Geopolitiche curatoriali: Geeta Kapur tra mondi agonistici

Pubblichiamo un estratto del testo Curating across Agonistic Worlds di Geeta Kapur, la più autorevole storica dell’arte, critica e curatrice indiana, tratto dall’antologia Utopian Display. Geopolitiche curatoriali, a cura di Marco Scotini, primo libro di una collana editoriale promossa da NABA e pubblicata da Quodlibet.

Il ruolo egemonico assunto dalla produzione di mostre – sostenute da proprie regole e da una struttura complessa che attiva storie e narrazioni – le ha rese un sito privilegiato di accesso democratico all’arte nel sistema contemporaneo. Non solo il numero e l’estensione di esposizioni è vertiginosamente aumentato negli ultimi anni ma si è riacceso l’interesse per la sue vicende e possibili genealogie: l’ondata di simposi, pubblicazioni e riviste dedicate alla storia del genere espositivo nel dibattito attuale (specialmente come pratica curatoriale riflessiva) è apparsa in modo massiccio, con il rischio di naturalizzarne le funzioni, neutralizzando le forze, le forme e i processi espositivi, all’interno di un frame modernista di riferimento, di presunta universalità, autonomia e astoricità.

Rispetto a questa tendenza, l’antologia Utopian Display non celebra l’apologia di una figura di potere ma ne segnala le crisi e i punti di rottura allontanandosi da trend recenti che analizzano le mostre come oggetti di auto-riflessività curatoriale, dentro il cliché storico-artistico della canonizzazione che enfatizza il concetto di mostra paradigmatica; anziché disattivare questa storiografia – costruita come narrativa istituzionale e basata su marcatori che hanno tenuto fuori tutte le eccedenze extra-artistiche ai confini col politico – cadono in un esercizio di legittimazione senza metterne in discussione la sua egemonia.

Così, per comprendere il rilievo che occupano – e hanno occupato – le esposizioni nelle politiche di rappresentazione transculturale in Utopian display non si parla di geografia artistica globale ma di geopolitica. Come decolonizzare le soggettività dominate e marginalizzate e insieme reiventare linguaggi e paradigmi curatoriali per ribaltarne la prospettiva?

«I paesi non occidentali – scrive Geeta Kapur in un testo del 1989 – pur combattendo con i processi di modernizzazione, sono esclusi dal rivendicare il modernismo. […] D’altra parte, poi, è l’ideologia specificamente borghese del modernismo che fa supporre una nobile universalità mentre impone un insieme eurocentrico (e imperialista) di criteri culturali nel resto del mondo. […] Inoltre lo stesso modello lineare assume altre figure geometriche come il centro e la periferia. Questo camuffa il crudo progressismo del modello lineare. Il (presunto) ritardo non è espresso in quanto tale, ma al suo posto emergono questioni di marginalità (gruppi minori/minoranze)».

Nilima Sheikh e Geeta Kapur ® standing before Hinnerk Scharder’s site-specific artwork being installed at Kasauli Art Centre during the Indo-German Artists Workshop, September 1983.

In quest of identity : art and indigenism in post-colonial cultures, with special reference to contemporary Indian painting, scritto da Geeta Kapur e pubblicato da Vrishchik, il lungo saggio è uno sviluppo della tesi discussa con lo stesso titolo al Royal College of Art di Londra nel 1970.

Disarmare il potere, rispetto all’eredità storicistica e coloniale delle istituzioni; rompere la centralità delle narrazioni eteronormative, fondate su rapporti di razza, classe e di ordine patriarcale, dando voce ai corpi disobbedienti, rimasti invisibilizzati e silenziati nei documenti ufficiali; disimparare la storia, perché in quella che conosciamo e che ci è stata imposta come universale e irreversibile, il corpo oggettivato è bianco, maschile e occidentale. Queste solo alcune delle questioni toccate dagli autori dei quindici saggi, a firma di alcune delle maggiori figure della curatela internazionale che, nell’economia evenemenziale di queste emersioni post globalizzazione (oramai in fase matura e in piena espansione considerando che nel 2019 Biennal Foundation ha registrato oltre 270 biennali/triennali nel mondo, soprattutto in Asia e nel cosiddetto Sud Globale) segnalano inesorabilmente una svolta nell’interesse per le mostre e il loro potenziale valore d’uso come modelli all’interno un programma speculativo di costruzione capitalista e postcoloniale. La sua natura governamentale: l’arte come dispositivo di soggettivazione neoliberale e il curatore come figura chiave di questa cooptazione che ormai di utopico non ha più nulla.

Quale ruolo quindi hanno assunto, negli ultimi decenni, i processi di globalizzazione all’interno del sistema dell’arte? E soprattutto, continua Scotini: «in che modo l’estensione a tutte le latitudini del sistema dell’arte occidentale ha accompagnato, promosso e legittimato culturalmente, la globalizzazione? Dunque, “geopolitiche curatoriali” ha questo significato. Ricorrere al termine “geopolitica” (nell’accezione del primo Yves Lacoste) ha senso di fronte alla proliferazione delle identità nazionali contemporanee e alla tensione e competizione dinamica tra loro».

“I mondi agonistici”, come li chiama Geeta Kapur nel testo che segue.

Nilima Sheikh, Nalini Malani e Geeta Kapur al Kasauli Art centre durante l'”Indo-German Artists Workshop” il 1 settembre 1983, foto di Vivan Sundaram, Asia Art Archive.

Recensione di Akla Raghuvanshi e Sumita Thapar dell’esposizione “Hundred Years From the NGMA Collection”, curata da Geeta Kapur presso la National Gallery of Modern Art di Nuova Delhi nel 1994. Courtesy AAA.

 

Biennali del Sud: un bilancio degli anni Novanta

Estendendo la discussione sull’esposizione ai nuovi nuovi forum che hanno luogo al di fuori dell’accademia occidentale e dei musei di arte moderna, vorrei fare riferimento alla crescita esponenziale delle biennali/triennali situate nel circuito a Sud del Sud, alcune delle quali hanno sviluppato la propria ideologia e agenda, come anche idee curatoriali piuttosto eterodosse. Prendo in esame tre esempi pioneristici: la Biennale dell’Avana, iniziata nel 1984; Asia-Pacific Triennale, iniziata nel 1993; e la Biennale di Johannesburg, inaugurata nel 1995 (e interrotta dopo la seconda edizione nel 1997).

Dato il grande prestigio raggiunto dalla principale esposizione del Terzo mondo, la Biennale di San Paolo (iniziata nel 1951), la scommessa per un altro sito alternativo fu posta alla Biennale dell’Avana che si orientò esplicitamente all’arte del Terzo mondo (incluso, in particolare, il Sud e il Centro America, i Caraibi, l’Africa e, in misura minore, l’Asia). La Biennale dell’Avana, organizzata al Centro Wifredo Lam, con l’istigatrice Lillian Llanes, più volte in carico della direzione/curatela (seguita da una sequenza di curatori impegnati sempre di Cuba), ha proiettato la promessa di un’arte politicamente e formalmente radicale, e lo ha fatto all’interno di una limitata infrastruttura culturale e con risorse molto scarse. Il contesto internazionale era indifferente: a metà degli anni Ottanta, l’unità del Terzo mondo e lo stesso socialismo erano già diretti verso la dissoluzione finale. Cuba non era più protetta nel suo ottimismo rivoluzionario, sistematicamente impoverito dalle sanzioni statunitensi; la sua estetica era al di fuori delle fortezze erette dalla storia dell’arte accademica e lontana dal fulcro del mercato dell’arte euroamericano. Eppure: la fede intransigente dei curatori cubani è stata onorata da paesi e artisti che hanno partecipato alla Biennale dell’Avana, e l’agenda perduta del radicalismo ha ottenuto nuove provocazioni nel decennio a venire. Più precisamente, la Biennale dell’Avana ha assunto un ruolo di avanguardia per l’arte contemporanea (del Terzo mondo). Fino ad oggi, tutte le biennali del Sud, sebbene ognuna con un programma diverso, hanno un debito con L’Avana per aver anticipato il potenziale di un mondo dell’arte decentralizzato; per aver proposto che le avanguardie alternative non avessero bisogno di apporre il prefisso «neo» per ottenere l’accettazione nel canone; per aver dimostrato che l’attività dell’arte contemporanea dislocata rispetto all’Occidente diventava, per concezione, esigenza culturale e condizione predefinita, esplicitamente tendenziosa.

Cover della Terza Biennale dell’Avana, 1989.

Curatorialmente, la configurazione delle opere d’arte, ad esempio nella terza edizione della Biennale dell’Avana del 1989 [i], tendeva ad essere teatrale, dato che queste provenivano spesso da culture (caraibiche, messicane, brasiliane e africane, per esempio) con un derivato estetico dalla magia, dal rituale, dalla performance. Questa caratteristica è stata messa in gioco nella spazializzazione dell’evento: oltre al Centro Wifredo Lam che ha ospitato l’esposizione, i castelli, le fortificazioni, le piazze, le strade dell’Avana si sono aperte all’arte contemporanea. Le installazioni erano intenzionalmente pubbliche, a volte eccentriche e custodite in giardini e cortili ricchi di palme. Per quanto lo spirito dell’evento fosse carnevalesco, la presenza materiale delle opere era messa in primo piano, così come il loro slancio didattico. L’esposizione era piena di opere che commentavano la politica reale nel complesso terreno delle società sudamericane, con un riferimento diretto alle dittature nazionali e ai movimenti subalterni di dissenso e insurrezione. Cuba era (ed è) un paese sotto assedio, e la sua partecipazione a manifestazioni culturali non poteva essere altro che contestataria. Opere d’arte installate da cubani/e all’Avana rifrangono il dialogo mainstream dell’arte dal prisma della crisi cubana.

Politics-Poetics, Documenta X, a cura di Catherine David, estratto dal catalogo, 1997.

Attraverso il globo fino all’Australia: quando la Queensland Art Gallery di Brisbane inaugura L’Asia-Pacific Triennale nel 1939, [ii] la scelta calibrata di opere provenienti da questa regione – dal rituale all’ambiente alla politica – è stata rivelatrice e ha richiesto strategie di significazione e di esposizione, nelle quali dovevano essere rappresentate non solo le vulnerabilità etniche ma anche religiose. La mostra ha seguito un principio già in atto nei musei, nelle istituzioni e con i curatori australiani indipendenti, che consideravano imperativo annotare coscienziosamente gli oggetti di una società mista bianca e aborigena. Di conseguenza, nell’esercizio intellettuale e curatoriale della Triennale, le categorie del secolare e del sacro dovevano essere ripensate non – con André Malraux – nel presupposto dell’immanenza estetica di Magiciens, ma nei termini delle modalità con cui queste società affrontano i problemi all’interno di una politica democraticamente organizzata; o al contrario, nei termini di una secolarizzazione della tradizione che incide sulle problematicità relative alla cittadinanza nella politica di una nazione. In termini espositivi, l’ibrido-secolare, che affronta la particolare politica di una nazione specifica, richiede incisive strategie curatoriali. Se al pubblico generale è consentito leggere le problematiche sociali alla base di distinte iconografie culturali, l’opera d’arte chiede anche di essere collocata in termini coevi con altre, più conosciute, forme d’arte internazionali nella contemporaneità.

Discussa nel 1994 e realizzata nel 1995 proprio in concomitanza all’emergere di istanze per la liberazione del Sudafrica dal regime dell’apartheid, l’iniziativa per Africus: The Johannesburg Biennale, proveniva dall’establishment bianco delle arti, ma riconosceva di primaria importanza gli imperativi dati dal momento storico. Un gruppo di curatori, sia africani che provenienti da altre parti del mondo, viaggiarono insieme in Sudafrica e la loro selezione, allo stesso tempo regionale, «nazionale» e transculturale, includeva l’arte contemporanea nera africana (una combinazione di arte tribale e popolare urbana), opere politiche apertamente anti-apartheid di bianchi sudafricani, così come artisti internazionali il cui lavoro trova un corrispondenza con le poetiche, le allegorie, l’attualità politica del paese e della regione. [iii]

Una delle location, una vecchia centrale elettrica, forniva proporzioni abbastanza monumentali all’esercizio curatoriale. In corrispondenza della seconda edizione della Biennale di Johannesburg nel 1997, era al lavoro la Commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica; la nuova nazione stava combattendo per trovare un apparato statale democratico commisurato alla sua lunga lotta; ed era anche impaziente di entrare nel mondo come un interlocutore (già) maturo sulle questioni globali, politiche ed economiche. Se il Sudafrica dimostrava con un chiaro segnale la richiesta di una contemporaneità post-razziale, la scelta di un curatore di origine nigeriana, emigrato negli Stati Uniti, Okwui Enwezor, mostrava un’analoga ambizione. Enwezor ha guidato la seconda Biennale di Johannesburg, cogliendo la sfida africana dal punto di vista delle sue origini nero-africane, della sua ideologia postcoloniale militante e della sua visione diasporica. Nella sua Biennale, intitolata Trade Routes: History and Geography, usando il tropo della mappatura, ha spostato il discorso attraverso la voce della diaspora africana nel contesto globale, facendo avanzare il discorso dell’arte africana dentro le dimensioni transculturali della contemporaneità. Nel lavoro curatoriale di Enwezor, l’inquadramento aveva una politica definita; che ciò nonostante abbia generato un senso di alienazione del locale nel mondo dell’arte africano è un altro, più lungo, dibattito, ma le conseguenze sono state sfortunate: la «presunzione» curatoriale sembra aver portato la Biennale di Johannesburg a una fine prematura.

Politics-Poetics, Documenta X, a cura di Catherine David, estratto dal catalogo, 1997.

Negli ultimi due decenni c’è stata un’enorme proliferazione del fenomeno biennale nel Sud e nell’Est. [iv] Queste biennali hanno incontrato una critica prepotente da parte dei curatori occidentali che, ostentando meticolosità istituzionale, controllo di qualità, snobismo culturale, persino aperta derisione, hanno comunque condotto attività curatoriali in questi nuovi siti, sostenendo impunemente che un curatore di alto profilo internazionale – leggi l’egemonia occidentale – sia essenziale per collocare la città e la regione nella mappa artistica internazionale. Per rispondere, il primo punto strategico che pongo è questo: in termini pragmatici, il vantaggio di una biennale è particolarmente evidente nei paesi che non hanno una pratica museale degna di questo nome quando si tratta di arte moderna e contemporanea, dove le opportunità di entrare in contatto con l’arte internazionale sono scarse e dove le uniche «istituzioni» in via di sviluppo a ritmo pericolosamente veloce sono il mercato dell’arte e le case d’asta. Tali biennali sono state talvolta chiamate il museo dell’uomo povero (allora la Biennale di Venezia è il casinò dei ricchi?), e qui c’è del vero.

Il fenomeno biennale, che non va mai oltre il servizio di interessi personali (le biennali sono un miscuglio di spettacolo statale, egemonia culturale, interessi di mercato e commercio turistico), è al tempo stesso un sistema per creare, attraverso una forma di istituzionalizzazione provvisoria, condotte professionali di comunicazione nelle città e nei paesi che ospitano le biennali: erigono ponti tra lo Stato e la finanza privata, tra spazi pubblici ed enclave d’élite, tra artisti e altri professionisti – inclusi gruppi di giovani dediti all’attività culturale. Il secondo punto strategico è che le nuove biennali possono essere osservate per radicalizzare il discorso sull’arte contemporanea verso una posizione più investigativa, più critica, correggendo continuamente la nostra comprensione dell’«istituzione dell’arte». [v] Pertanto, mentre queste biennali che si moltiplicano a volte sembrano iniziative azzardate, dovrebbero essere esaminate seriamente per la loro ironia, follia e valore. Interpretando il più superficiale scetticismo che le nuove biennali chiamano in causa, vorrei inserire la problematica in un campo polemico più ampio, che esige di esaminare non solo questa o quella biennale per il suo immediato certificato di eccellenza, ma l’articolazione di sito, produzione e discorso nell’arte contemporanea da vari punti di osservazione privilegiata attorno al globo. [vi] Ciò che vorrei inoltre suggerire, è che il complesso dell’arte euroamericana sia oggi di fronte a ciò che equivale ad altre forme di conoscenza, altre forme di potenzialità, altre configurazioni ideologiche, così come ad altri imperativi per fare arte. È in relazione alla natura complessa dell’arte e della cultura nel contemporaneo che deve essere compresa la moltiplicazione senza precedenti delle biennali (del Sud/ dell’Est) e delle esposizioni tematiche. Questi non sono affioramenti arbitrari, sono un segno e la conseguenza di circostanze storiche.

Manu Parekh e Geeta Kapur, e (sul sofà) Suneela Patel e Nalini Malani, Kasauli Art Centre Artist Workshop, 1980. Courtesy AAA.

Foto dell’archivio personale digitalizzato di Geeta Kapur e Vivan Sundaram. Courtesy AAA.

Sfere Pubbliche Transnazionali

Il Primo, il Secondo e il Terzo mondo che hanno determinato le battaglie storiche della metà del XX secolo sono ora, a partire dal 1989, condensati in quello che è stato chiamato il nuovo Impero. Diversamente, l’interdipendenza di regioni, nazioni, città; l’embricatura delle culture «locali» all’interno del capitalismo globale; la deterritorializzazione di popoli/culture attraverso migrazioni di massa; i miracoli della comunicazione elettronica mettono in gioco la nomenclatura (ironicamente trascendente): transculturalismo transnazionale.

Il transculturalismo non è, tuttavia, una questione di libera scelta; è una condizione di scambio globale materialmente e politicamente coercitiva, anche se potenzialmente liberatoria. È quindi necessario incorporare il dibattito in quelle che i teorici politici chiamano sfere pubbliche transnazionali – il prodotto di sviluppi contrari come l’emersione di società civili postcoloniali da una parte, e della globalizzazione capitalista dall’altra. In questo spazio contestato, il dialogo critico è incentrato su questioni di violenza, potere, governance e cittadinanza. Laddove gran parte della popolazione mondiale esiste al di fuori delle comunità e delle nazioni, la cittadinanza include l’esperienza dell’esilio, sollevando la domanda: in che modo l’etica e l’estetica sono implicate nella condizione di esilio?

A livello basilare si trova una risposta statistica: c’è stato un aumento esponenziale del numero di artisti del Terzo mondo (e ora anche del Secondo mondo socialista) nelle esposizioni internazionali. Nominando la traduzione come termine chiave per l’estetica transculturale, la critica culturale designa l’artista diasporico come un tropo e una norma – colui che costruisce sia la grammatica che il discorso della contemporaneità globale e conduce il processo di negoziazione/confronto a questo scopo. Mappata da vicino e variamente configurata, l’arte internazionale non si basa più su una prospettiva centrale o su binari adesso privi di senso come centro-periferia, globale-locale. Questi cambiamenti nell’orientamento ideologico sono stati affrontati in alcune esposizioni ben concepite, come ad esempio Unpacking Europe. [vii] Su un piano più plateale, è stata Documenta 11 (Kassel, 2002), curata da Okwui Enwezor, a stabilire, attraverso il prisma del globale postcoloniale, una nuova pedagogia per mappare il mondo. In effetti, se Documenta X di Catherine David ha rimarcato nel presente il proposito di rottura critica proprio dell’avanguardia occidentale, la politica postcoloniale di Enwezor ha introdotto la svolta documentaria e una criticità politico/discorsiva (piuttosto che estetica/avanguardistica). [viii]

Okwui Enwezor con Coco Fusco invitata alla 2nd Johannesburg Biennale del 1997.

Basandosi su una premessa già stabilita dalle sue precedenti esposizioni (la seconda Biennale di Johannesburg, 1997, Trade Routes: History and Geography, e una mostra che ha attirato molta attenzione nel 2001-2002, intitolata The Short Century: Independence and Liberation Movements in Africa, 1945-1994), ha rimarcato come nessuna discussione sull’arte radicale possa avvenire senza riferimento ai parametri politici dell’antagonismo e della redenzione che emergono dal processo di decolonizzazione. Così facendo Enwezor attinge alla teoria culturale postcoloniale (che a sua volta fa riferimento a elementi di antropologia e psicoanalisi e a un marxismo molto trasformato) per stabilire nuovi paradigmi per esaminare l’etica della rappresentazione, in particolare la sua componente documentaria. Se l’estetica implica l’aspetto della rappresentatività al confine con l’immaginario, lo scrittore-curatore espande ulteriormente la rappresentatività nel simbolico: questo doppio movimento consente l’emersione di nuove soggettività portatrici di coraggiose rivendicazioni verso una nuova «sovranità».

Il progetto di Enwezor è quindi quello di determinare un punto di vista privilegiato con cui proiettare la posizione del soggetto precedentemente colonizzato, verso quella di un cittadino postcoloniale emancipato dalla lotta. È anche una sua scommessa che il discorso possa ora esistere al di fuori della nazione – il terreno «originario» dove la lotta è effettivamente condotta. La sua riflessione critica fa infatti leva sulla formazione di una cittadinanza globale che ha voce in materia di governance proprio attraverso quelle sfere pubbliche transnazionali che alimentano un discorso sui diritti umani e civili contro il potere statale. Secondo Enwezor, questo costituisce il potenziale utopico che emerge e si confronta con il nuovo Impero. Con Documenta 11 ha fondato una nuova proposizione curatoriale: un itinerario globale e una discussione interdisciplinare attraverso una serie di quattro «piattaforme» ideologicamente concepite che sono state traslocate sulla quinta piattaforma, la mostra a Kassel. Insieme, queste piattaforme hanno messo in scena visioni del mondo in larga parte mutevoli e visualmente concatenate, che hanno significato un cambiamento politico.

Geeta Kapur è la più importante storica dell’arte, critica e curatrice indiana, vive a Nuova Delhi. Tra le sue pubblicazioni: Contemporary Indian Artists (Delhi, 1978), When was Modernism: Essays on Contemporary Cultural Practice in India (Delhi, 2000). La sua attività curatoriale comprende, oltre a numerose mostre in India: Dispossession, First Johannesburg Biennial, 1995; Century City: Art and Culture in the Modern Metropolis, Tate Modern, Londra, 2001; subTerrain: artworks in the cityfold at the House of World Cultures, Berlino, 2003. È stata membro della giuria internazionale della 51a Biennale di Venezia, della 9a Biennale di Dakar, 2006 e di Sharjah Biennal, 2007. Fa parte dell’Asia Art Council e del board del Guggenheim Museum, New York. È tra i founder-editors del Journal of Arts & Ideas e advisory editor di Third Text e Marg. Ha tenuto conferenze in tutto il mondo in contesti universitari e museali e ha ottenuto fellowships presso l’Indian Institute of Advanced Study, Shimla, Clare Hall, University of Cambridge, Nehru Memorial Museum and Library, Delhi, la Jawaharlal Nehru University e l’Università di Delhi.

L’immagine di copertina è un particolare dell’opera Re-take of Amrita, New Delhi, 2001, di Vivan Sundaram, artista e compagno di Geeta Kapur.

note

[i] È un fatto sorprendente che l’iniziativa del Sud sul fronte della Biennale vada da San Paolo all’India (la Triennale-India iniziata nel 1968, prosegue poi su base occasionale), seguita da Asian Art Biennale, Bangladesh (iniziata nel 1981, continua con più regolarità). La storia del concetto inaugurale che ha ispirato la Triennale-India, e quindi il suo irreversibile declino, necessita di essere raccontata in un’esposizione separata. La Biennale dell’Avana del 1989 si è guadagnata la reputazione di essere uno dei più importanti progetti espositivi dei tempi contemporanei. Su una nota personale, sono stata invitata a parlare a questo evento da Gerardo Mosquera, nel team curatoriale e coordinatore della conferenza della Biennale. Qui ho fatto la mia prima conoscenza diretta con l’arte latino-americana e anche con intellettuali radicali della scena, come Gerardo Mosquera e Desidario Navarro (Cuba), Nelly Richard (Cile), Luis Camnitzer (Uruguay/USA), Gustave Buntix (Perù). Ho anche incontrato un certo numero di artisti-interlocutori africani e asiatici della diaspora come Gavin Jantjes e Shaheen Merali. Molte di queste figure hanno continuato a cambiare i lineamenti della storia dell’arte contemporanea.

[ii] La Biennale di Sydney, iniziata nel 1973, ha puntato sul collegamento diretto dell’Australia con il mondo dell’arte euroamericano.

[iii] Sapendo che la sfida culturale in Africa è complessa, derivante dalla «differenza» costituita da tribù disparate e divisioni quasi irrecuperabili di razza e classe; e che la scena artistica mette in atto modalità corrispondenti di rappresentazione/ contestazione che devono essere anticipate, c’è stato uno sforzo cosciente per aprire e trasmettere pratiche artistiche da diversi luoghi. Come uno dei numerosi co-curatori di Africus, ho avuto un’esperienza diretta di questo ottimistico evento; dopo aver viaggiato e tenuto conferenze con altri curatori internazionali, ho mostrato il lavoro di quattro donne artiste: Nalini Malani, Nilima Sheikh, Pushpamala N e Sheela Gowda, intitolando la sezione Dispossession.

[iv] Sin dagli anni Cinquanta, a partire da quella di San Paolo, esistono biennali al di fuori dell’Occidente. Dagli anni Novanta si è verificata una moltiplicazione senza precedenti, soprattutto in Asia orientale e, a un ritmo più lento, in Asia occidentale, Africa e Sud America. Ne cito alcune (biennali e triennali) che hanno avuto inizio negli anni Novanta nell’ampia regione del Sud: Dak’Art Biennale of Contemporary African Art, Dakar (iniziata nel 1992); Biennale di Taipei (iniziata nel 1992); Biennale di Johannesburg (iniziata nel 1995, interrotta dopo il 1997); Biennale di Gwangju (iniziata nel 1995); Biennale di Shanghai (iniziata nel 1996, diventata internazionale nel 2000); Fukuoka Asian Art Triennale (iniziata nel 1998). Dieci anni dopo, nel 2005, ci sono state, inoltre, la tanto discussa Biennale di Arte Contemporanea di Mosca, la II Triennale Internazionale di Arte Contemporanea di Yokohama, la II Biennale Internazionale di Arte di Pechino, la III Triennale di Arte Asiatica di Fukuoka, la VII Biennale di Sharjah, l’VIII Biennale di Yogyakarta, la IX Biennale di Istanbul, la X Biennale del Cairo. E così via. La Biennale di Singapore e la Biennale di Luanda in Angola sono nate nel 2006 e, nello stesso anno, la già consolidata Biennale di Sydney ha cambiato rotta per approfondire le Zones of Contact al di fuori dell’Occidente – specialmente attraverso l’Europa orientale, l’Asia centrale e occidentale. Questo era complementare alla visione matura della (V) Asia-Pacific Triennial del 2007; e ha anticipato il 2008, anno in cui i principali curatori sono stati invitati a guidare biennali asiatiche più vecchie e più recenti: Okwui Enwezor per la Biennale di Gwangju in Corea; Vasif Kortun e Manray Hsu per la Biennale di Taipei; Gao Shiming, Sarat Maharaj e Johnson Tsong-zung per la III Triennale di Guangzhou in Cina. In effetti, questa efflorescenza regionale è sembrata «competere» con il grand tour in Europa dell’estate 2007, quando Documenta 12, la LII Biennale di Venezia e l’edizione decennale di Münster si sono svolte contemporaneamente.

[v] Accanto agli elenchi, ecco la natura del discorso biennale in un solo anno: il 2005. Charles Merewether, storico dell’arte e curatore, nel gennaio 2005 a una conferenza a Nuova Delhi (intitolata The Making of International Exhibitions: Siting Biennales) ha parlato riguardo alle biennali di siti in cui vengono presentati esperimenti con improbabili simultaneità con opere d’arte transculturali e in cui un’interrogazione della contemporaneità, in quanto tale, viene condotta utilizzando una metodologia disegnata da una avanzata teoria culturale in sintonia con i rapidi cambiamenti del contesto politico mondiale. I musei di arte moderna e contemporanea, d’altra parte, sono legati dalle strutture ancora conservatrici della storia dell’arte occidentale istituzionalizzata. Ha dimostrato l’efficacia della sua posizione come direttore artistico della Biennale di Sydney del 2006 (Zones of Contact). Charles Esche, co-curatore della IX Biennale di Istanbul (2005), durante una conferenza (intitolata Biennalicity) ai tempi della VII Biennale di Sharjah, ha sottolineato la necessità di sfidare la sfera pubblica borghese e ha citato Chantal Mouffe (The Democratic Paradox) che racconta dello spirito di agonismo – una relazione tra avversari, nemici amichevoli, che condividono uno spazio simbolico comune e contestano diverse forme della sua organizzazione. Ha suggerito che la serie emergente di biennali «planetarie» può contribuire a una critica reciproca delle due istituzioni: il museo inquadrato dalla (occidentale) sfera pubblica borghese e la biennale, una manifestazione spettacolare simile a un evento all’interno dello scambio transculturale, o quella che altri curatori, come Okwui Enwezor, considerano essere la sfera pubblica, «definita» da un ethos postcoloniale verso una democratica piuttosto che egemonica forma di transnazionalismo. È significativo che tali forme di discorso radicale siano penetrate nei circuiti espositivi delle cittadelle d’Europa, come Venezia: Rob Storr, direttore della LII edizione della Biennale di Venezia (2007), ha anticipato l’evento con una conferenza nel 2005, riunendo alcuni dei maggiori storici e critici d’arte e in particolare i curatori delle biennali più radicali in tutto il mondo per discutere di questo fenomeno proliferante ai giorni nostri. Vedi gli atti della conferenza Where Art Worlds Meet: Multiple Modernities and the Global Salon, Simposio internazionale della Biennale di Venezia, 2005, Istituto veneto di scienze lettere ed arti, Marsilio, Venezia 2007.

[vi] La biennale può essere un’occasione per impegnarsi in una mappatura cognitiva di culture complesse e regioni distinte: curatori come Gerardo Mosquera (Cuba) e Paulo Herkenhoff (Brasile) hanno modellato la visione e il discorso per l’altamente eterogenea regione del Sud; molto più tardi, Jack Persekian (Palestina) lo ha fatto per il mondo artistico arabo da Sharjah/Emirati Arabi. E mentre la Queensland Art Gallery di Brisbane conserva il corso curatoriale della Asia-Pacific Triennial come affare museale, si avvale di una vasta esperienza nella regione. L’attenzione alla città ospitante è stata tra le caratteristiche più importanti del fenomeno biennale; un esempio chiave è la Biennale di Istanbul del 2005 con i co-curatori Vasif Kortun e Charles Esche che assieme agli artisti hanno esplorato gli interstizi della città per «nascondere» come anche per rivelare opere d’arte a un pubblico involontario. Al contrario, la città/Stato confinata di Singapore diventa un vero e proprio giardino di delizie sotto la curatela di Fumio Nanjo (2006-08). Queste mostre si rivolgono anche a forme più project-oriented, più discorsive, più attiviste. La Triennale di arte contemporanea di Yokohama, nel 2005, era quasi interamente collettivista e basata su progetti. I curatori (Gao Shiming, Sarat Maharaj e Johnson Tsong-zung) della III Triennale di Guangzhou in Cina, 2007, hanno provocato un discorso su un’intera epoca con il titolo Farewell to Post-colonialism. Nel 2007, la II Biennale di Riwaq (sostenuta dal Centre for Architectural Conservation, Ramallah, curata da Khalil Rabah) ha riunito architetti, artisti, ambientalisti, progettisti, curatori e teorici locali e internazionali, con l’obiettivo di proteggere e promuovere il patrimonio culturale in Palestina; mentre per la III Biennale di Riwaq, i curatori, Charles Esche e Reem Fadda, hanno scelto luoghi e piattaforme nel centro storico e nei villaggi, per presentare interventi temporanei, assembramenti e costruzioni di possibili scenari per il futuro di una regione inevitabilmente spaccata sul piano politico e culturale.

[vii] Vedi Unpacking Europe: Towards a Critical Reading, a cura di S. Hasan e I. Dadi, Museum Boijmans Van Beuningen-Nai Publishers, Rotterdam 2001.

[viii] Vedi l’introduzione di Enwezor e i saggi del team di Documenta e altri autori, in Documenta 11_Platform 5: Exhibition Catalogue, Hatje Cantz Publishers, Ostfildern-Ruit 2002. Precedentemente all’esposizione, il team di Documenta 11 organizzò una serie di simposi (Platforms 1-4) a Vienna, New Delhi, St. Lucia/Caribbean e Lagos, ciascuno pubblicato anche come libro: Democracy Unrealized; Experiments with Truth: Transitional Justice and the Processes of Truth and Reconciliation, Creolité and Creolization; Under Siege: Four African Cities, Freetown, Johannesburg, Kinshasa, and Lagos (Hatje Cantz Publishers, Ostfildern-Ruit 2002).

 

 

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *