Mata Huti (occhi lunghi) era l’appellativo con cui i polinesiani chiamavano Laura Grisi. Il racconto I denti del Tigre, con uno “scarno ritmo narrativo da ballata” ruota attorno al tigre, il mastodontico pescecane che vive nelle acque della Polinesia. Pubblicato nel 1964 è una testimonianza dei suoi voyages extraordinaires, la conoscenza dei riti e il pensiero magico, le classificazioni totemiche e i fenomeni naturali osservati tra gli atolli polinesiani dove l’artista trascorre più di un anno. A partire dalla fine degli anni Cinquanta Laura Grisi compie numerosi viaggi con il compagno documentarista Folco Quilici: la personale cosmogonia nell’analisi ricorsiva delle fenomenologie atmosferiche dei suoi environments – dalla pioggia all’aria, dal vortice al vento, dalla nebbia all’arcobaleno – rivela una profonda connessione con le soggettività non umane, vegetali e minerali, in una prospettiva ecofemminista: non certo per l’allineamento ancestrale di donna-natura o in nome di un’essenza astorica e simbolica del genere in quanto determinazione biologica, quanto per una femminilizzazione delle strutture semio-narrative e percettive dell’essere e del pensiero.
Le culture indigene che incontra a differenti latitudini sono catturate con la sua Rolleiflex e costituiscono un corpus incredibile di opere, oltre 5.000 fotografie, mai esposte prima d’ora, una sorta di inventario di mondo, che risulterà tale da mettere in crisi la sua stessa produzione, la sovranità dello sguardo presunto naturalistico, meccanico e oggettivo del fotografico, pur continuando a rappresentare la sottotraccia di tutta la sua produzione artistica ulteriore. Attraverso però la decostruzione del paradigma eurocentrico e patriarcale della narrazione modernista.
In questa straordinaria riscoperta di una grande artista e del suo essere elusivo e incatturabile rispetto alle rigide classificazioni della storiografia ufficiale e di un canone maschile egemonico, il viaggio è una metafora di tutta l’esposizione che la riconnette ad altre eccedenze tenute fuori dall’ordine del discorso storico che abbiamo ereditato – femminismo, interculturalità, ecologia.
All’ingresso dell’esposizione entriamo letteralmente dentro la ricostruzione del primo ambiente, Whirlpool Room (1969), una videoproiezione a terra di un film 16 mm, con la sensazione di trovarci al centro di un vortice, risucchiati in una virtualità atmosferica a velocità concentrica e cromaticamente mutante, in cui il corpo cessa di percepirsi come esteriorità e ridefinisce continuamente la propria collocazione: metaforicamente segna l’ingresso in quella crisi della modernità nei termini di una “frantumazione dei fondamenti maschilisti della soggettività classica” – per dirla con Braidotti – per cui il soggetto nomade, rispetto alla presunta unicità astratta, universale e alla (falsa) neutralità, si trasforma una soggettività post-identitaria e molteplice, in divenire. Non si esce dal gorgo allo stesso modo di quando si è entrati.
La ridefinizione nomadica della soggettività non è né identitaria né lineare e l’impaginazione spaziale della prima sala, con gli scatti dei voyages extraordinaires (seppure ridotti nel numero), raccontano questa metamorfosi: sguardi, close-up e paesaggi che non hanno nulla di esotico ma rappresentano una soglia verso quelle culture extra-occidentali che Laura Grisi aveva avvicinato, con ingrandimenti fotografici sospesi in una sorta di Diagram Extended Field of Vision, che rimanda all’avanguardistico design delle esposizioni di Herbert Bayer del 1935, o al display di una seminale esposizione fotografica come The Family of Man (curata da Edward Steichen al MoMA nel 1955): nella cancellazione di ogni gerarchia spaziale il campo visivo è qualcosa di incommensurabile perché supera il sistema monofocale e si estende alla dimensione corporea della percezione, portando inevitabilmente a una destrutturazione delle rappresentazioni, alla costituzione di un atlante non-ascrittivo fuori dalle latitudini europee sulla natura del mondo.
Laura Grisi. The Measuring of Time, a cura di Marco Scotini, exhibition view, Muzeum Susch, 2021.
Quello fotografico non è però un medium innocente, così Laura Grisi, a differenza del documentario etnografico, e nella consapevolezza del proprio privilegio di essere una donna bianca con la macchina da presa, utilizza gli strumenti del discorso dominante per resistere al suo controllo politico o culturale, per poi procedere infine ad una sorta di permanente “traduzione” tra segni e forze, tra scritture verbali e algebriche, lontano dall’idea di predazione e registrazione tipica della fotografia.
In attesa della pubblicazione di Laura Grisi. The Measuring of Time, importante volume monografico edito da jrp|editions e sviluppato grazie alla collaborazione tra jrp|editions, Muzeum Susch e la galleria P420, pubblichiamo un passaggio del testo di Marco Scotini intitolato Una Riserva d’Aria. Laura Grisi e l’ordine dell’imponderabile che ha contribuito alla ricerca e riscoperta di questi viaggi che ora, visualmente, proviamo a raccontare…
In una foto bianco e nero del 1964 siamo catturati dallo sguardo di una giovane donna Peul che ruota leggermente la testa alla sua destra – e gli occhi con essa – per guardare nell’obiettivo. Di pelle molto scura, porta un fazzoletto sulla testa, orecchini e collana. Ha scarificazioni all’estremità della bocca e alle tempie: le stesse della figlia addormentata che tiene avvinghiata alle spalle con un largo panno colorato legato all’altezza dei seni. In un’altra foto dello stesso periodo è ancora una giovane donna a mostrarsi, non più con i caratteri nomadi e tribali ma con quelli urbani e occidentalizzati di una megalopoli come Lagos. Stessa torsione della testa, stesso taglio dell’inquadratura all’altezza delle spalle del soggetto. In questo caso però lo sguardo è ammiccante e compiaciuto, lo stile dell’acconciatura è ‘alla moda’ con un fiocchetto giallo di lato e fascia per capelli. Fa da sfondo al ritratto una grande insegna pubblicitaria con la scritta African Records e un vinile dipinto fuori scala. Si tratta di un locale notturno della capitale nigeriana dove, tra twist e tam-tam, le ragazze yoruba dei villaggi delle lagune vicine sono forzate a fare le intrattenitrici, anche se la loro provenienza tribale rimane identificabile dal fiocchetto sulla testa.
Una strana cerimonia d’iniziazione, invece, è catturata da una serie di scatti nel villaggio Boni in Burkina Faso. Gli iniziati sono dei bambini nudi e proni a terra, mentre gli officianti indossano alte maschere Bwa in legno intagliato e dipinto, sopra ampi costumi di fibre vegetali quali segni di divinità animali.
Tra il 1958 e il 1959 Laura Grisi spende un intero anno viaggiando tra le Ande, la Bolivia, i gauchos de La Pampa, la provincia di Misiones, gli indios guarany presso le Cascate dell’Iguazù e Buenos Aires, infine. Nel 1960 un nuovo viaggio la vede in Ciad, Camerun e Tunisia del sud per alcuni mesi. Tra il 1961-62 trascorre un anno nell’Oceano Pacifico nelle Isole Sottovento della Polinesia. Al 1962 risale il viaggio nel Sud Est asiatico: Vietnam, Malesia, Tailandia e nel ‘63 e nel ’64 è ancora in Africa: Nigeria, Alto Volta (Burkina Faso oggi), Niger, Dahomey (oggi Benin), Togo.
In questi viaggi alla ricerca delle tracce di popolazioni che vanno scomparendo, Laura Grisi segue il marito Folco Quilici, importante e popolare documentarista per il cinema e la TV. Questi reticoli di itinerari di lunga durata e orientati a diverse latitudini continueranno senza interruzione fino al 1973. Il modo, comunque, con cui l’artista si rapporterà ad essi – dal 1965 in poi – risulterà completamente mutato. La traccia di questi viaggi rimarrà un elemento indelebile per tutta la sua ulteriore attività, influenzando “il suo modo di pensare e visualizzare la vita”[i].
Analogamente, l’esperienza della fotografia sarà destinata a segnare sottotraccia ogni passo del suo percorso artistico successivo (l’importanza della luce ne è un esempio) fino a quando, negli anni settanta, il medium sarà recuperato in un’accezione totalmente concettuale. La fotografia, una volta spogliata di ogni attributo e ridotta solo all’autoreferenzialità di ciò che mostra, verrà usata da Grisi meccanicamente e impersonalmente (senza alcuna arbitrarietà). Quale elemento ripetuto all’interno di una progressione numerica, la foto entrerà a far parte di sequenze visive che sviluppano permutazioni e variazioni dello stesso oggetto (o della stessa costellazione di oggetti). Oppure diventerà il luogo di una serie speculare che riflette se stessa un numero infinito di volte come in De More Geometrico (1977). In ogni caso, non sarà più la singola immagine ad avere importanza (o l’immagine in quanto tale) ma il modo con cui essa si rapporta ad ogni altra quale caso del possibile. La foto sarà così l’esito di una procedura aritmetica prestabilita, invece che la preda di quella cattura del “momento decisivo” rincorso da Cartier-Bresson.
Tra il 1958 e il ‘64 Laura Grisi rinuncia temporaneamente alla pittura. Armata di Hasselblad e Rolleiflex si dedica ad una fotografia documentaria vicina al modello del fotoreportage stile Magnum. Molte delle sue foto autoriali vengono pubblicate in libri fotografici suoi come Pasospor Buenos Aires (1963), in settimanali illustrati e in alcuni volumi di saggistica di Folco Quilici come I mille fuochi. Dal Sahara al Congo (1965). Assieme alla produzione fotografica figurano i suoi reportage scritti per rotocalchi e un libro pubblicato nel 1964 I denti del Tigre che, sotto forma di ballata popolare, è ambientato in Polinesia, negli atolli di Tuamotu.
Oggetto delle fotografie iniziali di Grisi sono i riti ancestrali, i costumi, i ruoli sociali, la condizione femminile, il lavoro, gli ecosistemi che caratterizzano le popolazioni tribali ancora esistenti a quella data, pur minacciate dall’ingresso del modernismo occidentale. Che il mezzo fotografico fosse lo strumento ritenuto più adatto a registrarne le tracce, prima della loro sparizione, è fuori dubbio. Ma è proprio l’impatto con la molteplicità delle culture non occidentali, che porta Laura Grisi a mettere in discussione la presunta obiettività e ‘fedeltà al reale’ del medium utilizzato, assieme ai limiti rappresentativi che esso comporta. Forse è la stessa fotografia a rivelarle il proprio privilegio (di donna bianca con un dispositivo visivo automatico, sradicato e di dominio) come un limite. Perciò, nonostante l’artista abbia lasciato un corpus fotografico di oltre cinquemila immagini (un vero e proprio ‘inventario di mondo’), nel 1964/65 Grisi lascia la fotografia e torna alla pittura con una mostra emblematica presso la Galleria dell’Ariete di Milano, che fa seguito alla sua prima personale alla galleria Il Segno di Roma.
[i] Laura Grisi afferma: “This is how I came into contact with so many peoples and cultures that were distant from my own cultural context, an experience that strongly influenced my way of thinking and of visualizing life.” in Essay-Interview by Germano Celant, op.cit., p. 13.
di Elvira Vannini.
Mata Huti (occhi lunghi) era l’appellativo con cui i polinesiani chiamavano Laura Grisi. Il racconto I denti del Tigre, con uno “scarno ritmo narrativo da ballata” ruota attorno al tigre, il mastodontico pescecane che vive nelle acque della Polinesia. Pubblicato nel 1964 è una testimonianza dei suoi voyages extraordinaires, la conoscenza dei riti e il pensiero magico, le classificazioni totemiche e i fenomeni naturali osservati tra gli atolli polinesiani dove l’artista trascorre più di un anno. A partire dalla fine degli anni Cinquanta Laura Grisi compie numerosi viaggi con il compagno documentarista Folco Quilici: la personale cosmogonia nell’analisi ricorsiva delle fenomenologie atmosferiche dei suoi environments – dalla pioggia all’aria, dal vortice al vento, dalla nebbia all’arcobaleno – rivela una profonda connessione con le soggettività non umane, vegetali e minerali, in una prospettiva ecofemminista: non certo per l’allineamento ancestrale di donna-natura o in nome di un’essenza astorica e simbolica del genere in quanto determinazione biologica, quanto per una femminilizzazione delle strutture semio-narrative e percettive dell’essere e del pensiero.
Laura Grisi, ritratto dell’artista nell’Atollo Rangiroa, Touamoutu, 1962 © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
Le culture indigene che incontra a differenti latitudini sono catturate con la sua Rolleiflex e costituiscono un corpus incredibile di opere, oltre 5.000 fotografie, mai esposte prima d’ora, una sorta di inventario di mondo, che risulterà tale da mettere in crisi la sua stessa produzione, la sovranità dello sguardo presunto naturalistico, meccanico e oggettivo del fotografico, pur continuando a rappresentare la sottotraccia di tutta la sua produzione artistica ulteriore. Attraverso però la decostruzione del paradigma eurocentrico e patriarcale della narrazione modernista.
Mai tante opere dell’artista sono state raccolte assieme come in questa prima e ampia retrospettiva museale, The Measuring of Time, a cura di Marco Scotini e concepita per Muzeum Susch, insieme all’Archivio Laura Grisi di Roma e alla Galleria P420 di Bologna, appena inaugurata e di cui torniamo ad occuparci dopo L’aria è la certezza visiva di uno spazio: Laura Grisi.
I mille fuochi dal Sahara al Congo, libro di © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
In questa straordinaria riscoperta di una grande artista e del suo essere elusivo e incatturabile rispetto alle rigide classificazioni della storiografia ufficiale e di un canone maschile egemonico, il viaggio è una metafora di tutta l’esposizione che la riconnette ad altre eccedenze tenute fuori dall’ordine del discorso storico che abbiamo ereditato – femminismo, interculturalità, ecologia.
All’ingresso dell’esposizione entriamo letteralmente dentro la ricostruzione del primo ambiente, Whirlpool Room (1969), una videoproiezione a terra di un film 16 mm, con la sensazione di trovarci al centro di un vortice, risucchiati in una virtualità atmosferica a velocità concentrica e cromaticamente mutante, in cui il corpo cessa di percepirsi come esteriorità e ridefinisce continuamente la propria collocazione: metaforicamente segna l’ingresso in quella crisi della modernità nei termini di una “frantumazione dei fondamenti maschilisti della soggettività classica” – per dirla con Braidotti – per cui il soggetto nomade, rispetto alla presunta unicità astratta, universale e alla (falsa) neutralità, si trasforma una soggettività post-identitaria e molteplice, in divenire. Non si esce dal gorgo allo stesso modo di quando si è entrati.
Laura Grisi, Whirpool (still), 1969 © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
Laura Grisi, Whirpool (still), 1969 © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
La ridefinizione nomadica della soggettività non è né identitaria né lineare e l’impaginazione spaziale della prima sala, con gli scatti dei voyages extraordinaires (seppure ridotti nel numero), raccontano questa metamorfosi: sguardi, close-up e paesaggi che non hanno nulla di esotico ma rappresentano una soglia verso quelle culture extra-occidentali che Laura Grisi aveva avvicinato, con ingrandimenti fotografici sospesi in una sorta di Diagram Extended Field of Vision, che rimanda all’avanguardistico design delle esposizioni di Herbert Bayer del 1935, o al display di una seminale esposizione fotografica come The Family of Man (curata da Edward Steichen al MoMA nel 1955): nella cancellazione di ogni gerarchia spaziale il campo visivo è qualcosa di incommensurabile perché supera il sistema monofocale e si estende alla dimensione corporea della percezione, portando inevitabilmente a una destrutturazione delle rappresentazioni, alla costituzione di un atlante non-ascrittivo fuori dalle latitudini europee sulla natura del mondo.
Laura Grisi. The Measuring of Time, a cura di Marco Scotini, exhibition view, Muzeum Susch, 2021.
I mille fuochi dal Sahara al Congo, libro di Folco Quilici, foto di Laura Grisi, 1965, Leonardo da Vinci Editore © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
I mille fuochi dal Sahara al Congo, libro di Folco Quilici, foto di Laura Grisi, 1965, Leonardo da Vinci Editore © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
Quello fotografico non è però un medium innocente, così Laura Grisi, a differenza del documentario etnografico, e nella consapevolezza del proprio privilegio di essere una donna bianca con la macchina da presa, utilizza gli strumenti del discorso dominante per resistere al suo controllo politico o culturale, per poi procedere infine ad una sorta di permanente “traduzione” tra segni e forze, tra scritture verbali e algebriche, lontano dall’idea di predazione e registrazione tipica della fotografia.
Laura Grisi, ritratto dell’artista, Deserto Sahara, 1963 © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
In attesa della pubblicazione di Laura Grisi. The Measuring of Time, importante volume monografico edito da jrp|editions e sviluppato grazie alla collaborazione tra jrp|editions, Muzeum Susch e la galleria P420, pubblichiamo un passaggio del testo di Marco Scotini intitolato Una Riserva d’Aria. Laura Grisi e l’ordine dell’imponderabile che ha contribuito alla ricerca e riscoperta di questi viaggi che ora, visualmente, proviamo a raccontare…
I mille fuochi dal Sahara al Congo, libro di Folco Quilici, foto di Laura Grisi, 1965, Leonardo da Vinci Editore © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
In una foto bianco e nero del 1964 siamo catturati dallo sguardo di una giovane donna Peul che ruota leggermente la testa alla sua destra – e gli occhi con essa – per guardare nell’obiettivo. Di pelle molto scura, porta un fazzoletto sulla testa, orecchini e collana. Ha scarificazioni all’estremità della bocca e alle tempie: le stesse della figlia addormentata che tiene avvinghiata alle spalle con un largo panno colorato legato all’altezza dei seni. In un’altra foto dello stesso periodo è ancora una giovane donna a mostrarsi, non più con i caratteri nomadi e tribali ma con quelli urbani e occidentalizzati di una megalopoli come Lagos. Stessa torsione della testa, stesso taglio dell’inquadratura all’altezza delle spalle del soggetto. In questo caso però lo sguardo è ammiccante e compiaciuto, lo stile dell’acconciatura è ‘alla moda’ con un fiocchetto giallo di lato e fascia per capelli. Fa da sfondo al ritratto una grande insegna pubblicitaria con la scritta African Records e un vinile dipinto fuori scala. Si tratta di un locale notturno della capitale nigeriana dove, tra twist e tam-tam, le ragazze yoruba dei villaggi delle lagune vicine sono forzate a fare le intrattenitrici, anche se la loro provenienza tribale rimane identificabile dal fiocchetto sulla testa.
I mille fuochi dal Sahara al Congo, libro di Folco Quilici, foto di Laura Grisi, 1965, Leonardo da Vinci Editore © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
I mille fuochi dal Sahara al Congo, libro di Folco Quilici, foto di Laura Grisi, 1965, Leonardo da Vinci Editore © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
Una strana cerimonia d’iniziazione, invece, è catturata da una serie di scatti nel villaggio Boni in Burkina Faso. Gli iniziati sono dei bambini nudi e proni a terra, mentre gli officianti indossano alte maschere Bwa in legno intagliato e dipinto, sopra ampi costumi di fibre vegetali quali segni di divinità animali.
Tra il 1958 e il 1959 Laura Grisi spende un intero anno viaggiando tra le Ande, la Bolivia, i gauchos de La Pampa, la provincia di Misiones, gli indios guarany presso le Cascate dell’Iguazù e Buenos Aires, infine. Nel 1960 un nuovo viaggio la vede in Ciad, Camerun e Tunisia del sud per alcuni mesi. Tra il 1961-62 trascorre un anno nell’Oceano Pacifico nelle Isole Sottovento della Polinesia. Al 1962 risale il viaggio nel Sud Est asiatico: Vietnam, Malesia, Tailandia e nel ‘63 e nel ’64 è ancora in Africa: Nigeria, Alto Volta (Burkina Faso oggi), Niger, Dahomey (oggi Benin), Togo.
I mille fuochi dal Sahara al Congo, libro di Folco Quilici, foto di Laura Grisi, 1965, Leonardo da Vinci Editore © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
I mille fuochi dal Sahara al Congo, libro di Folco Quilici, foto di Laura Grisi, 1965, Leonardo da Vinci Editore © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
In questi viaggi alla ricerca delle tracce di popolazioni che vanno scomparendo, Laura Grisi segue il marito Folco Quilici, importante e popolare documentarista per il cinema e la TV. Questi reticoli di itinerari di lunga durata e orientati a diverse latitudini continueranno senza interruzione fino al 1973. Il modo, comunque, con cui l’artista si rapporterà ad essi – dal 1965 in poi – risulterà completamente mutato. La traccia di questi viaggi rimarrà un elemento indelebile per tutta la sua ulteriore attività, influenzando “il suo modo di pensare e visualizzare la vita”[i].
I mille fuochi dal Sahara al Congo, libro di Folco Quilici, foto di Laura Grisi, 1965, Leonardo da Vinci Editore © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
I mille fuochi dal Sahara al Congo, libro di Folco Quilici, foto di Laura Grisi, 1965, Leonardo da Vinci Editore © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
I mille fuochi dal Sahara al Congo, libro di Folco Quilici, foto di Laura Grisi, 1965, Leonardo da Vinci Editore © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
Analogamente, l’esperienza della fotografia sarà destinata a segnare sottotraccia ogni passo del suo percorso artistico successivo (l’importanza della luce ne è un esempio) fino a quando, negli anni settanta, il medium sarà recuperato in un’accezione totalmente concettuale. La fotografia, una volta spogliata di ogni attributo e ridotta solo all’autoreferenzialità di ciò che mostra, verrà usata da Grisi meccanicamente e impersonalmente (senza alcuna arbitrarietà). Quale elemento ripetuto all’interno di una progressione numerica, la foto entrerà a far parte di sequenze visive che sviluppano permutazioni e variazioni dello stesso oggetto (o della stessa costellazione di oggetti). Oppure diventerà il luogo di una serie speculare che riflette se stessa un numero infinito di volte come in De More Geometrico (1977). In ogni caso, non sarà più la singola immagine ad avere importanza (o l’immagine in quanto tale) ma il modo con cui essa si rapporta ad ogni altra quale caso del possibile. La foto sarà così l’esito di una procedura aritmetica prestabilita, invece che la preda di quella cattura del “momento decisivo” rincorso da Cartier-Bresson.
Laura Grisi, I denti del tigre, 1964, libro d’artista, Lerici Editori, Milano © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
Laura Grisi, I denti del tigre, 1964, libro d’artista, Lerici Editori, Milano © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
Tra il 1958 e il ‘64 Laura Grisi rinuncia temporaneamente alla pittura. Armata di Hasselblad e Rolleiflex si dedica ad una fotografia documentaria vicina al modello del fotoreportage stile Magnum. Molte delle sue foto autoriali vengono pubblicate in libri fotografici suoi come Pasos por Buenos Aires (1963), in settimanali illustrati e in alcuni volumi di saggistica di Folco Quilici come I mille fuochi. Dal Sahara al Congo (1965). Assieme alla produzione fotografica figurano i suoi reportage scritti per rotocalchi e un libro pubblicato nel 1964 I denti del Tigre che, sotto forma di ballata popolare, è ambientato in Polinesia, negli atolli di Tuamotu.
Laura Grisi, Peul shepherds prove their courage in the sha-ròt ceremony, Niger © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
Oggetto delle fotografie iniziali di Grisi sono i riti ancestrali, i costumi, i ruoli sociali, la condizione femminile, il lavoro, gli ecosistemi che caratterizzano le popolazioni tribali ancora esistenti a quella data, pur minacciate dall’ingresso del modernismo occidentale. Che il mezzo fotografico fosse lo strumento ritenuto più adatto a registrarne le tracce, prima della loro sparizione, è fuori dubbio. Ma è proprio l’impatto con la molteplicità delle culture non occidentali, che porta Laura Grisi a mettere in discussione la presunta obiettività e ‘fedeltà al reale’ del medium utilizzato, assieme ai limiti rappresentativi che esso comporta. Forse è la stessa fotografia a rivelarle il proprio privilegio (di donna bianca con un dispositivo visivo automatico, sradicato e di dominio) come un limite. Perciò, nonostante l’artista abbia lasciato un corpus fotografico di oltre cinquemila immagini (un vero e proprio ‘inventario di mondo’), nel 1964/65 Grisi lascia la fotografia e torna alla pittura con una mostra emblematica presso la Galleria dell’Ariete di Milano, che fa seguito alla sua prima personale alla galleria Il Segno di Roma.
I mille fuochi dal Sahara al Congo, libro di Folco Quilici, foto di Laura Grisi, 1965, Leonardo da Vinci Editore © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
[i] Laura Grisi afferma: “This is how I came into contact with so many peoples and cultures that were distant from my own cultural context, an experience that strongly influenced my way of thinking and of visualizing life.” in Essay-Interview by Germano Celant, op.cit., p. 13.
Rebecca Horn, Laura Grisi, Ida Gianelli, Biennale Venezia, 1978 © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.
Laura Grisi, Light Melting Time, 1968, installation view Galleria del Naviglio, Milano, 1970 © Laura Grisi Estate, Courtesy P420, Bologna.