Femigenocidio e femminicidio: una proposta di criminalizzazione

Il femminicidio riguarda omicidi basati sul genere, in gran parte dei casi, commessi da persone conosciute. La violenza sulle donne è la prima causa di femminicidi nel mondo. In Italia il decreto legge 14 agosto 2013, n. 93 recante “Nuove norme per il contrasto della violenza di genere che hanno l’obiettivo di prevenire il femminicidio e proteggere le vittime” non definisce la fattispecie di femminicidio, ma cerca di contrastare e prevenire la violenza di genere. L’ipotesi di femminicidio nell’ordinamento italiano non è trattata come ipotesi di reato autonoma, ma solo come circostanza aggravante, nonostante sia stato provato che una percentuale significativa di omicidi di donne rientri in Italia nella categoria di femminicidio. È molto difficile, quasi impossibile, trovare casi familiari in cui sia una donna a uccidere il marito o il compagno, e la ragione risiede in un’archeologia sessuale che riflette la battaglia tra idealismo e materialismo e per cui la donna in una struttura familiare tradizionale e patriarcale è, nei termini di proprietà derivati da questo contratto sessuale, una macchina riproduttiva.

Come scrive Non Una di Meno per il Primo luglio transfemminista e transnazionale contro l’attacco patriarcale, la data ufficiale di uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul: «Sappiamo bene che la violenza si manifesta in ogni ambito della nostra vita e in moltissime forme, e di cui i femminicidi sono solo quella più visibile. Solo in Italia, sono oltre 45 le donne uccise dall’inizio dell’anno. Eppure, mentre il Piano nazionale antiviolenza è scaduto ormai da mesi, il contrasto alla violenza maschile e di genere e il sostegno ai Centri antiviolenza non hanno nessuno spazio nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza».

Il testo qui presentato, “Femigenocidio e femminicidio: una proposta di criminalizzazione”, è stato letto dall’antropologa argentina, femminista e attivista Rita Laura Segato alla tavola rotonda “Femminismi postcoloniali e decoloniali: altre epistemologie” durante l’Incontro mesoamericano di studi di genere e femminismi, tenutosi dal 4 al 6 maggio 2011, a Città del Guatemala in Guatemala.

Introduzione e traduzione a cura di Sara Benaglia.

Il collettivo femminista Las tesis, creatrici della performance pubblica e collettiva “Un violador en tu camino” (Uno stupratore sul tuo cammino), portata nelle piazze italiane da NonUnaDiMeno, si sono ispirate ai testi della scrittrice, antropologa e femminista Rita Segato sullo stupro e la sua “demistificazione”. Valparaíso, Cile.

Las tesis: “La colpa è del patriarcato | Il braccio armato dello stato | Dice che sono il problema | Giustificando il suo sistema […] Femminicidio | Impunità per l’assassino […] E la colpa non è la mia | Nè dentro casa | Nè per la via [,,,] E lo stato oppressore | E’ un macho stupratore “Un violador en tu camino” (Uno stupratore sul tuo cammino).

Femigenocidio e femminicidio: una proposta di criminalizzazione

di Rita Laura Segato

Presento qui un nuovo passo nella mia comprensione dei dilemmi che abbiamo affrontato nel tentativo di arrivare a una tipizzazione delle modalità della violenza femminicida. L’obiettivo è quello di raggiungere una maggiore comprensione e precisione, così come un certo grado di accordo tra le fila degli attivisti e degli studiosi di questo tema. L’obiettivo è che le categorie su cui siamo d’accordo siano adattate o possano essere adattate per l’uso legale, sia nei tribunali di giurisdizione nazionale che davanti ai tribunali internazionali dei Diritti Umani. L’importanza di raggiungere questi ultimi è che in essi i crimini che si giudicano, siano essi crimini contro l’umanità o genocidio, non sono soggetti a prescrizione.

Come è noto, Marcela Lagarde in Messico ha adattato il termine femminicidio e parla di femminicidio e violenza femminicida, ottenendo la sanzione della prima legge nel continente che utilizza la categoria.

Julia Monarrez propone l’idea che siamo di fronte a un tipo di violenza sistemica.

Sebastiano del Piombo, Martirio di Sant’Agata, 1520, Palazzo Pitti, Firenze.

Nel mio caso, ho insistito sull’importanza di tipizzare i diversi tipi di violenza contro le donne, facendo differenza tra i crimini che possono essere personalizzati, cioè interpretati a partire dalle relazioni interpersonali o dai motivi personali dell’autore, e quelli che non possono esserlo. Questo compito è difficile perché sembra contraddire la convinzione di tutte noi che la violenza contro le donne deve essere affrontata come risultato delle relazioni di genere, cioè di una struttura unica. Questa tipizzazione, come ho sostenuto, è indispensabile sia per l’efficacia dell’indagine penale, sia per la comprensione dei crimini da parte dei giudici e, soprattutto, per creare le condizioni affinché almeno una parte di questi crimini diventi di competenza dei tribunali internazionali dei diritti umani e raggiunga la condizione di imprescrittibile, cioè CHE NON SI PRESCRIVE. Per questa caratteristica e anche per il peso simbolico conferito dalla condizione di essere contemplato da una norma sovrastatale, il tipo di femminicidio che raggiunge questo livello potrà avere un grande impatto nella visibilizzazione del carattere violentogenico delle relazioni di genere in generale e sulla de-privatizzazione di tutti i crimini di genere, contribuendo al senso comune di rimuoverli dall’atmosfera intima a cui il senso comune li rimanda, dall’universo delle passioni private a cui sono sempre ristretti dall’immaginario collettivo. È fondamentale trovare strategie per fermare la violenza femminicida, perché la rapacità che si scatena oggi sul femminile si manifesta sia in forme inedite di distruzione corporale senza precedenti, come in forme di traffico e commercializzazione di ciò che questi corpi possono offrire, fino al limite ultimo. L’occupazione predatoria dei corpi femminili o femminilizzati è praticata come mai era accaduto prima. Questi corpi hanno costituito, nella storia della specie e nell’immaginario collettivamente condiviso in tutta la sua storia, non solo la prima forma di colonia, ma anche, nel presente, l’ultima. E la loro colonizzazione oggi, in questa fase apocalittica dell’umanità, è un saccheggio che lascia solo resti.

Dalle guerre tribali alle guerre convenzionali che si sono succedute nella storia dell’umanità fino alla prima metà del XX secolo, il corpo delle donne, in quanto territorio, ha accompagnato il destino delle conquiste e delle annessioni di regioni nemiche, inseminate dallo stupro degli eserciti occupanti. Oggi quel destino è cambiato per ragioni che dobbiamo ancora esaminare: la loro distruzione con un eccesso di crudeltà, il loro saccheggio fino all’ultimo residuo di vita, la loro tortura fino alla morte. È una novità alla quale l’eminente discorso giuridico dovrà adattarsi; dovrà attenersi alla sua forza e concedere lo statuto di esistenza alle sue vittime, reali e potenziali.

Ana Mendieta, Untitled (Rape Scene), 1973.

Ana Mendieta, Untitled (Rape Scene), 1973.

Ho difeso non solo l’importanza e la necessità, ma anche la possibilità di tipizzare gli omicidi di donne eseguiti solo perché sono donne (Segato 2007 b), chiedendo un dibattito urgente tra le femministe per arrivare a delle definizioni e delle strategie. Perché se, da un lato, non trovo accettabile l’argomento che sottolinea le difficoltà della classificazione giuridica del femminicidio, trovo appropriata la critica giuridica della vaghezza e delle ambiguità nell’uso indiscriminato di questa categoria.

Ricordiamo qui che, per quanto riguarda la violenza femminicida di tipo impersonale e massivo, dopo la sua invisibilità iniziale e come conseguenza della pressione delle entità per i diritti umani, la violenza sessuale e lo stupro sistematico praticati come parte dei processi di occupazione, sterminio o sottomissione di un popolo da parte di un altro, sono stati gradualmente incorporati come crimini contro l’umanità (“stupro e altri atti inumani”) nello Statuto del Tribunale Internazionale Ad Hoc per la ex Jugoslavia e, più tardi, nello Statuto del Tribunale penale internazionale per il Ruanda, diventando anche crimini di guerra in quanto forme di trattamento umiliante e degradante (“oltraggi alla dignità personale, in particolare stupro, trattamenti umilianti e degradanti e abusi indecenti”).

Nel Tribunale Internazionale Ad Hoc per l’ex Jugoslavia, “lo stupro è stato considerato come tortura e schiavitù, e altre forme di violenza sessuale, come la nudità forzata e l’intrattenimento sessuale, come trattamento disumano” (Copelon 2000: 11). E questo è stato anche il percorso attraverso il quale sono stati finalmente tipizzate diverse varietà di crimini sessuali nello Statuto di Roma, che regola i procedimenti della Corte Penale Internazionale.

Suzanne Lacy e Leslie Labowitz, In Mourning and In Rage, 1977.

Suzanne Lacy, Three Weeks in May, 1977.

Questo ha preceduto e stimolato recenti iniziative nel nostro continente, come l’Amicus Curiae presentato dall’Organizzazione Non Governativa Dejusticia de Colombia davanti alla Prima Procura Penale di Abancay sulla violenza sessuale come crimine contro l’umanità nel conflitto armato peruviano (Uprimny Yepes et alii 2008) e gli importanti studi in corso da parte di ricercatori argentini e dei loro rispettivi team, come María Sondereguer e Violeta Correa, con il loro progetto “Violencia Sexual y Violencia de Género en el Terrorismo de Estado”, e Alejandra Oberti, che dirige l’archivio orale di Memoria Abierta; e ricercatori colombiani come Viviana Quintero Márquez e Silvia Otero, con il loro progetto, coordinato da María Emma Wills e presentato a COLCIENCIAS nel 2007: “Non sentiamo cosa dice il suo corpo. Non vediamo cosa mostra il suo corpo. Pratiche statali nella rimozione di cadaveri femminili nel contesto del conflitto armato”, di Karen Quintero e Mirko Fernández, dell’Unità di Genere del Team Colombiano di Ricerca Antropologica Forense (ECIAF) (questi ultimi due hanno svolto il loro lavoro non solo in Colombia ma anche in Guatemala e Timor Orientale. Vedi Otero Bahamón et alii 2009 e Fernández 2009). La preoccupazione di tutti loro è proprio quella di rendere visibile ciò che la privatizzazione della sessualità nell’ordine moderno e il conseguente “pudore” di giudici e procuratori non hanno reso pubblico, cioè cosa è successo ai corpi delle donne vittime delle nuove forme di guerra.  Effettivamente, la linea guida forense, guidata dal diritto umanitario e dal Protocollo del Minnesota del 1991 e di Istanbul del 1999, considera i crimini sessuali di guerra come crimini di tortura, collaborando così positivamente alla de-privatizzazione di questo tipo di aggressione, ma le donne continuano ad essere considerate nel gruppo delle uccise nel conflitto. E nel caso della tipizzazione del femminicidio, si tratta di affrontare il genere come centro e obiettivo dell’aggressione femminicida e femi-genocida.

Teresa Margolles, Pista de baile de la discoteca “Tlaquepaque”, 2016, stampa su carta cotone. Prostituta transessuale in piedi sul pavimento della pista da ballo del club demolito a Ciudad Juárez, Mexico. Courtesy l’artista.

Dobbiamo quindi sforzarci non solo di inscrivere il termine “femminicidio” nel potente discorso della legge e dotarlo così di un’efficacia simbolica e performativa, ma anche di ottenere altri vantaggi pratici derivanti da questa efficacia. Leggi specifiche obbligheranno a stabilire protocolli dettagliati per le perizie di polizia e medico-legali che siano adeguati ed efficienti per guidare l’investigazione della diversità dei crimini contro le donne in tutti i tipi di situazioni, anche quelle che non sono intese, secondo l’attuale definizione di “guerra”, come conflitti bellici o interni. Come sappiamo dall’esperienza di Ciudad Juárez, è essenziale che i moduli siano concepiti correttamente per guidare le indagini della polizia e ridurre così l’impunità. Crimini diversi hanno bisogno di diversi protocolli di indagine. Solo la loro chiara separazione nei protocolli di indagine della polizia può garantire la dovuta diligenza, richiesta dagli strumenti della giustizia internazionale sui Diritti Umani.

Ana Mendieta, Untitled (Rape Scene), 1973.

Attualmente, diversi tipi di violenza contro le donne sono confusi e non ottengono specificità nelle indagini penali, perdendo così una grande quantità di informazioni qualitative indispensabili per caratterizzare ogni tipo di caso e la sua corrispondente risoluzione (si vedano, per esempio, le carenze della perizia denunciate dal Rapporto della Commissione di Esperti Internazionali della Organizzazione delle Nazioni Unite sulla Missione a Ciudad Juarez, Chihuahua, presentato dal relatore Carlos Castresana all’Ufficio delle Nazioni Unite sulla Droga e il Crimine nel novembre 2003). Inoltre, insisto sul fatto che il senso comune e il discorso delle autorità premono affinché tutti i tipi di crimini rimangano inquadrati nella sfera privata, nonostante i seri indizi, come ho detto prima, che la tendenza vede un aumento dei crimini di genere non confinati nella sfera delle relazioni private.

Suzanne Lacy, Three Weeks in May, 1977 (verbali e interrogatori della polizia).

Suzanne Lacy, Three Weeks in May, 1977 (verbali e interrogatori della polizia).

Nonostante le richieste di tipizzazione che già circolano, una nota dell’agenzia messicana Comunicación e Información de la Mujer (CIMAC) del 22 novembre 2009, e ancora prima della pubblicazione ufficiale della sentenza, riporta che “Il 18 novembre 2009, la Corte Interamericana de derechos Humanos (CoIDH) ha condannato lo Stato messicano per la violazione dei diritti umani di Esmeralda Herrera Monreal, Claudia Ivette González e Laura Berenice Ramos Monárrez, che furono trovate morte e con segni di tortura sessuale il 6 e 7 novembre 2001, nella proprietà conosciuta come Campo Algodonero, situata a Ciudad Juárez, Chihuahua”, ma che purtroppo, “Il termine ‘femminicidio’ non è stato riconosciuto dalla corte”.

Suzanne Lacy e Leslie Labowitz, In Mourning and In Rage, 1977.

Per quanto riguarda il processo degli omicidi del Campo Algodonero da parte della Corte Interamericana dei Diritti Umani, il giudice Cecilia Medina Quiroga, che nel 2009 ha presieduto il tribunale di Santiago del Cile, ha detto, in un’intervista concessa a Mariana Carbajal, pubblicata nel giornale Pagina 12 di Buenos Aires il 21 dicembre 2009, che è stata “la prima sentenza (di quel tribunale) di un caso di omicidio di donne basato sul genere” e in cui lo “Stato ha responsabilità” indipendentemente dal fatto che non è stato possibile provare che i crimini siano stati commessi da agenti dello Stato. Tuttavia, ha chiarito che “sarebbe difficile per la Corte prendere quella parola (femminicidio) perché nel mondo accademico e nell’attivismo ha molte definizioni e quindi non sarebbe giusto che aderisse a nessuna di esse”. Vediamo qui espresse le conseguenze dell’imprecisione del nominativo nell’indeterminatezza normativa del concetto. Ancora una volta, si rivela qui la relazione tra le dimensioni nominativa e giuridica, così come il suo impatto sull’efficacia della legge.

Ana Mendieta, Untitled (Rape Scene), 1973.

Una questione sta emergendo come motivo di un timido dibattito, già in corso, nelle file dei femminismi: dovremmo includere in questa categoria tutti gli omicidi di donne, siano essi domestici, siano essi per mano di assassini seriali, siano essi quelli che ho chiamato “pubblici”, o dovremmo selezionare specificamente quelli “pubblici” perché la categoria sia efficiente? Naturalmente sarebbe possibile sostenere che ogni crimine di genere ha una dimensione di impersonalità e di antagonismo generico che proviene dalla struttura di potere gerarchica e patriarcale. Questa struttura, che chiamiamo “relazioni di genere”, è essa stessa violentogenica e potenzialmente genocida in quanto la posizione maschile può essere raggiunta – acquisita come status – e riprodotta come tale solo esercitando una o più dimensioni di un fascio di poteri, cioè di forme di dominio interconnesse: sessuale, bellico, intellettuale, politico, economico e morale. Ciò significa che la mascolinità come attributo deve essere ciclicamente messa alla prova e riaffermata e che, per garantire questo fine, quando l’imperativo di riconferma della posizione di dominio è minacciato da comportamenti che possono danneggiarla, l’emotività individuale e l’affetto particolare che può esistere in una relazione personale io-tu tra un uomo e una donna in un legame “amoroso” viene sospeso. Il ricorso all’aggressione, dunque, anche nell’ambiente domestico, implica la sospensione di ogni altra dimensione personale del legame per lasciare il posto a un’emersione della struttura generica e impersonale del genere e del suo mandato di dominio. Questo è ciò che ci fa dubitare, con Katherine MacKinnon, che per il genere ci siano “tempi di pace” (MacKinnon 1993).

Ana Mendieta, Untitled (Self-Portrait with Blood), 1973.

È forse a causa della progressiva comprensione di questa dimensione generica dei crimini contro le donne che, nei paesi latinoamericani, il senso comune e i media usano oggi in modo intercambiabile e con una certa frequenza le espressioni “femminicidio” e “femicidio” per parlare degli omicidi di donne legati al genere nell’intimità delle relazioni intime e nell’anonimato della strada. Il problema è che se da un lato il termine aiuta il pubblico a percepire la grandezza dei crimini misogini, dall’altro lato rafforza la privatizzazione della violenza di genere e rende difficile percepire le manifestazioni di quella stessa violenza che fanno parte di altre scene. Tuttavia, è proprio la percezione della violenza di genere in queste altre scene, pubbliche e belliche, che preme per trasformare l’immaginario socialmente condiviso e orientarlo verso una comprensione del genere come una dimensione non particolare, non privata dell’esistenza umana, ma pubblica, politica e di impatto generale nella storia delle collettività. Se mostriamo che ci sono crimini di genere che si incontrano pienamente nella scena pubblica e di guerra, questa realizzazione avrà il suo impatto sullo sguardo collettivo e premerà per installare le relazioni di genere su una piattaforma di importanza generale e valore universalizzabile. Questa considerazione è strategica, quasi didattica, e si traduce in una contro-retorica che compensa e inverte lo sforzo del senso comune patriarcale di privatizzare ogni violenza di genere. È significativo quello che ho osservato in precedenza sul caso paradigmatico di Ciudad Juarez: c’è qualcosa che si può affermare senza timore di sbagliare sui femminicidi che vi si perpetrano, ed è quello che ho descritto come la volontà di indistinzione da parte delle autorità e dei media locali: “si tratta di crimini a sfondo sessuale”, “più di un crimine sessuale è avvenuto oggi a Ciudad Juarez”, ecc. ecc. ecc.

Lara Pisu, La polarizzazione di un sesso, pamphlet formato digitale, 2020.

Vorrei sottolineare ancora una volta che non si tratta di crimini con un movente sessuale, ma di crimini perpetrati con mezzi sessuali, tra gli altri.

Vorrei anche insistere ancora una volta sul fatto che l’indistinzione dei diversi tipi di aggressione con intento letale sulle donne ha come risultato: 1. di confondere i protocolli di indagine della polizia e degli esperti; e 2. di incoraggiare e rinforzare la privatizzazione di tutti i crimini in cui l’abuso sessuale è uno degli strumenti di aggressione.

E considerando:

  1. Che la stampa e l’opinione pubblica latinoamericana hanno già adottato il termine femminicidio – o, in modo intercambiabile, femicidio – per indicare tutti i tipi di omicidi di donne.
  2. Che alcune leggi statali nazionali hanno già adottato il termine femminicidio o femicidio o violenza femminicida per indicare gli omicidi di donne per motivi misogini, cioè come risultato delle relazioni di genere, sia nel contesto delle relazioni interpersonali che in contesti di assoluta impersonalità.
  3. Che, sebbene tutta la violenza femminicida o femicida sia un epifenomeno delle relazioni di genere, si possono e si devono distinguere due tipi di violenza: 1. quella che può essere riferita alle relazioni interpersonali – violenza domestica – o alla personalità dell’aggressore – crimini seriali -; e 2. quella che ha caratteristiche non personali – distruzione dei corpi delle donne da parte del nemico nello scenario di guerra informale delle guerre contemporanee, e nella tratta.
  4. Che la tipizzazione di ognuna di esse è una strategia cruciale affinché 1. si possano sviluppare efficaci protocolli di investigazione della polizia; e 2. si possano rendere intelligibili nei processi tutti i tipi di violenza femminicida, garantendo così una diminuzione dell’impunità.
  5. Che sarebbe strategico portare nei tribunali internazionali dei diritti umani almeno alcuni tipi di femminicidio – o femicidio -, per almeno due ragioni: 1. Darebbe maggiore visibilità alla violenza che emana dalla struttura di relazioni che chiamiamo “genere”; 2. Toglierebbe dalla dimensione privata a cui sono confinati dalla concezione dominante gli eventi che vittimizzano le donne; e 3. Renderebbe almeno alcuni di questi crimini imprescrittibili, dando il tempo necessario per identificare e perseguire i responsabili, intimidendoli con la possibilità di catturarli in futuro con la legge.
  6. Che se è possibile ottenere condanne per femminicidi del primo tipo – in contesti interpersonali o personalizzabili – nei tribunali statali, non è possibile portare questi casi ai tribunali internazionali dei diritti umani per almeno due ragioni: 1. Solo i femminicidi di natura impersonale, che qui chiamerò “femi-genocidi”, hanno una sistematicità e un carattere ripetitivo derivanti da norme condivise all’interno della fazione armata che li perpetra, il che li differenzia dai crimini che avvengono in contesti interpersonali o con motivazioni soggettive e di ordine privato, come nel caso dei crimini seriali. Questo carattere generico, impersonale e sistematico è indispensabile per avvicinarli al profilo dei genocidi o dei crimini contro l’umanità; 2. Solo i femi-genocidi, o femminicidi di natura impersonale, presentano una relazione inversa tra il numero dei perpetratori e il numero delle loro vittime, dal momento che un leader di una parte e il suo gruppo saranno responsabili della morte di una molteplicità di vittime. Non sarebbe possibile portare davanti a un tribunale internazionale dei crimini unitari, in cui il numero degli autori e delle vittime sono uguali.

Lastesis, performance pubblica e collettiva “Un violador en tu camino” (Uno stupratore sul tuo cammino), 2019/2020, Valparaíso, Cile.

Per questo motivo, penso che sia più efficace selezionare alcuni tratti per tipizzare il crimine di femminicidio che possano caratterizzarlo come un femi-genocidio agli occhi del senso comune patriarcale dei giudici, dei procuratori e del pubblico come un crimine generico, sistematico, impersonale e sottratto alla privacy degli aggressori. In sintesi, suggerisco che se la categoria di femminicidio -femicidio-, sempre che correttamente definita e formulata secondo i sottotipi di cui si compone, può essere utilizzata all’interno della giurisdizione del diritto statale per comprendere tutti i crimini commessi nella frontiera di genere, quelli che avvengono in contesti interpersonali e anche quelli perpetrati da agenti le cui motivazioni sono di ordine personale, è anche necessario, d’altra parte, portare la categoria del femminicidio al rango di femi-genocidio per includerla nella giurisdizione internazionale che si occupa di crimini contro l’umanità e genocidio.

Per questo, è necessario considerare quei crimini di natura impersonale, che non possono essere personalizzati né in termini di relazione tra persone conosciute né di motivazioni dell’autore, e, molto importante, in cui un gruppo ristretto di autori vittimizza numerose donne (o uomini femminilizzati). Si esclude da questa categoria il rapporto uno-a-uno mantenuto da crimini di contesto interpersonale o legati alla personalità dell’aggressore. Pertanto, una seconda indispensabile precisazione sarà quella di riservare il termine femigenocidio, che qui introduco per la prima volta, ai crimini che, per la loro qualità sistematica e impersonale, hanno come obiettivo specifico la distruzione delle donne (e degli uomini femminilizzati) solo perché sono donne e senza la possibilità di personalizzare o individualizzare né il movente dell’autore né la relazione tra autore e vittima.

In questo modo, assegneremmo la categoria di femminicidio a tutti i crimini misogini che vittimizzano le donne, sia nel contesto delle relazioni di genere interpersonali che impersonali, e introdurremmo la particella “geno” per denominare quei femminicidi che sono diretti, con la loro letalità, alle donne come genus, cioè come genere, in condizioni di impersonalità.

 

Bibliografía

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Fernández, Mirko Daniel 2009 Protocolo sobre Violencia Sexual contra mujeres asesinadas em masacres perpetuadas por grupos de autodefensa durante el período 1997-2003, y factores que determinan el registro de este tipo de violencia por parte del INML y CF. Bogotá, Instituto Nacional de Medicina Legal y Cuerpo Forense.

Otero Bahamón, Silvia, Viviana Quintero Márquez e Ingrid Bolívar 2009 “Las barreras invisibles del registro de la violencia sexual en el conflicto armado colombiano”. Bogotá: Revista Forensis, pp. 335 – 349

http://www.medicinalegal.gov.co/index.php?option=com_wrapper&view=wrapper&Itemid=60

Uprimny Yepes, Rodrigo, Diana Esther Guzmán Rodríguez y Julissa Mantilla Falcón 2008 Violación sexual como crimen de lesa humanidad.

Amicus Curiae presentado por la Organización No Gubernamental De JuSticia (Colombia) ante la Primera Fiscalía Penal de Abancay. Lima: Asociación Pro derechos Humanos (APRODEH).

 

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