Il Cono d’Ombra: rimosso coloniale e atti di insorgenza. Conversazione con Nidhal Chamekh e Marco Scotini

«se la vostra storia vi ha fatti Bianchi, niente vi obbliga a restarlo», Houria Bouteldja, 2016.

Come rileggere quel cono d’ombra in cui si è rinchiuso il colonialismo italiano (e la sua mancata elaborazione) – un capitolo della nostra storia completamente represso – insieme alla scomoda eredità del fascismo e i suoi legami con la modernità? La categoria della razza continua a plasmare i rapporti e le gerarchie sociali, a strutturare un sistema egemonico e di oppressione che affonda le radici nel passato coloniale e nella sua eredità culturale. E continua a riproporsi nell’attualità: il passato non è mai passato ma ritorna nel presente, dove pure di razzismo si muore.

A partire dall’esposizione Il Cono d’Ombra. Narrative Decoloniali dell’Oltremare, da un progetto di Andrea Aragosa per Black Tarantella e FM Centro per l’Arte Contemporanea, in collaborazione con l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale – proviamo a smascherare neo-esotismi e forme di neocolonialismo contemporanei in una lunga conversazione con l’artista Nidhal Chamekh e il curatore Marco Scotini, affrontando il retaggio modernista dell’impresa coloniale italiana, la controversa posizione di Kader Attia sulla “riparazione”, le accuse di antisemitismo e la censura intorno a documenta fifteen che, se inquadrata come un’esposizione del Sud Globale e dell’Altro, elude una riflessione sull’arte contemporanea e la sua intrinseca connessione ai processi di valorizzazione capitalistica, quale riconferma della sua natura costitutivamente non innocente. Solo con un lavoro critico e solo mettendo in discussione gli assunti che ritornano nei nostri discorsi e nel nostro immaginario, sarà possibile arginare l’imbarbarimento della vita culturale, politica e dell’intera struttura sociale, ritrovando quel potenziale per resistere a una modernità sfruttatrice ed estrattivista, in cui “il capitalismo ha bisogno di diseguaglianze e il razzismo le alimenta” [Ruth Wilson Gilmore].

Nidhal Chamekh, Nos visages No.II, 2019. Courtesy Nidhal Chamekh.

Elvira Vannini: Vorrei iniziare dalla lettera firmata insieme a Intissar Belaïd contro la partecipazione all’esposizione Il Cono d’Ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare, di Kader Attia perché, come scrivete: «il suo lavoro artistico che è incentrato su questioni decoloniali, non trova nessuna incoerenza nella collaborazione con strutture israeliane, che sono state create e beneficiano del contesto coloniale in atto. Siamo rimasti scioccati nello scoprire un anno fa che l’artista non solo risiedeva ed esponeva nei territori occupati da Israele, ma collaborava anche con le sue istituzioni senza affrontare apertamente un solo aspetto delle pratiche coloniali o delle politiche di apartheid avanzate dai suoi ospiti, né per iscritto, né in nessuna intervista». Quali sono le ragioni che hanno sollevato la vostra protesta? 

Nidhal Chamekh: Per noi il problema era chiaro fin dall’inizio, la contraddizione è evidente, soprattutto perché ha a che fare con un artista che è diventato un “riferimento” per le «questioni coloniali». Con l’artista Intissar Belaïd ne abbiamo discusso molto, ne ho parlato anche con il curatore della mostra Marco Scotini, che non era a conoscenza di questi fatti ed è stato solidale.

La lotta anticoloniale palestinese è radicata nella società tunisina da molto tempo, per diverse ragioni culturali e storiche. Anche noi abbiamo vissuto la colonizzazione e le sue conseguenze devastanti, gli elementi culturali che legano il popolo palestinese e quello tunisino sono molto forti.

Nidhal Chamekh, Nos visages no. XVII, 2021. Courtesy Nidhal Chamekh.

Migliaia di militanti della resistenza palestinese sono stati accolti in Tunisia e lo Stato di Israele, nel 1985, ha bombardato la Tunisia causando un centinaio di morti, in cui il sangue tunisino e palestinese erano mescolati insieme. Sono anche cresciuto in un ambiente in cui la bandiera palestinese, le immagini delle lotte di liberazione e le azioni di solidarietà (manifestazioni, eventi culturali e campagne di solidarietà) facevano parte della quotidianità. Alcuni compagni dei miei genitori hanno combattuto a fianco del FPLP oppure si sono stabiliti in Palestina. La prima manifestazione a cui ho partecipato è stata durante la seconda Intifada. In quel momento ero uno studente del liceo… Per la mostra Il Cono d’Ombra ho proposto due disegni di grandi dimensioni sull’esilio, in uno dei quali si vede il poeta palestinese Mahmoud Darwish.

Per tutti questi motivi ci è sembrato chiaro e ovvio affermare la nostra posizione.

Nidhal Chamekh, Exil I, 2019. Graphite powder, ink and transfer on paper, 200h x 250w cm. Courtesy Nidhal Chamekh.
Nidhal Chamekh, Exil II, 2019. Graphite powder, ink and transfer on paper, 200h x 250w cm. Courtesy Nidhal Chamekh.

EV: Ci sono dei precedenti: già nel 2021, la Tunisian Campaign for the Boycott and De-normalization with Israel aveva lanciato un appello a Kader Attia, allora curatore di Jaou, una biennale di Tunisi, chiedendo chiarimenti sulla sua posizione: cosa era accaduto?

NC: Nel 2021, la Fondazione Kamel Lazaar e l’Istituto Francese, due istituzioni peraltro problematiche, lanciano la seconda edizione della biennale Jaou. Come curatore era stato designato l’artista Kader Attia. Pochi mesi prima, la città di Gaza era stata colpita da dei bombardamenti senza sosta e furono lanciate diverse campagne di solidarietà, anche nel mondo dell’arte (https://www.againstapartheid.com).

In quel periodo, il sito web della Colonie, gestito da Kader Attia, ha pubblicato una dichiarazione di solidarietà con il popolo palestinese e contro l’occupazione. C’era tanta tensione tra i vari gruppi che frequentavano la Colonie che il silenzio della sua direzione sarebbe stato considerato estremamente negativo. Ma questa stessa dichiarazione conteneva tra le righe delle posizioni a mio avviso ambigue. Queste attribuiscono le cause della politica coloniale di Israele al suo governo di destra e affermano – immediatamente e stranamente – la propria distanza da qualsiasi tipo di discorso antisemita.

Manifesti di Jermay Michael Gabriel (2022), Exhil I e Nos Visages di Nidhal Chamekh (2019), Studi di teste giovanili di Cesare Biseo (1884), Ritratti di somali di Carlo Celano (1936). Foto di Michele Stanzione.

Da quel momento sono state svolte delle ricerche e La Campagna tunisina per il boicottaggio e contro la normalizzazione con Israele ha scoperto che l’artista in questione ha collaborato in passato con delle istituzioni israeliane, nonché un’intervista in cui descrive la sua esaltazione per la città di Tel Aviv e per la sua urbanistica.

La campagna ha quindi lanciato un appello per chiedere al curatore di chiarire la propria posizione e, se necessario, per invitare gli artisti a boicottare l’evento. Non c’è stata nessuna risposta da parte del curatore. Poche settimane dopo la biennale è stata rinviata, sicuramente a causa della situazione sanitaria. Il testo dell’appello era stato condiviso solo in una cerchia ristretta, ovvero tra i militanti e alcuni artisti che non avevano nessuna «relazione» da salvaguardare.

Ciò che ci aveva maggiormente colpito era il silenzio di buona parte dell’ambiente «decoloniale-culturale» francese. Era lo stesso silenzio che si percepiva quando si trattava di assumere pubblicamente una posizione filopalestinese e anticoloniale.

Intissar Belaid, About Hercules and Antaeus, 2022, installation: videos, collages, objects, dimensions variable . Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Exhibition view.
Intissar Belaid, About Hercules and Antaeus, 2022, installation: videos, collages, objects, dimensions variable (detail). Courtesy of the artist.

EV: Decolonizzare lo sguardo significa anche ripensare e re-immaginare il sistema-mondo al di fuori della grande narrazione eurocentrica incentrata sui modi con cui l’Occidente ha immaginato e rappresentato la propria storia e quella di altre società. Chiudete il vostro appello affermando una posizione anti-colonialista e anti-capitalista esprimendo la vostra solidarietà al popolo palestinese e alla sua resistenza di fronte alla colonializzazione, rifiutando categoricamente ogni collaborazione con istituzioni colonialiste e sioniste nel mondo dell’arte e della cultura. Non ti sembra una contraddizione che se nel maggio 2019 il Bundestag, varava una mozione di condanna per il movimento Boycott, Divestment, Sanctions (BDS), definendolo “antisemita” e mettendo a tacere ogni forma di posizione pro-Palestina, Kader Attia è stato chiamato a giocare un ruolo compensativo (o riparativo) nella direzione della 12th Berlin Biennale attualmente in corso e dichiaratamente fondata su una prospettiva decoloniale?

Quindi di quale decolonalità stiamo parlando?

NC: Negli ultimi anni abbiamo assistito a una normalizzazione sempre più diffusa. Ciò deriva ovviamente da un insieme di ragioni geopolitiche e dall’accanimento con cui Israele e i suoi alleati lavorano per far accettare la situazione coloniale come uno stato di fatto, come un «conflitto» tra due parti uguali.

La novità è rappresentata dalla crescente importanza della cultura nella normalizzazione e nelle strategie di assimilazione nei confronti del mondo intellettuale e culturale. All’interno dei territori occupati la brutalità dell’occupazione non nasconde il suo volto, ma, all’esterno, la propaganda israeliana non respinge più ciò che le è «estraneo», ma cerca piuttosto di assorbirlo, volgendolo così a proprio vantaggio [i].

Nidhal Chamekh, Le Battement des Ailes No.X, 2016, From the series, Le Battement des Ailes, Graphite, ink and transfer on cotton paper, 23 x 33 cm. Courtesy Selma Feriani Gallery

I gesti artistici e gli artisti stessi sono facilmente recuperabili fintantoché restano al di fuori del mondo reale, senza un’estensione politica delle loro opere e dei loro discorsi. I fatti culturali e le tradizioni popolari possono subire la stessa sorte nella misura in cui perdono il loro carattere liberatorio [ii]. Come osserva giustamente Walter Benjamin, le tradizioni possono, tanto quanto i loro destinatari, diventare strumenti della classe dominante.

Il liberalismo contemporaneo utilizza una pratica simile, tale per cui le voci dissonanti non vengono più affrontate ma piuttosto recuperate. Finché queste non sono l’espressione di un progetto politico, e quindi di un’organizzazione collettiva, finché non mettono in discussione le strutture di dominio (soprattutto del contesto in cui emergono) e rientrano invece nel discorso dell’“individuo consapevole” (di cui l’artista-star è una delle sue facce) possono essere accolte a braccia aperte.


Nidhal Chamekh, Le battement des ailes No. V . 2017. Graphite, ink and transfer on cotton paper, 23 x 32.5 cm. Courtesy of Nidhal Chamekh and Selma Feriani gallery

La situazione intellettuale contemporanea si iscrive nell’individualismo liberale, ciò che conta nel mondo dell’arte è solo il nome e l’opera dell’artista. Questo pensiero viene inculcato agli studenti a scuola per poi divenire l’unico valore (insieme al denaro, ovviamente). Non sorprende quindi che gli artisti che si definiscono “politicizzati” non considerano necessariamente la politicizzazione come una questione pratica, che richiede l’organizzazione e l’azione sulla realtà. La politica si riduce piuttosto a una posizione intellettuale, diventa un oggetto o addirittura un’opportunità per dei “progetti”, il suo potenziale si ferma alle porte dei musei e delle gallerie.

Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Materiali d’archivio d’epoca coloniale nella teca documentaria reperiti durante le ricerche svolte nell’archivio fotografico Troncone, in archivi privati e istituzioni pubbliche.
Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Materiali d’archivio d’epoca coloniale nella teca documentaria reperiti durante le ricerche svolte nell’archivio fotografico Troncone, in archivi privati e istituzioni pubbliche.

Lo stesso vale per il decolonialismo. Finché resta confinato alle sfere intellettuali non rappresenta una minaccia, ovvero una messa in discussione radicale delle relazioni di dominazione. Finché non tende ad un progetto di trasformazione sociale, l’istituzione non viene intaccata e può accoglierlo al suo interno, ciò rafforza la sua immunità e gli offre l’immagine di cui ha bisogno per ripulire i rapporti di dominazione che perpetua.

Non c’è quindi nessuna contraddizione sul fatto che un’istituzione normalizza i suoi rapporti con l’Apartheid, censura ogni solidarietà con i palestinesi e allo stesso tempo ospita delle mostre decoloniali ben strutturate.

Ma per fortuna questo è solo il lato plebiscitario del mondo culturale dominante. Dappertutto le forze indipendenti si stanno organizzando di fronte alle varie relazioni di dominio nella cultura (di genere, di razza e di classe).

Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Exhibition view. Foto di Michele Stanzione.
Dettaglio d’ingresso. Foto di Michele Stanzione.

EV: Il tentativo di creare una conversazione pubblica sugli effetti dell’antisemitismo e del razzismo, rispetto alle recenti vicende tedesche, è stato ulteriormente stigmatizzato come pro-palestinese o pro-BDS. Oltretutto alla tempesta di accuse di antisemitismo che hanno colpito documenta fifteen dirette a ruangrupa già prima dell’opening fino alla rimozione dell’installazione agitprop dal collettivo indonesiano Taring Padi (e non è un caso, sia ruangrupa che Taring Padi sono collettivi PoC dentro un’istituzione europea bianca) le tensioni hanno raggiunto un grado di conflittualità incandescente e l’intera rassegna è stata screditata dai media tesdeschi; episodi tra l’altro preceduti dalle vandalizzazioni contro The Question of Funding, dagli attacchi razzisti, islamofobici e transfobici denunciati da numerosi partecipanti da Hamja Ahsan, Atis Rezistans|Ghetto Biennale o Party Office b2b Fadescha fino a Archives des luttes des femmes en Algérie, per citarne alcuni. Da Berlino, invece, non si è sentito nulla, non ci sono state polemiche né nei media né tra gli artisti – se non il testo pubblicato su Artforum di Rijin Sahakian, che tu stesso mi hai segnalato, in cui si chiede a chi sia affidata la “riparazione” della spettacolarizzazione delle torture di Abu Ghraib. Cosa pensi di quello che sta accadendo a Kassel?

NC: Non ho avuto la possibilità di visitare la Documenta, ho potuto vedere alcune immagini e ho seguito quello che succedeva attraverso gli articoli sulla stampa e le reazioni di alcuni artisti berlinesi come Candice Breitz. Gli elementi di cui dispongo sono insufficienti per formulare una riflessione.

Tuttavia, è evidente che nei circoli artistici europei esiste una fortissima autocensura, soprattutto in Germania, dove l’amalgama tra antisionismo e antisemitismo, tra Israele e gli ebrei e la loro assimilazione automatica al sionismo viene utilizzata come strumento per delegittimare qualsiasi forma di solidarietà con il popolo palestinese. Questo fenomeno non è nuovo, è legato a quello delle agitazioni reazionarie di cui l’«islamogauchismo», il «wokismo» e, molto prima, il «giudeo-bolscevismo» sono stati usati come retoriche della paura.

La lotta all’antisemitismo è inseparabile dall’antirazzismo politico. Questi mezzi di comunicazione, così come i poteri forti riducono l’antisemitismo a semplici fatti di cronaca, a gesti individuali, scartando e occultando le sue cause profonde e reali. Infine, è un’operazione di recupero pericolosa quella di assimilare ogni ebreo al sionismo e ridurre allo stesso modo ogni critica all’imperialismo, compreso quello tedesco.

A Berlino gli attacchi contro i palestinesi e i difensori della Palestina non sono nuovi. Negli ultimi anni la censura e l’esclusione si sono intensificate e questo spiega in parte il silenzio (o meglio il silenzio forzato) di fronte a quanto accaduto a Documenta.

Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Materiali d’archivio d’epoca coloniale nella teca documentaria reperiti durante le ricerche svolte nell’archivio fotografico Troncone, in archivi privati e istituzioni pubbliche.
Filippo Tommaso Marinetti, sezione coloniale futurista; materiali d’archivio d’epoca coloniale nella teca documentaria reperiti durante le ricerche svolte nell’archivio fotografico Troncone.
Filippo Tommaso Marinetti, sezione coloniale futurista; materiali d’archivio d’epoca coloniale nella teca documentaria reperiti durante le ricerche svolte nell’archivio fotografico Troncone.

In una capitale che è la sede della più grande comunità palestinese d’Europa, solo negli ultimi due anni, le autorità hanno vietato  la commemorazione del 74° anniversario della Nakba e altre manifestazioni nel mese di aprile, il Goethe Institute di Amburgo ha deprogrammato il poeta e militante Mohammed El-Kurd, mentre a  Khaled Barakat gli è stata impedita la possibilità di esercitare qualsiasi attività politica; inoltre c’è stata l’interdizione politica e l’espulsione della resistente Rasmea Odeh, il procedimento penale a carico di tre militanti, uno palestinese e due ebrei israeliani, per aver interrotto un funzionario israeliano e un membro della Knesset coinvolto in crimini di guerra.

Questa repressione non si limita solo agli intellettuali e ai militanti palestinesi, anche gli artisti ebrei sono oggetto di interrogatori politici, di inserimento nelle liste nere ed esclusione.

L’artista Nirit Sommerfeld, nata in Israele, cresciuta in Germania e figlia di sopravvissuti all’Olocausto, ha ricevuto delle minacce istituzionali qualora si fosse pronunciata in solidarietà con il movimento BDS.

Nel 2020, gli studenti israeliani dell’accademia d’arte Weißensee Kunsthochschule si sono visti censurati per il loro progetto “School for Unlearnin Zionism”, il sito web e i fondi sono stati tagliati dal Ministero della Ricerca, per non parlare delle dimissioni forzate del Direttore del Museo Ebraico dopo aver twittato un link a una dichiarazione di diverse centinaia di ebrei firmatari che si oppongono alla risoluzione anti-BDS del Bundestag… gli esempi non mancano.

La censura e la repressione nei confronti di qualsiasi sostegno alla causa palestinese non sono quindi rari o recenti, ma si sono intensificati con l’ascesa dell’ideologia fascistizzante in tutta Europa.

Nidhal Chamekh, De quoi rêvent les martyrs? What do martyrs dream about? Drawing n°8, 2012, Ink, graphite and transfer on paper 42 x 60 cm

Ma, per tornare alla Documenta di quest’anno, questi nuovi volti del nazionalismo occidentale ci mettono di fronte a un’importante domanda posta da un amico che ha partecipato alla Documenta (ma che non ha potuto esserci a causa dei documenti…e questo la dice lunga sulla possibilità di un approccio di questo tipo in Occidente): A chi si rivolge infine questa edizione di Documenta?

Credo che un’edizione del genere avrebbe avuto tutto il suo senso in un paese dei Sud. Perché laggiù il neocolonialismo continua ad accaparrarsi le ricchezze materiali e immateriali e fa sentire tutto il suo peso sulla cultura e sull’arte. Il compito sarebbe stato sicuramente più arduo, ma la ricezione e le prospettive sarebbero state molto diverse…a volte bisogna disertare il Nord.

Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Materiali d’archivio d’epoca coloniale nella teca documentaria reperiti durante le ricerche svolte nell’archivio fotografico Troncone, in archivi privati e istituzioni pubbliche.
Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Materiali d’archivio d’epoca coloniale nella teca documentaria reperiti durante le ricerche svolte nell’archivio fotografico Troncone, in archivi privati e istituzioni pubbliche.
Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Materiali d’archivio d’epoca coloniale nella teca documentaria reperiti durante le ricerche svolte nell’archivio fotografico Troncone, in archivi privati e istituzioni pubbliche.
Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Dettaglio teca documentaria.

EV: Sembrerebbe che mai come in questa estate surriscaldata i conflitti esplodano negli spazi e nelle istituzioni dell’arte accompagnati da tensioni e violenza, come avevi già prefigurato nel libro Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici (DeriveApprodi), già dalla prima edizione: cosa pensi dei gravi fatti occorsi a documenta fifteen che invece tu hai visitato nei giorni della preview per la stampa?

Marco Scotini: Sono anni che non mi stanco di ripetere la stessa cosa. Non c’è più un “fuori” (modernisticamente inteso) da difendere e rivendicare nel momento in cui la produzione artistica e culturale gioca un ruolo centrale nei processi di valorizzazione capitalistica. Come potremmo affermare domini separati (un dentro e un fuori) quando l’economia dell’informazione e dell’evento produce una coincidenza immediata tra struttura e sovrastruttura, tra lavoro e società, tra industria e creatività? Come sarebbe mai possibile contenere l’estensione dell’economia di mercato al di qua della soglia delle attività culturali, relazionali e cognitive, quando è proprio tale economia a organizzarle? Ecco che l’industria artistico-culturale è sempre più e necessariamente un terreno di scontro politico in cui faremmo bene a lasciare da parte le maschere identitarie e rassicuranti dell’artista, del curatore o del pubblico, per assumere – nel caso – i ruoli di soggetti politici antagonisti, sabotatori, disobbedienti.

Il fatto che documenta fifteen abbia scelto la strada della mutua cooperazione collettiva e della ridistribuzione delle risorse non la sottrae, di per sé, alla cornice di una delle macchine espositive più potenti del mondo: dunque alle sue ferree regole normative, alle sue esigenze di attrattore economico, alle sue relazioni con il potere politico tedesco.

Délio Jasse, Lotta suprema uomo contro uomo, 2019, emulsione fotografica e serigrafia su carta, serie di 4 elementi, 100×140 cm cad, Courtesy of the artist.

Per questo l’esito più positivo di questa edizione lo trovo proprio nelle contraddizioni (pure violente) che ha messo in luce. Che poi queste passino per ragioni etniche (antisemitismo e islamofobia) e razziali (vandalismi e intolleranza transfobica) invece che di classe non dovrebbe farci perdere di vista la matrice originaria di tutto ciò che – ancora una volta lo ripeto – sta dentro le radicali asimmetrie del capitalismo contemporaneo.

Le prime impressioni ricevute nei giorni della preview, all’opposto, sono state quelle della messa in campo di un solidarismo internazionale (il decentramento, la cartografia dei subalterni, i commons) meravigliosamente articolato ma tutto contenuto entro il recinto tollerato dal potere, verso cui l’impianto di ruangrupa non alzava, né alza barricate. Dunque un deficit di critica istituzionale, di azione politica e di inquadramento paradigmatico, dal mio punto di vista: un’isola decoloniale pacificamente convivente con un sistema neocoloniale e – come hai affermato anche te – collettivi Bipoc autorizzati a performare entro un’istituzione bianca. Nello stesso tempo, abbiamo a che fare con un impianto espositivo molto familiare a me e a certi soggetti della mia generazione che venti anni fa abbiamo operato in questa stessa direzione ma, allora, in parallelo con i movimenti sociali anti-globalizzazione. Se non che, dopo poco, la controversa questione (l’anno chiamata incidente) dell’opera “People’s Justice” del collettivo Taring Padi ha fatto saltare il coperchio dalla pentola e ha sollevato problemi sistemici molto più ampi dell’accusa antisemita. Da un lato, nel 2019 il Bundestag tedesco passa la mozione che condanna il movimento BDS, mettendo al bando ogni possibilità di critica contro Israele. Dall’altro lato, dopo il 2019, invita a curare le manifestazioni artistiche più importanti in Germania (documenta e Berlin Biennale) un collettivo indonesiano proveniente da un contesto islamico e l’artista di origini algerine Kader Attia. Senza aggiungere nulla al carattere duplice del capitalismo contemporaneo (violenza e istituzione, liberalità e censura, governamentalità e guerra), il fatto stesso che la mostra curata da Kader Attia non abbia sollevato nessuna critica da parte istituzionale lascia trasparire molto altro sul suo allineamento al sistema, come sostiene Nidhal. Forse lo Stato tedesco si sarebbe aspettato lo stesso da ruangrupa in modo tale da sdoganare, come legittima e senza frizioni, la risoluzione anti-BDS: ma così non è stato. Per questo mi fa sorridere vedere come tutto un mondo ipocrita e falsamente ingenuo del sistema dell’arte abbia salutato documenta fifteen come un ecosistema vitale e conviviale, quando la posta in gioco di una sua possibile lettura avrebbe dovuto essere ben altra. Naturalmente questa edizione di documenta è piena di amici artisti che stimo moltissimo, ma non è questo il punto.

Studi di teste giovanili di Cesare Biseo (1884), Ritratti di somali di Carlo Celano (1936), Tipo di donna somala di Giuseppe Rondini (1930), Mercato indigeno ad Asmara di Maurizio Rava (1931-35), Strada di Tripoli di Gaetano Bocchetti (1934). Foto di Michele Stanzione.
Studi di teste giovanili di Cesare Biseo (1884), Ritratti di somali di Carlo Celano (1936), Tipo di donna somala di Giuseppe Rondini (1930). Foto di Michele Stanzione.

EV: Con i processi storici di decolonizzazione, quando molti paesi sono diventati indipendenti politicamente, si è erroneamente e illusoriamente pensato che il colonialismo fosse qualcosa di superato, insieme ai rapporti di dominazione e le gerarchie sociali: ci sono invece ancora paesi come la Palestina che continuano a vivere sotto occupazione. Il colonialismo non è solo una coordinata storico-temporale ma un dispositivo di governo funzionale alla modernità capitalistica occidentale [Miguel Mellino]. Non c’è modernità senza colonialità, potremmo dire, il progetto moderno è eurocentrico, coloniale e razziale.

Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Riviste e materiali d’archivio d’epoca coloniale nella teca documentaria reperiti durante le ricerche svolte nell’archivio fotografico Troncone, in archivi privati e istituzioni pubbliche.

«La stessa globalizzazione è stata possibile – scrive Gerardo Mosquera – solo in un mondo profondamente riorganizzato da colonialismo». Sappiamo come l’intreccio tra capitalismo, colonialismo e razzismo sono un tratto costitutivo della modernità. Come vivi, Nidhal, questa condizione nella tua ricerca artistica?

NC: In effetti, la colonizzazione della Palestina ne è oggi l’esempio più eclatante. In diversi Paesi del Sud il controllo neocoloniale, economico e politico non fa che ampliarsi e riconfigurarsi. In Tunisia, ad esempio, possiamo enumerare gli accordi di libero scambio con l’Europa e l’apertura del mercato locale alla concorrenza dei prodotti stranieri [iii], le riforme strutturali imposte dal FMI [iv][, e i nuovi aiuti europei per la produzione di energia verde destinata alla «transizione energetica» di questi membri. Questi sono solo alcuni esempi.

La cultura gioca un ruolo fondamentale nell’imposizione di questi accordi attraverso la pacificazione e il controllo degli sfruttati [v]. Nel suo libro La domestication de l’art – politique et mécénat, Laurent Cauwet sottolinea le strategie di fondazioni di impresa come Imago Mundi di Benetton che espone e colleziona la “diversità” degli artisti del mondo (compresi gli artisti tunisini) mentre sfruttava violentemente gli operai del settore tessile dello stesso Paese. La mia esperienza personale è intrecciata tra due paesi, la Tunisia e la Francia, e gli effetti del triangolo capitalismo-colonialismo-razzismo sono vissuti in modi diversi. Detto questo, c’è un’articolazione da fare tra le due situazioni per comprendere la colonialità nella sua modalità transtorica e transnazionale.

Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Riviste e materiali d’archivio d’epoca coloniale nella teca documentaria reperiti durante le ricerche svolte nell’archivio fotografico Troncone, in archivi privati e istituzioni pubbliche.
.Riviste e materiali d’archivio d’epoca coloniale nella teca documentaria reperiti durante le ricerche svolte nell’archivio fotografico Troncone, in archivi privati e istituzioni pubbliche.
Jermay Micheal Gabriel, Manifesti, 2022. Dettaglio.

Ad esempio, gli archivi fotografici sono un elemento importante nel mio lavoro. In In Francia, l’accesso agli archivi coloniali è difficile, o sono classificati nella sezione diplomatica oppure sono detenuti da organismi privati e quindi consultabili a pagamento. L’accesso e soprattutto il loro utilizzo esclude di fatto le persone che non hanno né «raccomandazioni» né mezzi finanziari (per fare un esempio, l’utilizzazione di un secondo di un video d’archivio all’Ina costa circa 30 euro). In Tunisia, gli archivi rimangono iconograficamente esigui e la modernizzazione delle infrastrutture dipende spesso dagli aiuti occidentali. Anche le politiche di archiviazione sono conformate al modello europeo. La mia ricerca è dunque in tensione tra una memoria accecata e un’altra definita e classificata dai dominanti (come precisa Christine Delphy, colui che classifica controlla). Questa situazione richiede un lavoro di smontaggio, dove l’immaginario, il dirottamento e l’analogia sono gli strumenti che ci permettono di prendere «a contropelo» [Walter Benjamin] la storia come viene scritta.

Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Materiali d’archivio d’epoca coloniale nella teca documentaria reperiti durante le ricerche svolte nell’archivio fotografico Troncone, in archivi privati e istituzioni pubbliche.
Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Materiali d’archivio d’epoca coloniale nella teca documentaria reperiti durante le ricerche svolte nell’archivio fotografico Troncone, in archivi privati e istituzioni pubbliche.

Dallo scoppio del processo rivoluzionario, la vita associativa e culturale è stata sommersa dai finanziamenti europei. Occupano lo spazio lasciato vuoto da un servizio pubblico in rovina. Oggi non c’è nessun evento artistico che non sia finanziato o sostenuto dall’Istituto Francese, dal Goethe Institute e da altri progetti europei di «sostegno alla cultura». Queste politiche di sostegno alla cultura sono per lo più dei capitoli di altri «accordi» più globali, che mirano a un maggiore controllo europeo sull’economia del paese, sull’attività della società e sulla circolazione delle persone. Certamente in un deserto in cui la maggior parte degli artisti sopravvivono, che raramente sono organizzati e non hanno nessuna copertura sociale, non c’è altra scelta se non quella di andare «a cercare il denaro là dove si trova». Tuttavia sarebbe ingenuo non vedere la concordanza tra queste politiche e la totale assenza di spazi artistici e culturali indipendenti o autonomi. Il potere che ti dà con una mano ti controllerà sempre con l’altra.

Trono imperiale etiope, prima metà del XX secolo, Jsira – Sos (2015) e Untitled (2013-2014) diIbrahim Mahama. Foto di Michele Stanzione.
Jermay Michael Gabriel, Davide / ዳዊት, 2019, proiezione su scudo di fine XIX secolo. Courtesy of the artist.

EV: Torniamo alla mostra Il Cono d’Ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare, che si svolge negli stessi spazi che furono parte della Seconda Mostra Internazionale d’Arte Coloniale tenutasi proprio a Napoli, al Maschio Angioino, dal 1 ottobre 1934 al 31 gennaio 1935: da una parte, affronti il ruolo dell’esposizione coloniale come uno dei livelli più alti di auto-rappresentazione del fascismo in Italia, attraverso una riconfigurazione critica ed espositiva in rapporto ad artisti contemporanei della diaspora africana, dall’altra decostruisci i presupposti di quell’economia dello sguardo in termini differenzialisti e razzisti, che esprimeva con esibizioni antropozoologiche e display umani, una particolare forma di «arroganza data dal privilegio e dall’universalismo etnocentrico» [Chandra Mohanty].

Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Materiali d’archivio d’epoca coloniale nella teca documentaria reperiti durante le ricerche svolte nell’archivio fotografico Troncone, in archivi privati e istituzioni pubbliche.
Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Materiali d’archivio d’epoca coloniale nella teca documentaria reperiti durante le ricerche svolte nell’archivio fotografico Troncone, in archivi privati e istituzioni pubbliche.

Ancora oggi, l’incommensurabilità politica della costruzione dell’Alterità, su cui si reggono molte retoriche neo-coloniali e neo-arcaiche, frutto di un’egemonia che agisce sempre a vantaggio di qualcuno (chi controlla questi criteri) e a svantaggio degli altri (chi vede le cose in maniera differente), continua ad essere problematica. Quale “modernità segreta”, per dirla con Peter Friedl, emerge da questo rimosso coloniale?

MS: L’idea di “mostra situata” è uno dei miei preferiti strumenti di intervento: tanto in Italia che in Cina o altrove. Così la scoperta che nel Maschio Angioino si fosse tenuta, nel 1934, la Seconda Mostra Internazionale d’Arte Coloniale mi ha permesso di sovrapporre storia dell’arte, storia delle esposizioni e storia del colonialismo. Si tratta di una coincidenza unica in cui, all’interno di uno stesso luogo, puoi ripetere una medesima mostra ma di segno rovesciato. Ma come decolonizzare una mostra che si autodefinisce a statuto coloniale? Non è una contraddizione in termini? Direi che, certo, lo è ma che non è questo il punto. Si tratta, semmai, di riaprire gli archivi di un passato che non è ancora estinto ma occultato, di rileggerne la produzione semiotica da un punto di vista contemporaneo e da una prospettiva opposta, quella di artisti afrodiscendenti: decostruendo la tipologia espositiva, l’imagerie coloniale fascista e gli stereotipi culturali nella costruzione dell’altro razzializzato, sessualizzato, subordinato.

Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Dettaglio teca documentaria.

Le narrative decoloniali sono quelle che emergono dal confronto con gli artisti contemporanei invitati. La mostra del ’34-’35 è sicuramente qualcosa di importante perché fa da cerniera tra la prima mostra coloniale di Roma del ’31 e la Triennale d’Oltremare del ’40. Anticipa quest’ultima in molti modi, in particolare per le sezioni retrospettive sull’arte italiana e per le ricostruzioni architettoniche ambientali. Coincide anche con il biennio di preparazione del piano espansionistico mussoliniano nel Corno d’Africa. In tale contesto, la mostra napoletana è una grande macchina di propaganda e consenso.

Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Dettaglio teca documentaria.
Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Dettaglio teca documentaria.

In sostanza, Il Cono d’Ombra mi ha anche permesso di sviluppare quanto era presente nella mostra che avevo curato ad FM a Milano nel 2017: Il Cacciatore Bianco. In quel caso il tentativo era stato quello di ricostruire la sala 7 alla Biennale di Venezia che prendeva il titolo di “Scultura Negra” e presentava 33 sculture e maschere tribali africane. Una sala precedente metteva in mostra documenti originali fascisti, modelli architettonici coloniali e il film di Gianikian Ricci Lucchi, Pays Barbare sull’Etiopia.

Ricostruzione della mostra “Scultura negra” alla XIII Esposizione Internazionale d’Arte della Città di Venezia, 1922; Il Cacciatore Bianco/The White Hunter. Memorie e rappresentazioni africane, a cura di Marco Scotini, FM Centro per l’Arte Contemporanea, 2017.
Ricostruzione della mostra “Scultura negra” alla XIII Esposizione Internazionale d’Arte della Città di Venezia, 1922; Il Cacciatore Bianco/The White Hunter. Memorie e rappresentazioni africane, a cura di Marco Scotini, FM Centro per l’Arte Contemporanea, 2017.
Teca documentaria con libri e materiali d’archivio; Il Cacciatore Bianco/The White Hunter. Memorie e rappresentazioni africane, a cura di Marco Scotini, FM Centro per l’Arte Contemporanea, 2017.

Senza avere qui la possibilità di raccontare tutti i passaggi de Il Cono d’Ombra, porterei un solo esempio per mostrarne la costruzione. Al centro della prima sala si interfacciano due opere pittoriche e due modelli espositivi. Da un lato una grande impalcatura a tubi innocenti fa da dispositivo precario a due grandi disegni di Nidhal Chamekh dedicati al tema dell’esilio e alla memoria del poeta palestinese Mahmoud Darwish. L’archivio di immagini mnemoniche di Nidhal (ma anche Delio Jasse, Amina Zoubir, Intissar Belaid, Jermay Michael Gabriel usano l’archivio) è sempre la rappresentazione fantasmatica e spettrale di un esilio. Speculare a questa struttura e in un display museale classico, il quadro orientaleggiante “Mercato indigeno ad Asmara” è di Maurizio Rava degli anni ’33-’35. Ma chi è Maurizio Rava? Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Roma, poi Governatore della Somalia, irriducibile fautore del colonialismo italiano, è anche tra i sostenitori dell’architettura razionalista portata avanti dal figlio Carlo Enrico Rava tra i firmatari del Gruppo 7 e autore di “un’ambientazione modernamente coloniale”.  Non ultimo, essendo ebreo, Maurizio Rava viene salvato dalle persecuzioni delle norme razziate del ’38 per diretta intercessione di Mussolini. Non è questo connubio tra modernità e colonialismo al centro di quella “modernità segreta” messa in luce anche dal mio amico Peter Friedl?

Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Dettaglio teca documentaria.
Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Dettaglio teca documentaria.
Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Dettaglio teca documentaria.

EV: La mostra è dedicata a Lidia Curti, che forse per prima nel contesto culturale e accademico italiano – e a partire da un posizionamento femminista – è stata una pioniera nel creare una connessione tra critica femminista e postcoloniale e nell’anticipare il concetto stesso di intersezionalità. Come emerge dalla sua produzione teorica le scritture dai margini si trasformano in un contro-archivio postcoloniale rispetto all’egemonia dell’impero coloniale (britannico ed eurocentrico): è qui che le “fabulazioni femminili”, incarnate nelle differenze di razza e genere, diventano contro-narrazioni. Nel suo omaggio dopo la scomparsa di Stuart Hall, Curti scriveva «Hall parla del suo rapporto con il femminismo, della sua irruzione, “come il ladro nella notte, interrompendo i silenzi, facendo un rumore indecente, sequestrando il tempo, cagando sul tavolo dei Cultural Studies”» [vi]. Come hai conosciuto Lidia Curti e come hai inteso, seguendo il suo pensiero, le contro-storie delle voci della diaspora nella struttura della mostra?

Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Materiali d’archivio d’epoca coloniale nella teca documentaria reperiti durante le ricerche svolte nell’archivio fotografico Troncone, in archivi privati e istituzioni pubbliche.
Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Riviste e materiali d’archivio d’epoca coloniale nella teca documentaria reperiti durante le ricerche svolte nell’archivio fotografico Troncone, in archivi privati e istituzioni pubbliche.

MS: Con Lidia Curti ci siamo conosciuti solo nel 2018 e grazie ad un progetto nel Matese sul design rurale, poi abbiamo continuato a sentirci fino alla sua scomparsa. Ma conoscere una figura come Lidia lascia un segno indelebile. Il fatto che insieme a Iain Chambers abbia fondato un istituto come il Centro Studi Postcoloniali e di Genere all’interno dell’Orientale mi è sembrato un elemento imprescindibile in rapporto alla mostra al Maschio Angioino. Ma volevo farle anche una dedica personale, dovuta alla nostra amicizia. In particolare, all’interno de Il Cono d’Ombra c’è una sala dedicata al genere con opere dell’artista algerina Amina Zoubir e di Pamina Sebastiao, artista angolana e attivista del movimento LGBTQI, oltre a Kiluanji Kia Henda. Il travestitismo di Kiluanji, le fratturazioni fotografiche del corpo colonizzato di Amina e gli assemblaggi composti di Pamina si contrappongono alle figure femminili in bronzo, stereotipizzate e occidentalizzate, di Mario Montemurro del 1936, oltre che alle raccolte di cartoline di nudi femminili africani che hanno fatto parlare delle colonie italiane come di “colonie per maschi”. Ma si potrebbe continuare…Certo, la prospettiva è comunque quella di un’identità multiforme, di una politica intersezionale all’incrocio tra genere, razza e classe.

Amina Zoubir, The Fragility of a Trace, installation of 19 pieces, photo collage and charcoal on cardboard, 17 pieces 40×65 cm and 2 pieces of 40×24 cm. Photo collection of MARKK Museum, Hamburg Germany, 2021. © Amina ZOUBIR – ADAGP (PARIS)

EV: In una recente intervista, Miguel Mellino ha parlato di uno «sguardo postcoloniale» – prodotto come sedimentazione teorica e culturale dalle lotte anticoloniali, antimperialiste, dei femminismi non-occidentali e delle lotte antirazziste di neri e migranti – che diventa “rappresentazione” come rovescio critico della governamentalità neoliberale. Anche tu parli di contro-narrazioni e la mostra intende anche puntare l’attenzione sul ruolo delle arti visive nella diffusione dell’ideologia coloniale. Per giustificare i rapporti di potere e legittimarli come rapporti naturali, la riproduzione delle differenze – di razza, classe e genere – è iscritta dentro le disuguaglianze e le gerarchie sociali: alla fine, la chiave per mantenere il potere coloniale era l’assoluta visibilità delle sue gerarchie… Come decolonizzare lo spazio della mostra oggi?

MS: Credo che la decolonizzazione dello spazio di una mostra vada oltre il tema coloniale che tratta. Intendo superare le retoriche semplicistiche, tutte interne alle forme del capitalismo contemporaneo, che procedono per slogan facilmente comunicabili e che non fanno altro che ricolonizzare altrimenti i nostri spazi di conoscenza e di vita. Pensa alla fortuna virale di un termine come «antropocene» che ho criticato in molte occasioni. Stessa sorte mi pare quella di «restituzione» e «riparazione». Mi pare che tutta questa intervista muove dalla valutazione controversa di uno dei campioni della « riparazione » come Kader Attia, contro cui oltre che Nidhal e Intissar, si sono mossi solo alcuni artisti iracheni partecipanti alla Biennale di Berlino. Gli altri che fanno? «Riparano»?

Il cono d’ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Materiali d’archivio d’epoca coloniale nella teca documentaria reperiti durante le ricerche svolte nell’archivio fotografico Troncone, in archivi privati e istituzioni pubbliche.
Muna Mussie, Punteggiatura, 2018, libro ricamato a mano, 45x35x10 cm (dettaglio), Courtesy the artist.
Punteggiatura di Muna Mussie (2018). Foto di Michele Stanzione.

Tanto più che nel caso italiano nessuno conosce realmente la nostra storia coloniale, pur incorporandone ancora tutti gli stereotipi, le violenze, le discrimazioni criminali come dimostra il caso dell’assassinio per strada di Alika Ogorchukwu. E non bastano i moralismi di fronte a questi casi che sono, per loro natura, strutturali. Tornando al caso della decolonizzazione dello spazio espositivo, posso affermare con tranquillità che la prima cosa da cui dobbiamo decolonizzare il nostro sguardo è proprio il concetto modernista di arte, con tutte le sue gerarchie, le sue esclusioni, i suoi paradigmi. Molti anni fa ho lavorato sul concetto dell’urbano e già sottrarre la distinzione tra tecnici e non esperti (i normali cittadini) ai fini della conoscenza della città, mi è parso già un grande movimento in avanti. Ma se in tutta questa questa storia rimane ancora un punto da approfondire, questo non è relativo al fascino dell’esotico, alla costruzione dell’Alterità e alla difesa del Medesimo, ma fa riferimento a qualcosa di più paradigmatico e radicato. Qualcosa che vedo come «il limite» del nostro pensiero. L’impossibilità di pensare l’arte altro che come categoria culturale bianca, maschile, imperialista e borghese, al di là delle maschere che continuiamo a farle indossare.

Figure femminili in bronzo di Mario Montemurro (1937-38), The Fragility of a Trace di Amina Zoubir (2021), The Great Italian Nude di Kiluanji Kia Henda (2010). Nella teca The Golden Age – Reversed exploration di Amina Zoubir (2021). Foto di Michele Stanzione.
Death by Registration di Pamina Sebastião (2021). Foto di Michele Stanzione.
Manifesti di Jermay Michael Gabriel (2022), Exhil I e Nos Visages di Nidhal Chamekh (2019), Studi di teste giovanili di Cesare Biseo (1884), Ritratti di somali di Carlo Celano (1936). Foto di Michele Stanzione.
Mario Montemurro, Maternità galla, bronzo, particolare, 1937. Courtesy Museo delle Civiltà – MPE “L. Pigorini”, Roma.
Augusto Valli, Ques Abuba Autotu (Il Negus Meenelik II), 1891. Cortesy Museo delle Civiltà – MPE “L. Pigorini”, Roma. Il Negus che sconfisse gli italiani durante la guerra in Abissinia nella città di Adua.

L’esposizione Il Cono d’Ombra. Narrative Decoloniali dell’Oltremare – a cura di Marco Scotini, da un progetto di Andrea Aragosa per Black Tarantella e FM Centro per l’Arte Contemporanea, in collaborazione con l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, con il patrocinio della Regione Campania, del Comune di Napoli e della Mostra D’Oltremare – è dedicata a Lidia Curti (1932-2021), co-fondatrice del Centro Studi Postcoloniali e di Genere di Napoli.

Un ringraziamento speciale a Duccio Scotini per la traduzione dal francese.

Délio Jasse, Mediterraneo, 2019, emulsione fotografica e serigrafia su carta, serie di 3 elementi, 70×100 cm, Courtesy of the artist.

note:

[i] https://www.middleeasteye.net/opinion/food-art-and-literature-how-israel-stealing-arab-culture

[ii] https://www.middleeasteye.net/opinion/israel-palestine-food-colonial-conquest-target-how

[iii] https://survie.org/billets-d-afrique/2019/286-mai-2019/article/tunisie-de-quoi-l-aleca-est-il-le-nom

[iv] https://inkyfada.com/en/2021/12/16/resumed-negotiations-tunisia-fmi/

[v] https://inkyfada.com/en/2021/05/11/tunisia-ramadan-harga-oim-campaign-migration/

[vi] Lidia Curti, Su Stuart Hall. Gli studi culturali accanto al vulcano, in Roots-Routes: https://www.roots-routes.org/performing-historysu-stuart-hall-gli-studi-culturali-accanto-al-vulcanodi-lidia-curti/

Kiluanji Kia Henda, Havemos de Voltar (We Shall Return), 2017, video still, single-channel video on monitor (color, sound), 17’30”. Courtesy Galleria Fonti – Napoli.
Kiluanji Kia Henda, The Great Italian Nude, 2010, inkjet print mounted on aluminium, 100×150 cm. Courtesy Galleria Fonti – Napoli.
Maurizio Rava, Mercato indigeno ad Asmara, 1931-35. Dettaglio, olio su tela. Opere esposte alla Seconda Mostra Internazionale d’Arte Coloniale (1934-35). Courtesy Museo delle Civiltà – MPE “L. Pigorini”, Roma.




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