Molte delle retoriche che hanno condizionato il nostro sguardo verso le differenze sono state ereditate dal colonialismo e condizionate da regimi visivi messi in atto attraverso rappresentazioni culturali ancora oggi radicate dentro il paradigma espositivo della modernità. Ne La Natura e la Preda – Storie e cartografie coloniali, collettiva in corso al PAV Parco Arte Vivente di Torino, gli artisti invitati, Irene Coppola con Vito Priolo, Edoardo Manzoni, Daniele Marzorati e Alessandra Messali, hanno tentato di riscrivere quelle parti dell’esperienza storica che sfuggono a un certo ordine di rappresentazione egemonica, riflettendo sull’esotismo e il neo-orientalismo, la caccia e la predazione, la sperimentazione coloniale sulle piante e la vegetazione intesa come agente politico nei processi di controllo del territorio nel mondo coloniale e postcoloniale del Sud, per mostrare sia l’implicazione delle arti visive nella costruzione dell’ideologia e del potere coloniale, sia la violenza epistemica operata dall’imperialismo e la dominazione della griglia coloniale.
Attraverso un gioco di rimandi e
personificazioni, ciò che accomuna le loro ricerche trae significato nell’orientare
lo sguardo verso un ordine che rimane invisibile. Ne deriva quella che il
curatore Marco Scotini ha definito la teoria della preda, secondo
la quale «la preda è sempre l’oggetto di una strategia mirata, di un
posizionamento conferito in rapporto ad altri soggetti, di uno statuto
attribuito dal predatore: l’effetto di un processo di distinzione, di
gerarchizzazione, di esclusione da ordini condivisi in virtù del quale qualcosa
diventa cacciabile» [i].
L’essere preda, quindi, è sempre qualcosa che si acquista con la violenza e la cattura. Implica uno squilibrio di potere, un’azione che abbiamo legittimato ed attribuito a un rapporto dato come naturale. Le gerarchie razziali e il progresso storico sono stati naturalizzati. Tuttavia, è giunto il momento di prendere atto di tali rapporti di potere gerarchizzanti e agire per decostruirli, affrontando così la drammatica attualità della memoria coloniale.
Se ancora oggi le
nostre città italiane sono piene di reminiscenze del passato coloniale, è vero dopo
il fascismo, l’Italia ha rimosso la propria storia coloniale fornendone
una versione nostalgica e contraffatta. Come scrive Peter Friedl in Modernità
segreta: «Del
colonialismo, tramontato insieme a Mussolini, rimasero storie sentimentali
e avventurose, racconti di vacanze e il sentimento diffuso che in
fondo non si era mai fatto sul serio. Nessuno dovette assumersi
la responsabilità dei crimini di guerra commessi. Mentre Ghana, Guinea,
Tunisia e Sudan si proclamavano indipendenti, Africa parla
pubblicava ogni dieci giorni reportage fotografici su indigeni africani
e spedizioni italiane d’epoca
coloniale. Per qualche anno continuò
persino a esistere
il Ministero dellʼAfrica
italiana. Finché la Somalia
non ottenne l’indipendenza, nel 1960, l’Italia
poté continuare ad amministrare la sua ex
colonia su mandato dellʼONU» [ii].
Gli artisti ci
raccontano le loro pratiche ed estetiche di contro-visualità che attivano
processi di riappropriazione di immagini, sguardi, segni e rappresentazioni per
comprendere dentro l’ordine della natura le differenze e le disuguaglianze
prodotte da rapporti sociali.
Interviste a cura di Barbara Niniano, Alessia Riva e Federica Rizzo.
Edoardo Manzoni
Trappole, trofei e predatori: la
preda incatturabile e l’artista prestigiatore
L’ambiguità
tra presenza e assenza fa parte della tua ricerca artistica. Nelle opere
esposte in mostra, infatti, è forte il rimando alla caccia e all’essere preda
e/o cacciatore. È facile ritrovare il concetto di camouflage e di nascondimento
– tipico del predatore – nella scelta di omettere il cacciatore stesso dalla
dinamica della scena, lasciando un vuoto che va paradossalmente a sottolinearne
la sua partecipazione. Si potrebbe affermare che, oggigiorno, all’interno di
grandi istituzioni “cacciatrici” che guidano il sistema dell’arte, vengano
sfruttati – in modo subdolo e pienamente consapevole – temi pregnanti legati al
post-colonialismo (bianchezza, appropriazione culturale, scardinamento della
visione eurocentrica, ecc.…), soltanto per attrarre lo spettatore “preda”,
senza dunque apportare alcun cambiamento o critica a livello sistemico?
Edoardo Manzoni: Il mio lavoro è fatto di strumenti di attrazione e repulsione,
apparizione e dissimulazione che prendono spunto dall’immaginario tecnico e
visivo della caccia. Cerco di sottolineare come l’artista non si comporti
diversamente da un cacciatore o un abile prestigiatore. Le opere in scena sono
specchietti per le allodole, dispositivi seducenti e ingannevoli. La vostra
domanda mi fa pensare che se il sistema può essere considerato come una grande
battuta di caccia dissimulata, l’artista da cacciatore può divenire strumento
delle istituzioni, trappola da catturare per attirare lo spettatore-preda. Lo
stesso riguarda lo sfruttamento di tematiche specifiche all’interno di
meccanismi di rappresentazione. In fondo le grandi manifestazioni rientrano in
una logica pubblicitaria capitalista che non è altro che il riflesso della
nostra società. Sono d’accordo dunque con questa osservazione, forse ci sarà un
vero cambiamento a livello sistemico quando verrà meno una logica predatoria,
dove qualcosa o qualcuno viene a prescindere etichettato come preda e dunque
oggetto di una strategia mirata. La chiave del
mutamento potrebbe essere proprio il pubblico e il suo ruolo da preda da
scardinare.
L’assenza
della figura del cacciatore è dovuta alla volontà di spronare lo spettatore ad
immedesimarsi nella figura mancante? Se sì, questa immedesimazione ha il fine
di sensibilizzare il visitatore riguardo le atrocità messe in atto con la
conquista durante l’epoca coloniale, oppure è una critica severa delle violenze
perpetrate anche dal popolo italiano, di cui tutti noi dovremmo assumerci la responsabilità?
EM: Nelle mie opere
l’assenza della figura del cacciatore, non fa altro che evocarne la presenza.
Nel caso delle scene di caccia stampate su materiale riflettente cerco di
spingere lo spettatore a chiedersi se davvero voglia specchiarsi in quell’immagine
o meno. Nel caso delle opere proposte al PAV di Torino, ho lavorato con le
immagini di caccia grossa in Africa durante il periodo coloniale. La
rappresentazione della “bestia” domata e uccisa, i pericoli corsi e le forti
emozioni provate dai cacciatori sono esasperati al fine di rendere la battuta
di caccia un’impresa eroica. La caccia grossa diviene strumento esotizzante,
metafora dell’assoggettamento della popolazione indigena e simbolo di conquista
destinato a radicarsi nell’immaginario collettivo. Il gesto di cancellatura qui
è più severo che mai, perché si parla davvero della rimozione da parte nostra
di un passato colonialista e delle atrocità commesse.
I
dispositivi di cattura possono essere uniformati a macchine che generano
governamentalità, intesa come meccanismo istituzionale e fisico che migliora e
mantiene l’esercizio del potere all’interno del corpo sociale. Le tue
opere sono concepite anch’esse come dispositivi di cattura, tuttavia, si
presentano come innocui agli occhi dell’osservatore. In che misura quest’ultimi
possono divenire arma o strumenti di rottura e cambiamento in un ambiente
post-coloniale ancora così tanto costellato da contraddizioni e comportamenti
inadeguati?
EM: La violenza è celata
dietro un’ambiguità apparente, i miei dispositivi rimangono volutamente sospesi
tra l’oggetto potenzialmente pericoloso e l’elemento giocoso, innocente. Il mio
lavoro nasce già come contraddizione, perché vuole sottolineare come gli
strumenti che ci circondano implicano sempre un sottotesto. Credo che la
rottura possa nascere prima da una comprensione di ciò che c’è già, dei suoi
meccanismi di funzionamento più profondi. Cercare di cambiare le cose partendo
dalla superficie, in un sistema come quello dell’arte rischia di produrre solo
una versione spettacolarizzata e sterile, funzionale ai meccanismi di potere e
governamentalità che si voleva criticare.
Daniele Marzorati
Il rimosso coloniale e la fabbricazione
della differenza: i dispositivi di distanziamento dell’Altro
In Atlante del corpo coloniale troviamo alcuni scatti e ingrandimenti fotografici che esibiscono veri e propri spaccati di realtà, come musei di scienze naturali o archivi, in cui si percepisce ancora la tassonomia coloniale e che si presentano come strumenti che separano e mostrano: display, teche di vetro, fotografie, film documentaristici. In un’epoca come quella contemporanea, interculturale da una parte e strettamente legata a processi storici di dominazione dall’altra, pensi che la restituzione dei patrimoni coloniali (oggetti, opere, archivi, ecc.…) siano sufficienti per favorire la ricostruzione di quelle identità che per lungo tempo sono state oscurate, agevolando una riscrittura della storia che dia spazio anche a voci e visioni altre?
Daniele Marzorati: Non sono sinceramente in grado di stabilire se la
restituzione di oggetti illecitamente prelevati da un luogo sia sufficiente a
questo scopo. Personalmente credo sia un passaggio importante anche se si
tratta di un gesto parziale. Spesso l’idea di restituzione è usata da salva
condotta al pari della retoricità di altri termini come “decolonizzare” e
“identità”.
Altra distinzione riguarda
il termine restituzione se pensato come operazione artistica che riporta alla
luce ciò che è contenuto negli archivi, dunque non mostrato al pubblico, questo
gesto mi sembra altrettanto parziale.
In aggiunta, il processo di costruzione di nuove identità non possiamo pensare che scaturisca naturalmente dal concetto di restituzione, è molto più complesso. Nello specifico il mio lavoro non vuole ricostruire alcuna identità, credo sarebbe parziale quanto le identità che gli esploratori coloniali hanno costruito, forviato e anche inventato.
L’antropologo Francesco
Remotti rifiuta il concetto d’identità perché esercita la riduzione e
complicazione delle caratteristiche che nella realtà si presentano come sfumate
e complesse.
Concordo pienamente con questa visione e spero che nel mio lavoro i due termini, “sfumato” e “complesso”, diventino oggetti poetici. Cerco si spiegarmi con un esempio: rendere i toni morbidi e quasi cremosi di una stampa che ha per oggetto uno squalo martello risemantizza la violenza predatoria a cui è associato l’animale attraverso una trasformazione, per mezzo della tecnica, di ciò che si trova nella realtà.
Operazione non troppo
eloquente, ma distante dalla riduzione identitaria necessaria al potere. In
continuità a questa logica, nella mostra si trovano fotografie scattate
direttamente in musei o archivi perché, prima di parlare di decolonizzazione,
penso sia fondamentale conoscere cosa il colonialismo è stato ed essendo una
relazione specifica tra oggetti, luoghi o corpi ho cercato di osservarla (in
quanto relazione, dunque immateriale) attraverso ciò che ha subito quel
trattamento. Focalizzarsi sul corpo, in un periodo di dematerializzazione e
digitalizzazione, va nella direzione della complessità. Per questo motivo ho
scelto di guardare la collezione Bottego a Parma o l’elefante di From the darker to the lighter esposto
al Museo Friulano di Storia Naturale di Udine cercando di eliminare la
mediazione delle gabbie museali o escludendo il più possibile la mia
partecipazione, come nelle immagini prodotte al Centro Studi Erbario Tropicale
di Firenze.
Ora, a posteriori, direi
che per me è stato importante poter vedere, confrontarmi e cercare di aprire un
dialogo con gli archivi, i mobili e i vetri che portano con sé il tempo del
colonialismo, che contengono i corpi degli animali e ricontestualizzano la
vegetazione. In conclusione potrei provocatoriamente dire che il vero atto
poetico è forse stato quello della mancata restituzione che, oltre a rivelare
delle tracce fisiche di violenza subita, ci fa sentire osservati oltre che
osservatori.
Dal tuo punto di vista, in
che modo le tracce del passato coloniale hanno influenzato i codici visivi
contemporanei?
DM: Dovendo circoscrivere la domanda posso dire che in
Italia fino a pochi anni fa la coscienza dell’esperienza coloniale era
marginale, relegata a ricercatori e, per quanto riguarda la produzione visiva,
credo che gli stereotipi dell’esotismo e delle altre topiche coloniali fossero
usate quasi esclusivamente come oggetti provocanti o estetizzanti; ma questo
aspetto credo sia veramente poco interessante.
Per quanto mi riguarda, nel
paese in cui il classico e l’antico sono radice del nostro pensiero, io tengo a
cercare nelle tracce del passato per abbandonare contemporaneamente i
passatismi e la frenesia dell’attualismo. A partire dall’osservazione della
realtà, che ogni volta ci appare sconcertante e deludente, spero di trovare
qualcosa che essa ancora non ci aveva rivelato, o forse, per nostra cecità, qualcosa che in essa non eravamo ancora in grado di leggere. In un periodo in cui la cancellazione del passato diventa gesto
semplificatorio e populista o strumento di un’estetica didascalica, scegliere
di confrontarmi con figure del passato, dagli archivi alla botanica, è stato il
mio modo per approcciare con altri strumenti i codici visivi. Cerco di
distanziarmi dall’individualismo che, per portare il proprio soggetto in primo
piano, cancella il resto prima di conoscerlo.
È molto interessante il rapporto tra
colonialismo e natura che indaghi attraverso la tua pratica artistica, spesso
infatti non si pensa alla botanica come elemento di lotta e alle piante come
entità politiche. Secondo te perché?
Si potrebbe dire che la supremazia delle multinazionali sulle sementi abbia
portato ad un nuovo tipo di colonialismo che spinge alcune comunità del globo a
vivere di stenti, oppure pensi che lo sfruttamento coloniale in ambito botanico
sia terminato?
DM: Il pensiero coloniale che è antropocentrico stabilisce il binomio natura-cultura e riduce la botanica ad un oggetto da ammaestrare, esterno all’uomo, quindi esterno alla polis e alla politica. Ciò spiega, anche molto sommariamente, il motivo principale per cui la botanica è contemporaneamente oggetto del colonialismo ma la si percepisce come esterna. Mi sembra che in questo momento botanica sia un oggetto da talk show, un rifugio peccatorum con il quale si cerca di sopperire alle mancanze della vita cittadina.
Nel mio lavoro la relazione con la botanica come
elemento non necessariamente romantico e periferico è presente non solo in
riferimento al rapporto con il colonialismo. Sezioni, un gruppo di immagini che sviluppai nel 2014-2015 nei
boschi della Sardegna ed esposi anche in una precedente mostra collettiva al
PAV, fa riferimento alla costruzione del paesaggio come oggetto politico e usa
il concetto di sezione non solo come taglio degli alberi ma come oggetto che,
dal taglio fisico, crea una seconda o terza via. Poeticamente ipotizzo quindi
che dalla sezione si crei un legame, sui negativi di grande formato con cui ho
realizzato il lavoro ho accostato, direttamente durante le riprese, come un
collage eseguito in live, luoghi distanti. In questo modo il negativo, che
diventa una specie di territorio contenitore di più immagini, perde la totalità
della sua risoluzione per una singola immagine e ridistribuisce sulla superfice
una geografia non misurabile.
Da questo lavoro ho iniziato a pensare alla
botanica in modo non neutrale e da lì ho iniziato a usare l’idea di
separazione, quindi anche di perdita, come oggetto contro intuitivo che
paradossalmente aggiunge significato.
Un esempio di questo concetto non in ambito
estetico ma economico, lo troviamo nelle comunità che vivono al di fuori della
città, nel sud America o in zone rurali dell’Africa, e al loro uso della
decrescita come oggetto strutturale per la loro sopravvivenza. Direi quindi che
gli effetti della globalizzazione, in cui alcune multinazionali hanno il
dominio non solo sulle sementi, ma anche sulle politiche di sfruttamento dei
territori è evidente. Ciò che in quei luoghi si trova di interessante non sono
le multinazionali, ma altre piccole comunità che utilizzano le risorse
diversamente, considerando la decrescita e la redistribuzione come possibilità
di aumento condiviso.
Alessandra Messali
La decostruzione dell’esotico, tra
produzione di un discorso altro (anticoloniale) e riproduzione del
discorso dell’Altro (neocoloniale).
La rappresentazione teatrale EMILIO SALGARI AND THE TIGER – A
Story written in far away Italy, set in Guwahati 1870 è nata con l’intento
di indagare le differenze e le incongruenze tra i testi scritti da Salgari e le
reali dinamiche sociali, culturali e territoriali in India, in particolare di
Guwahati. Alla luce di quanto emerso durante le lecture che hai tenuto nelle
università locali, quanto è importante oggi portare avanti progetti che parlino
di politica della rappresentazione in luoghi notoriamente costituiti da un
melting pot di culture, di gruppi con minoranze etniche e comunità spesso
razzializzate?
Alessandra Messali: Nella primavera del 2013 arrivai
per la prima volta nella città di Guwahati. Fin da subito mi fu chiaro come le
stereotipizzazioni siano facilmente messe in crisi dalla vivacità e dinamismo
della realtà, soprattutto in territori come quello dell’Assam da sempre luoghi
di transito e melting pot di culture,
dove le religioni, le tradizioni e la corposa presenza di comunità indigene si
confrontano con un paese in continuo cambiamento e crescita, in modo armonico
ma talvolta anche conflittuale. Un paese nel quale nel XXI secolo coesistono
vestiti industriali e seta Muga, dove
le danze tradizionali Bihu si
alternano a coreografie imparate su youtube. Conoscevo molto poco i territori
che stavo andando a frequentare e il mio potere economico, in quanto
occidentale, mi permetteva di muovermi con molta facilità. Oltretutto il mio
corpo, indice della mia provenienza, assumeva molte volte una posizione
dominante nel contesto e nelle relazioni. Un ingiustificato “salto di classe”
che, in questa dinamica a me estranea, faceva avanzare una specie di
frustrazione, forse vergogna? Credo che questo sia un sentimento dominante
nella nostra contemporaneità, o quantomeno che mi domina. Intuivo che l’unica
via possibile per la realizzazione di un progetto non sarebbe stata quella di
contrastare questo sentimento ma piuttosto di provare ad indagare dove si
radicava e di conseguenza arrivai a pormi delle domande riguardanti il mio
occhio orientalista e il mio immaginario legato all’India.
Qual è stata la prima volta che ho pensato all’India?
Come l’ho immaginata? Ero nella District Library di Guwahati nel 2014 quando
scoprii che alcuni libri di Emilio Salgari sono ambientati in Assam, mi
confrontai immediatamente con alcuni conoscenti assamesi e capii subito che
quei libri potevano essere uno strumento prezioso dal quale partire.
Successivamente entrai in contatto con alcuni studiosi salgariani tra i quali
Felice Pozzo che furono essenziali per la mia comprensione dell’opera
dell’autore, per poi discuterne a Guwahati durante le lecture dove provavamo a capire il rapporto tra le narrazioni e le
fonti, la stereotipizzazione e ci domandavamo: è possibile trovare un terreno
di negoziazione tra chi rappresenta e chi viene rappresentato? Forse no. Però
sappiamo che nel romanzo d’avventura Alla
conquista di un impero, scritto da Emilio Salgari nel 1907, è descritta la
pagoda di Karia che si trova a poche miglia dalla città indiana di Gauhati[iii], su un’isola nel mezzo del fiume
Brahamaputra. Sappiamo anche che nella realtà la pagoda di Karia non è mai
esistita, tuttavia sullo stesso fiume e all’incirca alla stessa distanza da
Guwahati esiste un’isola dove sorge il tempio di Umananda.
Sono molto incuriosita dai progetti che tentano di
districarsi tra le politiche della rappresentazione, è un bacino vitale,
brulicante e, per diversi aspetti, rischioso. Le probabilità di fare degli
errori e di non esser sempre accomodanti, con sé stessi e con gli altri, è
molto alta; credo che anche in EMILIO
SALGARI AND THE TIGER ci siano state delle criticità. Soltanto voglio che i
miei progetti abbiano questo impulso generativo, una certa vitalità che
ovviamente non è sempre governabile.
I libri di Salgari sono stati
accusati di essere a volte orientalisti e stereotipati perché le fonti da cui
si documentava l’autore erano filtrate dagli stereotipi e pregiudizi dell’epoca
ottocentesca. Contando il fatto che anche tu appartieni alla cultura di
Salgari, molto diversa rispetto a quella indiana, hai trovato particolari
difficoltà a portare avanti questo progetto?
Nonostante i numerosi strumenti
che oggi abbiamo a disposizione per differenziare il reale dal verosimile,
quanto è importante il punto di vista di chi osserva la scena e chiedersi “chi
sta parlando”?
AM: Riguardo l’introduzione a questa
domanda vorrei proporre la lettura del saggio L’India e gli indiani nell’opera di Emilio Salgari [iv] del professore Michelguglielmo Torri. Testo che,
citando l’autore: «parte dalla constatazione che il fine che Salgari si poneva
nelle sue opere era quello di divertire e di istruire. Il problema è che, nella
misura in cui voleva ‘istruire’, Salgari convogliava una visione negativa e
sostanzialmente razzistica dell’India e degli indiani; nella misura in cui
voleva ‘divertire’, questa visione veniva superata, e l’immagine dell’India e
degli indiani assumeva una serie di elementi fortemente positivi. Questo
contrasto derivava dallo scontrarsi di due elementi, cioè dal conlitto fra le
fonti usate dall’autore e la sua più profonda visione degli esseri umani: le
fonti erano razziste; la visione salgariana degli esseri umani era tanto
solidamente egalitaria e antirazzista da imporsi sul materiale documentario di
cui Salgari si serviva». Il mio progetto non è nato con l’intento di andare a
fare le pulci ai libri di Emilio Salgari, che dobbiamo ricordare essere romanzi
d’avventura scritti da un autore del XIX secolo, piuttosto dalla volontà di
capire come questi immaginari siano ancora vivi dopo più di un secolo e come
contribuiscano ancora oggi a dare forma alla nostra percezione della realtà.
Con gli strumenti appartenenti alla sua epoca Emilio Salgari tentava di
superare le sue fonti deviando i modelli proposti dalle fonti stesse. Mi sono
chiesta: cosa accade se la ricezione di un’immagine letteraria pensata per un
pubblico, viene dislocata nel contesto culturale che è in primo luogo il
soggetto delle narrazioni? Come avete introdotto voi nella domanda, il centro
del progetto è sì chiedersi “chi sta parlando?” ma allo stesso tempo “con quale
interlocutore?”.
Se ripenso alle difficoltà affrontate nello sviluppo, penso più al contesto italiano che a quello indiano, soprattutto al fatto che non siamo riusciti a trovare fondi e quindi, dopo diversi tentativi, ho deciso di co-produrlo con l’associazione Microclima (Venezia). In India invece, dopo la prima esperienza di adattamento, è stato abbastanza immediato per me orientarmi: comunicavamo in Inglese, all’interno di istituzioni quali musei, college e università che rispondevano ad un modello anglosassone immediatamente a me familiare. Inesorabilmente il nostro rapporto era mediato da un sistema nato durante il dominio britannico dell’Assam. Ovviamente gli studi postcoloniali erano al centro del dibattito accademico ormai da anni, attraverso la voce di autori occidentali ma anche indiani e locali. Durante i primi confronti non era accomodante per me tradurre certe descrizioni, poi durante una discussione con Paromita Das, Professoressa di Storia alla Guwahati University, appresi quanto fin dai primi studi le sue studentesse fossero abituate a leggere la propria cultura e la propria storia descritta “dal fuori” e quasi sempre in modo fuorviante. Quando c’era un’assonanza tra testo salgariano e contesto lei si meravigliava di come alla fine del XIX secolo un uomo che non fosse mai uscito dall’Italia potesse essersi documentato.
Come precedentemente accennato,
nel progetto EMILIO SALGARI AND THE TIGER,
hai deciso di indagare le differenze
tra i libri di Salgari e la realtà di Guwahati. Perché hai scelto di
concentrarti sulle incongruenze del testo anziché sulle assonanze?
AM: EMILIO
SALGARI AND THE TIGER, è
un esperimento di comparazione tra testo e contesto. Inizialmente ero molto
interessata alle incongruenze perché era importante per me tentare di
decostruire il mio immaginario, poi, come raccontato sopra, man mano il
progetto prendeva forma ho compreso la rarità e il valore delle assonanze, come
ad esempio quelle cartografiche. Nel testo dello spettacolo risuonano entrambe ma
in misura diversa.
Le studentesse del Handique Girls’ College che hanno collaborato alla messa in scena, avevano tra i 16 e i 17 anni e oltre ad essere molto impegnate negli studi erano curiose e soprattutto leggere, nel senso più alto del termine. Essendo un college femminile, nelle rappresentazioni teatrali le ragazze erano abituate ad interpretare anche ruoli maschili in uno spontaneo gioco di mimetismo, questa loro flessibilità e apertura è stata sostanziale. Ci incontravamo nel pomeriggio dopo le lezioni per lavorare alla messa in scena, avevamo le idee abbastanza chiare su quello che volevamo, il testo delle narratrici in lingua assamese e inglese era composto da estratti dai libri di Salgari e anche i costumi e le scenografie ricalcavano le sue descrizioni. Gli elementi sui quali avevo meno controllo erano le coreografie o gli abiti che avrebbero indossato tutte quelle figure che facevano da corollario, ad esempio le danzatrici, le cantanti e le narratrici stesse. La sera dello spettacolo quando vidi le ragazze indossare i loro Mekhela Sador, un abito tradizionale indigeno assamese, sentii che la realtà culturale si stava imponendo sulle narrazioni con quella vitalità che stavo cercando.
Irene Coppola con Vito Priolo
Contro-display, archivi materiali e soggettività minoritarie: le cosmogonie della natura
Hai trascorso un mese a Panama nel corso di una residenza per la residenza artistica La Wayaka Current Tropic 08°N in collaborazione con l’architetto Vito Priolo, come è stata la vostra esperienza? Avete notato elementi o comportamenti che potessero essere retaggio di una qualche forma di colonialismo?
Irene Coppola: Siamo stati
accolti come in una grande famiglia, all’interno di una collettività aperta e
profondamente in ascolto. La mitologia ancestrale de “Isper Uala y Igua Uala”,
presente in mostra, è uno straordinario esempio di narrazione sull’urgenza di
una connessione interspecie. Accade, e credo sia assolutamente legittimo, un
primo sguardo di diffidenza nei confronti dei bianchi alla luce di quello che
ci insegna la memoria storica e contemporanea. Le spiagge invase da scarti
industriali, il turismo di massa, la privatizzazione di atolli da parte di
multinazionali al nord delle San Blas, sono questi i retaggi del colonialismo
che continua sottilmente a insediarsi nelle aree remote del pianeta per trarne
profitto, espropriando culture millenarie.
La comunità Guna ha lottato per la propria
indipendenza ottenuta solo nel 1915 attraverso la rivoluzione Tule.
Ignacio Crespo Evanis, uno dei più attivi promotori
politici e culturali della comunità, racconta che durante la rivoluzione il suo
popolo ha dovuto acquisire tre nuove armi dai colonizzatori spagnoli: la
lingua, la religione e la scolarizzazione. Queste non hanno sovrascritto la
loro tradizione ma, contrariamente a quanto la retorica occidentale possa
etichettare come “compromissione”, sono diventati degli strumenti per
ribellarsi al potere dominante e al contempo diffondere la loro cultura per far
sì che venisse riconosciuta globalmente e quindi tutelata.
Nell’opera Los niños saben
riprendete un gruppo di bambini della comunità indigena Guna Yala che giocano
sulla spiaggia di Armila con un tronco portato dall’oceano. Sono immagini
distanti da come siamo abituati a osservare il gioco dei bambini, spesso
catturati dal consumismo dilagante che affligge le società occidentali.Quello che mettono in atto i giovani
protagonisti del video è un vero e proprio rituale di un universo anfibio e
magico al tempo stesso, come quando raccontate che, durante la stagione delle
piogge, mentre voi cercate riparo i bambini “escono allo scoperto per cantare,
danzare e lavarsi sotto l’acqua sacra del temporale”. Può il gioco essere
percepito come un atto politico di profanazione o di counter-display? Cosa ti ha spinta a soffermarti su questo particolare
durante la tua residenza?
IC: Il gioco è certamente un atto di
profanazione e counter-display perché
ha a che fare con il desiderio e il corpo collettivo. Utilizzando materiali
locali, abbiamo apportato alcuni interventi minimi su un tronco spiaggiato per
poi restituirlo alla comunità senza definire un’unica funzione o destinazione
d’uso. L’oggetto risemantizzato rimane riconoscibile ma non del tutto,
attivando relazioni e usi imprevisti da parte dei bambini che durante l’azione
si fanno anche registi della scena, sovvertendo le regole dell’occhio digitale
a inquadratura fissa.
La comunità indigena Guna Yala vive in
stretta relazione con la natura, con la ritualità della terra. Qual è stato il
rapporto con questa forma di organizzazione sociale e come è cambiato il tuo
metodo artistico? In che modo, secondo la tua visione, il femminismo si lega
alle tematiche post-coloniali?
IC: Non è tanto un cambiamento
di metodo, ma piuttosto un arricchimento personale e di ricerca quello che è
avvenuto. La mia pratica è un continuo divenire di forme ed esperienze che
ruotano intorno ad interessi specifici.
L’organizzazione
sociale dei Guna è di fortissima ispirazione perché è ancora basata sul
racconto mitologico, il quale prevede un continuo uso dell’immaginazione, di
contro, l’atto d’immaginare, è sempre meno presente nelle nostre società sommerse
da schemi e da scritture imposte e ripetute in maniera automatica e lineare. Il
femminismo contemporaneo o eco-femminismo affronta tutte queste tematiche
perché ingloba molteplici voci che rivendicano non solo la lotta contro le
diseguaglianze sociali ma anche quelle legate alla tutela degli ecosistemi e
degli habitat naturali.
Dispositivo
aperto che è possibile utilizzare come seduta o scala su cui è dipinta la frase
che diventa il titolo all’installazione, SIN LOS HABITANTES NO HAY PATRIMONIO, tratta
dalle proteste urbane della Trinchera di Panama contro la
gentrificazione del Casco Antiguo. Dall’altra parte della struttura una stampa
di grande formato accoglie il fruitore nell’habitat tropicale della giungla, enfatizzato
dalla sabbia posta alla base che accoglie il video dal titolo Los niños
saben, in cui si svolge un lento e libero rituale ludico tra i bambini
della comunità indigena Guna.
Mini Super Capitalismo. L’ingresso di un mini market del Casco Viejo di Panama, tratta da Google maps, viene ingrandita e diventa il soggetto di un poster affisso al muro. Un gesto che amplifica la frizione delle parole che goffamente compongono il titolo, grammaticalmente imperfetto, di questo luogo del consumo.
note
[i] Marco Scotini, “The White Hunter and the Construction of
Prey”, in The White Hunter. African Memories and representations,
catalogo della mostra presso FM Centro per l’arte contemporanea, Milano, 31
marzo-6 giugno 2017, Archive Books, Berlino, 2017, p. 25; il concetto della
preda è ripreso dai testi di Grégoire Chamayou.
Molte delle retoriche che hanno condizionato il nostro sguardo verso le differenze sono state ereditate dal colonialismo e condizionate da regimi visivi messi in atto attraverso rappresentazioni culturali ancora oggi radicate dentro il paradigma espositivo della modernità. Ne La Natura e la Preda – Storie e cartografie coloniali, collettiva in corso al PAV Parco Arte Vivente di Torino, gli artisti invitati, Irene Coppola con Vito Priolo, Edoardo Manzoni, Daniele Marzorati e Alessandra Messali, hanno tentato di riscrivere quelle parti dell’esperienza storica che sfuggono a un certo ordine di rappresentazione egemonica, riflettendo sull’esotismo e il neo-orientalismo, la caccia e la predazione, la sperimentazione coloniale sulle piante e la vegetazione intesa come agente politico nei processi di controllo del territorio nel mondo coloniale e postcoloniale del Sud, per mostrare sia l’implicazione delle arti visive nella costruzione dell’ideologia e del potere coloniale, sia la violenza epistemica operata dall’imperialismo e la dominazione della griglia coloniale.
Attraverso un gioco di rimandi e personificazioni, ciò che accomuna le loro ricerche trae significato nell’orientare lo sguardo verso un ordine che rimane invisibile. Ne deriva quella che il curatore Marco Scotini ha definito la teoria della preda, secondo la quale «la preda è sempre l’oggetto di una strategia mirata, di un posizionamento conferito in rapporto ad altri soggetti, di uno statuto attribuito dal predatore: l’effetto di un processo di distinzione, di gerarchizzazione, di esclusione da ordini condivisi in virtù del quale qualcosa diventa cacciabile» [i].
L’essere preda, quindi, è sempre qualcosa che si acquista con la violenza e la cattura. Implica uno squilibrio di potere, un’azione che abbiamo legittimato ed attribuito a un rapporto dato come naturale. Le gerarchie razziali e il progresso storico sono stati naturalizzati. Tuttavia, è giunto il momento di prendere atto di tali rapporti di potere gerarchizzanti e agire per decostruirli, affrontando così la drammatica attualità della memoria coloniale.
Se ancora oggi le nostre città italiane sono piene di reminiscenze del passato coloniale, è vero dopo il fascismo, l’Italia ha rimosso la propria storia coloniale fornendone una versione nostalgica e contraffatta. Come scrive Peter Friedl in Modernità segreta: «Del colonialismo, tramontato insieme a Mussolini, rimasero storie sentimentali e avventurose, racconti di vacanze e il sentimento diffuso che in fondo non si era mai fatto sul serio. Nessuno dovette assumersi la responsabilità dei crimini di guerra commessi. Mentre Ghana, Guinea, Tunisia e Sudan si proclamavano indipendenti, Africa parla pubblicava ogni dieci giorni reportage fotografici su indigeni africani e spedizioni italiane d’epoca coloniale. Per qualche anno continuò persino a esistere il Ministero dellʼAfrica italiana. Finché la Somalia non ottenne l’indipendenza, nel 1960, l’Italia poté continuare ad amministrare la sua ex colonia su mandato dellʼONU» [ii].
Gli artisti ci raccontano le loro pratiche ed estetiche di contro-visualità che attivano processi di riappropriazione di immagini, sguardi, segni e rappresentazioni per comprendere dentro l’ordine della natura le differenze e le disuguaglianze prodotte da rapporti sociali.
Interviste a cura di Barbara Niniano, Alessia Riva e Federica Rizzo.
Edoardo Manzoni
Trappole, trofei e predatori: la preda incatturabile e l’artista prestigiatore
L’ambiguità tra presenza e assenza fa parte della tua ricerca artistica. Nelle opere esposte in mostra, infatti, è forte il rimando alla caccia e all’essere preda e/o cacciatore. È facile ritrovare il concetto di camouflage e di nascondimento – tipico del predatore – nella scelta di omettere il cacciatore stesso dalla dinamica della scena, lasciando un vuoto che va paradossalmente a sottolinearne la sua partecipazione. Si potrebbe affermare che, oggigiorno, all’interno di grandi istituzioni “cacciatrici” che guidano il sistema dell’arte, vengano sfruttati – in modo subdolo e pienamente consapevole – temi pregnanti legati al post-colonialismo (bianchezza, appropriazione culturale, scardinamento della visione eurocentrica, ecc.…), soltanto per attrarre lo spettatore “preda”, senza dunque apportare alcun cambiamento o critica a livello sistemico?
Edoardo Manzoni: Il mio lavoro è fatto di strumenti di attrazione e repulsione, apparizione e dissimulazione che prendono spunto dall’immaginario tecnico e visivo della caccia. Cerco di sottolineare come l’artista non si comporti diversamente da un cacciatore o un abile prestigiatore. Le opere in scena sono specchietti per le allodole, dispositivi seducenti e ingannevoli. La vostra domanda mi fa pensare che se il sistema può essere considerato come una grande battuta di caccia dissimulata, l’artista da cacciatore può divenire strumento delle istituzioni, trappola da catturare per attirare lo spettatore-preda. Lo stesso riguarda lo sfruttamento di tematiche specifiche all’interno di meccanismi di rappresentazione. In fondo le grandi manifestazioni rientrano in una logica pubblicitaria capitalista che non è altro che il riflesso della nostra società. Sono d’accordo dunque con questa osservazione, forse ci sarà un vero cambiamento a livello sistemico quando verrà meno una logica predatoria, dove qualcosa o qualcuno viene a prescindere etichettato come preda e dunque oggetto di una strategia mirata. La chiave del mutamento potrebbe essere proprio il pubblico e il suo ruolo da preda da scardinare.
L’assenza della figura del cacciatore è dovuta alla volontà di spronare lo spettatore ad immedesimarsi nella figura mancante? Se sì, questa immedesimazione ha il fine di sensibilizzare il visitatore riguardo le atrocità messe in atto con la conquista durante l’epoca coloniale, oppure è una critica severa delle violenze perpetrate anche dal popolo italiano, di cui tutti noi dovremmo assumerci la responsabilità?
EM: Nelle mie opere l’assenza della figura del cacciatore, non fa altro che evocarne la presenza. Nel caso delle scene di caccia stampate su materiale riflettente cerco di spingere lo spettatore a chiedersi se davvero voglia specchiarsi in quell’immagine o meno. Nel caso delle opere proposte al PAV di Torino, ho lavorato con le immagini di caccia grossa in Africa durante il periodo coloniale. La rappresentazione della “bestia” domata e uccisa, i pericoli corsi e le forti emozioni provate dai cacciatori sono esasperati al fine di rendere la battuta di caccia un’impresa eroica. La caccia grossa diviene strumento esotizzante, metafora dell’assoggettamento della popolazione indigena e simbolo di conquista destinato a radicarsi nell’immaginario collettivo. Il gesto di cancellatura qui è più severo che mai, perché si parla davvero della rimozione da parte nostra di un passato colonialista e delle atrocità commesse.
I dispositivi di cattura possono essere uniformati a macchine che generano governamentalità, intesa come meccanismo istituzionale e fisico che migliora e mantiene l’esercizio del potere all’interno del corpo sociale. Le tue opere sono concepite anch’esse come dispositivi di cattura, tuttavia, si presentano come innocui agli occhi dell’osservatore. In che misura quest’ultimi possono divenire arma o strumenti di rottura e cambiamento in un ambiente post-coloniale ancora così tanto costellato da contraddizioni e comportamenti inadeguati?
EM: La violenza è celata dietro un’ambiguità apparente, i miei dispositivi rimangono volutamente sospesi tra l’oggetto potenzialmente pericoloso e l’elemento giocoso, innocente. Il mio lavoro nasce già come contraddizione, perché vuole sottolineare come gli strumenti che ci circondano implicano sempre un sottotesto. Credo che la rottura possa nascere prima da una comprensione di ciò che c’è già, dei suoi meccanismi di funzionamento più profondi. Cercare di cambiare le cose partendo dalla superficie, in un sistema come quello dell’arte rischia di produrre solo una versione spettacolarizzata e sterile, funzionale ai meccanismi di potere e governamentalità che si voleva criticare.
Daniele Marzorati
Il rimosso coloniale e la fabbricazione della differenza: i dispositivi di distanziamento dell’Altro
In Atlante del corpo coloniale troviamo alcuni scatti e ingrandimenti fotografici che esibiscono veri e propri spaccati di realtà, come musei di scienze naturali o archivi, in cui si percepisce ancora la tassonomia coloniale e che si presentano come strumenti che separano e mostrano: display, teche di vetro, fotografie, film documentaristici. In un’epoca come quella contemporanea, interculturale da una parte e strettamente legata a processi storici di dominazione dall’altra, pensi che la restituzione dei patrimoni coloniali (oggetti, opere, archivi, ecc.…) siano sufficienti per favorire la ricostruzione di quelle identità che per lungo tempo sono state oscurate, agevolando una riscrittura della storia che dia spazio anche a voci e visioni altre?
Daniele Marzorati: Non sono sinceramente in grado di stabilire se la restituzione di oggetti illecitamente prelevati da un luogo sia sufficiente a questo scopo. Personalmente credo sia un passaggio importante anche se si tratta di un gesto parziale. Spesso l’idea di restituzione è usata da salva condotta al pari della retoricità di altri termini come “decolonizzare” e “identità”.
Altra distinzione riguarda il termine restituzione se pensato come operazione artistica che riporta alla luce ciò che è contenuto negli archivi, dunque non mostrato al pubblico, questo gesto mi sembra altrettanto parziale.
In aggiunta, il processo di costruzione di nuove identità non possiamo pensare che scaturisca naturalmente dal concetto di restituzione, è molto più complesso. Nello specifico il mio lavoro non vuole ricostruire alcuna identità, credo sarebbe parziale quanto le identità che gli esploratori coloniali hanno costruito, forviato e anche inventato.
L’antropologo Francesco Remotti rifiuta il concetto d’identità perché esercita la riduzione e complicazione delle caratteristiche che nella realtà si presentano come sfumate e complesse.
Concordo pienamente con questa visione e spero che nel mio lavoro i due termini, “sfumato” e “complesso”, diventino oggetti poetici. Cerco si spiegarmi con un esempio: rendere i toni morbidi e quasi cremosi di una stampa che ha per oggetto uno squalo martello risemantizza la violenza predatoria a cui è associato l’animale attraverso una trasformazione, per mezzo della tecnica, di ciò che si trova nella realtà.
Operazione non troppo eloquente, ma distante dalla riduzione identitaria necessaria al potere. In continuità a questa logica, nella mostra si trovano fotografie scattate direttamente in musei o archivi perché, prima di parlare di decolonizzazione, penso sia fondamentale conoscere cosa il colonialismo è stato ed essendo una relazione specifica tra oggetti, luoghi o corpi ho cercato di osservarla (in quanto relazione, dunque immateriale) attraverso ciò che ha subito quel trattamento. Focalizzarsi sul corpo, in un periodo di dematerializzazione e digitalizzazione, va nella direzione della complessità. Per questo motivo ho scelto di guardare la collezione Bottego a Parma o l’elefante di From the darker to the lighter esposto al Museo Friulano di Storia Naturale di Udine cercando di eliminare la mediazione delle gabbie museali o escludendo il più possibile la mia partecipazione, come nelle immagini prodotte al Centro Studi Erbario Tropicale di Firenze.
Ora, a posteriori, direi che per me è stato importante poter vedere, confrontarmi e cercare di aprire un dialogo con gli archivi, i mobili e i vetri che portano con sé il tempo del colonialismo, che contengono i corpi degli animali e ricontestualizzano la vegetazione. In conclusione potrei provocatoriamente dire che il vero atto poetico è forse stato quello della mancata restituzione che, oltre a rivelare delle tracce fisiche di violenza subita, ci fa sentire osservati oltre che osservatori.
Dal tuo punto di vista, in che modo le tracce del passato coloniale hanno influenzato i codici visivi contemporanei?
DM: Dovendo circoscrivere la domanda posso dire che in Italia fino a pochi anni fa la coscienza dell’esperienza coloniale era marginale, relegata a ricercatori e, per quanto riguarda la produzione visiva, credo che gli stereotipi dell’esotismo e delle altre topiche coloniali fossero usate quasi esclusivamente come oggetti provocanti o estetizzanti; ma questo aspetto credo sia veramente poco interessante.
Per quanto mi riguarda, nel paese in cui il classico e l’antico sono radice del nostro pensiero, io tengo a cercare nelle tracce del passato per abbandonare contemporaneamente i passatismi e la frenesia dell’attualismo. A partire dall’osservazione della realtà, che ogni volta ci appare sconcertante e deludente, spero di trovare qualcosa che essa ancora non ci aveva rivelato, o forse, per nostra cecità, qualcosa che in essa non eravamo ancora in grado di leggere. In un periodo in cui la cancellazione del passato diventa gesto semplificatorio e populista o strumento di un’estetica didascalica, scegliere di confrontarmi con figure del passato, dagli archivi alla botanica, è stato il mio modo per approcciare con altri strumenti i codici visivi. Cerco di distanziarmi dall’individualismo che, per portare il proprio soggetto in primo piano, cancella il resto prima di conoscerlo.
È molto interessante il rapporto tra colonialismo e natura che indaghi attraverso la tua pratica artistica, spesso infatti non si pensa alla botanica come elemento di lotta e alle piante come entità politiche. Secondo te perché?
Si potrebbe dire che la supremazia delle multinazionali sulle sementi abbia portato ad un nuovo tipo di colonialismo che spinge alcune comunità del globo a vivere di stenti, oppure pensi che lo sfruttamento coloniale in ambito botanico sia terminato?
DM: Il pensiero coloniale che è antropocentrico stabilisce il binomio natura-cultura e riduce la botanica ad un oggetto da ammaestrare, esterno all’uomo, quindi esterno alla polis e alla politica. Ciò spiega, anche molto sommariamente, il motivo principale per cui la botanica è contemporaneamente oggetto del colonialismo ma la si percepisce come esterna. Mi sembra che in questo momento botanica sia un oggetto da talk show, un rifugio peccatorum con il quale si cerca di sopperire alle mancanze della vita cittadina.
Nel mio lavoro la relazione con la botanica come elemento non necessariamente romantico e periferico è presente non solo in riferimento al rapporto con il colonialismo. Sezioni, un gruppo di immagini che sviluppai nel 2014-2015 nei boschi della Sardegna ed esposi anche in una precedente mostra collettiva al PAV, fa riferimento alla costruzione del paesaggio come oggetto politico e usa il concetto di sezione non solo come taglio degli alberi ma come oggetto che, dal taglio fisico, crea una seconda o terza via. Poeticamente ipotizzo quindi che dalla sezione si crei un legame, sui negativi di grande formato con cui ho realizzato il lavoro ho accostato, direttamente durante le riprese, come un collage eseguito in live, luoghi distanti. In questo modo il negativo, che diventa una specie di territorio contenitore di più immagini, perde la totalità della sua risoluzione per una singola immagine e ridistribuisce sulla superfice una geografia non misurabile.
Da questo lavoro ho iniziato a pensare alla botanica in modo non neutrale e da lì ho iniziato a usare l’idea di separazione, quindi anche di perdita, come oggetto contro intuitivo che paradossalmente aggiunge significato.
Un esempio di questo concetto non in ambito estetico ma economico, lo troviamo nelle comunità che vivono al di fuori della città, nel sud America o in zone rurali dell’Africa, e al loro uso della decrescita come oggetto strutturale per la loro sopravvivenza. Direi quindi che gli effetti della globalizzazione, in cui alcune multinazionali hanno il dominio non solo sulle sementi, ma anche sulle politiche di sfruttamento dei territori è evidente. Ciò che in quei luoghi si trova di interessante non sono le multinazionali, ma altre piccole comunità che utilizzano le risorse diversamente, considerando la decrescita e la redistribuzione come possibilità di aumento condiviso.
Alessandra Messali
La decostruzione dell’esotico, tra produzione di un discorso altro (anticoloniale) e riproduzione del discorso dell’Altro (neocoloniale).
La rappresentazione teatrale EMILIO SALGARI AND THE TIGER – A Story written in far away Italy, set in Guwahati 1870 è nata con l’intento di indagare le differenze e le incongruenze tra i testi scritti da Salgari e le reali dinamiche sociali, culturali e territoriali in India, in particolare di Guwahati. Alla luce di quanto emerso durante le lecture che hai tenuto nelle università locali, quanto è importante oggi portare avanti progetti che parlino di politica della rappresentazione in luoghi notoriamente costituiti da un melting pot di culture, di gruppi con minoranze etniche e comunità spesso razzializzate?
Alessandra Messali: Nella primavera del 2013 arrivai per la prima volta nella città di Guwahati. Fin da subito mi fu chiaro come le stereotipizzazioni siano facilmente messe in crisi dalla vivacità e dinamismo della realtà, soprattutto in territori come quello dell’Assam da sempre luoghi di transito e melting pot di culture, dove le religioni, le tradizioni e la corposa presenza di comunità indigene si confrontano con un paese in continuo cambiamento e crescita, in modo armonico ma talvolta anche conflittuale. Un paese nel quale nel XXI secolo coesistono vestiti industriali e seta Muga, dove le danze tradizionali Bihu si alternano a coreografie imparate su youtube. Conoscevo molto poco i territori che stavo andando a frequentare e il mio potere economico, in quanto occidentale, mi permetteva di muovermi con molta facilità. Oltretutto il mio corpo, indice della mia provenienza, assumeva molte volte una posizione dominante nel contesto e nelle relazioni. Un ingiustificato “salto di classe” che, in questa dinamica a me estranea, faceva avanzare una specie di frustrazione, forse vergogna? Credo che questo sia un sentimento dominante nella nostra contemporaneità, o quantomeno che mi domina. Intuivo che l’unica via possibile per la realizzazione di un progetto non sarebbe stata quella di contrastare questo sentimento ma piuttosto di provare ad indagare dove si radicava e di conseguenza arrivai a pormi delle domande riguardanti il mio occhio orientalista e il mio immaginario legato all’India.
Qual è stata la prima volta che ho pensato all’India? Come l’ho immaginata? Ero nella District Library di Guwahati nel 2014 quando scoprii che alcuni libri di Emilio Salgari sono ambientati in Assam, mi confrontai immediatamente con alcuni conoscenti assamesi e capii subito che quei libri potevano essere uno strumento prezioso dal quale partire. Successivamente entrai in contatto con alcuni studiosi salgariani tra i quali Felice Pozzo che furono essenziali per la mia comprensione dell’opera dell’autore, per poi discuterne a Guwahati durante le lecture dove provavamo a capire il rapporto tra le narrazioni e le fonti, la stereotipizzazione e ci domandavamo: è possibile trovare un terreno di negoziazione tra chi rappresenta e chi viene rappresentato? Forse no. Però sappiamo che nel romanzo d’avventura Alla conquista di un impero, scritto da Emilio Salgari nel 1907, è descritta la pagoda di Karia che si trova a poche miglia dalla città indiana di Gauhati[iii], su un’isola nel mezzo del fiume Brahamaputra. Sappiamo anche che nella realtà la pagoda di Karia non è mai esistita, tuttavia sullo stesso fiume e all’incirca alla stessa distanza da Guwahati esiste un’isola dove sorge il tempio di Umananda.
Sono molto incuriosita dai progetti che tentano di districarsi tra le politiche della rappresentazione, è un bacino vitale, brulicante e, per diversi aspetti, rischioso. Le probabilità di fare degli errori e di non esser sempre accomodanti, con sé stessi e con gli altri, è molto alta; credo che anche in EMILIO SALGARI AND THE TIGER ci siano state delle criticità. Soltanto voglio che i miei progetti abbiano questo impulso generativo, una certa vitalità che ovviamente non è sempre governabile.
I libri di Salgari sono stati accusati di essere a volte orientalisti e stereotipati perché le fonti da cui si documentava l’autore erano filtrate dagli stereotipi e pregiudizi dell’epoca ottocentesca. Contando il fatto che anche tu appartieni alla cultura di Salgari, molto diversa rispetto a quella indiana, hai trovato particolari difficoltà a portare avanti questo progetto?
Nonostante i numerosi strumenti che oggi abbiamo a disposizione per differenziare il reale dal verosimile, quanto è importante il punto di vista di chi osserva la scena e chiedersi “chi sta parlando”?
AM: Riguardo l’introduzione a questa domanda vorrei proporre la lettura del saggio L’India e gli indiani nell’opera di Emilio Salgari [iv] del professore Michelguglielmo Torri. Testo che, citando l’autore: «parte dalla constatazione che il fine che Salgari si poneva nelle sue opere era quello di divertire e di istruire. Il problema è che, nella misura in cui voleva ‘istruire’, Salgari convogliava una visione negativa e sostanzialmente razzistica dell’India e degli indiani; nella misura in cui voleva ‘divertire’, questa visione veniva superata, e l’immagine dell’India e degli indiani assumeva una serie di elementi fortemente positivi. Questo contrasto derivava dallo scontrarsi di due elementi, cioè dal conlitto fra le fonti usate dall’autore e la sua più profonda visione degli esseri umani: le fonti erano razziste; la visione salgariana degli esseri umani era tanto solidamente egalitaria e antirazzista da imporsi sul materiale documentario di cui Salgari si serviva». Il mio progetto non è nato con l’intento di andare a fare le pulci ai libri di Emilio Salgari, che dobbiamo ricordare essere romanzi d’avventura scritti da un autore del XIX secolo, piuttosto dalla volontà di capire come questi immaginari siano ancora vivi dopo più di un secolo e come contribuiscano ancora oggi a dare forma alla nostra percezione della realtà. Con gli strumenti appartenenti alla sua epoca Emilio Salgari tentava di superare le sue fonti deviando i modelli proposti dalle fonti stesse. Mi sono chiesta: cosa accade se la ricezione di un’immagine letteraria pensata per un pubblico, viene dislocata nel contesto culturale che è in primo luogo il soggetto delle narrazioni? Come avete introdotto voi nella domanda, il centro del progetto è sì chiedersi “chi sta parlando?” ma allo stesso tempo “con quale interlocutore?”.
Se ripenso alle difficoltà affrontate nello sviluppo, penso più al contesto italiano che a quello indiano, soprattutto al fatto che non siamo riusciti a trovare fondi e quindi, dopo diversi tentativi, ho deciso di co-produrlo con l’associazione Microclima (Venezia). In India invece, dopo la prima esperienza di adattamento, è stato abbastanza immediato per me orientarmi: comunicavamo in Inglese, all’interno di istituzioni quali musei, college e università che rispondevano ad un modello anglosassone immediatamente a me familiare. Inesorabilmente il nostro rapporto era mediato da un sistema nato durante il dominio britannico dell’Assam. Ovviamente gli studi postcoloniali erano al centro del dibattito accademico ormai da anni, attraverso la voce di autori occidentali ma anche indiani e locali. Durante i primi confronti non era accomodante per me tradurre certe descrizioni, poi durante una discussione con Paromita Das, Professoressa di Storia alla Guwahati University, appresi quanto fin dai primi studi le sue studentesse fossero abituate a leggere la propria cultura e la propria storia descritta “dal fuori” e quasi sempre in modo fuorviante. Quando c’era un’assonanza tra testo salgariano e contesto lei si meravigliava di come alla fine del XIX secolo un uomo che non fosse mai uscito dall’Italia potesse essersi documentato.
Come precedentemente accennato, nel progetto EMILIO SALGARI AND THE TIGER, hai deciso di indagare le differenze tra i libri di Salgari e la realtà di Guwahati. Perché hai scelto di concentrarti sulle incongruenze del testo anziché sulle assonanze?
AM: EMILIO SALGARI AND THE TIGER, è un esperimento di comparazione tra testo e contesto. Inizialmente ero molto interessata alle incongruenze perché era importante per me tentare di decostruire il mio immaginario, poi, come raccontato sopra, man mano il progetto prendeva forma ho compreso la rarità e il valore delle assonanze, come ad esempio quelle cartografiche. Nel testo dello spettacolo risuonano entrambe ma in misura diversa.
Le studentesse del Handique Girls’ College che hanno collaborato alla messa in scena, avevano tra i 16 e i 17 anni e oltre ad essere molto impegnate negli studi erano curiose e soprattutto leggere, nel senso più alto del termine. Essendo un college femminile, nelle rappresentazioni teatrali le ragazze erano abituate ad interpretare anche ruoli maschili in uno spontaneo gioco di mimetismo, questa loro flessibilità e apertura è stata sostanziale. Ci incontravamo nel pomeriggio dopo le lezioni per lavorare alla messa in scena, avevamo le idee abbastanza chiare su quello che volevamo, il testo delle narratrici in lingua assamese e inglese era composto da estratti dai libri di Salgari e anche i costumi e le scenografie ricalcavano le sue descrizioni. Gli elementi sui quali avevo meno controllo erano le coreografie o gli abiti che avrebbero indossato tutte quelle figure che facevano da corollario, ad esempio le danzatrici, le cantanti e le narratrici stesse. La sera dello spettacolo quando vidi le ragazze indossare i loro Mekhela Sador, un abito tradizionale indigeno assamese, sentii che la realtà culturale si stava imponendo sulle narrazioni con quella vitalità che stavo cercando.
Irene Coppola con Vito Priolo
Contro-display, archivi materiali e soggettività minoritarie: le cosmogonie della natura
Hai trascorso un mese a Panama nel corso di una residenza per la residenza artistica La Wayaka Current Tropic 08°N in collaborazione con l’architetto Vito Priolo, come è stata la vostra esperienza? Avete notato elementi o comportamenti che potessero essere retaggio di una qualche forma di colonialismo?
Irene Coppola: Siamo stati accolti come in una grande famiglia, all’interno di una collettività aperta e profondamente in ascolto. La mitologia ancestrale de “Isper Uala y Igua Uala”, presente in mostra, è uno straordinario esempio di narrazione sull’urgenza di una connessione interspecie. Accade, e credo sia assolutamente legittimo, un primo sguardo di diffidenza nei confronti dei bianchi alla luce di quello che ci insegna la memoria storica e contemporanea. Le spiagge invase da scarti industriali, il turismo di massa, la privatizzazione di atolli da parte di multinazionali al nord delle San Blas, sono questi i retaggi del colonialismo che continua sottilmente a insediarsi nelle aree remote del pianeta per trarne profitto, espropriando culture millenarie.
La comunità Guna ha lottato per la propria indipendenza ottenuta solo nel 1915 attraverso la rivoluzione Tule.
Ignacio Crespo Evanis, uno dei più attivi promotori politici e culturali della comunità, racconta che durante la rivoluzione il suo popolo ha dovuto acquisire tre nuove armi dai colonizzatori spagnoli: la lingua, la religione e la scolarizzazione. Queste non hanno sovrascritto la loro tradizione ma, contrariamente a quanto la retorica occidentale possa etichettare come “compromissione”, sono diventati degli strumenti per ribellarsi al potere dominante e al contempo diffondere la loro cultura per far sì che venisse riconosciuta globalmente e quindi tutelata.
Nell’opera Los niños saben riprendete un gruppo di bambini della comunità indigena Guna Yala che giocano sulla spiaggia di Armila con un tronco portato dall’oceano. Sono immagini distanti da come siamo abituati a osservare il gioco dei bambini, spesso catturati dal consumismo dilagante che affligge le società occidentali. Quello che mettono in atto i giovani protagonisti del video è un vero e proprio rituale di un universo anfibio e magico al tempo stesso, come quando raccontate che, durante la stagione delle piogge, mentre voi cercate riparo i bambini “escono allo scoperto per cantare, danzare e lavarsi sotto l’acqua sacra del temporale”. Può il gioco essere percepito come un atto politico di profanazione o di counter-display? Cosa ti ha spinta a soffermarti su questo particolare durante la tua residenza?
IC: Il gioco è certamente un atto di profanazione e counter-display perché ha a che fare con il desiderio e il corpo collettivo. Utilizzando materiali locali, abbiamo apportato alcuni interventi minimi su un tronco spiaggiato per poi restituirlo alla comunità senza definire un’unica funzione o destinazione d’uso. L’oggetto risemantizzato rimane riconoscibile ma non del tutto, attivando relazioni e usi imprevisti da parte dei bambini che durante l’azione si fanno anche registi della scena, sovvertendo le regole dell’occhio digitale a inquadratura fissa.
La comunità indigena Guna Yala vive in stretta relazione con la natura, con la ritualità della terra. Qual è stato il rapporto con questa forma di organizzazione sociale e come è cambiato il tuo metodo artistico? In che modo, secondo la tua visione, il femminismo si lega alle tematiche post-coloniali?
IC: Non è tanto un cambiamento di metodo, ma piuttosto un arricchimento personale e di ricerca quello che è avvenuto. La mia pratica è un continuo divenire di forme ed esperienze che ruotano intorno ad interessi specifici.
L’organizzazione sociale dei Guna è di fortissima ispirazione perché è ancora basata sul racconto mitologico, il quale prevede un continuo uso dell’immaginazione, di contro, l’atto d’immaginare, è sempre meno presente nelle nostre società sommerse da schemi e da scritture imposte e ripetute in maniera automatica e lineare. Il femminismo contemporaneo o eco-femminismo affronta tutte queste tematiche perché ingloba molteplici voci che rivendicano non solo la lotta contro le diseguaglianze sociali ma anche quelle legate alla tutela degli ecosistemi e degli habitat naturali.
Dispositivo aperto che è possibile utilizzare come seduta o scala su cui è dipinta la frase che diventa il titolo all’installazione, SIN LOS HABITANTES NO HAY PATRIMONIO, tratta dalle proteste urbane della Trinchera di Panama contro la gentrificazione del Casco Antiguo. Dall’altra parte della struttura una stampa di grande formato accoglie il fruitore nell’habitat tropicale della giungla, enfatizzato dalla sabbia posta alla base che accoglie il video dal titolo Los niños saben, in cui si svolge un lento e libero rituale ludico tra i bambini della comunità indigena Guna.
Mini Super Capitalismo. L’ingresso di un mini market del Casco Viejo di Panama, tratta da Google maps, viene ingrandita e diventa il soggetto di un poster affisso al muro. Un gesto che amplifica la frizione delle parole che goffamente compongono il titolo, grammaticalmente imperfetto, di questo luogo del consumo.
note
[i] Marco Scotini, “The White Hunter and the Construction of Prey”, in The White Hunter. African Memories and representations, catalogo della mostra presso FM Centro per l’arte contemporanea, Milano, 31 marzo-6 giugno 2017, Archive Books, Berlino, 2017, p. 25; il concetto della preda è ripreso dai testi di Grégoire Chamayou.
[ii] Peter Friedl, Secret Modernity, in e-flux Journal, Issue #10, November 2009. https://www.e-flux.com/journal/10/61359/secret-modernity/
[iii] Toponimo presente nei libri di Emilio Salgari e nelle fonti ottocentesche consultate dall’autore.
[iv] M. Torri, Riletture Salgariane, a cura di P. I. Galli Mastrodonato e M. G. Dionisi, Metauro Edizioni, 2012.