Tutto è iniziato con «We Should All Be Feminists» la t-shirt griffata Dior, in edizione limitata e venduta alla “modica” cifra di 620 euro. Chi la indossa? Attrici, dive e influencer; ora anche curatrici, artiste e figure del mondo dell’arte. Una strategia di marketing, avviata da un brand del lusso come la storica e potente maison francese che, sotto la direzione creativa di Maria Grazia Chiuri, ha ormai dichiarato la propria mission: fondere femminismo e moda. Alla prima edizione di successo con lo slogan di Chimamanda Ngozi Adichie, sono seguite quelle di Robin Morgan: «Sisterhood is Global», «Sisterhood is Powerful» e «Sisterhood is Forever». Una volta si lanciavano e si bruciavano reggiseni in segno di protesta. Oggi si indossa una t-shirt Dior in versione glamour, o si trasforma nell’hashtag di una qualche campagna pubblicitaria o di un discorso durante una premiazione hollywoodiana. Per quelle di noi che non saranno mai una CEO (né desiderano esserlo) il problema del femminismo mainstrem è che oscura gli antagonismi di classe e razza che invece sono centrali nel modo in cui il genere si organizza sotto il capitalismo.
Chiara Ferragni con la t-shirt Dior.
Moda, arte e femminismo. Il connubio perfetto
Il femminismo mainstream, o meglio l’ascesa e l’istituzionalizzazione neoliberale del femminismo, ha incontrato nell’arte un terreno di cattura privilegiato, totalmente mimetizzato da un’apparente libertà di espressione e creatività, in gran parte sostenuto da enormi capitali, corporate collection e, mai come in questo momento, da maison d’alta moda e industrie del lusso. All’insegna di defilé scenografici progettati da artiste, nell’incedere di modelle sopra catwalk rivestiti da retoriche identitarie e mistificazioni sulla parità di genere, al tempo dell’alleanza tra capitalismo e patriarcato contro le donne (il capitalismo patriarcale come lo definisce Silvia Federici) le complicità della moda con il mondo artistico sono esibite e rivendicate, da più parti, come velleità femministe proprio adesso che improvvisamente il mercato ha svelato l’affare del momento: investire sulle donne artiste. Prima Tomaso Binga, poi è seguita Judy Chicago e ora Claire Fontaine sono state convocate dalla Chiuri a decorare la prestigiosa fashion week della maison Dior con la mise-en-scène di un set ad hoc.
Maria Grazia Chiuri, set di Tomaso Binga, Dior Autunno Inverno 2019 2020.
Tomaso Binga per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2019 2020.
La fortunata ispirazione della Chiuri verso il femminismo si era già espressa con il supporto all’esposizione Il Soggetto Imprevisto. 1978 Arte e Femminismo in Italiache si è svolta lo scorso aprile da FM Centro per l’Arte contemporanea di Milano, fino alla mostra Io dico Io – I say I che inaugurerà il 23 marzo alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Il rapporto tra arte e sponsorizzazione è un rapporto di forza e non di libertà. Un tipo di innovazione capitalistica è stata prodotta alla luce delle lotte condotte su un terreno di genere (oltre che di classe) e sono state integrate nel sistema dell’arte. Non è un fatto nuovo, dentro le controverse e ambivalenti contraddizioni che attraversiamo, che l’industria dell’alta moda o gli attori della finanza internazionale supportino la produzione sia di opere d’arte che di grandi eventi espositivi, anzi la capacità di procacciare ingenti finanziamenti è ormai una prerogativa manageriale assolutamente indispensabile per ogni curatore di successo, così segnalo, solo per brevità (non è il punto in questo contesto) limitandoci alla sfera pubblica (se ancora sia possibile definirla tale) la sponsorizzazione di Fendi nel 2017 con Cecilia Alemani (intorno ai 400mila euro) e nel 2019 troviamo Gucci e Fiorucci Trust con Milovan Farronato (intorno ai 700mila euro) per i loro rispettivi Padiglioni Italia alla Biennale di Venezia [n.d.r. cifre sono approssimative ma vicine al valore reale rendono conto della misura economica].
Il disincanto su ogni presunta estraneità a processi di valorizzazione capitalistica della macchina espositiva ormai non ci coglie più impreparati. Ma queste che la Chiuri ha preso a cuore non sono mostre qualunque (anche se lo stesso discorso potrebbe essere esteso a tutti quei progetti che hanno come oggetto la radicalità politica o le soggettività minoritarie, queer e postcoloniali). Sono artiste che si definiscono femministe, che hanno militato nel movimento negli anni Settanta e in cui abbiamo creduto, così mi viene da chiedere: come può Dior raccontare del femminismo? Perché lo abbiamo permesso? E soprattutto la vera questione, per evitare discussioni fuori asse, è:
Che cosa ci sarebbe di femminista in un fashion show?
Il collettivo Claire Fontaine per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.
Il collettivo Claire Fontaine per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.
Il collettivo Claire Fontaine per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.
Non veniteci a raccontare che lo spazio di un defilé possa veicolare un messaggio femminista. Né in termini di risonanza di pubblico, né tantomeno come mezzo (la moda) per dichiarare che il femminismo sia sovversivo e per tutte noi. Ne vediamo subito la contraddizione politica. La collezione autunno/inverno 2020 appena presentata a Parigi, lo scorso 25 febbraio, presso i Jardin des Tuileries è stata ospitata dentro un set progettato da Claire Fontaine. Maria Grazia Chiuri afferma (come si legge nella copiosa stampa del settore moda): “Mi sono ispirata al manifesto di Carla Lonzi”. Tra le grandi scritte al neon che pendono dal soffitto e di fortissimo impatto visivo alcuni slogan femministi che ritornano nel lavoro del collettivo: «We are All Clitoridian Women», «Patriarchy=Repression», «Patriarchy kills love», «Women Raise the Upraising», «Women are the Moon», «Feminine Beauty is a ready-made», «Women’s love is unpaid labour» fino a «Consent». Ora l’ultima maglietta recita «I say I», Io dico io, titolo della mostra alla GNAM ispirato a Carla Lonzi e, come già detto, supportata sempre da Dior.
«Quando le donne scioperano il mondo si ferma»: ma sotto sfilano le modelle.
Il collettivo Claire Fontaine per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.
Non voglio addentrarmi nelle politiche di rappresentazione di una soggettività femminile patinata, di un corpo oggettificato e della sua mediatizzazione stereotipata che la maschera egemonica ha gradualmente squalificato. Nè in un’analisi del discorso per smontare la “donna” come segno o in una sua reificazione secondo diktat imposti dal sistema sociale della moda e dalla costruzione di un immaginario sessista fatto di canoni estetici innaturali, sotto la falsa apparenza che il femminile, come il maschile, siano invece verità naturali, a-storiche. Continuo ad articolare in modo più specifico la domanda:
Cosa c’entrano con un fashion show questioni come lo sciopero, il lavoro di cura non pagato, la violenza di genere?
Il collettivo Claire Fontaine per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.
Il collettivo Claire Fontaine per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.
Questi slogan non diventano ora, piuttosto, eclatanti accessori decorativi, resi innocui e inoffensivi, depotenziati politicamente (per cui si arriva a non capire più chi è il nemico, chi è la controparte) sussunti all’interno di logiche neoliberali e dentro le regole di un gioco, quello dell’haute couture e, in generale, del capitale per cui erano contro, nate come antagoniste e che invece mettono in pericolo quelle stesse istanze di liberazione?
L’operazione compiuta da Dior attraverso queste artiste (e tutte le altre che seguiranno) sul piano dell’immaginario corrisponde a un disarmante vuoto sul piano politico.
Tomaso Binga per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2019 2020.
Ma facciamo un passo indietro. La svolta femminista della Chiuri era evidente già lo scorso anno, quando il layout della sfilata autunno/inverno era stato ricoperto dall’alfabeto antropomorfizzato di Tomaso Binga (pseudonimo di Bianca Pucciarelli Menna). Quest’anno per le collezioni primavera-estate 2020, il 21 gennaio, è stata la volta di Judy Chicago, una delle icone più irriverenti del femminismo americano, co-fondatrice della WomanHouse (1972), con la scenografia di nuovo tempio femminista per Dior: The Female Divine (“Il divino femminile”) una struttura biomorfa a forma di utero o di ventre femminile disteso, posta nei giardini del Musée Rodin, al cui interno è stata allestita la passerella e una successione di 21 stendardi/arazzi, con scritte come «What If Women Ruled The World?» e «Would God Be Female?», ricamati a mano dalle studentesse della scuola Chanakya di Mumbai, un’organizzazione no-profit che tramanda tecniche di cucito artigianali tradizionalmente affidate solo agli uomini.
Judy Chicago per la sfilata di Dior Primavera Estate 2020.
Judy Chicago per la sfilata di Dior Primavera Estate 2020.
Judy Chicago per la sfilata di Dior Primavera Estate 2020.
Già, ma come sarebbe il mondo se fosse governato dalle donne? Questo si chiede Judy Chicago ma forse dovremmo iniziare a farla finita con la retorica identitaria sulla natura del femminile che nell’arte di matrice anglo-americana ha incentrato le proprie rivendicazioni sulla decostruzione del corpo, del genere e dell’identità sessuale attraverso l’auto-rappresentazione e l’auto-affermazione sottratta al dominio maschile dopo secoli di invisibilità e subordinazione. Essere donna non è necessariamente un’istanza politica e alcune delle leader dell’estrema destra europea (Marine Le Pen in Francia, Alice Weidel dell’ultradestra tedesca e xenofoba, Beata Szydło in Polonia fautrice dell’inasprimento delle leggi anti-aborto) lo dimostrano: l’essere nata biologicamente donna non significa essere femminista. La naturalizzazione delle differenze di genere (e la sua celebrazione come identità sessuale) sono funzionali a celare il fatto sociale e strutturale della dominazione.
Le artiste del sud del mondo ci raccontano di un femminismo diverso da quello occidentale, troppo preoccupato per l’indipendenza e l’auto-determinazione individuale, rispetto allo stato di disuguaglianza e drammatica iniquità del ‘sud del mondo’, risultato del colonialismo e di uno squilibrato processo di modernizzazione capitalista, profondamente vicino alle posizioni del femminismo marxista della rottura che ha le sue radici anche nel contesto italiano (da Federici, Dalla Costa ai gruppi del salario).
Tomaso Binga per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2019 2020.
Tomaso Binga per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2019 2020.
Scriveva Toni Negri nel 1988 e lontano dagli anni Settanta: “credo che in nessun caso più che in quello dell’arte, della sua produzione e del suo mercato, la forma di organizzazione sociale che Marx chiama sussunzione reale sia oggi realizzata” ; più volte ci siamo occupati delle contraddizioni della natura governamentale della macchina dell’arte, di quel sistema che attraversiamo e di cui conosciamo così bene i confini e le ambivalenze, prima tra tutte quello di essere costitutivamente uno dei più efficaci, oltre che redditizi, dispositivi di soggettivazione neoliberale (e patriarcale). Il mondo dell’arte non è estraneo ai rapporti sociali e si organizza a partire da una gerarchia implicita (e mai esplicitata) di cattura neoliberale di simboli, segni e linguaggi femministi, che erano nati come strumenti di rottura. Immaginari espropriati, usati, reificati in un brand del lusso come Dior: questo è inaccettabile. Il binomio quote rosa e mercato, l’alto numero di mostre “al femminile” e l’appropriazione da parte dell’industria del fashion di slogan e simboli, non fa altro che confermarci questo.
E ci conferma, semmai ce ne fosse bisogno, che il femminismo senza lotta (di classe) e se slegato dal nesso indissociabile di capitalismo, colonialismo e patriarcato, senza cioè una critica politica all’economia e alle condizioni contemporanee di valorizzazione del capitale, che determinano la nostra oppressione e il nostro sfruttamento, allora diventa solo un passatempo per eleganti signore borghesi che magari la borsetta Dior o la t-shirt We Should All Be Feminists la indossano pure.
Judy Chicago per la sfilata di Dior Primavera Estate 2020.
Judy Chicago per la sfilata di Dior Primavera Estate 2020.
Judy Chicago per la sfilata di Dior Primavera Estate 2020.
Ma sappiamo anche come il regno della visibilità (e del potere) si tenga ben stretto quello dell’estetica. Oggi è innegabile non solo che il femminismo sia di moda ma assistiamo a continui tentativi di cattura e cooptazione dentro le strutture di potere del sistema dell’arte e di ogni altro sistema economico. Maria Grazia Chiuri non è la nuova Angela Davis: se sponsorizza opere e mostre come beni di lusso alla stregua di regimi proprietari e assi patrimoniali (le cifre in termini economici sono quelle) questo non apre nessun varco nella complessità di rovesciamento di prospettiva dei femminismi. Che deve essere necessariamente anti-capitalista.
Le scritte di Claire Fontaine che costituiscono il set della sfilata Dior distruggono forse gli stereotipi della femminilità imperanti nella moda e nelle creazioni prêt-à-porter? Producono una soggettività differenziale, ingovernabile e non sussumibile dal capitale? Chiamatele come volete, ma non sfilate femministe.
Noi guardiamo al campo dell’arte attraverso posizioni di radicalità (la stessa Lonzi che ora la Chiuri chiama in causa): non occorre contestare e distruggere un immaginario (quello artistico che infatti abbandona) ma metterne in discussione, aggredire e distruggere la sua intera struttura e le fondamenta che l’hanno istituita – e lo fa da una posizione di disprezzo per entrambe. Figuriamoci la moda!
Il collettivo Claire Fontaine per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.
Anche se apparteniamo a un segmento produttivo ancora fortemente invisibilizzato e precarizzato, dentro questo stesso sistema, non è accettabile questa ambigua operazione costruita a tavolino tra gallerie, collezionisti e fattori valoriali di mercato. La struttura dei rapporti di potere che regola le nostre vite e determina le forme dell’oppressione è immodificabile (a meno che non si incida nei rapporti economici o di produzione). Se essere incluse significa pacificare i conflitti, riscattare quelle voci femministe che nel dibattito istituzionale sono state soppresse o messe a tacere con l’integrazione, non represse ma sussunte all’interno del meccanismo, meglio annunciare il fallimento e l’impossibilità dell’arte di lavorare sul simbolico, sui processi di ri-soggettivazione, sugli immaginari contro-egemonici.
L’imprevedibilità, come mezzo per uscire dalla storia, ora la conosciamo. In discontinuità con il potere ma non con il soggetto della rivoluzione. Questa non può stare dentro il mondo della moda. Il fascismo a cui stiamo assistendo è un fenomeno globale che ha intensificato la sua controffensiva come risposta (reazionaria) alla forza dispiegata da una potenza femminista transnazionale, radicata nelle lotte, che ritroveremo il prossimo 8 e 9 marzo nelle piazze e nelle strade di tutto il mondo come una marea. Non certo nell’apologia di un fashion show.
Elvira Vannini
Veduta dell’installazione luminosa del collettivo Claire Fontaine alla sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.
Veduta dell’installazione luminosa del collettivo Claire Fontaine alla sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.
Tutto è iniziato con «We Should All Be Feminists» la t-shirt griffata Dior, in edizione limitata e venduta alla “modica” cifra di 620 euro. Chi la indossa? Attrici, dive e influencer; ora anche curatrici, artiste e figure del mondo dell’arte. Una strategia di marketing, avviata da un brand del lusso come la storica e potente maison francese che, sotto la direzione creativa di Maria Grazia Chiuri, ha ormai dichiarato la propria mission: fondere femminismo e moda. Alla prima edizione di successo con lo slogan di Chimamanda Ngozi Adichie, sono seguite quelle di Robin Morgan: «Sisterhood is Global», «Sisterhood is Powerful» e «Sisterhood is Forever». Una volta si lanciavano e si bruciavano reggiseni in segno di protesta. Oggi si indossa una t-shirt Dior in versione glamour, o si trasforma nell’hashtag di una qualche campagna pubblicitaria o di un discorso durante una premiazione hollywoodiana. Per quelle di noi che non saranno mai una CEO (né desiderano esserlo) il problema del femminismo mainstrem è che oscura gli antagonismi di classe e razza che invece sono centrali nel modo in cui il genere si organizza sotto il capitalismo.
Chiara Ferragni con la t-shirt Dior.
Moda, arte e femminismo. Il connubio perfetto
Il femminismo mainstream, o meglio l’ascesa e l’istituzionalizzazione neoliberale del femminismo, ha incontrato nell’arte un terreno di cattura privilegiato, totalmente mimetizzato da un’apparente libertà di espressione e creatività, in gran parte sostenuto da enormi capitali, corporate collection e, mai come in questo momento, da maison d’alta moda e industrie del lusso. All’insegna di defilé scenografici progettati da artiste, nell’incedere di modelle sopra catwalk rivestiti da retoriche identitarie e mistificazioni sulla parità di genere, al tempo dell’alleanza tra capitalismo e patriarcato contro le donne (il capitalismo patriarcale come lo definisce Silvia Federici) le complicità della moda con il mondo artistico sono esibite e rivendicate, da più parti, come velleità femministe proprio adesso che improvvisamente il mercato ha svelato l’affare del momento: investire sulle donne artiste. Prima Tomaso Binga, poi è seguita Judy Chicago e ora Claire Fontaine sono state convocate dalla Chiuri a decorare la prestigiosa fashion week della maison Dior con la mise-en-scène di un set ad hoc.
Maria Grazia Chiuri, set di Tomaso Binga, Dior Autunno Inverno 2019 2020.
Tomaso Binga per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2019 2020.
La fortunata ispirazione della Chiuri verso il femminismo si era già espressa con il supporto all’esposizione Il Soggetto Imprevisto. 1978 Arte e Femminismo in Italia che si è svolta lo scorso aprile da FM Centro per l’Arte contemporanea di Milano, fino alla mostra Io dico Io – I say I che inaugurerà il 23 marzo alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Il rapporto tra arte e sponsorizzazione è un rapporto di forza e non di libertà. Un tipo di innovazione capitalistica è stata prodotta alla luce delle lotte condotte su un terreno di genere (oltre che di classe) e sono state integrate nel sistema dell’arte. Non è un fatto nuovo, dentro le controverse e ambivalenti contraddizioni che attraversiamo, che l’industria dell’alta moda o gli attori della finanza internazionale supportino la produzione sia di opere d’arte che di grandi eventi espositivi, anzi la capacità di procacciare ingenti finanziamenti è ormai una prerogativa manageriale assolutamente indispensabile per ogni curatore di successo, così segnalo, solo per brevità (non è il punto in questo contesto) limitandoci alla sfera pubblica (se ancora sia possibile definirla tale) la sponsorizzazione di Fendi nel 2017 con Cecilia Alemani (intorno ai 400mila euro) e nel 2019 troviamo Gucci e Fiorucci Trust con Milovan Farronato (intorno ai 700mila euro) per i loro rispettivi Padiglioni Italia alla Biennale di Venezia [n.d.r. cifre sono approssimative ma vicine al valore reale rendono conto della misura economica].
Il disincanto su ogni presunta estraneità a processi di valorizzazione capitalistica della macchina espositiva ormai non ci coglie più impreparati. Ma queste che la Chiuri ha preso a cuore non sono mostre qualunque (anche se lo stesso discorso potrebbe essere esteso a tutti quei progetti che hanno come oggetto la radicalità politica o le soggettività minoritarie, queer e postcoloniali). Sono artiste che si definiscono femministe, che hanno militato nel movimento negli anni Settanta e in cui abbiamo creduto, così mi viene da chiedere: come può Dior raccontare del femminismo? Perché lo abbiamo permesso? E soprattutto la vera questione, per evitare discussioni fuori asse, è:
Il collettivo Claire Fontaine per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.
Il collettivo Claire Fontaine per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.
Il collettivo Claire Fontaine per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.
Non veniteci a raccontare che lo spazio di un defilé possa veicolare un messaggio femminista. Né in termini di risonanza di pubblico, né tantomeno come mezzo (la moda) per dichiarare che il femminismo sia sovversivo e per tutte noi. Ne vediamo subito la contraddizione politica. La collezione autunno/inverno 2020 appena presentata a Parigi, lo scorso 25 febbraio, presso i Jardin des Tuileries è stata ospitata dentro un set progettato da Claire Fontaine. Maria Grazia Chiuri afferma (come si legge nella copiosa stampa del settore moda): “Mi sono ispirata al manifesto di Carla Lonzi”. Tra le grandi scritte al neon che pendono dal soffitto e di fortissimo impatto visivo alcuni slogan femministi che ritornano nel lavoro del collettivo: «We are All Clitoridian Women», «Patriarchy=Repression», «Patriarchy kills love», «Women Raise the Upraising», «Women are the Moon», «Feminine Beauty is a ready-made», «Women’s love is unpaid labour» fino a «Consent». Ora l’ultima maglietta recita «I say I», Io dico io, titolo della mostra alla GNAM ispirato a Carla Lonzi e, come già detto, supportata sempre da Dior.
Il collettivo Claire Fontaine per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.
Non voglio addentrarmi nelle politiche di rappresentazione di una soggettività femminile patinata, di un corpo oggettificato e della sua mediatizzazione stereotipata che la maschera egemonica ha gradualmente squalificato. Nè in un’analisi del discorso per smontare la “donna” come segno o in una sua reificazione secondo diktat imposti dal sistema sociale della moda e dalla costruzione di un immaginario sessista fatto di canoni estetici innaturali, sotto la falsa apparenza che il femminile, come il maschile, siano invece verità naturali, a-storiche. Continuo ad articolare in modo più specifico la domanda:
Il collettivo Claire Fontaine per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.
Il collettivo Claire Fontaine per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.
Questi slogan non diventano ora, piuttosto, eclatanti accessori decorativi, resi innocui e inoffensivi, depotenziati politicamente (per cui si arriva a non capire più chi è il nemico, chi è la controparte) sussunti all’interno di logiche neoliberali e dentro le regole di un gioco, quello dell’haute couture e, in generale, del capitale per cui erano contro, nate come antagoniste e che invece mettono in pericolo quelle stesse istanze di liberazione?
L’operazione compiuta da Dior attraverso queste artiste (e tutte le altre che seguiranno) sul piano dell’immaginario corrisponde a un disarmante vuoto sul piano politico.
Tomaso Binga per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2019 2020.
Ma facciamo un passo indietro. La svolta femminista della Chiuri era evidente già lo scorso anno, quando il layout della sfilata autunno/inverno era stato ricoperto dall’alfabeto antropomorfizzato di Tomaso Binga (pseudonimo di Bianca Pucciarelli Menna). Quest’anno per le collezioni primavera-estate 2020, il 21 gennaio, è stata la volta di Judy Chicago, una delle icone più irriverenti del femminismo americano, co-fondatrice della WomanHouse (1972), con la scenografia di nuovo tempio femminista per Dior: The Female Divine (“Il divino femminile”) una struttura biomorfa a forma di utero o di ventre femminile disteso, posta nei giardini del Musée Rodin, al cui interno è stata allestita la passerella e una successione di 21 stendardi/arazzi, con scritte come «What If Women Ruled The World?» e «Would God Be Female?», ricamati a mano dalle studentesse della scuola Chanakya di Mumbai, un’organizzazione no-profit che tramanda tecniche di cucito artigianali tradizionalmente affidate solo agli uomini.
Judy Chicago per la sfilata di Dior Primavera Estate 2020.
Judy Chicago per la sfilata di Dior Primavera Estate 2020.
Judy Chicago per la sfilata di Dior Primavera Estate 2020.
Già, ma come sarebbe il mondo se fosse governato dalle donne? Questo si chiede Judy Chicago ma forse dovremmo iniziare a farla finita con la retorica identitaria sulla natura del femminile che nell’arte di matrice anglo-americana ha incentrato le proprie rivendicazioni sulla decostruzione del corpo, del genere e dell’identità sessuale attraverso l’auto-rappresentazione e l’auto-affermazione sottratta al dominio maschile dopo secoli di invisibilità e subordinazione. Essere donna non è necessariamente un’istanza politica e alcune delle leader dell’estrema destra europea (Marine Le Pen in Francia, Alice Weidel dell’ultradestra tedesca e xenofoba, Beata Szydło in Polonia fautrice dell’inasprimento delle leggi anti-aborto) lo dimostrano: l’essere nata biologicamente donna non significa essere femminista. La naturalizzazione delle differenze di genere (e la sua celebrazione come identità sessuale) sono funzionali a celare il fatto sociale e strutturale della dominazione.
Le artiste del sud del mondo ci raccontano di un femminismo diverso da quello occidentale, troppo preoccupato per l’indipendenza e l’auto-determinazione individuale, rispetto allo stato di disuguaglianza e drammatica iniquità del ‘sud del mondo’, risultato del colonialismo e di uno squilibrato processo di modernizzazione capitalista, profondamente vicino alle posizioni del femminismo marxista della rottura che ha le sue radici anche nel contesto italiano (da Federici, Dalla Costa ai gruppi del salario).
Tomaso Binga per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2019 2020.
Tomaso Binga per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2019 2020.
Scriveva Toni Negri nel 1988 e lontano dagli anni Settanta: “credo che in nessun caso più che in quello dell’arte, della sua produzione e del suo mercato, la forma di organizzazione sociale che Marx chiama sussunzione reale sia oggi realizzata” ; più volte ci siamo occupati delle contraddizioni della natura governamentale della macchina dell’arte, di quel sistema che attraversiamo e di cui conosciamo così bene i confini e le ambivalenze, prima tra tutte quello di essere costitutivamente uno dei più efficaci, oltre che redditizi, dispositivi di soggettivazione neoliberale (e patriarcale). Il mondo dell’arte non è estraneo ai rapporti sociali e si organizza a partire da una gerarchia implicita (e mai esplicitata) di cattura neoliberale di simboli, segni e linguaggi femministi, che erano nati come strumenti di rottura. Immaginari espropriati, usati, reificati in un brand del lusso come Dior: questo è inaccettabile. Il binomio quote rosa e mercato, l’alto numero di mostre “al femminile” e l’appropriazione da parte dell’industria del fashion di slogan e simboli, non fa altro che confermarci questo.
Judy Chicago per la sfilata di Dior Primavera Estate 2020.
Judy Chicago per la sfilata di Dior Primavera Estate 2020.
Judy Chicago per la sfilata di Dior Primavera Estate 2020.
Ma sappiamo anche come il regno della visibilità (e del potere) si tenga ben stretto quello dell’estetica. Oggi è innegabile non solo che il femminismo sia di moda ma assistiamo a continui tentativi di cattura e cooptazione dentro le strutture di potere del sistema dell’arte e di ogni altro sistema economico. Maria Grazia Chiuri non è la nuova Angela Davis: se sponsorizza opere e mostre come beni di lusso alla stregua di regimi proprietari e assi patrimoniali (le cifre in termini economici sono quelle) questo non apre nessun varco nella complessità di rovesciamento di prospettiva dei femminismi. Che deve essere necessariamente anti-capitalista.
Le scritte di Claire Fontaine che costituiscono il set della sfilata Dior distruggono forse gli stereotipi della femminilità imperanti nella moda e nelle creazioni prêt-à-porter? Producono una soggettività differenziale, ingovernabile e non sussumibile dal capitale? Chiamatele come volete, ma non sfilate femministe.
Noi guardiamo al campo dell’arte attraverso posizioni di radicalità (la stessa Lonzi che ora la Chiuri chiama in causa): non occorre contestare e distruggere un immaginario (quello artistico che infatti abbandona) ma metterne in discussione, aggredire e distruggere la sua intera struttura e le fondamenta che l’hanno istituita – e lo fa da una posizione di disprezzo per entrambe. Figuriamoci la moda!
Il collettivo Claire Fontaine per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.
Anche se apparteniamo a un segmento produttivo ancora fortemente invisibilizzato e precarizzato, dentro questo stesso sistema, non è accettabile questa ambigua operazione costruita a tavolino tra gallerie, collezionisti e fattori valoriali di mercato. La struttura dei rapporti di potere che regola le nostre vite e determina le forme dell’oppressione è immodificabile (a meno che non si incida nei rapporti economici o di produzione). Se essere incluse significa pacificare i conflitti, riscattare quelle voci femministe che nel dibattito istituzionale sono state soppresse o messe a tacere con l’integrazione, non represse ma sussunte all’interno del meccanismo, meglio annunciare il fallimento e l’impossibilità dell’arte di lavorare sul simbolico, sui processi di ri-soggettivazione, sugli immaginari contro-egemonici.
L’imprevedibilità, come mezzo per uscire dalla storia, ora la conosciamo. In discontinuità con il potere ma non con il soggetto della rivoluzione. Questa non può stare dentro il mondo della moda. Il fascismo a cui stiamo assistendo è un fenomeno globale che ha intensificato la sua controffensiva come risposta (reazionaria) alla forza dispiegata da una potenza femminista transnazionale, radicata nelle lotte, che ritroveremo il prossimo 8 e 9 marzo nelle piazze e nelle strade di tutto il mondo come una marea. Non certo nell’apologia di un fashion show.
Elvira Vannini
Veduta dell’installazione luminosa del collettivo Claire Fontaine alla sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.
Veduta dell’installazione luminosa del collettivo Claire Fontaine alla sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.
Comment (1)
Grazie Elvira.
Lucida ed efficace come sempre. Quanta fatica ancora da fare, però.