Mi sono disegnato un percorso per visitare le opere in luoghi diversi a Beyoğlu, Fatih e Kadıköy, ma non sono riuscito a completarlo durante il mio breve viaggio a Istanbul. Anche se sono rimasto colpito da tutti i lavori che ho visto, sono stato contento di non essere riuscito a completare il percorso. In un periodo in cui la maggior parte degli eventi è pensata per essere condivisa sui social media, trovo giusto che la Biennale incoraggi il suo pubblico a visitare i quartieri.
Sebbene il lavoro che volevo vedere di più fosse esposto all’interno,
ero un po’ turbato mentre mi dirigevo verso la Scuola femminile Greca, che era
la prima tappa del viaggio. L’interesse della Biennale e della Turchia per gli
spazi abbandonati che un tempo appartenevano a minoranze mi infastidisce. Penso
che raccontare “c’erano dei non musulmani in questa città, ora non ci sono” e l’ossessione
per i fantasmi delle minoranze sia irrispettosa per le minoranze stesse, che
sono ancora presenti e non del tutto “scomparse”. Le mostre si tengono
costantemente in spazi abbandonati greci, armeni ed ebraici a Istanbul, ma non
c’è uno studio approfondito insieme a questi gruppi.
Su questo argomento c’è un breve articolo scritto dalla mia compagna di liceo Rayka Simoni ad Avlaremoz sulla sinagoga Zülfaris. A differenza di Rayka, la base della mia critica riguarda il rischio di dare più importanza al mito dello spazio rispetto ai soggetti che appartengono a quel luogo.
Appena entrato nel cortile della scuola, sono stato accolto dal testo
curatoriale che poi avrei trovato in ogni sede della Biennale. In particolare
le ultime due frasi del testo (che questa Biennale è un compost. Può iniziare
prima del suo tempo e continuare a lungo dopo che è finito), in ogni lavoro che
ho visto, sono diventate per me una guida e una bussola durante il mio viaggio.
Rispetto ai lunghi, incomprensibili e vuoti comunicati stampa e testi di
mostra, questo piccolo mantra della Biennale mi è sembrato molto più sincero.
Mentre mi muovevo all’interno dell’edificio, ero circondato da dozzine,
forse più di cento schermi. Filmati d’archivio, documentari e interviste sono
stati riprodotti, a volte senza suono, su schermi di diverse dimensioni e
superfici.
Prima di soffermarmi sugli schermi, ho deciso di esaminare i dettagli nello spazio. Nonostante le critiche che ho fatto sopra, quando ho visto i banchi e le lavagne ho trovato appropriata l’idea di presentare un archivio che documentasse il perseguimento dei diritti in un ambiente come l’aula scolastica. Ho anche osservato che le immagini sullo schermo e i problemi veicolati hanno uno scopo pedagogico oltre che estetico e politico.
Archive of Disobedience [Ders Bitti] è il lavoro del curatore e critico d’arte Marco Scotini
e dell’artista Can Altay.
Ci sono molteplici riprese video nell’archivio, in cui varie comunità di diverse aree geografiche e appartenenti a differenti momenti storici rivendicano diritti su questioni specifiche. Visitando il luogo, ho visto riprodotte su uno schermo interviste di persone che hanno protestato contro il progetto della centrale termica di Bergama. Un’anziana con il velo teneva un poster di Atatürk e diceva: “Hanno venduto con la penna quello che hanno ottenuto con il sangue”. Su un altro schermo ho assistito ad un’intervista con l’intellettuale antisionista israeliano Yeshayahu Leibowitz. Sulla parete di fronte era presente lo slogan “Non vogliamo un rettore fiduciario” e in un’altra stanza ho guardato immagini di rivoluzioni postcoloniali, anche se non riuscivo ad individuarne il paese.
Chiunque giri nell’archivio si stancherà senza dubbio di ciò che vede.
Le diverse lunghezze dei video, la disattivazione dell’audio… che però ci
invitano ad interpretare ciò che guardiamo collettivamente piuttosto che
digerirlo uno per uno. Più che intendere il concetto proposto di comunità
semplicemente come intersezionalità e cooperazione, si presenta come tante manifestazioni
diverse di un’unica azione (disobbedienza). La disobbedienza esce fuori di
fronte a molte ingiustizie, ed è ripetuta più volte da un coro
polifonico.
In questo contesto, gli schermi che compongono l’archivio rappresentano
un coro di disobbedienza.
Immaginare la resistenza e il perseguimento dei diritti come un coro non
è un’idea che ho concepito io. L’accademica Catherine Grant nel suo libro A
Time of One’s Own, che è stato pubblicato il mese scorso, tocca il concetto
di coro femminista: molte artiste femministe esaminate da Grant stanno tentando
di aumentare la consapevolezza sulla base del concetto di Coro. Durante eventi
ed esibizioni che organizzano, artist* femminist*, attivist*, teoric* e altr*
creativ* invitano le loro comunità e il pubblico a riflettere e a discutere sul
femminismo, parlando, leggendo o cantando insieme. Queste attività hanno uno
scopo pedagogico, sono dirette alla sensibilizzazione e al riconoscimento dei
regimi di oppressione di gruppi. Tuttavia di volta in volta, affermazioni che
vengono lette, dette e ripetute si sovrappongono invece di creare una singola
narrazione ed emerge una storia più complessa ma potente, proprio come nell’Archivio
della disobbedienza.
Alla fine del capitolo sul coro femminista, Grant riflette su questa cosa dal punto di vista delle differenze. Secondo Grant stare insieme ma separati indica un femminismo “non omogeneo e strano, diverso e inadatto al flusso lineare del tempo”. Sulla base di questa definizione, vorrei condividere le mie riflessioni su un’altra risorsa esposta nello spazio: la pubblicazione intitolata Disobedience Archive [The Park]. Questa pubblicazione risale esattamente a otto anni fa, quando l’archivio è stato esposto a Salt Beyoğlu. Al centro della pubblicazione, ovviamente, c’è la resistenza di Gezi.
Nella prima pagina sono raffigurati l’edificio AKM occupato durante le rivolte e gli stendardi appesi all’edificio. Nella pubblicazione, sono presenti articoli su molti argomenti diversi come la disobbedienza all’università, la bioresistenza e la società di controllo e il genere. Penso che la resistenza di Gezi, che è spesso presente nell’archivio, corrisponda esattamente alla definizione di femminismo di Grant. Otto anni fa quel sentimento indefinito e plurale che era anche chiamato l’anima di Gezi, proprio come ha affermato Grant, non avanza lungo una storia lineare. È presente sia nel passato che nel futuro della resistenza, sia in Turchia che in aree geografiche molto diverse, sta germogliando da comunità che non si conoscono affatto fra loro e le cui opinioni a volte potrebbero essere discordanti.
Otto anni dopo, c’è una “crisi” non solo in Turchia ma anche su scala
globale. Questa crisi ha molti livelli, che vanno dalla crisi economica e dall’alto
costo della vita alle crisi ambientali, al populismo e al fascismo. Ogni
battaglia combattuta sullo schermo, a volte continua esattamente come viene
mostrata sullo schermo, altre volte va avanti assumendo forme diverse. Forse la
lezione che il coro della disobbedienza vuole darci è quella di metterci in
guardia e aiutarci a riconoscere queste crisi.
Mentre mi allontano dalla scuola, ripenso alle ultime frasi del testo curatoriale. Il coro della disobbedienza, come il compost, è iniziato prematuramente e continuerà senza dubbio dopo la sua fine.
Un ringraziamento speciale a Daniela Noviello per la traduzione dal turco e soprattutto all’autore della recensione Eran Sabaner e alla piattaforma indipendente per l’arte contemporaneaArgonotlar, che hanno gentilmente concesso l’autorizzazione per la pubblicazione del testo: 17. İstanbul Bienali katılımcılarını tanıyalım: İtaatsizlik Arşivi [Ders Bitti].
L’immagine di miniatura è di Ege Berensel, Fata Morgana, 2018.
Disobedience Archive [Ders Bitti]
A cura di Marco Scotini, display di Can Altay. Sarp Özer, Research Curator e Arnold Braho, Assistant Curator
Contributi di: 16 beaver, Ravi Argawal, atelier d’architecture autogérée (aaa), Petra Bauer, Ege Berensel, Bernadette Corporation, Cana Bilir Meier, Black Audio Film Collective, Boğaziçi Resistance, Ursula Biemann, Bouba Touré e Raphaël Grisey, Colectivo Cine-Mujer, Collettivo femminista di cinema, Copenhagen Free University, Critical Art Ensemble, Mari Carmen De Lara, Dodo Brothers, Marcelo Exposito, Ali Essafi, Harun Farocki & Andrei Ujica, Free Home University, Rosa Martha Fernandez, Piero Gilardi, Grupo de Arte Callejero, Grupo Etcétera…, Alberto Grifi, Khaled Jarrar, Sanjay Kak, Karrabing Film Collective, Laboratorio di Comunicazione Militante, Silvia Maglioni & Graeme Thomson, Mao Chenyu, Angela Melitopoulos, Mosireen Collective, Carlos Motta, Nathalie Muchamad, Non Governamental Control Commission, Wael Noureddine, Margit Czencki/Park Fiction, Oliver Ressler & Zanny Begg, Joanne Richardson, Güliz Sağlam, Roy Samaha, SaSa Art Projects, Eyal Sivan, Department of Space & Land Reclamation, Mariette Schiltz & Bert Theis, Ultra-red, Nomeda & Gediminas Urbonas, Vidyo Kolektif, Dmitry Vilensky & Chto Delat, James Wentzy, Wu Wuengwuang, Doğa Yirik.
di Eran Sabaner.
Ho visitato la Biennale di quest’anno senza troppe aspettative.
Questo sentimento nasce forse come reazione al tentativo di omettere il passato da parte del mondo dell’arte, diffondendo la convinzione che “tutto è come prima”. Ma con l’avvicinarsi della data dell’opening, ho pensato invece che i curatori di questa edizione condividessero le mie stesse idee.
Rispetto alla 16ma Biennale intitolata Yedinci Kıta (il Settimo Continente) diretta da Nicolas Bourriaud, che era per lo più incastrata in spazi museali e che a volte ha affrontato in modo superficiale un tema così importante come la crisi climatica, di questa edizione ho apprezzato l’anonimato, la spontaneità e soprattutto la disorganizzazione.
Mi sono disegnato un percorso per visitare le opere in luoghi diversi a Beyoğlu, Fatih e Kadıköy, ma non sono riuscito a completarlo durante il mio breve viaggio a Istanbul. Anche se sono rimasto colpito da tutti i lavori che ho visto, sono stato contento di non essere riuscito a completare il percorso. In un periodo in cui la maggior parte degli eventi è pensata per essere condivisa sui social media, trovo giusto che la Biennale incoraggi il suo pubblico a visitare i quartieri.
Sebbene il lavoro che volevo vedere di più fosse esposto all’interno, ero un po’ turbato mentre mi dirigevo verso la Scuola femminile Greca, che era la prima tappa del viaggio. L’interesse della Biennale e della Turchia per gli spazi abbandonati che un tempo appartenevano a minoranze mi infastidisce. Penso che raccontare “c’erano dei non musulmani in questa città, ora non ci sono” e l’ossessione per i fantasmi delle minoranze sia irrispettosa per le minoranze stesse, che sono ancora presenti e non del tutto “scomparse”. Le mostre si tengono costantemente in spazi abbandonati greci, armeni ed ebraici a Istanbul, ma non c’è uno studio approfondito insieme a questi gruppi.
Su questo argomento c’è un breve articolo scritto dalla mia compagna di liceo Rayka Simoni ad Avlaremoz sulla sinagoga Zülfaris. A differenza di Rayka, la base della mia critica riguarda il rischio di dare più importanza al mito dello spazio rispetto ai soggetti che appartengono a quel luogo.
Appena entrato nel cortile della scuola, sono stato accolto dal testo curatoriale che poi avrei trovato in ogni sede della Biennale. In particolare le ultime due frasi del testo (che questa Biennale è un compost. Può iniziare prima del suo tempo e continuare a lungo dopo che è finito), in ogni lavoro che ho visto, sono diventate per me una guida e una bussola durante il mio viaggio. Rispetto ai lunghi, incomprensibili e vuoti comunicati stampa e testi di mostra, questo piccolo mantra della Biennale mi è sembrato molto più sincero.
Mentre mi muovevo all’interno dell’edificio, ero circondato da dozzine, forse più di cento schermi. Filmati d’archivio, documentari e interviste sono stati riprodotti, a volte senza suono, su schermi di diverse dimensioni e superfici.
Prima di soffermarmi sugli schermi, ho deciso di esaminare i dettagli nello spazio. Nonostante le critiche che ho fatto sopra, quando ho visto i banchi e le lavagne ho trovato appropriata l’idea di presentare un archivio che documentasse il perseguimento dei diritti in un ambiente come l’aula scolastica. Ho anche osservato che le immagini sullo schermo e i problemi veicolati hanno uno scopo pedagogico oltre che estetico e politico.
Archive of Disobedience [Ders Bitti] è il lavoro del curatore e critico d’arte Marco Scotini e dell’artista Can Altay.
Ci sono molteplici riprese video nell’archivio, in cui varie comunità di diverse aree geografiche e appartenenti a differenti momenti storici rivendicano diritti su questioni specifiche. Visitando il luogo, ho visto riprodotte su uno schermo interviste di persone che hanno protestato contro il progetto della centrale termica di Bergama. Un’anziana con il velo teneva un poster di Atatürk e diceva: “Hanno venduto con la penna quello che hanno ottenuto con il sangue”. Su un altro schermo ho assistito ad un’intervista con l’intellettuale antisionista israeliano Yeshayahu Leibowitz. Sulla parete di fronte era presente lo slogan “Non vogliamo un rettore fiduciario” e in un’altra stanza ho guardato immagini di rivoluzioni postcoloniali, anche se non riuscivo ad individuarne il paese.
Chiunque giri nell’archivio si stancherà senza dubbio di ciò che vede. Le diverse lunghezze dei video, la disattivazione dell’audio… che però ci invitano ad interpretare ciò che guardiamo collettivamente piuttosto che digerirlo uno per uno. Più che intendere il concetto proposto di comunità semplicemente come intersezionalità e cooperazione, si presenta come tante manifestazioni diverse di un’unica azione (disobbedienza). La disobbedienza esce fuori di fronte a molte ingiustizie, ed è ripetuta più volte da un coro polifonico.
In questo contesto, gli schermi che compongono l’archivio rappresentano un coro di disobbedienza.
Immaginare la resistenza e il perseguimento dei diritti come un coro non è un’idea che ho concepito io. L’accademica Catherine Grant nel suo libro A Time of One’s Own, che è stato pubblicato il mese scorso, tocca il concetto di coro femminista: molte artiste femministe esaminate da Grant stanno tentando di aumentare la consapevolezza sulla base del concetto di Coro. Durante eventi ed esibizioni che organizzano, artist* femminist*, attivist*, teoric* e altr* creativ* invitano le loro comunità e il pubblico a riflettere e a discutere sul femminismo, parlando, leggendo o cantando insieme. Queste attività hanno uno scopo pedagogico, sono dirette alla sensibilizzazione e al riconoscimento dei regimi di oppressione di gruppi. Tuttavia di volta in volta, affermazioni che vengono lette, dette e ripetute si sovrappongono invece di creare una singola narrazione ed emerge una storia più complessa ma potente, proprio come nell’Archivio della disobbedienza.
Alla fine del capitolo sul coro femminista, Grant riflette su questa cosa dal punto di vista delle differenze. Secondo Grant stare insieme ma separati indica un femminismo “non omogeneo e strano, diverso e inadatto al flusso lineare del tempo”. Sulla base di questa definizione, vorrei condividere le mie riflessioni su un’altra risorsa esposta nello spazio: la pubblicazione intitolata Disobedience Archive [The Park]. Questa pubblicazione risale esattamente a otto anni fa, quando l’archivio è stato esposto a Salt Beyoğlu. Al centro della pubblicazione, ovviamente, c’è la resistenza di Gezi.
Nella prima pagina sono raffigurati l’edificio AKM occupato durante le rivolte e gli stendardi appesi all’edificio. Nella pubblicazione, sono presenti articoli su molti argomenti diversi come la disobbedienza all’università, la bioresistenza e la società di controllo e il genere. Penso che la resistenza di Gezi, che è spesso presente nell’archivio, corrisponda esattamente alla definizione di femminismo di Grant. Otto anni fa quel sentimento indefinito e plurale che era anche chiamato l’anima di Gezi, proprio come ha affermato Grant, non avanza lungo una storia lineare. È presente sia nel passato che nel futuro della resistenza, sia in Turchia che in aree geografiche molto diverse, sta germogliando da comunità che non si conoscono affatto fra loro e le cui opinioni a volte potrebbero essere discordanti.
Otto anni dopo, c’è una “crisi” non solo in Turchia ma anche su scala globale. Questa crisi ha molti livelli, che vanno dalla crisi economica e dall’alto costo della vita alle crisi ambientali, al populismo e al fascismo. Ogni battaglia combattuta sullo schermo, a volte continua esattamente come viene mostrata sullo schermo, altre volte va avanti assumendo forme diverse. Forse la lezione che il coro della disobbedienza vuole darci è quella di metterci in guardia e aiutarci a riconoscere queste crisi.
Mentre mi allontano dalla scuola, ripenso alle ultime frasi del testo curatoriale. Il coro della disobbedienza, come il compost, è iniziato prematuramente e continuerà senza dubbio dopo la sua fine.
Un ringraziamento speciale a Daniela Noviello per la traduzione dal turco e soprattutto all’autore della recensione Eran Sabaner e alla piattaforma indipendente per l’arte contemporanea Argonotlar, che hanno gentilmente concesso l’autorizzazione per la pubblicazione del testo: 17. İstanbul Bienali katılımcılarını tanıyalım: İtaatsizlik Arşivi [Ders Bitti].
L’immagine di miniatura è di Ege Berensel, Fata Morgana, 2018.
Disobedience Archive [Ders Bitti]
A cura di Marco Scotini, display di Can Altay. Sarp Özer, Research Curator e Arnold Braho, Assistant Curator
Contributi di: 16 beaver, Ravi Argawal, atelier d’architecture autogérée (aaa), Petra Bauer, Ege Berensel, Bernadette Corporation, Cana Bilir Meier, Black Audio Film Collective, Boğaziçi Resistance, Ursula Biemann, Bouba Touré e Raphaël Grisey, Colectivo Cine-Mujer, Collettivo femminista di cinema, Copenhagen Free University, Critical Art Ensemble, Mari Carmen De Lara, Dodo Brothers, Marcelo Exposito, Ali Essafi, Harun Farocki & Andrei Ujica, Free Home University, Rosa Martha Fernandez, Piero Gilardi, Grupo de Arte Callejero, Grupo Etcétera…, Alberto Grifi, Khaled Jarrar, Sanjay Kak, Karrabing Film Collective, Laboratorio di Comunicazione Militante, Silvia Maglioni & Graeme Thomson, Mao Chenyu, Angela Melitopoulos, Mosireen Collective, Carlos Motta, Nathalie Muchamad, Non Governamental Control Commission, Wael Noureddine, Margit Czencki/Park Fiction, Oliver Ressler & Zanny Begg, Joanne Richardson, Güliz Sağlam, Roy Samaha, SaSa Art Projects, Eyal Sivan, Department of Space & Land Reclamation, Mariette Schiltz & Bert Theis, Ultra-red, Nomeda & Gediminas Urbonas, Vidyo Kolektif, Dmitry Vilensky & Chto Delat, James Wentzy, Wu Wuengwuang, Doğa Yirik.
Pubblicazione di Archive Books.