Con l’espressione «femminismo marxista della rottura» mi riferisco all’incontro proficuo e critico tra marxismo e femminismo radicale per come si è declinato a partire dal dibattito aperto dalla pubblicazione di Potere femminile e sovversione sociale di Mariarosa Dalla Costa nel 1972. Un femminismo che le stesse protagoniste definiscono «militante», cioè mosso dall’urgenza di un’analisi teorica per l’intervento politico, che ha prodotto una rottura con i gruppi rivoluzionari, con la tradizione teorica marxista e soprattutto con i discorsi sull’emancipazionismo.
Potere femminile è una riflessione collettiva, sviluppata all’interno del collettivo Lotta femminista di Padova, preceduta dall’incontro politico e intellettuale tra Mariarosa Dalla Costa e Selma James: l’incontro tra il metodo operaista da cui proveniva Dalla Costa e la critica all’emancipazione femminile attraverso il salario sviluppata da James sin dagli anni Cinquanta (ripresa nel saggio Il posto della donna pubblicato in appendice al volume).
See Red Women’s Workshop, A Woman’s Work Is Never Done, il doppio lavoro della donna: a destra il turno in fabbrica alla catena di montaggio, a sinistra la casa da tenere in ordine e la famiglia da accudire. 1974.
A partire da quel testo e attraverso una serie di incontri sul piano transnazionale, si definisce la campagna «Wage For Housework» (Salario al lavoro domestico) che nella prima metà dei Settanta coinvolgerà donne diverse per provenienza geografica e sociale, per esperienza e appartenenza politica. Sono anni di profonde trasformazioni e sul piano internazionale esplode il conflitto sociale: lotte operaie, di studenti, contro la guerra e per i diritti civili. La lotta delle donne, dentro e fuori la famiglia, produrrà un profondo cambiamento della mentalità, delle abitudini e dei costumi. Ed è in questo contesto che va letta la nascita di ciò che qui chiamo femminismo marxista della rottura.
Con questa locuzione mi riferisco anche ai successivi sviluppi ancorché critici di quel dibattito, di cui si può trovare una traccia importante nel libro Oltre il lavoro domestico di Lucia Chisté, Alisa Del Re ed Edvige Forti, uscito nel 1979. Un volume che sin dal titolo segna una discontinuità con l’esperienza dei gruppi per il salario e raccoglie le riflessioni di esperienze femministe che progettavano forme «concrete» di liberazione dal lavoro domestico: traslando nella lotta femminista le lotte operaie, che – ricorda Alisa del Re in un’intervista del 2005 – «chiedevano “cinquemila lire subito” (…) per vivere meglio, anche se [si sapeva] non si trattasse di un atto immediatamente rivoluzionario». Con lo stesso orientamento individuavano il terreno del conflitto nella lotta per i servizi sociali. Il femminismo marxista della rottura, allora, non si esaurisce nell’esperienza dei gruppi per il salario ma si delinea come metodo, una prassi teorico-politica che vive l’urgenza militante di mettere a critica l’analisi marxiana del lavoro e della riproduzione della forza-lavoro.
Cindy Sherman, Untitled, Film Still 84′, 1978.
Con la stessa urgenza, Leopoldina Fortunati in L’arcano della riproduzione pubblicato nel 1981 si è interrogata sulle ulteriori piste di rottura del femminismo di fronte «agli esiti della crisi capitalista sulla riproduzione», su come portare avanti la lotta una volta che il rifiuto del ruolo riproduttivo negli anni Sessanta e Settanta aveva messo in crisi il modello fordista di produzione senza tuttavia risolvere la questione dello sfruttamento e della subordinazione delle donne. Qualche anno dopo, la stessa Fortunati insieme a Silvia Federici rilegge Marx portando in primo piano le lacune del paradigma dell’accumulazione originaria. Il grande Calibano, pubblicato nel 1984, analizza il fenomeno storico della caccia alle streghe per ribadire la centralità politica della riproduzione. Negli anni successivi, mentre la lotta femminista cambiava connotazione, Antonella Picchio, seppur dentro un mutato orizzonte militante, avrebbe dedicato gran parte del suo impegno politico e intellettuale a valorizzare il discorso avviato dai gruppi per il salario sul valore produttivo della riproduzione e, in collaborazione con Selma James, ha portato il tema all’ordine del giorno della Conferenza mondiale delle donne di Pechino nel 1995. Ma erano già altri anni e quell’esperienza era ormai caduta nell’oblio, incalzata dal ritorno al privato negli anni della controrivoluzione neoliberista, e dai richiami al simbolico del femminismo a venire.
Wages for Housework, Wages for Housework Brings Together The Power of ALL Generations, Archivio MayDay Room “Wages for Housework Campaign – Silvia Federici”, depositato il 28 gennaio 2013, Londra.
Con femminismo marxista della rottura, dunque, si intende innanzitutto una prassi di intervento politico, una critica femminista dello sviluppo del capitale immediatamente calata nei rapporti sociali di produzione, che parte da Marx per andare oltre. Senza dubbio altre riflessioni femministe di stampo marxista hanno discusso la subordinazione delle donne. Si pensi agli scritti di Rosa Luxbemburg sulla condizione femminile o alla proposta di riorganizzazione radicale dei rapporti sociali, fin dentro la sfera della sessualità e degli affetti, di Aleksandra Kollontaj. Si pensi anche all’approccio immediatamente materialista e critico rispetto al marxismo di autrici come Christine Delphy, che nel 1970 – con lo pseudonimo Christin Dupont – scriveva il testo fondativo del femminismo radicale francese L’ennemi principal. Tuttavia, nessuna di queste analisi ha pienamente rotto con la tradizione marxista, nel senso che il lavoro domestico e di riproduzione resta sempre sfera separata dalla produzione di valore, è cioè valore d’uso e mai valore di scambio. E anche quando nel 1940 la comunista Mary Inman, in rotta con il suo partito, scriveva In Woman’s Defense insistendo sul valore produttivo della riproduzione, l’analisi era rimasta schiacciata sulla distinzione tra sfera produttiva maschile e sfera riproduttiva femminile, completamente in linea con il classico impianto marxista.
Per le femministe della rottura, invece, andare oltre Marx è il punto dirimente. Non un vezzo teorico ma una scelta politica per un femminismo all’altezza delle sfide del tempo. In questo senso può essere intesa come la traduzione femminista del metodo operaista – sintetizzato dell’adagio trontiano «la conoscenza è legata alla lotta» – con cui a Padova si sono formate Dalla Costa e Del Re, a cui attinge Federici da New York nei contatti costanti con Padova e che informa, nelle differenze, le esperienze dei gruppi per il salario. Un metodo che si contamina con altri percorsi intellettuali e militanti, a partire dal lavoro di Selma James tra Londra e gli Stati Uniti. E, come ricorda Dalla Costa, deve proprio a quel «mondo militante vivo» dal quale proviene parte del successo internazionale. Sarebbe tuttavia un errore ridurre quest’esperienza alla sua indubbia matrice operaista. Benché se ne possano rintracciare gli aspetti comuni e le stesse protagoniste ne richiamino la genealogia, pur con accenti critici, parlare di «femminismo operaista» non dà conto degli sviluppi complessivi dell’esperienza che indubbiamente eccedono l’operaismo, né delle difficoltà incontrate da queste posizioni all’interno del dibattito operaista del tempo. Non convince neppure la definizione di «femminismo autonomo» diffusa soprattutto nel mondo anglosassone. Le compagne di Lotta femminista avevano già rotto con Potere operaio quando, dopo il convegno di Rosolina nel 1973, nasceva l’Autonomia. Il femminismo marxista della rottura è, allora, uno stile della militanza che esprime l’urgenza politica e intellettuale di portare Marx oltre i vicoli ciechi del suo discorso.
Wages for Housework, Balloon. Celebrating the opening of NYC Wages for Housework office. Brooklyn, 288-B Eight Street. 15 Novembre 1975. Depositato da Silvia Federici a MayDay Rooms, Londra, 29 gennaio 2013.
Wages for Housework, International Women’s Day, 1977.
Gli esordi: la campagna internazionale «Wage For Housework»
Il lavoro domestico, il suo valore produttivo e la sua retribuzione; la donna come soggetto di questo lavoro; la famiglia come luogo di produzione e riproduzione della forza-lavoro. Sono questi i temi che Dalla Costa propone per la discussione collettiva a Padova nel giugno del 1971 che prepara la pubblicazione di Potere femminile. L’anno successivo, sempre a Padova in giugno, Dalla Costa, James, Federici (da New York), Brigitte Galtier (da Parigi) e altre compagne di Lotta femminista si incontrano per fondare il Collettivo internazionale femminista (Cif), che tra il 1972 e il 1977 darà vita alla campagna internazionale «Wage For Housework». Ma sarà nel mese successivo che quella composizione soggettiva irromperà sulla scena politica italiana. È l’epilogo inevitabile dei «fatti di luglio», quando a Roma, alla facoltà di Magistero, «uomini genericamente autodefinitisi “compagni”, non tollerando che le donne pretendessero di definire autonomamente il proprio sfruttamento e le proprie forme di lotta», avevano impedito che si svolgesse un seminario sull’occupazione femminile organizzato dal Movimento Femminista (si veda la lettera del 7 luglio 1972 indirizzata alle redazioni di «Potere operaio», «Lotta continua» e «Manifesto» contenuta nel volume di Antonella Picchio e Giuliana Pincelli 2019, p. 90). Nei giorni successivi, Lotta femminista e il Cif scriveranno una lettera indirizzata alla redazione del «Manifesto» per rispondere a un’altra lettera di Po comparsa sulle pagine dello stesso quotidiano in merito a quei fatti. La lettera (anche questa rintracciabile nel volume di Picchio e Pincelli) ridiscute da una prospettiva femminista i concetti cari all’operaismo politico italiano, dal salario alla classe e alla sua composizione, segnando la rottura femminista all’interno di Po.
Poster che pubblicizza la conferenza sul welfare organizzata da New York Wages for Housework Committee il 24 aprile,1976. Silvia Federici Papers, Pembroke Center for Teaching and Research on Women, Brown University.
Ciononostante, la genealogia del femminismo marxista della rottura non è segnata solo da strappi e fratture. È anche l’incontro con le correnti eretiche del marxismo, in particolare la Johnson-Forest Tendency negli Stati Uniti e «Socialisme ou barbarie» in Francia, con la critica al marxismo mossa dal movimento nero anticoloniale e dal pensiero di Frantz Fanon, con cui la stessa James si era formata. Si definisce cioè all’interno di una rete intellettuale e militante che nel corso degli anni Sessanta aveva sviluppato un discorso alternativo e critico rispetto alla tradizione marxista, spaziando tra Padova, Milano, Torino, Londra e Detroit (dove è attiva la Legue of Revolutionary Black Workers). La nascita del Cif è dunque tutt’altro che casuale e la campagna «Wage For Housework» nasce come struttura organizzativa immediatamente transnazionale, alimentata da incontri e traduzioni collettive che coinvolgono donne con provenienze sociali e politiche diversificate. Ci sono donne bianche, nere, migranti, eterosessuali e lesbiche, lavoratrici e non lavoratrici. Nella specificità delle pratiche militanti, la campagna per il salario prende piede a Londra in Gran Bretagna (dietro la leadership di Selma James e Susie Fleming), in diverse città degli Stati uniti, con epicentro a Brooklyn (dove ci sono Silvia Federici e Nicole Cox – per un lavoro di ricostruzione storiografica e documentale si veda Wage For Housework: The New York Committee 1972-1977: History, Theory, Documents curato dalla stessa Federici e da Arlen Austin), in Germania (coinvolgendo Barbara Duden e Gisela Bock), in Svizzera (in particolare a Ginevra con Viviane Luisier, Alda De Giorgi e Suzanne Lerch), nel Canada anglofono (intorno alla figura di Judy Ramirez a Toronto) e naturalmente in Italia, dove raggiunge una vastissima diffusione territoriale. I gruppi sono particolarmente radicati in Veneto e in Emilia, sono meno forti a Roma e a Milano dove prevalgono i gruppi dell’autocoscienza, l’altra anima del femminismo italiano di quegli anni. Lo strumento dell’agitazione politica, nel tipico stile della militanza operaista, è la rivista bimestrale «Le operaie della casa», che insiste sulla centralità della lotta in ambito domestico, e una serie di pamphlet tematici pubblicati dall’editore Marsilio di Venezia.
Wages for Housework, Battling against “all work and no pay”, Life Magazine Aprile, 1976. Depositato da Silvia Federici, MayDay Rooms, Londra.
Nella molteplicità delle pratiche, «salario al lavoro domestico» non è una semplice rivendicazione vertenziale. È un dispositivo organizzativo e un’indicazione di lotta che aspira a ricomporre le molte facce dell’opposizione allo sfruttamento e alla subordinazione delle donne. Sotto il grande ombrello della critica al lavoro domestico e alla sua gratuità trovano spazio la rivendicazione della riduzione della giornata lavorativa delle donne (si chiede salario come forma di autonomia economica, perché le donne non debbano avere un doppio lavoro), la rottura dello stereotipo del femminile subordinato, della norma eterosessuale e della donna macchina riproduttiva di forza- lavoro, si declina l’affermazione di bisogni riproduttivi – aborto, contraccezione, salute sessuale, qualità delle relazioni interpersonali. Si lotta ad esempio per la costruzione di consultori autogestiti e per reimpostare il rapporto donna-medicina.
All’interno della rete transnazionale, i gruppi per il salario incrociano e si contaminano con altre lotte sul terreno della riproduzione. In Gran Bretagna, incontrano la battaglia per gli assegni familiari delle Unsupported Mothers, negli Stati uniti le lotte delle Welfare Mothers, che rivendicano un salario per il lavoro di riproduzione. Federici racconta dei sit-in sotto le carceri, insieme ad afroamericane e latinos, negli anni della «tolleranza zero» di Rudolf Giuliani. A Brooklyn, nel 1976, Wilmett Brown del gruppo Black Women for Wage for Housework scrive The Autonomy of the Lesbian Women, uno dei testi che Barbara Smith individua come fondativi del Black feminism criticism. In alcuni casi, le parole d’ordine del salario si affiancano all’attenzione per i servizi come forma di salario indiretto. Quest’ultima declinazione appare un’opzione «più praticabile e non meno radicale» nel contesto del «modello emiliano» aperto alle istanze sociali del territorio (si veda le ricostruzioni di Picchio e Pincelli 2019), diverrà centrale sul finire del decennio a Padova, mentre si ridiscute la parola d’ordine del salario a partire dal lavoro teorico di Chisté, Del Re e Forti, e a Ginevra rappresenterà la naturale evoluzione del gruppo che aveva animato la campagna «Salarie ou travaile ménager» (si veda Toupin 2016).
Wages for Housework, The women of the world are serving notice!, poster, 1976.
La dimensione militante transnazionale definisce un intervento politico attento alla razza quanto al genere, che costituisce un altro elemento di rottura con il femminismo bianco di sinistra. Che «sesso, razza e classe (…) si siano dimostrati non separati e anzi inseparabili» era ferma convinzione di Selma James che, nel testo Sesso, razza e classe, ampiamente circolato all’interno del Cif, pone razza e genere come elementi strutturali del sistema di produzione capitalistico, interni alla definizione della classe e alla sua composizione. «Se sesso e razza vengono scissi dal concetto di classe – aggiunge lapidaria – ciò che resta è la politica mutilata, provinciale e settaria della sinistra bianca e maschile dei paesi metropolitani». Analogamente, Il grande Calibano di Fortunati e Federici svelerà, qualche anno dopo, il ruolo svolto dalla caccia alle streghe e dall’invenzione della stregoneria indigena nelle colonie nella fase dell’accumulazione originaria: segmentare la classe lungo linee di genere e razza.
Detto altrimenti, la critica femminista a Marx definisce un nuovo orizzonte di classe che mette al centro le donne e i neri razzializzati, rimasti fuori dalla classe perché estranei al rapporto salariale. È una critica profonda al marxismo e al femminismo socialista del tempo che vedeva nel lavoro salariato il viatico per l’emancipazione delle donne, mentre la riproduzione rimaneva un rapporto sociale precapitalistico. Al contrario, le femministe della rottura mettono in discussione la centralità politica del rapporto salariale per affermare la centralità della riproduzione: non più sfera separata e appendice improduttiva del rapporto di produzione ma ambito immediatamente produttivo di valore, storicamente modellato dal capitale per il capitale, in funzione della sua organizzazione; centro di produzione di valore autonomo, sulla determinazione del cui prezzo (il salario o la sua gratuità) il capitale stabilisce il plusvalore e le forme dello sfruttamento.
See Red Womens Workshop, Capitalism also depends on domestic labour, 1975, feminist silk-screen poster collective.
Corpo a corpo con Marx
Per leggere le forme dello sfruttamento e la subordinazione delle donne, Marx è al contempo irrinunciabile e insufficiente. È un vero e proprio corpo a corpo, che porta le femministe della rottura a spingere l’analisi oltre le strette griglie del marxismo, rendendo visibile tutta un’area di sfruttamento rimasta taciuta, ovvero le attività centrali per la produzione di quella merce speciale che è la forza-lavoro (l’unica merce che produce plusvalore): lavoro domestico, sessualità, procreazione. Marx aveva colto e denunciato l’oppressione della donna nella famiglia borghese e le brutali condizioni di sfruttamento di donne e bambini nelle fabbriche della seconda metà del XIX secolo. Tuttavia, aveva ignorato la forma specifica di tale subordinazione e sfruttamento e, soprattutto, nel ricondurre esclusivamente al rapporto salariale formalizzato la produzione di valore, aveva perso di vista la produzione autonoma di valore della riproduzione. Da qui prende le mosse la critica femminista che ridiscuterà l’intero paradigma marxiano.
Milli Gandini, La mamma è uscita, 1975.
Nello schema di Marx, infatti, la riproduzione della forza-lavoro è parte del processo di produzione delle merci: il lavoratore guadagna un salario e con quel salario soddisfa le sue necessità riproduttive (cibo, vestiti, abitazione e poi affetti, relazioni). Ma il lavoro necessario per trasformare quelle merci nei concreti elementi di sussistenza per l’operaio e il valore che quel lavoro produce – che è immediatamente valore di scambio e non mero valore d’uso – non sono considerati. Le donne, tuttavia, sanno per ragioni materiali e storiche che quel cibo va cucinato, quei vestiti cuciti, che le abitazioni vanno governate e l’economia domestica gestita; anche gli affetti e la cura non sono una vocazione naturale delle donne, ma stanno dentro precisi processi produttivi e rapporti sociali di dominio. Per Marx, invece, semplicemente non si tratta di lavoro. Eppure, notava Alisa Del Re nell’importate saggio del 1979, quel lavoro si dà tutto dentro il modo di produzione capitalistico, è comandato direttamente da un salario, contribuisce al processo di valorizzazione, permette l’estrazione di plusvalore dalla produzione di quella merce speciale che è la forza-lavoro.
Da questa prospettiva, la riproduzione è autonoma produzione di valore; non una sfera separata dalla produzione, ma il pilastro dello sviluppo capitalistico. Come in fabbrica si producono merci, così in casa si produce la merce forza-lavoro. La casalinga è a tutti gli effetti una proletaria. La casa è il luogo di estrazione del plusvalore e la famiglia nucleare – che si definisce nel passaggio alla grande industria e costituirà la spina dorsale del modello di produzione fordista – definisce il regime di produzione, ovvero la forma dell’organizzazione e del comando sul lavoro.
Karin Mack, Bugeltraum [Iron Dream], 1975, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
Lavoro domestico, salario, rifiuto
Come si è visto, dalla prospettiva del femminismo marxista della rottura, il lavoro domestico è lavoro produttivo in senso marxiano, cioè lavoro che produce plusvalore e sfruttamento. «Lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato», scrive nel 1975 Federici in esergo a uno dei testi fondativi di quell’esperienza (Salario contro il lavoro domestico), per sottolineare il valore produttivo della riproduzione e denunciare l’amore romantico che occulta i rapporti capitalistici all’interno della famiglia. Per Federici e le altre, subordinazione e sfruttamento della donna non sono una condizione naturale ma l’esito di un processo storicamente determinato, quello che a partire dalla seconda metà del XIX secolo, sotto la pressione dell’insorgenza della classe operaia e la necessità di una forza-lavoro più sana e produttiva, descrive la transizione dalla manifattura alla grande industria: è «la creazione della casalinga a tempo pieno» che riorganizza l’intera sfera della riproduzione.
I cambiamenti introdotti dalla giornata lavorativa più breve, dai limiti al lavoro minorile, dall’introduzione dell’obbligo scolastico e dalle leggi contro il degrado – seguite anche alla denuncia delle terribili condizioni di vita nei quartieri operai descritte da Marx nel Capitale – spingono le donne in casa ridefinendo la famiglia operaia. Cambiano le forme di vita, cambia la comunità e con la comparsa dei primi negozi cambia anche il quartiere. Ma a cambiare sono soprattutto i rapporti di potere e le gerarchie interne alla famiglia. Ora le donne sono dipendenti dal salario del marito e una nuova gerarchia tra i sessi si definisce all’interno della famiglia. Il nuovo regime produttivo investe sulla riproduzione della classe operaia per garantire un aumento della produttività; la casalinga è incaricata di garantire che il salario sia ben speso, che il lavoratore sia ben curato e che i bambini siano adeguatamente istruiti al loro destino di futuri lavoratori. Inoltre, per consentire l’accettazione del lavoro domestico non retribuito fu necessario «separare la donna “buona” da quella “cattiva”, la moglie dalla “puttana”» (come scrive Federici in un saggio sulla nascita della casalinga, di prossima pubblicazione per DeriveApprodi), mentre la famiglia nucleare diventava il dispositivo giuridico-sociale regolato dal salario per gestire la ristrutturazione capitalista. E quando fu introdotta la catena di montaggio la nuova funzione sociale della famiglia divenne anche quella del «momento compensativo di stress» (Del Re 1979, p. 20).
Milli Gandini, La mamma è uscita, 1976.
Negli anni Settanta questo modello entrerà in crisi. La ristrutturazione produttiva in atto, come risposta alle lotte operaie e proletarie, stava trasformando il salario, che a quel punto non controllava più l’intero ciclo del lavoro riproduttivo: «Il tempo di lavoro legato alla riproduzione comincia ad avere scadenze sociali esterne (…) la famiglia nucleare non resiste più: scoppia per il doppio lavoro, per il frazionamento della giornata riproduttiva» (ivi, p. 22). Schematicamente, le donne hanno acquistato autonomia all’interno della famiglia e hanno iniziato a rifiutare il ruolo storicamente loro attribuito, le lotte sul terreno della riproduzione si socializzano e si diffondono. Il capitale segue, modificando il lavoro legato alla produzione e quello legato alla riproduzione. Siamo di fronte alla cosiddetta ristrutturazione «postfordista». Diminuiscono le attività riproduttive connotate dalla fatica fisica (che, esternalizzate verso soggetti più ricattabili come i migranti, diventano salario) e si assiste all’inserimento coatto di mansioni dall’esterno che frazionano in mille rivoli il lavoro riproduttivo, definendo «un tempo di lavoro comandato infinito, con segmenti diversi che si saldano tra produzione e riproduzione» (ibidem). È cambiata la struttura formale della riproduzione ma resta il comando del salario, che adesso definisce una gerarchia differente: «una donna, un salario, due lavori» (Del Re 2013, p. 94), cioè la doppia giornata lavorativa. Spingendo l’analisi in avanti, Del Re ha evidenziato come la ristrutturazione del lavoro riproduttivo a livello globale abbia accresciuto la salarizzazione della riproduzione su base etnico-razziale, definendo un nuovo regime del salario in ambito riproduttivo: «due donne, due lavori, ma un solo salario da condividere» (ivi, p. 95), e una nuova gerarchia del lavoro spesso segnata dalla linea del colore.
VALIE EXPORT, Die Geburtenmadonna (The Birth Madonna), 1976, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
È dunque sulla funzione sociale del salario all’interno della famiglia che si concentra innanzitutto l’analisi del femminismo marxista della rottura. Il salario è il vincolo di subordinazione che definisce la divisione sessuale e internazionale del lavoro e lega (in posizione subordinata e dipendente) il non salariato al salariato, chi detiene un salario più alto a chi ne percepisce uno più basso (come nel caso delle lavoratrici bianche rispetto alle migranti salariate nel lavoro di cura). Il salario inoltre, come forma di organizzazione dei rapporti sociali e produttivi, naturalizza ruoli e attività rendendo invisibili interi ambiti di sfruttamento. «Attraverso il salario – chiarisce Potere femminile – viene organizzato lo sfruttamento del lavoratore non salariato (…) mistificato dalla mancanza di un salario». In questo senso, il salario comanda anche quelle prestazioni che appaiono servizi personali al di fuori del capitale: comanda affettività, sessualità e intimità. Ancora da Potere femminile: «L’uomo, come lavoratore salariato e capo famiglia è diventato così lo specifico strumento di quello specifico sfruttamento che è lo sfruttamento della donna». Analogamente, la donna bianca salariata diventerà la forma dello specifico sfruttamento della o del migrante che adesso svolge sotto salario almeno una parte del suo lavoro domestico. È dunque il salario ciò che impone la frattura tra l’uomo e la donna, tra i bianchi e i neri.
See Red Women’s Workshop, YBA Wife, 1980.
Sul piano della lotta, studiare la funzione sociale del salario aveva permesso alle femministe della rottura di definire una forma di conflitto specifica declinata come resistenza o rifiuto della valorizzazione capitalistica. La lotta per il salario al lavoro domestico è, almeno potenzialmente, sottrazione dal modello riproduttivo della famiglia nucleare posta a fondamento dell’organizzazione capitalistica del lavoro. In quella fase specifica la conquista del salario per il lavoro domestico si riteneva infatti significasse rifiuto della naturalizzazione del lavoro domestico, la cui gratuità è all’origine della produzione del plusvalore, rifiuto delle gerarchie interne alla famiglia determinate dal sistema salariale, rifiuto del mito della liberazione attraverso il lavoro salariato: «perché mai avrebbe dovuto costruire una meta ciò che gli uomini dicevano di voler rifiutare», asserisce laconica Dalla Costa riattraversando quell’esperienza nel 2005. Anche la lotta per l’accesso ai servizi sociali era interpretata come recupero di tempo per sé e riduzione del tempo di lavoro per la riproduzione.
L’analisi della funzione sociale del salario produce poi un’altra traccia importante della critica femminista a Marx. Alla ricerca delle origini materiali dello sfruttamento delle donne, come risposta alle tante critiche mosse da sinistra al discorso della dimensione produttiva della riproduzione, le femministe della rottura sono tornate alle origini del capitalismo. E hanno evidenziato come il processo di accumulazione originaria non trovi fondamento soltanto nella separazione dei contadini dalla terra: un ruolo rilevante è svolto anche dalla separazione tra il processo di produzione di merci per il mercato e il processo di riproduzione della forza-lavoro. Due processi che, a differenza di quanto avviene nelle economie di sussistenza, sono adesso distinti e sviluppati da soggetti differenti: i maschi salariati nel primo, le femmine che svolgono lavoro gratuito nel secondo. Sarebbe dunque questo passaggio storico che avrebbe lasciato sotto traccia l’autonoma produzione di valore della riproduzione.
Come già anticipato, con Il grande Calibano Fortunati e Federici hanno guardato alla transizione capitalistica dal feudalesimo considerando il momento dell’accumulazione dal punto di vista della riproduzione e hanno fornito un’ampia documentazione storica del processo che definisce la costruzione sociale della riproduzione della forza-lavoro in funzione dello sviluppo del capitale. Al centro di questo processo hanno posto la caccia alle streghe, che emerge quale evento fondativo della moderna società capitalistica, all’origine della divisione sessuale del lavoro e della svalorizzazione del lavoro femminile e delle donne stesse. Federici (2015) ha anche evidenziato come l’invenzione della stregoneria tra il XVI e il XVII secolo abbia svolto quattro grandi funzioni: dividere la comunità per minare la resistenza contadina alla recinzione delle terre; definire la nuova divisione sessuale del lavoro in modo funzionale al nuovo regime di produzione attraverso l’espropriazione delle donne del controllo sul proprio corpo, sulla propria sessualità e capacità riproduttiva; smantellare il sapere medico delle donne, mentre nasce e si afferma la medicina come scienza; sostenere il colonialismo e il razzismo nelle Americhe attraverso la demonizzazione delle abitudini africane che sostenevano le rivolte degli schiavi.
“Child Custody, Motherhood, Lesbianism” è un pamphlet prodotto da Wages Due Lesbians Toronto con un estratto dal saggio di Francie Wyland, Motherhood, Lesbianism and Child Custody, 1976. Lesbian Herstory Archives, Brooklyn, NY.
Da questa prospettiva, la caccia alle streghe è un momento di riorganizzazione sociale che interessa tutte le attività connesse alla riproduzione (relazioni familiari, attività sessuali, funzione di procreazione). È un processo che conferisce un nuovo fondamento e nuove funzionalità ai sistemi di sfruttamento patriarcali che pur preesistono al capitalismo. In questo senso, le femministe della rottura segnano una discontinuità anche con altre correnti del femminismo radicale che considerano capitalismo e patriarcato come sistemi di oppressione distinti, il primo operante nella sfera pubblica, il secondo in quella privata ovvero in famiglia (si veda ad esempio il già citato testo di Delphy). Qui, invece, l’idea è quella di un capitalismo che rideclina i rapporti patriarcali all’interno degli stessi rapporti di produzione capitalistica, ovvero traducendo in termini capitalistici la storica subordinazione delle donne. Ciò avviene esattamente nel momento in cui il capitale separa la produzione delle merci dalla riproduzione della forza-lavoro e stabilisce la gratuità del lavoro di riproduzione perché condizione naturale dell’essere donna. Così facendo, si definisce una vasta area di accumulazione che poggia sullo sfruttamento del lavoro gratuito di riproduzione.
Sulla scia di queste riflessioni e partendo dal nesso tra accumulazione e sfruttamento della natura che rimanda alla storia delle «recinzioni» alle origini del capitalismo, si è sviluppata, negli anni Novanta, una nuova declinazione del discorso femminista sull’accumulazione che ha preso una direzione in parte differente dall’iniziale tensione del femminismo marxista della rottura. In particolare, Dalla Costa e Federici, aprendo uno spazio di confronto con l’ecofemminismo di Vandana Shiva e Marie Mies, hanno discusso la rinnovata attualità dell’accumulazione nella transizione capitalistica, mettendo al centro il rapporto tra natura e riproduzione. La prima attraverso una critica serrata alla globalizzazione neoliberista (Chilesi – Dalla Costa 2005), l’altra riflettendo sulle «nuove recinzioni» in Africa, America Latina e più di recente anche in Europa, sulla costruzione di una economia del debito e per una «politica dei commons» (Federici 2018). D’altra parte, in quegli anni le ipotesi teoriche del femminismo marxista della rottura avevano già incontrato un imponente processo di rimozione, mentre importanti trasformazioni sociali e produttive descrivevano altri rapporti di produzione e riproduzione.
See Red Women’s Workshop, Sisters! Question Every Aspect of Our Lives, 1977.
Alla prova del presente
Cosa resta oggi, in un contesto sociale e produttivo sostanzialmente mutato, di quelle intuizioni e analisi? Quale lascito può essere messo produttivamente al lavoro mentre un movimento femminista che si è sviluppato sul piano transnazionale a partire dall’esperienza di Ni Una Menos in Argentina, ha ripreso a confrontarsi con la materialità dei processi produttivi e delle dinamiche sociali? Benché gli ultimi anni abbiano visto sul piano internazionale un ritorno di attenzione per quell’esperienza, come esito, almeno in Italia, di lavori storiografici e della diffusione di materiali a lungo inaccessibili (va in questa direzione la traduzione in italiano del lavoro di Federici di cui mi sono occupata), una risposta efficace a questi interrogativi non può che essere rintracciata in un’operazione di cesura. Attraverso uno sguardo che sia cioè capace di riattraversare il passato senza perdere di vista il presente.
Se senz’altro l’attenzione per il valore produttivo della riproduzione e la funzione sociale del salario sono lasciti ancora oggi utili a districare la matassa dei percorsi di lotta e resistenza sul piano sociale e non esclusivamente femminista, e soprattutto se è oggi possibile registrare un rinnovato interesse femminista per un’analisi che declina dentro i rapporti di produzione e riproduzione, potrebbe essere poco efficace, se non deleterio, riprendere linearmente quelle parole d’ordine nel mutato paradigma produttivo e riproduttivo. Né è possibile bypassare le impasse e i punti di blocco di quell’esperienza a partire dalla pratica effettiva di uno sciopero riproduttivo più facile a dirsi che a praticarsi nel momento in cui si fatica a individuare il nemico, ovvero i soggetti che incarnano l’accumulazione del profitto (a mia memoria l’unico esempio che al di là dai richiami immaginifici ha concretamente saputo incidere sui rapporti sociali di produzione, è lo sciopero dei latinos del 2006 negli Stati uniti, contro la criminalizzazione dell’immigrazione irregolare: «un día sin immigrante -– no trabajo, no escuelas, no comprar», che ha letteralmente bloccato interi Stati, ricordandoci l’importante dal dimensione di massa delle lotte). Tantomeno è possibile passare sotto silenzio le difficoltà legate alla domanda di un salario sganciato dalla produttività capitalista, che è stata la battaglia, sempre inattesa, non solo dei gruppi per il salario ma anche di una più recente stagione di lotte sul lavoro come lotta alla precarietà.
Wages for Housework, We Want Love and Money, inglese/spagnolo, non datato. Depositato a MayDay Rooms da Silvia Federici il 28gennaio 2013.
“We Can’t Afford to Work for Love” è il primo flyer prodotto da New York Wages for Housework Committee e distribuito a Prospect Park nel 1974. Silvia Federici Papers, Pembroke Center for Teaching and Research on Women, Brown University.
Da questa angolazione, allora, è soprattutto un metodo, una pratica teorico-politica che quell’esperienza ci consegna. Un metodo da mettere al lavoro, nella discontinuità, come una bussola per orientarci nell’analisi della nuova funzione sociale svolta dalla riproduzione e dal salario. Dove la riproduzione ha, con tutta evidenza, traslato in tutto il contesto sociale le sue gerarchie interne e i rapporti di potere, che adesso però si declinano anche a prescindere dal genere. Nel senso che oggi la razionalità capitalistica, andando anche oltre l’idea di una «femminilizzazione del lavoro», ha fatto delle caratteristiche di relazionalità, cura, attenzione emotiva, storicamente attribuite alle donne – in un processo di “naturalizzazione” della riproduzione che le femministe della rottura hanno con forza rigettato – la forma specifica del comando sul lavoro vivo, produttivo o riproduttivo che sia; e che le aziende funzionino sempre più come una famiglia con tanto di incentivi affettivi e meccanismi di fidelizzazione, con ricatto connesso e pacchi dono a Natale, ne è solo la prova più grossolana. Il salario, dal canto suo, che ha solo in parte perso la sua funzione di controllo sul lavoro produttivo e riproduttivo, ha cambiato connotazione. Da una parte, sta ridisegnando all’interno di una famiglia sempre più sui generis (allargata, monogenitoriale, come convivenze anche temporanea e nella forma di altre forme di intimità) il ruolo del breadwinner, senza tuttavia sovvertire rapporti di potere storicamente consolidati e spesso con conseguenze devastanti come la frustrazione per la perdita di un ruolo sociale che è alla radice di molta della violenza domestica a cui quotidianamente assistiamo. Dall’altra, l’avanzare della precarietà e del lavoro gratuito, presupposto della nuova funzione sociale del salario, stanno producendo una trasformazione profonda (e al contempo inquietante, se si assume una prospettiva antagonista) delle soggettività e delle aspettative rispetto al lavoro. Oggi nelle cosiddette industrie cognitive spesso più che per un salario si lavora per ottenere visibilità e riconoscimento sociale, proprio come lo status sociale di buona moglie e madre amorevole ha storicamente ripagato le donne per il lavoro di riproduzione gratuito (in questo senso almeno, ho provato a sviluppare le intuizioni del femminismo marxista della rottura in alcune Note sulla gratuità del lavoro nel 2017). Ciò a cui assistiamo è, anche in questo senso, l’estensione delle caratteristiche e prerogative della riproduzione all’intero sistema produttivo. Per questo allora l’intero impianto di analisi sulla riproduzione del femminismo e del femminismo marxista della rottura in particolare va oggi rivisto e aggiornato. Il rischio altrimenti è di lasciare in ombra, proprio come era accaduto al Marx che non aveva visto il valore produttivo della riproduzione, tutto un piano di estrazione di valore che richiama ma eccede l’ambito riproduttivo. Così, l’attualità politica del femminismo marxista della rottura è possibile solo se con pazienza e attenzione critica si riflette sui i punti di blocco di quella analisi. Detto altrimenti, le intuizioni del femminismo marxista della rottura restano potenti strumenti di lotta solo a patto di saperle portare oltre sé stesse, proprio come le compagne avevano a suo tempo fatto con Marx.
cover del libro: Introduzione ai Femminismi, AA.VV., a cura di Anna Curcio, collana Input – DeriveApprodi, Roma, 2019.
Anna Curcio, ricercatrice, saggista e traduttrice militante, ha conseguito il dottorato di ricerca in Politica società e cultura all’Università della Calabria e svolto un post-dottorato in «Alternative Political Imaginaries» a Duke University. Ha insegnato e svolto attività di ricerca nelle università italiane, inglesi e statunitensi. Attualmente insegna discipline giuridico-economiche nelle scuole superiori. Studia le trasformazioni del lavoro produttivo e riproduttivo con attenzione alla razza e al genere. Formatasi nella tradizione dell’operaismo politico italiano, si è interessata ai Cultural Studies, alla Critical Race Theory e agli studi sulla whiteness. Autrice di monografie, saggi e articoli, ha visto i suoi lavori pubblicati in Italia e all’estero. Con il volume La razza al lavoro (insieme a Miguel Mellino, Manifestolibri 2012) ha contribuito ad aprire il dibattito antirazzista italiano agli studi critici sulla razza. Ha curato la traduzione in italiano dei saggi di Silvia Federici.
Attiva nei movimenti autonomi sin dagli anni Novanta ha concentrato il suo interesse sulla produzione di discorso e la comunicazione. Attualmente partecipa al progetto «Commonware» e al percorso di formazione politica «Pensiero critico» presso la Mediateca Gateway di Bologna. Cura la sezione «Vortex» del nuovo progetto editoriale Machina (DeriveApprodi).
Marx, il femminismo, la rottura.
Con l’espressione «femminismo marxista della rottura» mi riferisco all’incontro proficuo e critico tra marxismo e femminismo radicale per come si è declinato a partire dal dibattito aperto dalla pubblicazione di Potere femminile e sovversione sociale di Mariarosa Dalla Costa nel 1972. Un femminismo che le stesse protagoniste definiscono «militante», cioè mosso dall’urgenza di un’analisi teorica per l’intervento politico, che ha prodotto una rottura con i gruppi rivoluzionari, con la tradizione teorica marxista e soprattutto con i discorsi sull’emancipazionismo.
Potere femminile è una riflessione collettiva, sviluppata all’interno del collettivo Lotta femminista di Padova, preceduta dall’incontro politico e intellettuale tra Mariarosa Dalla Costa e Selma James: l’incontro tra il metodo operaista da cui proveniva Dalla Costa e la critica all’emancipazione femminile attraverso il salario sviluppata da James sin dagli anni Cinquanta (ripresa nel saggio Il posto della donna pubblicato in appendice al volume).
See Red Women’s Workshop, A Woman’s Work Is Never Done, il doppio lavoro della donna: a destra il turno in fabbrica alla catena di montaggio, a sinistra la casa da tenere in ordine e la famiglia da accudire. 1974.
A partire da quel testo e attraverso una serie di incontri sul piano transnazionale, si definisce la campagna «Wage For Housework» (Salario al lavoro domestico) che nella prima metà dei Settanta coinvolgerà donne diverse per provenienza geografica e sociale, per esperienza e appartenenza politica. Sono anni di profonde trasformazioni e sul piano internazionale esplode il conflitto sociale: lotte operaie, di studenti, contro la guerra e per i diritti civili. La lotta delle donne, dentro e fuori la famiglia, produrrà un profondo cambiamento della mentalità, delle abitudini e dei costumi. Ed è in questo contesto che va letta la nascita di ciò che qui chiamo femminismo marxista della rottura.
Con questa locuzione mi riferisco anche ai successivi sviluppi ancorché critici di quel dibattito, di cui si può trovare una traccia importante nel libro Oltre il lavoro domestico di Lucia Chisté, Alisa Del Re ed Edvige Forti, uscito nel 1979. Un volume che sin dal titolo segna una discontinuità con l’esperienza dei gruppi per il salario e raccoglie le riflessioni di esperienze femministe che progettavano forme «concrete» di liberazione dal lavoro domestico: traslando nella lotta femminista le lotte operaie, che – ricorda Alisa del Re in un’intervista del 2005 – «chiedevano “cinquemila lire subito” (…) per vivere meglio, anche se [si sapeva] non si trattasse di un atto immediatamente rivoluzionario». Con lo stesso orientamento individuavano il terreno del conflitto nella lotta per i servizi sociali. Il femminismo marxista della rottura, allora, non si esaurisce nell’esperienza dei gruppi per il salario ma si delinea come metodo, una prassi teorico-politica che vive l’urgenza militante di mettere a critica l’analisi marxiana del lavoro e della riproduzione della forza-lavoro.
Cindy Sherman, Untitled, Film Still 84′, 1978.
Con la stessa urgenza, Leopoldina Fortunati in L’arcano della riproduzione pubblicato nel 1981 si è interrogata sulle ulteriori piste di rottura del femminismo di fronte «agli esiti della crisi capitalista sulla riproduzione», su come portare avanti la lotta una volta che il rifiuto del ruolo riproduttivo negli anni Sessanta e Settanta aveva messo in crisi il modello fordista di produzione senza tuttavia risolvere la questione dello sfruttamento e della subordinazione delle donne. Qualche anno dopo, la stessa Fortunati insieme a Silvia Federici rilegge Marx portando in primo piano le lacune del paradigma dell’accumulazione originaria. Il grande Calibano, pubblicato nel 1984, analizza il fenomeno storico della caccia alle streghe per ribadire la centralità politica della riproduzione. Negli anni successivi, mentre la lotta femminista cambiava connotazione, Antonella Picchio, seppur dentro un mutato orizzonte militante, avrebbe dedicato gran parte del suo impegno politico e intellettuale a valorizzare il discorso avviato dai gruppi per il salario sul valore produttivo della riproduzione e, in collaborazione con Selma James, ha portato il tema all’ordine del giorno della Conferenza mondiale delle donne di Pechino nel 1995. Ma erano già altri anni e quell’esperienza era ormai caduta nell’oblio, incalzata dal ritorno al privato negli anni della controrivoluzione neoliberista, e dai richiami al simbolico del femminismo a venire.
Wages for Housework, Wages for Housework Brings Together The Power of ALL Generations, Archivio MayDay Room “Wages for Housework Campaign – Silvia Federici”, depositato il 28 gennaio 2013, Londra.
Con femminismo marxista della rottura, dunque, si intende innanzitutto una prassi di intervento politico, una critica femminista dello sviluppo del capitale immediatamente calata nei rapporti sociali di produzione, che parte da Marx per andare oltre. Senza dubbio altre riflessioni femministe di stampo marxista hanno discusso la subordinazione delle donne. Si pensi agli scritti di Rosa Luxbemburg sulla condizione femminile o alla proposta di riorganizzazione radicale dei rapporti sociali, fin dentro la sfera della sessualità e degli affetti, di Aleksandra Kollontaj. Si pensi anche all’approccio immediatamente materialista e critico rispetto al marxismo di autrici come Christine Delphy, che nel 1970 – con lo pseudonimo Christin Dupont – scriveva il testo fondativo del femminismo radicale francese L’ennemi principal. Tuttavia, nessuna di queste analisi ha pienamente rotto con la tradizione marxista, nel senso che il lavoro domestico e di riproduzione resta sempre sfera separata dalla produzione di valore, è cioè valore d’uso e mai valore di scambio. E anche quando nel 1940 la comunista Mary Inman, in rotta con il suo partito, scriveva In Woman’s Defense insistendo sul valore produttivo della riproduzione, l’analisi era rimasta schiacciata sulla distinzione tra sfera produttiva maschile e sfera riproduttiva femminile, completamente in linea con il classico impianto marxista.
Per le femministe della rottura, invece, andare oltre Marx è il punto dirimente. Non un vezzo teorico ma una scelta politica per un femminismo all’altezza delle sfide del tempo. In questo senso può essere intesa come la traduzione femminista del metodo operaista – sintetizzato dell’adagio trontiano «la conoscenza è legata alla lotta» – con cui a Padova si sono formate Dalla Costa e Del Re, a cui attinge Federici da New York nei contatti costanti con Padova e che informa, nelle differenze, le esperienze dei gruppi per il salario. Un metodo che si contamina con altri percorsi intellettuali e militanti, a partire dal lavoro di Selma James tra Londra e gli Stati Uniti. E, come ricorda Dalla Costa, deve proprio a quel «mondo militante vivo» dal quale proviene parte del successo internazionale. Sarebbe tuttavia un errore ridurre quest’esperienza alla sua indubbia matrice operaista. Benché se ne possano rintracciare gli aspetti comuni e le stesse protagoniste ne richiamino la genealogia, pur con accenti critici, parlare di «femminismo operaista» non dà conto degli sviluppi complessivi dell’esperienza che indubbiamente eccedono l’operaismo, né delle difficoltà incontrate da queste posizioni all’interno del dibattito operaista del tempo. Non convince neppure la definizione di «femminismo autonomo» diffusa soprattutto nel mondo anglosassone. Le compagne di Lotta femminista avevano già rotto con Potere operaio quando, dopo il convegno di Rosolina nel 1973, nasceva l’Autonomia. Il femminismo marxista della rottura è, allora, uno stile della militanza che esprime l’urgenza politica e intellettuale di portare Marx oltre i vicoli ciechi del suo discorso.
Wages for Housework, Balloon. Celebrating the opening of NYC Wages for Housework office. Brooklyn, 288-B Eight Street. 15 Novembre 1975. Depositato da Silvia Federici a MayDay Rooms, Londra, 29 gennaio 2013.
Wages for Housework, International Women’s Day, 1977.
Gli esordi: la campagna internazionale «Wage For Housework»
Il lavoro domestico, il suo valore produttivo e la sua retribuzione; la donna come soggetto di questo lavoro; la famiglia come luogo di produzione e riproduzione della forza-lavoro. Sono questi i temi che Dalla Costa propone per la discussione collettiva a Padova nel giugno del 1971 che prepara la pubblicazione di Potere femminile. L’anno successivo, sempre a Padova in giugno, Dalla Costa, James, Federici (da New York), Brigitte Galtier (da Parigi) e altre compagne di Lotta femminista si incontrano per fondare il Collettivo internazionale femminista (Cif), che tra il 1972 e il 1977 darà vita alla campagna internazionale «Wage For Housework». Ma sarà nel mese successivo che quella composizione soggettiva irromperà sulla scena politica italiana. È l’epilogo inevitabile dei «fatti di luglio», quando a Roma, alla facoltà di Magistero, «uomini genericamente autodefinitisi “compagni”, non tollerando che le donne pretendessero di definire autonomamente il proprio sfruttamento e le proprie forme di lotta», avevano impedito che si svolgesse un seminario sull’occupazione femminile organizzato dal Movimento Femminista (si veda la lettera del 7 luglio 1972 indirizzata alle redazioni di «Potere operaio», «Lotta continua» e «Manifesto» contenuta nel volume di Antonella Picchio e Giuliana Pincelli 2019, p. 90). Nei giorni successivi, Lotta femminista e il Cif scriveranno una lettera indirizzata alla redazione del «Manifesto» per rispondere a un’altra lettera di Po comparsa sulle pagine dello stesso quotidiano in merito a quei fatti. La lettera (anche questa rintracciabile nel volume di Picchio e Pincelli) ridiscute da una prospettiva femminista i concetti cari all’operaismo politico italiano, dal salario alla classe e alla sua composizione, segnando la rottura femminista all’interno di Po.
Poster che pubblicizza la conferenza sul welfare organizzata da New York Wages for Housework Committee il 24 aprile,1976. Silvia Federici Papers, Pembroke Center for Teaching and Research on Women, Brown University.
Ciononostante, la genealogia del femminismo marxista della rottura non è segnata solo da strappi e fratture. È anche l’incontro con le correnti eretiche del marxismo, in particolare la Johnson-Forest Tendency negli Stati Uniti e «Socialisme ou barbarie» in Francia, con la critica al marxismo mossa dal movimento nero anticoloniale e dal pensiero di Frantz Fanon, con cui la stessa James si era formata. Si definisce cioè all’interno di una rete intellettuale e militante che nel corso degli anni Sessanta aveva sviluppato un discorso alternativo e critico rispetto alla tradizione marxista, spaziando tra Padova, Milano, Torino, Londra e Detroit (dove è attiva la Legue of Revolutionary Black Workers). La nascita del Cif è dunque tutt’altro che casuale e la campagna «Wage For Housework» nasce come struttura organizzativa immediatamente transnazionale, alimentata da incontri e traduzioni collettive che coinvolgono donne con provenienze sociali e politiche diversificate. Ci sono donne bianche, nere, migranti, eterosessuali e lesbiche, lavoratrici e non lavoratrici. Nella specificità delle pratiche militanti, la campagna per il salario prende piede a Londra in Gran Bretagna (dietro la leadership di Selma James e Susie Fleming), in diverse città degli Stati uniti, con epicentro a Brooklyn (dove ci sono Silvia Federici e Nicole Cox – per un lavoro di ricostruzione storiografica e documentale si veda Wage For Housework: The New York Committee 1972-1977: History, Theory, Documents curato dalla stessa Federici e da Arlen Austin), in Germania (coinvolgendo Barbara Duden e Gisela Bock), in Svizzera (in particolare a Ginevra con Viviane Luisier, Alda De Giorgi e Suzanne Lerch), nel Canada anglofono (intorno alla figura di Judy Ramirez a Toronto) e naturalmente in Italia, dove raggiunge una vastissima diffusione territoriale. I gruppi sono particolarmente radicati in Veneto e in Emilia, sono meno forti a Roma e a Milano dove prevalgono i gruppi dell’autocoscienza, l’altra anima del femminismo italiano di quegli anni. Lo strumento dell’agitazione politica, nel tipico stile della militanza operaista, è la rivista bimestrale «Le operaie della casa», che insiste sulla centralità della lotta in ambito domestico, e una serie di pamphlet tematici pubblicati dall’editore Marsilio di Venezia.
Birgit Jürgenssen, Bodenschrubben / Strofinare il pavimento, 1975. Matita, matita colorata su carta fatta a mano cm 43,5 x 62,5 SAMMLUNG VERBUND, Vienna. Estate Birgit Jürgenssen. Courtesy Galerie Hubert Winter, Vienna © Estate Birgit Jürgenssen.
Wages for Housework, Battling against “all work and no pay”, Life Magazine Aprile, 1976. Depositato da Silvia Federici, MayDay Rooms, Londra.
Nella molteplicità delle pratiche, «salario al lavoro domestico» non è una semplice rivendicazione vertenziale. È un dispositivo organizzativo e un’indicazione di lotta che aspira a ricomporre le molte facce dell’opposizione allo sfruttamento e alla subordinazione delle donne. Sotto il grande ombrello della critica al lavoro domestico e alla sua gratuità trovano spazio la rivendicazione della riduzione della giornata lavorativa delle donne (si chiede salario come forma di autonomia economica, perché le donne non debbano avere un doppio lavoro), la rottura dello stereotipo del femminile subordinato, della norma eterosessuale e della donna macchina riproduttiva di forza- lavoro, si declina l’affermazione di bisogni riproduttivi – aborto, contraccezione, salute sessuale, qualità delle relazioni interpersonali. Si lotta ad esempio per la costruzione di consultori autogestiti e per reimpostare il rapporto donna-medicina.
All’interno della rete transnazionale, i gruppi per il salario incrociano e si contaminano con altre lotte sul terreno della riproduzione. In Gran Bretagna, incontrano la battaglia per gli assegni familiari delle Unsupported Mothers, negli Stati uniti le lotte delle Welfare Mothers, che rivendicano un salario per il lavoro di riproduzione. Federici racconta dei sit-in sotto le carceri, insieme ad afroamericane e latinos, negli anni della «tolleranza zero» di Rudolf Giuliani. A Brooklyn, nel 1976, Wilmett Brown del gruppo Black Women for Wage for Housework scrive The Autonomy of the Lesbian Women, uno dei testi che Barbara Smith individua come fondativi del Black feminism criticism. In alcuni casi, le parole d’ordine del salario si affiancano all’attenzione per i servizi come forma di salario indiretto. Quest’ultima declinazione appare un’opzione «più praticabile e non meno radicale» nel contesto del «modello emiliano» aperto alle istanze sociali del territorio (si veda le ricostruzioni di Picchio e Pincelli 2019), diverrà centrale sul finire del decennio a Padova, mentre si ridiscute la parola d’ordine del salario a partire dal lavoro teorico di Chisté, Del Re e Forti, e a Ginevra rappresenterà la naturale evoluzione del gruppo che aveva animato la campagna «Salarie ou travaile ménager» (si veda Toupin 2016).
Wages for Housework, The women of the world are serving notice!, poster, 1976.
La dimensione militante transnazionale definisce un intervento politico attento alla razza quanto al genere, che costituisce un altro elemento di rottura con il femminismo bianco di sinistra. Che «sesso, razza e classe (…) si siano dimostrati non separati e anzi inseparabili» era ferma convinzione di Selma James che, nel testo Sesso, razza e classe, ampiamente circolato all’interno del Cif, pone razza e genere come elementi strutturali del sistema di produzione capitalistico, interni alla definizione della classe e alla sua composizione. «Se sesso e razza vengono scissi dal concetto di classe – aggiunge lapidaria – ciò che resta è la politica mutilata, provinciale e settaria della sinistra bianca e maschile dei paesi metropolitani». Analogamente, Il grande Calibano di Fortunati e Federici svelerà, qualche anno dopo, il ruolo svolto dalla caccia alle streghe e dall’invenzione della stregoneria indigena nelle colonie nella fase dell’accumulazione originaria: segmentare la classe lungo linee di genere e razza.
Detto altrimenti, la critica femminista a Marx definisce un nuovo orizzonte di classe che mette al centro le donne e i neri razzializzati, rimasti fuori dalla classe perché estranei al rapporto salariale. È una critica profonda al marxismo e al femminismo socialista del tempo che vedeva nel lavoro salariato il viatico per l’emancipazione delle donne, mentre la riproduzione rimaneva un rapporto sociale precapitalistico. Al contrario, le femministe della rottura mettono in discussione la centralità politica del rapporto salariale per affermare la centralità della riproduzione: non più sfera separata e appendice improduttiva del rapporto di produzione ma ambito immediatamente produttivo di valore, storicamente modellato dal capitale per il capitale, in funzione della sua organizzazione; centro di produzione di valore autonomo, sulla determinazione del cui prezzo (il salario o la sua gratuità) il capitale stabilisce il plusvalore e le forme dello sfruttamento.
See Red Womens Workshop, Capitalism also depends on domestic labour, 1975, feminist silk-screen poster collective.
Corpo a corpo con Marx
Per leggere le forme dello sfruttamento e la subordinazione delle donne, Marx è al contempo irrinunciabile e insufficiente. È un vero e proprio corpo a corpo, che porta le femministe della rottura a spingere l’analisi oltre le strette griglie del marxismo, rendendo visibile tutta un’area di sfruttamento rimasta taciuta, ovvero le attività centrali per la produzione di quella merce speciale che è la forza-lavoro (l’unica merce che produce plusvalore): lavoro domestico, sessualità, procreazione. Marx aveva colto e denunciato l’oppressione della donna nella famiglia borghese e le brutali condizioni di sfruttamento di donne e bambini nelle fabbriche della seconda metà del XIX secolo. Tuttavia, aveva ignorato la forma specifica di tale subordinazione e sfruttamento e, soprattutto, nel ricondurre esclusivamente al rapporto salariale formalizzato la produzione di valore, aveva perso di vista la produzione autonoma di valore della riproduzione. Da qui prende le mosse la critica femminista che ridiscuterà l’intero paradigma marxiano.
Milli Gandini, La mamma è uscita, 1975.
Nello schema di Marx, infatti, la riproduzione della forza-lavoro è parte del processo di produzione delle merci: il lavoratore guadagna un salario e con quel salario soddisfa le sue necessità riproduttive (cibo, vestiti, abitazione e poi affetti, relazioni). Ma il lavoro necessario per trasformare quelle merci nei concreti elementi di sussistenza per l’operaio e il valore che quel lavoro produce – che è immediatamente valore di scambio e non mero valore d’uso – non sono considerati. Le donne, tuttavia, sanno per ragioni materiali e storiche che quel cibo va cucinato, quei vestiti cuciti, che le abitazioni vanno governate e l’economia domestica gestita; anche gli affetti e la cura non sono una vocazione naturale delle donne, ma stanno dentro precisi processi produttivi e rapporti sociali di dominio. Per Marx, invece, semplicemente non si tratta di lavoro. Eppure, notava Alisa Del Re nell’importate saggio del 1979, quel lavoro si dà tutto dentro il modo di produzione capitalistico, è comandato direttamente da un salario, contribuisce al processo di valorizzazione, permette l’estrazione di plusvalore dalla produzione di quella merce speciale che è la forza-lavoro.
Da questa prospettiva, la riproduzione è autonoma produzione di valore; non una sfera separata dalla produzione, ma il pilastro dello sviluppo capitalistico. Come in fabbrica si producono merci, così in casa si produce la merce forza-lavoro. La casalinga è a tutti gli effetti una proletaria. La casa è il luogo di estrazione del plusvalore e la famiglia nucleare – che si definisce nel passaggio alla grande industria e costituirà la spina dorsale del modello di produzione fordista – definisce il regime di produzione, ovvero la forma dell’organizzazione e del comando sul lavoro.
Karin Mack, Bugeltraum [Iron Dream], 1975, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
Come si è visto, dalla prospettiva del femminismo marxista della rottura, il lavoro domestico è lavoro produttivo in senso marxiano, cioè lavoro che produce plusvalore e sfruttamento. «Lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato», scrive nel 1975 Federici in esergo a uno dei testi fondativi di quell’esperienza (Salario contro il lavoro domestico), per sottolineare il valore produttivo della riproduzione e denunciare l’amore romantico che occulta i rapporti capitalistici all’interno della famiglia. Per Federici e le altre, subordinazione e sfruttamento della donna non sono una condizione naturale ma l’esito di un processo storicamente determinato, quello che a partire dalla seconda metà del XIX secolo, sotto la pressione dell’insorgenza della classe operaia e la necessità di una forza-lavoro più sana e produttiva, descrive la transizione dalla manifattura alla grande industria: è «la creazione della casalinga a tempo pieno» che riorganizza l’intera sfera della riproduzione.
I cambiamenti introdotti dalla giornata lavorativa più breve, dai limiti al lavoro minorile, dall’introduzione dell’obbligo scolastico e dalle leggi contro il degrado – seguite anche alla denuncia delle terribili condizioni di vita nei quartieri operai descritte da Marx nel Capitale – spingono le donne in casa ridefinendo la famiglia operaia. Cambiano le forme di vita, cambia la comunità e con la comparsa dei primi negozi cambia anche il quartiere. Ma a cambiare sono soprattutto i rapporti di potere e le gerarchie interne alla famiglia. Ora le donne sono dipendenti dal salario del marito e una nuova gerarchia tra i sessi si definisce all’interno della famiglia. Il nuovo regime produttivo investe sulla riproduzione della classe operaia per garantire un aumento della produttività; la casalinga è incaricata di garantire che il salario sia ben speso, che il lavoratore sia ben curato e che i bambini siano adeguatamente istruiti al loro destino di futuri lavoratori. Inoltre, per consentire l’accettazione del lavoro domestico non retribuito fu necessario «separare la donna “buona” da quella “cattiva”, la moglie dalla “puttana”» (come scrive Federici in un saggio sulla nascita della casalinga, di prossima pubblicazione per DeriveApprodi), mentre la famiglia nucleare diventava il dispositivo giuridico-sociale regolato dal salario per gestire la ristrutturazione capitalista. E quando fu introdotta la catena di montaggio la nuova funzione sociale della famiglia divenne anche quella del «momento compensativo di stress» (Del Re 1979, p. 20).
Milli Gandini, La mamma è uscita, 1976.
Negli anni Settanta questo modello entrerà in crisi. La ristrutturazione produttiva in atto, come risposta alle lotte operaie e proletarie, stava trasformando il salario, che a quel punto non controllava più l’intero ciclo del lavoro riproduttivo: «Il tempo di lavoro legato alla riproduzione comincia ad avere scadenze sociali esterne (…) la famiglia nucleare non resiste più: scoppia per il doppio lavoro, per il frazionamento della giornata riproduttiva» (ivi, p. 22). Schematicamente, le donne hanno acquistato autonomia all’interno della famiglia e hanno iniziato a rifiutare il ruolo storicamente loro attribuito, le lotte sul terreno della riproduzione si socializzano e si diffondono. Il capitale segue, modificando il lavoro legato alla produzione e quello legato alla riproduzione. Siamo di fronte alla cosiddetta ristrutturazione «postfordista». Diminuiscono le attività riproduttive connotate dalla fatica fisica (che, esternalizzate verso soggetti più ricattabili come i migranti, diventano salario) e si assiste all’inserimento coatto di mansioni dall’esterno che frazionano in mille rivoli il lavoro riproduttivo, definendo «un tempo di lavoro comandato infinito, con segmenti diversi che si saldano tra produzione e riproduzione» (ibidem). È cambiata la struttura formale della riproduzione ma resta il comando del salario, che adesso definisce una gerarchia differente: «una donna, un salario, due lavori» (Del Re 2013, p. 94), cioè la doppia giornata lavorativa. Spingendo l’analisi in avanti, Del Re ha evidenziato come la ristrutturazione del lavoro riproduttivo a livello globale abbia accresciuto la salarizzazione della riproduzione su base etnico-razziale, definendo un nuovo regime del salario in ambito riproduttivo: «due donne, due lavori, ma un solo salario da condividere» (ivi, p. 95), e una nuova gerarchia del lavoro spesso segnata dalla linea del colore.
VALIE EXPORT, Die Geburtenmadonna (The Birth Madonna), 1976, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
È dunque sulla funzione sociale del salario all’interno della famiglia che si concentra innanzitutto l’analisi del femminismo marxista della rottura. Il salario è il vincolo di subordinazione che definisce la divisione sessuale e internazionale del lavoro e lega (in posizione subordinata e dipendente) il non salariato al salariato, chi detiene un salario più alto a chi ne percepisce uno più basso (come nel caso delle lavoratrici bianche rispetto alle migranti salariate nel lavoro di cura). Il salario inoltre, come forma di organizzazione dei rapporti sociali e produttivi, naturalizza ruoli e attività rendendo invisibili interi ambiti di sfruttamento. «Attraverso il salario – chiarisce Potere femminile – viene organizzato lo sfruttamento del lavoratore non salariato (…) mistificato dalla mancanza di un salario». In questo senso, il salario comanda anche quelle prestazioni che appaiono servizi personali al di fuori del capitale: comanda affettività, sessualità e intimità. Ancora da Potere femminile: «L’uomo, come lavoratore salariato e capo famiglia è diventato così lo specifico strumento di quello specifico sfruttamento che è lo sfruttamento della donna». Analogamente, la donna bianca salariata diventerà la forma dello specifico sfruttamento della o del migrante che adesso svolge sotto salario almeno una parte del suo lavoro domestico. È dunque il salario ciò che impone la frattura tra l’uomo e la donna, tra i bianchi e i neri.
See Red Women’s Workshop, YBA Wife, 1980.
Sul piano della lotta, studiare la funzione sociale del salario aveva permesso alle femministe della rottura di definire una forma di conflitto specifica declinata come resistenza o rifiuto della valorizzazione capitalistica. La lotta per il salario al lavoro domestico è, almeno potenzialmente, sottrazione dal modello riproduttivo della famiglia nucleare posta a fondamento dell’organizzazione capitalistica del lavoro. In quella fase specifica la conquista del salario per il lavoro domestico si riteneva infatti significasse rifiuto della naturalizzazione del lavoro domestico, la cui gratuità è all’origine della produzione del plusvalore, rifiuto delle gerarchie interne alla famiglia determinate dal sistema salariale, rifiuto del mito della liberazione attraverso il lavoro salariato: «perché mai avrebbe dovuto costruire una meta ciò che gli uomini dicevano di voler rifiutare», asserisce laconica Dalla Costa riattraversando quell’esperienza nel 2005. Anche la lotta per l’accesso ai servizi sociali era interpretata come recupero di tempo per sé e riduzione del tempo di lavoro per la riproduzione.
Birgit Jürgenssen, Hausfrauen – Küchenschürze / Grembiule da cucina da casalinghe, 1975. Fotografie in bianco e nero cm 39,3 x 27,5 cad. Estate Birgit Jürgenssen. Courtesy Galerie Hubert Winter, Vienna © Estate Birgit Jürgenssen.
L’accumulazione originaria
L’analisi della funzione sociale del salario produce poi un’altra traccia importante della critica femminista a Marx. Alla ricerca delle origini materiali dello sfruttamento delle donne, come risposta alle tante critiche mosse da sinistra al discorso della dimensione produttiva della riproduzione, le femministe della rottura sono tornate alle origini del capitalismo. E hanno evidenziato come il processo di accumulazione originaria non trovi fondamento soltanto nella separazione dei contadini dalla terra: un ruolo rilevante è svolto anche dalla separazione tra il processo di produzione di merci per il mercato e il processo di riproduzione della forza-lavoro. Due processi che, a differenza di quanto avviene nelle economie di sussistenza, sono adesso distinti e sviluppati da soggetti differenti: i maschi salariati nel primo, le femmine che svolgono lavoro gratuito nel secondo. Sarebbe dunque questo passaggio storico che avrebbe lasciato sotto traccia l’autonoma produzione di valore della riproduzione.
Come già anticipato, con Il grande Calibano Fortunati e Federici hanno guardato alla transizione capitalistica dal feudalesimo considerando il momento dell’accumulazione dal punto di vista della riproduzione e hanno fornito un’ampia documentazione storica del processo che definisce la costruzione sociale della riproduzione della forza-lavoro in funzione dello sviluppo del capitale. Al centro di questo processo hanno posto la caccia alle streghe, che emerge quale evento fondativo della moderna società capitalistica, all’origine della divisione sessuale del lavoro e della svalorizzazione del lavoro femminile e delle donne stesse. Federici (2015) ha anche evidenziato come l’invenzione della stregoneria tra il XVI e il XVII secolo abbia svolto quattro grandi funzioni: dividere la comunità per minare la resistenza contadina alla recinzione delle terre; definire la nuova divisione sessuale del lavoro in modo funzionale al nuovo regime di produzione attraverso l’espropriazione delle donne del controllo sul proprio corpo, sulla propria sessualità e capacità riproduttiva; smantellare il sapere medico delle donne, mentre nasce e si afferma la medicina come scienza; sostenere il colonialismo e il razzismo nelle Americhe attraverso la demonizzazione delle abitudini africane che sostenevano le rivolte degli schiavi.
“Child Custody, Motherhood, Lesbianism” è un pamphlet prodotto da Wages Due Lesbians Toronto con un estratto dal saggio di Francie Wyland, Motherhood, Lesbianism and Child Custody, 1976. Lesbian Herstory Archives, Brooklyn, NY.
Da questa prospettiva, la caccia alle streghe è un momento di riorganizzazione sociale che interessa tutte le attività connesse alla riproduzione (relazioni familiari, attività sessuali, funzione di procreazione). È un processo che conferisce un nuovo fondamento e nuove funzionalità ai sistemi di sfruttamento patriarcali che pur preesistono al capitalismo. In questo senso, le femministe della rottura segnano una discontinuità anche con altre correnti del femminismo radicale che considerano capitalismo e patriarcato come sistemi di oppressione distinti, il primo operante nella sfera pubblica, il secondo in quella privata ovvero in famiglia (si veda ad esempio il già citato testo di Delphy). Qui, invece, l’idea è quella di un capitalismo che rideclina i rapporti patriarcali all’interno degli stessi rapporti di produzione capitalistica, ovvero traducendo in termini capitalistici la storica subordinazione delle donne. Ciò avviene esattamente nel momento in cui il capitale separa la produzione delle merci dalla riproduzione della forza-lavoro e stabilisce la gratuità del lavoro di riproduzione perché condizione naturale dell’essere donna. Così facendo, si definisce una vasta area di accumulazione che poggia sullo sfruttamento del lavoro gratuito di riproduzione.
Sulla scia di queste riflessioni e partendo dal nesso tra accumulazione e sfruttamento della natura che rimanda alla storia delle «recinzioni» alle origini del capitalismo, si è sviluppata, negli anni Novanta, una nuova declinazione del discorso femminista sull’accumulazione che ha preso una direzione in parte differente dall’iniziale tensione del femminismo marxista della rottura. In particolare, Dalla Costa e Federici, aprendo uno spazio di confronto con l’ecofemminismo di Vandana Shiva e Marie Mies, hanno discusso la rinnovata attualità dell’accumulazione nella transizione capitalistica, mettendo al centro il rapporto tra natura e riproduzione. La prima attraverso una critica serrata alla globalizzazione neoliberista (Chilesi – Dalla Costa 2005), l’altra riflettendo sulle «nuove recinzioni» in Africa, America Latina e più di recente anche in Europa, sulla costruzione di una economia del debito e per una «politica dei commons» (Federici 2018). D’altra parte, in quegli anni le ipotesi teoriche del femminismo marxista della rottura avevano già incontrato un imponente processo di rimozione, mentre importanti trasformazioni sociali e produttive descrivevano altri rapporti di produzione e riproduzione.
See Red Women’s Workshop, Sisters! Question Every Aspect of Our Lives, 1977.
Alla prova del presente
Cosa resta oggi, in un contesto sociale e produttivo sostanzialmente mutato, di quelle intuizioni e analisi? Quale lascito può essere messo produttivamente al lavoro mentre un movimento femminista che si è sviluppato sul piano transnazionale a partire dall’esperienza di Ni Una Menos in Argentina, ha ripreso a confrontarsi con la materialità dei processi produttivi e delle dinamiche sociali? Benché gli ultimi anni abbiano visto sul piano internazionale un ritorno di attenzione per quell’esperienza, come esito, almeno in Italia, di lavori storiografici e della diffusione di materiali a lungo inaccessibili (va in questa direzione la traduzione in italiano del lavoro di Federici di cui mi sono occupata), una risposta efficace a questi interrogativi non può che essere rintracciata in un’operazione di cesura. Attraverso uno sguardo che sia cioè capace di riattraversare il passato senza perdere di vista il presente.
Se senz’altro l’attenzione per il valore produttivo della riproduzione e la funzione sociale del salario sono lasciti ancora oggi utili a districare la matassa dei percorsi di lotta e resistenza sul piano sociale e non esclusivamente femminista, e soprattutto se è oggi possibile registrare un rinnovato interesse femminista per un’analisi che declina dentro i rapporti di produzione e riproduzione, potrebbe essere poco efficace, se non deleterio, riprendere linearmente quelle parole d’ordine nel mutato paradigma produttivo e riproduttivo. Né è possibile bypassare le impasse e i punti di blocco di quell’esperienza a partire dalla pratica effettiva di uno sciopero riproduttivo più facile a dirsi che a praticarsi nel momento in cui si fatica a individuare il nemico, ovvero i soggetti che incarnano l’accumulazione del profitto (a mia memoria l’unico esempio che al di là dai richiami immaginifici ha concretamente saputo incidere sui rapporti sociali di produzione, è lo sciopero dei latinos del 2006 negli Stati uniti, contro la criminalizzazione dell’immigrazione irregolare: «un día sin immigrante -– no trabajo, no escuelas, no comprar», che ha letteralmente bloccato interi Stati, ricordandoci l’importante dal dimensione di massa delle lotte). Tantomeno è possibile passare sotto silenzio le difficoltà legate alla domanda di un salario sganciato dalla produttività capitalista, che è stata la battaglia, sempre inattesa, non solo dei gruppi per il salario ma anche di una più recente stagione di lotte sul lavoro come lotta alla precarietà.
Wages for Housework, We Want Love and Money, inglese/spagnolo, non datato. Depositato a MayDay Rooms da Silvia Federici il 28gennaio 2013.
“We Can’t Afford to Work for Love” è il primo flyer prodotto da New York Wages for Housework Committee e distribuito a Prospect Park nel 1974. Silvia Federici Papers, Pembroke Center for Teaching and Research on Women, Brown University.
Da questa angolazione, allora, è soprattutto un metodo, una pratica teorico-politica che quell’esperienza ci consegna. Un metodo da mettere al lavoro, nella discontinuità, come una bussola per orientarci nell’analisi della nuova funzione sociale svolta dalla riproduzione e dal salario. Dove la riproduzione ha, con tutta evidenza, traslato in tutto il contesto sociale le sue gerarchie interne e i rapporti di potere, che adesso però si declinano anche a prescindere dal genere. Nel senso che oggi la razionalità capitalistica, andando anche oltre l’idea di una «femminilizzazione del lavoro», ha fatto delle caratteristiche di relazionalità, cura, attenzione emotiva, storicamente attribuite alle donne – in un processo di “naturalizzazione” della riproduzione che le femministe della rottura hanno con forza rigettato – la forma specifica del comando sul lavoro vivo, produttivo o riproduttivo che sia; e che le aziende funzionino sempre più come una famiglia con tanto di incentivi affettivi e meccanismi di fidelizzazione, con ricatto connesso e pacchi dono a Natale, ne è solo la prova più grossolana. Il salario, dal canto suo, che ha solo in parte perso la sua funzione di controllo sul lavoro produttivo e riproduttivo, ha cambiato connotazione. Da una parte, sta ridisegnando all’interno di una famiglia sempre più sui generis (allargata, monogenitoriale, come convivenze anche temporanea e nella forma di altre forme di intimità) il ruolo del breadwinner, senza tuttavia sovvertire rapporti di potere storicamente consolidati e spesso con conseguenze devastanti come la frustrazione per la perdita di un ruolo sociale che è alla radice di molta della violenza domestica a cui quotidianamente assistiamo. Dall’altra, l’avanzare della precarietà e del lavoro gratuito, presupposto della nuova funzione sociale del salario, stanno producendo una trasformazione profonda (e al contempo inquietante, se si assume una prospettiva antagonista) delle soggettività e delle aspettative rispetto al lavoro. Oggi nelle cosiddette industrie cognitive spesso più che per un salario si lavora per ottenere visibilità e riconoscimento sociale, proprio come lo status sociale di buona moglie e madre amorevole ha storicamente ripagato le donne per il lavoro di riproduzione gratuito (in questo senso almeno, ho provato a sviluppare le intuizioni del femminismo marxista della rottura in alcune Note sulla gratuità del lavoro nel 2017). Ciò a cui assistiamo è, anche in questo senso, l’estensione delle caratteristiche e prerogative della riproduzione all’intero sistema produttivo. Per questo allora l’intero impianto di analisi sulla riproduzione del femminismo e del femminismo marxista della rottura in particolare va oggi rivisto e aggiornato. Il rischio altrimenti è di lasciare in ombra, proprio come era accaduto al Marx che non aveva visto il valore produttivo della riproduzione, tutto un piano di estrazione di valore che richiama ma eccede l’ambito riproduttivo. Così, l’attualità politica del femminismo marxista della rottura è possibile solo se con pazienza e attenzione critica si riflette sui i punti di blocco di quella analisi. Detto altrimenti, le intuizioni del femminismo marxista della rottura restano potenti strumenti di lotta solo a patto di saperle portare oltre sé stesse, proprio come le compagne avevano a suo tempo fatto con Marx.
cover del libro: Introduzione ai Femminismi, AA.VV., a cura di Anna Curcio, collana Input – DeriveApprodi, Roma, 2019.
Il testo “Il femminismo marxista della rottura” è stato pubblicato in Introduzione ai Femminismi, AA.VV., a cura di Anna Curcio, collana Input – DeriveApprodi, Roma, 2019.
Anna Curcio, ricercatrice, saggista e traduttrice militante, ha conseguito il dottorato di ricerca in Politica società e cultura all’Università della Calabria e svolto un post-dottorato in «Alternative Political Imaginaries» a Duke University. Ha insegnato e svolto attività di ricerca nelle università italiane, inglesi e statunitensi. Attualmente insegna discipline giuridico-economiche nelle scuole superiori. Studia le trasformazioni del lavoro produttivo e riproduttivo con attenzione alla razza e al genere. Formatasi nella tradizione dell’operaismo politico italiano, si è interessata ai Cultural Studies, alla Critical Race Theory e agli studi sulla whiteness. Autrice di monografie, saggi e articoli, ha visto i suoi lavori pubblicati in Italia e all’estero. Con il volume La razza al lavoro (insieme a Miguel Mellino, Manifestolibri 2012) ha contribuito ad aprire il dibattito antirazzista italiano agli studi critici sulla razza. Ha curato la traduzione in italiano dei saggi di Silvia Federici.
Attiva nei movimenti autonomi sin dagli anni Novanta ha concentrato il suo interesse sulla produzione di discorso e la comunicazione. Attualmente partecipa al progetto «Commonware» e al percorso di formazione politica «Pensiero critico» presso la Mediateca Gateway di Bologna. Cura la sezione «Vortex» del nuovo progetto editoriale Machina (DeriveApprodi).