«Profondamente ancorata alla natura, intimamente vicina alla terra, [la donna] appare come la chiave dell’al di là. C’è in Breton lo stesso naturalismo esoterico degli gnostici che vedevano nella Sophia il principio della Redenzione e perfino della creazione, di Dante che sceglie Beatrice per guida e di Petrarca illuminato dall’amore per Laura. E questo avviene perché l’essere più ancorata alla natura, più vicino alla terra è anche la chiave dell’al di là. Verità, Bellezza, Poesia, essa è Tutto: una volta di più essa è tutto sotto l’aspetto dell’Altro. Tutto tranne sé stessa».
Simone de Beauvoir, Breton la poesia in “Il secondo sesso”.
Breton non parla mai della donna in quanto soggetto. Lo affermava già Simone De Beauvoir ne Il secondo sesso, nella sua lettera indirizzata al sacerdote del Surrealismo. Le ideologie patriarcali che hanno dominato l’avanguardia surrealista si sono articolate in due visioni della donna: una romantica, l’altra rivoluzionaria. Seguendo una serie di ruoli fondati sul femminile come oggetto di definizione della creatività maschile, lo stesso Breton la indicava come musa ispiratrice, dea visionaria, predatrice e seducente ammaliatrice ma anche donna-bambina, creatura celestiale, la cui innocenza e ingenuità, non corrotta dalla logica o dalla ragione, conduceva direttamente nelle regioni ignote e profonde dell’inconscio. La femme-enfant è però, al tempo stesso, angelo erotico/strega/vergine e assicura così una certa ambiguità sessuale, canonizzata come feticcio dal padre fondatore del movimento, dichiaratamente sessista e misogino.
Nel 1930, compaiono per la prima volta nel numero iniziale di Surréalisme au service de la Révolution le numerosissime artiste associate al gruppo, non come protagoniste ma muse, compagne e amanti; nonostante le innumerevoli dediche alle donne amate nella rivista non c’è traccia di un solo tributo a un’opera femminile. Le Muse sono mute?
Je ne vois pas la (femme) cachée dans la forêt: “Non vedo la (donna) nascosta nella foresta” è il collage-manifesto pubblicato nell’ultimo numero di La Revolution Surréaliste nel dicembre del 1929, con 16 ritratti fotografici di artisti (maschi) ad occhi chiusi che incorniciano l’immagine di una donna nuda al centro, tratta da un’opera di Magritte, che diventa emblema del culto di una femminilità costruita su ruoli passivi e sempre esposta ai desideri maschili.
Come ha sottolineato Whitney Chadwick nel suo studio pionieristico Women Artist and the Surrealist Movement, a dispetto della misoginia e dei pregiudizi patriarcali radicati nel Surrealismo, molte artiste hanno trovato nell’arte gli strumenti per una nuova liberazione, nell’auto-rappresentazione in guerriere, amazzoni, divinità della terra e della natura ritratte in ruoli di potere: «La storia delle donne artiste associate al Surrealismo è molto più intensa e complessa di quanto la lista dei loro nomi potrebbe suggerire. È la storia di un gruppo di donne che ha osato rinunciare alle convenzioni della propria educazione, nel tentativo di trovare una consonanza tra le proprie idee e le proprie vite; donne che hanno intrapreso il percorso difficile della ricerca di un’identità artistica in un momento in cui esistevano pochi modelli di ruolo nelle arti visive e in cui le artiste non erano incoraggiate a raggiungere una propria identità professionale». [i]
La culla della strega è una delle cinque capsule del tempo dedicate a presentazioni tematiche, con un approccio storico transnazionale, ideate da Cecilia Alemani, con cui ritorniamo a discutere della 59. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia Il latte dei sogni; dedicata alle artiste, danzatrici, scrittrici e ribelli alle rappresentazioni convenzionali che si sono riappropriate del potere arcaico e metamorfico del matriarcato. Molte appartengono proprio alla colonia surrealista internazionale – da Leonora Carrington, la sua amica Remedios Varo, Leonor Fini, Dorothea Tanning, per citarne alcune – altre sono state legate al Futurismo, all’Harlem Renaissance (movimento afroamericano degli anni Venti), al Bauhaus e alla Négritude (movimento politico-culturale del mondo coloniale francofono, sempre negli stessi anni); emarginate dalla storia dell’arte riappaiono ora come sfingi, streghe, guaritrici, divinità ctonie e archetipi femminili dal potere generativo che dovrebbero essere assunte per smontare il segno «donna» dalla trappola naturale (cioè biologica) delle essenze e non per rivendicare la celebrazione di una soggettività femminile erotizzata, simbolo depoliticizzato di un dandysmo trasgressivo e inattuale che appartiene ancora a una visione borghese dell’arte e della cultura. Non basta disallineare il canone dal privilegio bianco, maschile ed eurocentrico, se poi si soccombe sotto l’incantesimo del capitale. La magia è lotta e non fuga nella surrealtà.
Il potere del surreale
di
Melania Moltelo
«Il surrealismo è una disaffezione borghese. Che i suoi militanti lo considerassero universale è solo uno dei segni del suo essere tipicamente borghese».
Susan Sontag, Oggetti melanconici in Sulla fotografia.
La direzione di Cecilia Alemani della Biennale in corso ha riportato al centro del dibattito il potere del surreale, ornato dalla secolare fascinazione esercitata dal diverso, dal reietto, dal non-ufficiale. Se, come ha constatato Susan Sontag in diversi luoghi della sua produzione, oggi la sensibilità estetica è essenzialmente surrealista, si può facilmente indovinare lo schiacciamento della linea artistica promossa dalla Biennale sull’arte dominante, sul gusto consolidato. Il Surrealismo, che pure nasce nella Francia del primo Novecento con l’intento di distruggere la gabbia d’acciaio della razionalità capitalistica per tentare una riconfigurazione dell’assetto sociopolitico, non ha tardato a lasciarsi catturare nei processi di neutralizzazione dell’avanguardia e a svelare un pericolo insito nel suo stesso programma. A distinguere la prima ondata surrealista dagli sviluppi successivi è la sua configurazione primaria nel segno del risveglio contro un’esasperazione del momento onirico a sfavore della realtà; inoltre, la Biennale di Alemani, presentandosi come una Biennale dell’ottimismo, stride con il pessimismo attivo con cui il surrealismo ha mosso i suoi primi passi nella direzione di una sfiducia totale nel corso naturale della storia. La critica qui è al progresso incentivato dal sistema neoliberale, a testimonianza del carattere efficacemente politico-rivoluzionario del movimento ai suoi inizi.
Ma qual
è l’inganno del surreale e di quella coltre di sogni che finisce per avvolgere
la realtà con la sua invenzione? È un meccanismo che si può definire di trasfigurazione
estetizzante, capace di innescare un godimento sinistro che riconferma la
realtà nella totalità dei suoi orrori. Per ironia della sorte, il surrealismo
tradisce un viscerale attaccamento a quella stessa realtà di cui si dichiara
insoddisfatto: l’ambizione a un altro mondo, inteso al di fuori del suo
ordine capitalistico, si converte in un mistificato consumo di questo mondo che
si esprime come quel «godimento estetico di prim’ordine» [ii] di cui parlava
Walter Benjamin in conclusione del saggio sull’Opera d’arte in
riferimento a una produzione artistica che, travestendosi da intrattenimento,
ha come suo unico risvolto quello di servire le classi dominanti.
La stessa attrazione per l’alterità, che si inscrive nella costellazione concettuale surrealista, si spiega con la potenza reazionaria della trasfigurazione: la diversità è accostata con l’occhio del voyeur e ridotta al punto di vista dell’osservatore come sentinella dell’ordine, silenziata in una rappresentazione quasi caricaturale e, infine, ricondotta al rafforzamento della logica identitaria che procede per violente verticalizzazioni. L’alterità non è liberata, ma strumentalizzata in una atmosfera immaginifica che legittima e inasprisce tutte le forme di dominio. La sensibilità estetica contemporanea subisce fortemente la seduzione del diverso, a patto di rendere innocuo e di normare il suo potenziale trasformativo. Si può azzardare a dire che tutta l’arte ufficiale operi in senso “surrealista” in quanto, agendo come funzione prettamente “decorativa”, esercita un considerevole potere di consacrazione del vigente. La caligine onirica e la strumentalizzazione dell’immaginario, pacificati nei luoghi e nei tempi istituzionalizzati, sostengono l’arte come l’“oppio dei popoli” dei nostri giorni invisibilizzando la concretezza delle condizioni materiali.
Come scrive Susan Sontag in una riflessione sulla fotografia: «Marx rimproverava alla filosofia di limitarsi a cercare di capire il mondo, anziché sforzarsi di cambiarlo. I fotografi, che agiscono nell’ambito della sensibilità surrealista, suggeriscono quanto sia vano cercare di capire il mondo e propongono invece di collezionarlo» [iii]. Cos’è la Biennale se non l’evento in cui l’arte si riconferma nella sua accezione di conservazione e promozione dei beni culturali?
Il mondo non chiede di essere cambiato nel gioco dei potenti, né tantomeno di essere compreso, ma va “collezionato”, “esposto”, “trasfigurato” e, in ultima istanza, spettacolarizzato. Il cambiamento è sponsorizzato e venduto a una condizione: che nulla effettivamente cambi.
L’inaugurazione
della Biennale ci ha messo di fronte, dunque, ai pericoli ancora allarmanti di
una estetizzazione del politico, nonché a tutti quei meccanismi di
assuefazione che depotenziano i bisogni di migliorare concretamente le
condizioni economiche e sociali di vita. Re-incantare il mondo, come
Silvia Federici ha indicato, è un modo per incentivare la creazione di
situazioni di vita più comunitarie, di rispondere al resistente bisogno del
nostro corpo di sole, di liberare l’esistenza dalla sua spietata organizzazione
capitalistica; quello che sembra proporci Alemani, come portavoce di una logica
vincente, è una fuga dalla realtà che può solo riconsegnarci a essa più
pesanti, ulteriormente sfiniti. L’arte, con questa ripresa strumentale del
surrealismo (che effettivamente tace dei suoi esordi sovversivi), diviene
strategia per la costruzione di narrazioni pacificanti e promozione di occasioni
evasive nel totale interesse del mantenimento delle disuguaglianze di cui tace.
Il surreale manifesta così tutto il suo potere nell’arte come ultima re-invenzione dell’alleanza tra produzione creativo-decorativa e dominio. Il suo potere, a oggi, è un potere conservatore.
Introduzione di Elvira Vannini | Testo di Melania Moltelo | Immagini di Alessia Riva
note
[i] Whitney Chadwick, Women Artists and
the Surrealist Movement, Thames & Hudson, Londra 1985, p.9.
[ii] W. Benjamin, L’opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
[iii] S. Sontag, Oggetti melanconici in
Sulla fotografia.
di Melania Moltelo
«Profondamente ancorata alla natura, intimamente vicina alla terra, [la donna] appare come la chiave dell’al di là. C’è in Breton lo stesso naturalismo esoterico degli gnostici che vedevano nella Sophia il principio della Redenzione e perfino della creazione, di Dante che sceglie Beatrice per guida e di Petrarca illuminato dall’amore per Laura. E questo avviene perché l’essere più ancorata alla natura, più vicino alla terra è anche la chiave dell’al di là. Verità, Bellezza, Poesia, essa è Tutto: una volta di più essa è tutto sotto l’aspetto dell’Altro. Tutto tranne sé stessa».
Simone de Beauvoir, Breton la poesia in “Il secondo sesso”.
Breton non parla mai della donna in quanto soggetto. Lo affermava già Simone De Beauvoir ne Il secondo sesso, nella sua lettera indirizzata al sacerdote del Surrealismo. Le ideologie patriarcali che hanno dominato l’avanguardia surrealista si sono articolate in due visioni della donna: una romantica, l’altra rivoluzionaria. Seguendo una serie di ruoli fondati sul femminile come oggetto di definizione della creatività maschile, lo stesso Breton la indicava come musa ispiratrice, dea visionaria, predatrice e seducente ammaliatrice ma anche donna-bambina, creatura celestiale, la cui innocenza e ingenuità, non corrotta dalla logica o dalla ragione, conduceva direttamente nelle regioni ignote e profonde dell’inconscio. La femme-enfant è però, al tempo stesso, angelo erotico/strega/vergine e assicura così una certa ambiguità sessuale, canonizzata come feticcio dal padre fondatore del movimento, dichiaratamente sessista e misogino.
Nel 1930, compaiono per la prima volta nel numero iniziale di Surréalisme au service de la Révolution le numerosissime artiste associate al gruppo, non come protagoniste ma muse, compagne e amanti; nonostante le innumerevoli dediche alle donne amate nella rivista non c’è traccia di un solo tributo a un’opera femminile. Le Muse sono mute?
Je ne vois pas la (femme) cachée dans la forêt: “Non vedo la (donna) nascosta nella foresta” è il collage-manifesto pubblicato nell’ultimo numero di La Revolution Surréaliste nel dicembre del 1929, con 16 ritratti fotografici di artisti (maschi) ad occhi chiusi che incorniciano l’immagine di una donna nuda al centro, tratta da un’opera di Magritte, che diventa emblema del culto di una femminilità costruita su ruoli passivi e sempre esposta ai desideri maschili.
Come ha sottolineato Whitney Chadwick nel suo studio pionieristico Women Artist and the Surrealist Movement, a dispetto della misoginia e dei pregiudizi patriarcali radicati nel Surrealismo, molte artiste hanno trovato nell’arte gli strumenti per una nuova liberazione, nell’auto-rappresentazione in guerriere, amazzoni, divinità della terra e della natura ritratte in ruoli di potere: «La storia delle donne artiste associate al Surrealismo è molto più intensa e complessa di quanto la lista dei loro nomi potrebbe suggerire. È la storia di un gruppo di donne che ha osato rinunciare alle convenzioni della propria educazione, nel tentativo di trovare una consonanza tra le proprie idee e le proprie vite; donne che hanno intrapreso il percorso difficile della ricerca di un’identità artistica in un momento in cui esistevano pochi modelli di ruolo nelle arti visive e in cui le artiste non erano incoraggiate a raggiungere una propria identità professionale». [i]
La culla della strega è una delle cinque capsule del tempo dedicate a presentazioni tematiche, con un approccio storico transnazionale, ideate da Cecilia Alemani, con cui ritorniamo a discutere della 59. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia Il latte dei sogni; dedicata alle artiste, danzatrici, scrittrici e ribelli alle rappresentazioni convenzionali che si sono riappropriate del potere arcaico e metamorfico del matriarcato. Molte appartengono proprio alla colonia surrealista internazionale – da Leonora Carrington, la sua amica Remedios Varo, Leonor Fini, Dorothea Tanning, per citarne alcune – altre sono state legate al Futurismo, all’Harlem Renaissance (movimento afroamericano degli anni Venti), al Bauhaus e alla Négritude (movimento politico-culturale del mondo coloniale francofono, sempre negli stessi anni); emarginate dalla storia dell’arte riappaiono ora come sfingi, streghe, guaritrici, divinità ctonie e archetipi femminili dal potere generativo che dovrebbero essere assunte per smontare il segno «donna» dalla trappola naturale (cioè biologica) delle essenze e non per rivendicare la celebrazione di una soggettività femminile erotizzata, simbolo depoliticizzato di un dandysmo trasgressivo e inattuale che appartiene ancora a una visione borghese dell’arte e della cultura. Non basta disallineare il canone dal privilegio bianco, maschile ed eurocentrico, se poi si soccombe sotto l’incantesimo del capitale. La magia è lotta e non fuga nella surrealtà.
Il potere del surreale
di Melania Moltelo
«Il surrealismo è una disaffezione borghese. Che i suoi militanti lo considerassero universale è solo uno dei segni del suo essere tipicamente borghese».
Susan Sontag, Oggetti melanconici in Sulla fotografia.
La direzione di Cecilia Alemani della Biennale in corso ha riportato al centro del dibattito il potere del surreale, ornato dalla secolare fascinazione esercitata dal diverso, dal reietto, dal non-ufficiale. Se, come ha constatato Susan Sontag in diversi luoghi della sua produzione, oggi la sensibilità estetica è essenzialmente surrealista, si può facilmente indovinare lo schiacciamento della linea artistica promossa dalla Biennale sull’arte dominante, sul gusto consolidato. Il Surrealismo, che pure nasce nella Francia del primo Novecento con l’intento di distruggere la gabbia d’acciaio della razionalità capitalistica per tentare una riconfigurazione dell’assetto sociopolitico, non ha tardato a lasciarsi catturare nei processi di neutralizzazione dell’avanguardia e a svelare un pericolo insito nel suo stesso programma. A distinguere la prima ondata surrealista dagli sviluppi successivi è la sua configurazione primaria nel segno del risveglio contro un’esasperazione del momento onirico a sfavore della realtà; inoltre, la Biennale di Alemani, presentandosi come una Biennale dell’ottimismo, stride con il pessimismo attivo con cui il surrealismo ha mosso i suoi primi passi nella direzione di una sfiducia totale nel corso naturale della storia. La critica qui è al progresso incentivato dal sistema neoliberale, a testimonianza del carattere efficacemente politico-rivoluzionario del movimento ai suoi inizi.
Ma qual è l’inganno del surreale e di quella coltre di sogni che finisce per avvolgere la realtà con la sua invenzione? È un meccanismo che si può definire di trasfigurazione estetizzante, capace di innescare un godimento sinistro che riconferma la realtà nella totalità dei suoi orrori. Per ironia della sorte, il surrealismo tradisce un viscerale attaccamento a quella stessa realtà di cui si dichiara insoddisfatto: l’ambizione a un altro mondo, inteso al di fuori del suo ordine capitalistico, si converte in un mistificato consumo di questo mondo che si esprime come quel «godimento estetico di prim’ordine» [ii] di cui parlava Walter Benjamin in conclusione del saggio sull’Opera d’arte in riferimento a una produzione artistica che, travestendosi da intrattenimento, ha come suo unico risvolto quello di servire le classi dominanti.
La stessa attrazione per l’alterità, che si inscrive nella costellazione concettuale surrealista, si spiega con la potenza reazionaria della trasfigurazione: la diversità è accostata con l’occhio del voyeur e ridotta al punto di vista dell’osservatore come sentinella dell’ordine, silenziata in una rappresentazione quasi caricaturale e, infine, ricondotta al rafforzamento della logica identitaria che procede per violente verticalizzazioni. L’alterità non è liberata, ma strumentalizzata in una atmosfera immaginifica che legittima e inasprisce tutte le forme di dominio. La sensibilità estetica contemporanea subisce fortemente la seduzione del diverso, a patto di rendere innocuo e di normare il suo potenziale trasformativo. Si può azzardare a dire che tutta l’arte ufficiale operi in senso “surrealista” in quanto, agendo come funzione prettamente “decorativa”, esercita un considerevole potere di consacrazione del vigente. La caligine onirica e la strumentalizzazione dell’immaginario, pacificati nei luoghi e nei tempi istituzionalizzati, sostengono l’arte come l’“oppio dei popoli” dei nostri giorni invisibilizzando la concretezza delle condizioni materiali.
Come scrive Susan Sontag in una riflessione sulla fotografia: «Marx rimproverava alla filosofia di limitarsi a cercare di capire il mondo, anziché sforzarsi di cambiarlo. I fotografi, che agiscono nell’ambito della sensibilità surrealista, suggeriscono quanto sia vano cercare di capire il mondo e propongono invece di collezionarlo» [iii]. Cos’è la Biennale se non l’evento in cui l’arte si riconferma nella sua accezione di conservazione e promozione dei beni culturali?
L’inaugurazione della Biennale ci ha messo di fronte, dunque, ai pericoli ancora allarmanti di una estetizzazione del politico, nonché a tutti quei meccanismi di assuefazione che depotenziano i bisogni di migliorare concretamente le condizioni economiche e sociali di vita. Re-incantare il mondo, come Silvia Federici ha indicato, è un modo per incentivare la creazione di situazioni di vita più comunitarie, di rispondere al resistente bisogno del nostro corpo di sole, di liberare l’esistenza dalla sua spietata organizzazione capitalistica; quello che sembra proporci Alemani, come portavoce di una logica vincente, è una fuga dalla realtà che può solo riconsegnarci a essa più pesanti, ulteriormente sfiniti. L’arte, con questa ripresa strumentale del surrealismo (che effettivamente tace dei suoi esordi sovversivi), diviene strategia per la costruzione di narrazioni pacificanti e promozione di occasioni evasive nel totale interesse del mantenimento delle disuguaglianze di cui tace.
Introduzione di Elvira Vannini | Testo di Melania Moltelo | Immagini di Alessia Riva
note
[i] Whitney Chadwick, Women Artists and the Surrealist Movement, Thames & Hudson, Londra 1985, p.9.
[ii] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
[iii] S. Sontag, Oggetti melanconici in Sulla fotografia.