«C’è che non esistono donne compositrici e perciò lavoro soprattutto nelle gallerie»
Pittrice, danzatrice, insegnante di yoga e polistrumentista, fra le pochissime presenze femminili che tra i ‘60 e ‘70 si dedicarono all’elettronica sperimentale in Italia – e in generale fra le pochissime donne attive sulla scena musicale in quegli anni – Franca Sacchi è “un’artista del comportamento comportamentista” come l’ha definita Umberto Eco. Assistente presso il primo centro dedicato alla ricerca elettronica ed elettroacustica, lo Studio di Fonologia RAI di Milano, nonostante non figurasse nella lista ufficiale dei compositori, qui conobbe Luciano Berio, Luigi Nono e John Cage, tra gli atri. Dal 1966 al 1975 lavora essenzialmente nel campo della musica elettronica e concreta creando composizioni, organizzando conferenze e dibattiti. Nel 1968 fonda a Milano il Centro Ricerche Musica Elettronica e lo dirige fino al 1970. Il suo percorso artistico è attraversato da una complessa indagine interdisciplinare, con concerti di danza e improvvisazione, performance e numerose collaborazioni nelle arti visive con artisti (Michelangelo Pistoletto, Ugo La Pietra, Paolo Scheggi, Emilio Isgrò) e compositori (Giuseppe Chiari, Giancarlo Cardini).
In un contesto sociale e professionale che escludeva sistematicamente le donne dalla sfera pubblica dichiarandone la costitutiva incapacità per la creazione musicale, Franca Sacchi fondava negli anni Settanta Rivolta 3, un gruppo femminista fra i più radicali per denunciare la mancanza di visibilità e dimostrare l’inesistenza di differenze di genere nel campo musicale e nelle sue applicazioni creative, contro qualsiasi forma di discriminazione e di oppressione artistica.
Il 21 settembre del 1969 partecipa all’evento Campo Urbano. Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana a cura di Luciano Caramel, Ugo Mulas e Bruno Munari con la Marcia funebre o della geometria insieme a Paolo Scheggi.
Franca Sacchi campo sonoro, frame della video-intervista realizzata da Greta Pasini, settembre 2019.
Franca Sacchi campo sonoro, frame della video-intervista realizzata da Greta Pasini, settembre 2019.
Greta Pasini: Dalla fine degli anni Sessanta fino a poco prima della morte di Paolo Scheggi, il vostro rapporto di collaborazione ha prodotto molte ideazioni innovative nel campo delle arti sperimentali. Potrebbe parlarmene?
Franca Sacchi: Abbiamo avuto molte collaborazioni e fin dai primi momenti in cui ci incontrammo, abbiamo approfondito il nostro comune interesse per il rito, l’esoterismo insieme alla sacralità legata alle pratiche creative e di sperimentazione artistica. Io tengo ben presente nella mia attività i possibili diversi livelli: un livello di gratificazione personale (caratteristica solitamente propria a tutti gli artisti) che normalmente hanno bisogno di rassicurazioni costanti, grazie allo svolgersi quasi ossessivo della propria attività. Un altro livello riguarda l’aspetto sociale, in cui è possibile fare rientrare tutte le cerimonie ma non i riti (la differenza tra i due è molto grande), infatti la cerimonia prevede che ci sia sempre una figura che faccia da tramite tra le persone e una divinità, questo accade sia nelle cerimonie politiche sia in quelle religiose.
Nel rito invece non è necessario nessun mediatore che si ponga da tramite tra un principio assoluto e il singolo individuo o un gruppo di persone. Attraverso il rito quindi, è possibile avvicinarsi in modo più diretto a ciò che può essere definito “reale”. Io non sono religiosa o credente, ma tutta la mia musica in qualche modo ha delle valenze spirituali, ogni mia produzione musicale (compresa quella svolta per Marcia funebre o della geometria), prevede un raggiungimento di un ideale e la ricerca della realtà ultima. Non a caso spesso ad ogni mia composizione musicale do il titolo Nostalgia di assoluto oppure Desiderio di assoluto. Io e Paolo Scheggi indagammo molto questi aspetti filosofico-religiosi oltre che il concetto di Mito e vari altri archetipi.
Paolo Scheggi e Franca Sacchi, Marcia funebre o della geometria, passione secondo Paolo Scheggi, musiche di Franca Sacchi, Campo Urbano, Como, 1969.
GP: Nel testo critico Marcia funebre o della geometria, passione secondo Paolo Scheggi e Franca Sacchi pubblicato sul catalogo di “Campo Urbano” ed edito da Cesare Nani nel 1970, sono evidenti le indagini legate all’esoterismo, alla morte ma anche al controllo operato dalle istituzioni sulla società. In che modo la vostra azione criticava e problematizzava questi aspetti?
FS: La nostra azione ha affrontato una serie di elementi fondamentali e utili a scardinare i luoghi comuni oltre quelle pratiche insensate ed empiricamente massificanti, che con il boom economico a partire dagli anni ‘60 in Italia, iniziarono a sottrarre le masse dalle cerimonie comuni o popolari. Nel corso della storia queste servivano ad affinare la comprensione più sensibile del mondo. In seguito inoltre ho conseguito il magistero in canto Gregoriano e musica sacra. Il canto gregoriano è una forma musicale capace di fare emergere vibrazioni inconsce profonde e dall’aura misteriosa. Questo mi fa pensare a come sia sempre stato importante per me, anche nel contesto dell’ideazione della “Marcia funebre…”, sottolineare e indagare le venature di mistero proprie dei riti e delle cerimonie. In quel contesto, il mistero emerse in forma di contrasto: dal momento che la gente era moltissima e la fatica vissuta dagli attori, incaricati di trasportare quelle grosse figure geometriche in processione tra la folla, faceva nascere una riflessione sull’opposizione che esiste tra l’equilibrio rappresentato dagli elementi geometrici e il flusso instabile e mutevole delle persone che presero parte a quell’evento.
La marcia non voleva dare morte simbolica alla geometria, piuttosto voleva esaltare in modo suggestivo l’asimmetria oltre che la progettazione, dal momento che l’alternanza fra le due permette ad entrambe di convivere e compensarsi. Musicalmente parlando, l’assenza d’equilibrio espressa della melodia che avevo composto per la marcia, era innescata dalla ripetizione di pochissime note musicali, solo quattro note che si ripetevano per venti minuti circa. In quel periodo c’era una grande attenzione per la ripetitività, e questo perché ogni cosa se ripetuta, porta ad elevarsi sopra essa, e così sembrò accadere con la piazza, le persone, i nostri ideali…
GP: Quale fu la sua percezione in merito alla partecipazione del pubblico?
FS: Percepivo entusiasmo, divertimento. La gente partecipava con molta curiosità, e con il desiderio di comprendere anche i messaggi indiretti che la performance veicolava. Sicuramente il nostro intento di destare l’attenzione nel pubblico al fine di creare un cortocircuito tra passato, presente, simboli storici, sociali, ma anche di reinterpretazione dello spazio condiviso, aveva funzionato nonostante per alcuni rimaneva una marcia funebre, tanto da portare alcune persone a fare il segno delle corna come gesto scaramantico.
GP: Lei è stata una delle prime a sperimentare la musica elettronica in Italia in quegli anni, che cosa la spinse a farlo?
FS: L’ho fatto curiosità, sapendo fare tutto quello che volevo nel campo della musica classica e accademica (avendo iniziato a studiarla fin da molto piccola), volevo affrontare nuovi strumenti, nuove modalità di composizione. Nel contesto di “Marcia funebre o della geometria” mi lanciai nella sperimentazione assoluta. In quel periodo si dava valore a qualsiasi suono, ogni oggetto o essere vivente diventava strumento musicale, a cui poter applicare dei microfoni con cui sintetizzare i suoni e riprodurli. Ma poi la musica elettronica mi annoiò: era possibile fare qualsiasi cosa infinitamente, e quindi mi spense a voglia di “fare”.
Mi viene in mente un viaggio che feci anni fa: avevo organizzato un seminario itinerante nel deserto del Sahara, con il mio gruppo di allora. Partimmo dall’oasi di Ghardaia con sei Land Rover, una di queste piena di pezzi di ricambio utili in caso di guasto, attrezzature varie e le provviste necessarie per sopravvivere nel deserto della valle dello M’Zab. L’autista della mia macchina fumava come un turco e dopo la prima pausa in cui ci fermammo a bere, quando ripartimmo lasciammo la pista e quindi iniziò il cammino fuori strada. L’autista come un pazzo si mise a guidare sgommando e dando gas a tutta mano in tutte le direzioni senza una meta precisa. Dopo questo momento di grande euforia e follia dato dal fatto di non avere più una strada da seguire, divenne triste e depresso, tutta l’energia manifestata sfumò di fronte alla possibilità. Ciò mi fece capire perché si era spenta anche la mia creatività con la musica elettronica. Mi erano necessari dei limiti contro i quali scontrarsi ed eventualmente superarli. E così sono tornata al pianoforte.
GP: Le pongo questa domanda rifacendomi a un interrogativo che si pose Giano Accame, in merito al lavoro di Paolo Scheggi: “Il fluido, l’effimero, il precario e l’elementare possono anche essi essere frutto di una rigorosa progettazione.” Oppure lei pensa che l’istintività d’approccio alle forme d’espressione artistica possa scaturire esclusivamente dalla pura improvvisazione?
FS: Per me è sempre stata valida la frase in latino: “Sine traditiones, nulla veritas”. Ho sempre trovato fondamentale affrontare ed interrogarmi sulla questione dei limiti e la definizione del mio lavoro, qualsiasi esso fosse e in ogni modalità tramite cui lo attualizzassi. Credo che chiunque voglia fare qualcosa di nuovo, togliendosi dal rischio di cadere nella sola ideazione di trovate effettistiche (tanti artisti ne sono condizionati producendo arte anche a costo di diventare dissacranti per la propria interiorità), dovrebbe lavorare in profondità per capire quale sia il percorso migliore per realizzare al meglio il proprio lavoro. Quindi più che giustificazioni ideologiche o culturali, è importante restituire al concetto di improvvisazione la corrispondenza alle proprie tradizioni, alla propria natura, sempre capaci di orientare al meglio la propria autenticità. È importante cercare di essere sé stessi anche nel mutamento. Per questo ora mi dedico solo all’improvvisazione. Ognuno di noi potrebbe pensare che la tradizione sia limitante, ma ho sempre trovato questa componente molto stimolante. Essere capaci di rinnovare qualcosa pur rimanendo attaccati alla continuità della propria vita. Il potere dell’effimero esiste nella misura in cui diventa portavoce del cambiamento intrinseco ad ogni forma di pratica culturale e della sua costante ridefinizione.
GP: Sempre a partire dalla fine degli anni Sessanta ha dato origine ad altre espressioni artistiche e di ricerca interiore, che continua ad affinare tutt’oggi: lo yoga, la danza e la pittura, per le quali il concetto di arte En-statica acquisisce un valore unico. Potrebbe approfondirlo?
FS: In passato scrissi un testo critico in cui mi ribellavo all’idea pseudo-religiosa e settaria che si nascondeva in quel periodo dietro alcuni movimenti femministi, la loro necessità di categorizzarsi mi sembrava falsata e senza la giusta prospettiva. Io ho adottato questa definizione inventata da Mircea Eliade, che la formulò a partire dal greco “EN” (che significa dentro), che differisce da “IN”, in quanto potrebbe rivolgersi a tante forme di introspezione. En-statico è il mio approccio creativo e di conoscenza interiore, per cui la ricerca della mia interiorità è passata in primo luogo dall’organizzazione dei suoni, e poi all’organizzazione di me stessa.
Qualunque cosa avessi fatto in futuro, avrei comunque espresso questa organizzazione. Con arte En-statica intendo quell’arte che parte dalla persona, che possa imparare a conoscersi nel profondo della propria essenza sapendo individuare ciò che è stato acquisito da fuori, dal mondo, rispetto a ciò che lo ha formato in modo viscerale. L’arte dovrebbe sempre condurre l’individuo a riconoscere le maschere sociali per poi dissolverle e raggiungere eventualmente i principi universali.
Paolo Scheggi e Franca Sacchi, Marcia funebre o della geometria, passione secondo Paolo Scheggi, musiche di Franca Sacchi, Campo Urbano, Como, 1969.
Su “Marcia funebre o della geometria” azione di Paolo Scheggi e Franca Sacchi
Il 21 settembre del 1969 si svolse a Como un evento polimorfo: Campo Urbano. Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana a cura di Luciano Caramel, Ugo Mulas e Bruno Munari. In quella giornata ogni luogo del centro storico di Como venne invaso da una serie di interventi artistici radicalmente partecipativi. Vennero coinvolti una cinquantina di creativi e artisti, molti di loro conosciuti oggi a livello internazionale e tra cui spiccano i nomi di Ugo la Pietra, Enrico Baj, Gianni Colombo e Gianni Pettena.
Alle 22.00 di quella giornata, venne fissato l’ultimo evento che vide lo svolgersi di una performance complessa ed enigmatica: Marcia funebre o della geometria con la regia di Paolo Scheggi, le musiche di Franca Sacchi, le voci di Elena Vicini e Giampiero Bianchi. L’immediatezza dell’evento performativo era combinata alla profonda necessità da parte di Paolo Scheggi e di Franca Sacchi di sovvertire la classica modalità di fruire gli spazi pubblici insieme alla necessità di invogliare le persone a partecipare a nuove modalità di percezione multi-sensoriale dell’arte. Alessandra Acocella si esprime in merito a tutte le azioni svoltesi quel giorno di settembre scrivendo: “La realtà urbana viene quindi interpretata come spazio da sovvertire, criticare, svelare in tutte le sue contraddizioni e aporie legate al vivere comune, ricercando un rapporto di stimolazione critica ludico-ironica e provocatoria con la popolazione.
La Marcia funebre o della geometria conduceva una linea drammaturgica tipica dell’azione teatrale e fu progettata per poter essere realizzata in qualsiasi spazio aperto del mondo. L’azione era suddivisa in quattro momenti e sei movimenti dove la performance veniva scandita da suoni, proiettori, distorsioni vocali, danze e gesti. I protagonisti dell’azione venivano annunciati con nomi che richiamavano diverse figure geometriche ed ogni elemento era pensato per suggestionare il pubblico: gli attori indossavano costumi simili a quelli delle sette massoniche e performavano a turno reggendo e facendo vacillare grosse figure geometriche di carta.
I testi utilizzati da Scheggi per la stesura dei dialoghi e del copione portano a domandarsi quale fosse il significato delle complesse associazioni letterarie. Qui distinguiamo il primo e il terzo momento con i nove punti di Ulrico Molitoris, insieme all’enunciazione delle usanze omicide e peccaminose perpetrate dalla stregoneria e le riflessioni sul coincidere d’essenza degli angeli con il diavolo. Il secondo momento con “il tempo come condizione” da Christopher Marlowe, il quarto momento con “il tempo come catarsi” estratto dalla Bibbia. Risulta naturale notare come la pianificazione, la schematizzazione e il rigore nel progettare tutto l’evento fosse in forte contrasto con il contenuto dei testi appena citati, inerenti a tematiche onirico-religiose. È possibile pensare che l’azione venne realizzata nel tentativo di sfuggire al ‘carnevale cosmopolitico’ e dall’essere vissuta da spettatori distaccati incapaci di partecipazione o coinvolgimento.
Il 1967/68 fu un periodo cruciale per gli sviluppi dei percorsi già intrapresi da Scheggi, il quale si confrontava con tanti fermenti nella realtà artistica internazionale come il cinema, il teatro, la musica sperimentale, la poesia visiva e concreta e la danza, fornendo sempre nuove visualizzazioni formali per la interpretazione sperimentale della spazialità. La ricerca per la progettazione totale dello spazio si intensificò per Scheggi con alcune collaborazioni per il Teatro Piccolo di Milano o il teatro di Grotowsky.
In alcuni suoi appunti del 1964 Scheggi scrive: “Il concetto di progettazione totale, trae le sue origini spirituali ma non metodologiche, in quella serie di trasformazioni che l’architettura ha subito dal cominciare del primo decennio del secolo. Da de Stijl al Bauhaus, dal gruppo lombardo del ’35 alla progettazione integrata, si sono avute infatti una serie di proposte che hanno avuto per denominatore comune il lavoro in ‘team’ di più differenti discipline. Un lavoro coordinato in cui fossero stabiliti a priori i termini e i criteri del progettare”.
Paolo Scheggi e Franca Sacchi, Marcia funebre o della geometria, passione secondo Paolo Scheggi, musiche di Franca Sacchi, Campo Urbano, Como, 1969, foto di Ugo Mulas, archivio Lia Rumma.
Con Marcia funebre o della geometria lo spettatore doveva essere portato, a riformularsi nella propria capacità di introiezione dei contenuti visivi, ripristinando la ritualità e le pratiche di condivisione attraverso la rivalutazione spaziale della dimensione urbana collettiva. La marcia innescava un ribollire perpetuo di iconografie e linguaggi appartenuti al passato, in cui parole di paura, speranza, discriminazione e fantasia servivano ad innescare un nuovo (in quanto gradualmente dimenticato), interesse ermeneutico. Innalzare sul podio usi e costumi mitizzanti per evadere dal sistema capitalistico imperante capace di trasformare la meraviglia del torbido umano in una sorta di cinica spettacolarizzazione degli eventi.
La morte (in senso simbolico) risulta un altro aspetto costituente nella ricerca di Paolo Scheggi, che fornisce un’ulteriore possibilità interpretativa alla sua ricerca. Successivamente alla produzione delle Intersuperfici modulari, Scheggi si dedicò quasi interamente alla sperimentazione artistica interdisciplinare utilizzando la dialettica vita e morte.
Lara Vinca Masini esprime alcune perplessità in merito all’uso da parte di Scheggi del medium teatrale: “è indubbio che tra le ricerche artistiche attuali e il teatro ci siano oggi molte possibilità d’intesa, proprio per la necessità dell’operazione artistica di proiettarsi sempre più in una dinamica che si proponga come vita, ma non sono del tutto convinta invece, che il teatro sia questo e che dunque il teatro sia la strada giusta per l’arte figurativa”. Le sue opere comunicano nell’ampiezza dei temi a lui cari, alla programmazione rigida nel suo lavoro artistico Giano Accame risponde che viene bilanciata dallo sfuggire da categorizzazioni. “Scheggi ha scelto l’arte non soltanto per vivere con intensità il poco tempo che gli era concesso, ma per compiere con estrema lucidità l’esperienza ineluttabile della morte. Forse e perciò una delle sue opere ultime e più pensate è Il monumento tombale delle forme geometriche, simbolo dell’estrema contraddizione tra l’immortalità teorica e l’inevitabile morte storica delle idee”.
La produzione delle sue opere raggiunge il culmine in modo circolare, ricongiungendosi ai primi momenti della sua attività. Di questo se ne ha testimonianza ad esempio in alcuni sintetici appunti datati 1962, in cui tutto viene predetto, appunti filosofici e insolitamente poco tecnici, dove i limiti vengono respinti nell’invocazione della libertà e della felicità: “L’uomo, si è scoperto un caso assurdo e ingiustificabile, e nella sua condanna ha voluto riconoscersi libero. Se non c’è altro da fare, se la sola verità è la negazione, io propongo di negare almeno la negazione di noi stessi. La felicità (ha detto Marx), è un’idea nuova in Europa e nel mondo!”
Queste contraddizioni erano da lui viste nel segno della costante ricerca d’innovazione, dove la vitalità caratteristica del decennio in cui visse profetizzava il ritorno del senso della morte ma dal punto di vista della vita. Bruno Corà parla della “lucidissima trasgressione di Scheggi nei confronti delle ideologie del nostro tempo” notando come molte delle sue opere fossero collegate all’idea di cerimonia e all’agire del mito sul nostro tessuto sociale, ovvero che “l’ideologia sta mutando in un sistema mitologico”.
Nell’intervista che ho realizzato con Franca Sacchi, questo aspetto viene esposto ampiamente, sottolineando come per entrambi fosse necessario attribuire alle proprie ricerche, valenze filosofiche, rituali e spirituali. Specialmente nella ideazione di Marcia funebre o della geometria e Dies Irae, inquisizione secondo Paolo Scheggi e Franca Sacchi realizzata nello stesso anno, e strutturata in tre momenti, la quale venne messa in scena a Varese, a Milano e a Firenze, e dove la morte era inscenata come trionfo dell’esistenzialismo.
In ultima analisi potremmo realmente dare credito al pensiero condiviso da molti che vedrebbe la Marcia funebre o della geometria come una sorta di funesta premonizione della morte di Scheggi avvenuta nel 1971. In un articolo pubblicato nel 2015 su Flash art, Alberto Mugnaini si espresse in merito ricollegandosi al vero funerale, scrivendo: “… e quando, pochi mesi dopo, si svolse a Roma il funerale di Paolo Scheggi, predisposto e “programmato” dall’artista come un’estrema opera in absentia, tra musiche di Chopin e aromi di rose sfiorenti nella calura di prima estate, si ebbe quasi l’impressione, secondo la testimonianza di Vincenzo Agnetti, di assistere a un falso, a “una copia della copia… realtà come ripercorso di una recente simulazione… recuperata solo dalle ordinate valenze dell’apparire e sparire nella geometria dell’essere”.
Greta Pasini e Franca Sacchi, settembre 2019.
L’intervista e il testo sono stati realizzati per il corso di Museologia tenuto da Luca Cerizza al Biennio Specialistico in Arti Visive e Studi Curatoriali presso NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e come approfondimento in occasione del convegno e della mostra documentaria Campo Umano – Arte pubblica 50 anni dopo, a cura di Luca Cerizza e Zasha Colah, organizzati dalla Fondazione Antonio Ratti, che celebra e rievoca il cinquantesimo anniversario di Campo Urbano, la manifestazione artistica, a cura di Luciano Caramel con Ugo Mulas e Bruno Munari, che radunò molti giovani artisti delle più diverse tendenze per occupare gli spazi pubblici del centro storico di Como il 21 settembre 1969 per l’intera giornata.
Greta Pasini è nata a Bologna nel 1992, città a cui rimane legata e che accresce la sua formazione poliedrica nel campo delle arti visive e degli studi socio-culturali. Dopo la laurea presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna in Antropologia, religioni e civiltà orientali inizia, nel 2018, il biennio specialistico in Arti visive e Studi Curatoriali presso NABA (Milano). La sua ricerca spazia tra tutte queste discipline da cui trae costanti stimoli per attività curatoriali, di critica e di approfondimento sull’attualità delle arti contemporanee. Tra le sue ultime ricerche e collaborazioni, partecipa come artista e curatrice al ciclo di residenze del programma Dono, Cammino ideato dall’artista G. Olmo Stuppia all’interno della piattaforma Cassata Drone Expanded Archive (Palermo, agosto 2019). Ha scritto e recensito gli spazi e studi d’artista aperti a Milano in occasione di Walk-in Studio (giugno, 2019), e partecipato alle attività di mediazione culturale per la mostra: Il soggetto imprevisto – 1978 arte e femminismo in Italia presso FM centro per l’Arte Contemporanea di Milano.
Le Immersioni Franca Sacchi e Ugo La Pietra
Franca Sacchi, Danza, mia cara, 1971 [early electronic, experimental, musique concrète]
Pittrice, danzatrice, insegnante di yoga e polistrumentista, fra le pochissime presenze femminili che tra i ‘60 e ‘70 si dedicarono all’elettronica sperimentale in Italia – e in generale fra le pochissime donne attive sulla scena musicale in quegli anni – Franca Sacchi è “un’artista del comportamento comportamentista” come l’ha definita Umberto Eco. Assistente presso il primo centro dedicato alla ricerca elettronica ed elettroacustica, lo Studio di Fonologia RAI di Milano, nonostante non figurasse nella lista ufficiale dei compositori, qui conobbe Luciano Berio, Luigi Nono e John Cage, tra gli atri. Dal 1966 al 1975 lavora essenzialmente nel campo della musica elettronica e concreta creando composizioni, organizzando conferenze e dibattiti. Nel 1968 fonda a Milano il Centro Ricerche Musica Elettronica e lo dirige fino al 1970. Il suo percorso artistico è attraversato da una complessa indagine interdisciplinare, con concerti di danza e improvvisazione, performance e numerose collaborazioni nelle arti visive con artisti (Michelangelo Pistoletto, Ugo La Pietra, Paolo Scheggi, Emilio Isgrò) e compositori (Giuseppe Chiari, Giancarlo Cardini).
Franca Sacchi in concerto alla Galleria ALA di Milano © www.francasacchi.it.
In un contesto sociale e professionale che escludeva sistematicamente le donne dalla sfera pubblica dichiarandone la costitutiva incapacità per la creazione musicale, Franca Sacchi fondava negli anni Settanta Rivolta 3, un gruppo femminista fra i più radicali per denunciare la mancanza di visibilità e dimostrare l’inesistenza di differenze di genere nel campo musicale e nelle sue applicazioni creative, contro qualsiasi forma di discriminazione e di oppressione artistica.
Il 21 settembre del 1969 partecipa all’evento Campo Urbano. Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana a cura di Luciano Caramel, Ugo Mulas e Bruno Munari con la Marcia funebre o della geometria insieme a Paolo Scheggi.
Franca Sacchi campo sonoro, frame della video-intervista realizzata da Greta Pasini, settembre 2019.
Franca Sacchi campo sonoro, frame della video-intervista realizzata da Greta Pasini, settembre 2019.
Greta Pasini: Dalla fine degli anni Sessanta fino a poco prima della morte di Paolo Scheggi, il vostro rapporto di collaborazione ha prodotto molte ideazioni innovative nel campo delle arti sperimentali. Potrebbe parlarmene?
Franca Sacchi: Abbiamo avuto molte collaborazioni e fin dai primi momenti in cui ci incontrammo, abbiamo approfondito il nostro comune interesse per il rito, l’esoterismo insieme alla sacralità legata alle pratiche creative e di sperimentazione artistica. Io tengo ben presente nella mia attività i possibili diversi livelli: un livello di gratificazione personale (caratteristica solitamente propria a tutti gli artisti) che normalmente hanno bisogno di rassicurazioni costanti, grazie allo svolgersi quasi ossessivo della propria attività. Un altro livello riguarda l’aspetto sociale, in cui è possibile fare rientrare tutte le cerimonie ma non i riti (la differenza tra i due è molto grande), infatti la cerimonia prevede che ci sia sempre una figura che faccia da tramite tra le persone e una divinità, questo accade sia nelle cerimonie politiche sia in quelle religiose.
Nel rito invece non è necessario nessun mediatore che si ponga da tramite tra un principio assoluto e il singolo individuo o un gruppo di persone. Attraverso il rito quindi, è possibile avvicinarsi in modo più diretto a ciò che può essere definito “reale”. Io non sono religiosa o credente, ma tutta la mia musica in qualche modo ha delle valenze spirituali, ogni mia produzione musicale (compresa quella svolta per Marcia funebre o della geometria), prevede un raggiungimento di un ideale e la ricerca della realtà ultima. Non a caso spesso ad ogni mia composizione musicale do il titolo Nostalgia di assoluto oppure Desiderio di assoluto. Io e Paolo Scheggi indagammo molto questi aspetti filosofico-religiosi oltre che il concetto di Mito e vari altri archetipi.
Paolo Scheggi e Franca Sacchi, Marcia funebre o della geometria, passione secondo Paolo Scheggi, musiche di Franca Sacchi, Campo Urbano, Como, 1969.
GP: Nel testo critico Marcia funebre o della geometria, passione secondo Paolo Scheggi e Franca Sacchi pubblicato sul catalogo di “Campo Urbano” ed edito da Cesare Nani nel 1970, sono evidenti le indagini legate all’esoterismo, alla morte ma anche al controllo operato dalle istituzioni sulla società. In che modo la vostra azione criticava e problematizzava questi aspetti?
FS: La nostra azione ha affrontato una serie di elementi fondamentali e utili a scardinare i luoghi comuni oltre quelle pratiche insensate ed empiricamente massificanti, che con il boom economico a partire dagli anni ‘60 in Italia, iniziarono a sottrarre le masse dalle cerimonie comuni o popolari. Nel corso della storia queste servivano ad affinare la comprensione più sensibile del mondo. In seguito inoltre ho conseguito il magistero in canto Gregoriano e musica sacra. Il canto gregoriano è una forma musicale capace di fare emergere vibrazioni inconsce profonde e dall’aura misteriosa. Questo mi fa pensare a come sia sempre stato importante per me, anche nel contesto dell’ideazione della “Marcia funebre…”, sottolineare e indagare le venature di mistero proprie dei riti e delle cerimonie. In quel contesto, il mistero emerse in forma di contrasto: dal momento che la gente era moltissima e la fatica vissuta dagli attori, incaricati di trasportare quelle grosse figure geometriche in processione tra la folla, faceva nascere una riflessione sull’opposizione che esiste tra l’equilibrio rappresentato dagli elementi geometrici e il flusso instabile e mutevole delle persone che presero parte a quell’evento.
La marcia non voleva dare morte simbolica alla geometria, piuttosto voleva esaltare in modo suggestivo l’asimmetria oltre che la progettazione, dal momento che l’alternanza fra le due permette ad entrambe di convivere e compensarsi. Musicalmente parlando, l’assenza d’equilibrio espressa della melodia che avevo composto per la marcia, era innescata dalla ripetizione di pochissime note musicali, solo quattro note che si ripetevano per venti minuti circa. In quel periodo c’era una grande attenzione per la ripetitività, e questo perché ogni cosa se ripetuta, porta ad elevarsi sopra essa, e così sembrò accadere con la piazza, le persone, i nostri ideali…
GP: Quale fu la sua percezione in merito alla partecipazione del pubblico?
FS: Percepivo entusiasmo, divertimento. La gente partecipava con molta curiosità, e con il desiderio di comprendere anche i messaggi indiretti che la performance veicolava. Sicuramente il nostro intento di destare l’attenzione nel pubblico al fine di creare un cortocircuito tra passato, presente, simboli storici, sociali, ma anche di reinterpretazione dello spazio condiviso, aveva funzionato nonostante per alcuni rimaneva una marcia funebre, tanto da portare alcune persone a fare il segno delle corna come gesto scaramantico.
Franca Sacchi © archivio Franca Sacchi.
GP: Lei è stata una delle prime a sperimentare la musica elettronica in Italia in quegli anni, che cosa la spinse a farlo?
FS: L’ho fatto curiosità, sapendo fare tutto quello che volevo nel campo della musica classica e accademica (avendo iniziato a studiarla fin da molto piccola), volevo affrontare nuovi strumenti, nuove modalità di composizione. Nel contesto di “Marcia funebre o della geometria” mi lanciai nella sperimentazione assoluta. In quel periodo si dava valore a qualsiasi suono, ogni oggetto o essere vivente diventava strumento musicale, a cui poter applicare dei microfoni con cui sintetizzare i suoni e riprodurli. Ma poi la musica elettronica mi annoiò: era possibile fare qualsiasi cosa infinitamente, e quindi mi spense a voglia di “fare”.
Mi viene in mente un viaggio che feci anni fa: avevo organizzato un seminario itinerante nel deserto del Sahara, con il mio gruppo di allora. Partimmo dall’oasi di Ghardaia con sei Land Rover, una di queste piena di pezzi di ricambio utili in caso di guasto, attrezzature varie e le provviste necessarie per sopravvivere nel deserto della valle dello M’Zab. L’autista della mia macchina fumava come un turco e dopo la prima pausa in cui ci fermammo a bere, quando ripartimmo lasciammo la pista e quindi iniziò il cammino fuori strada. L’autista come un pazzo si mise a guidare sgommando e dando gas a tutta mano in tutte le direzioni senza una meta precisa. Dopo questo momento di grande euforia e follia dato dal fatto di non avere più una strada da seguire, divenne triste e depresso, tutta l’energia manifestata sfumò di fronte alla possibilità. Ciò mi fece capire perché si era spenta anche la mia creatività con la musica elettronica. Mi erano necessari dei limiti contro i quali scontrarsi ed eventualmente superarli. E così sono tornata al pianoforte.
Franca Sacchi © archivio Franca Sacchi.
GP: Le pongo questa domanda rifacendomi a un interrogativo che si pose Giano Accame, in merito al lavoro di Paolo Scheggi: “Il fluido, l’effimero, il precario e l’elementare possono anche essi essere frutto di una rigorosa progettazione.” Oppure lei pensa che l’istintività d’approccio alle forme d’espressione artistica possa scaturire esclusivamente dalla pura improvvisazione?
FS: Per me è sempre stata valida la frase in latino: “Sine traditiones, nulla veritas”. Ho sempre trovato fondamentale affrontare ed interrogarmi sulla questione dei limiti e la definizione del mio lavoro, qualsiasi esso fosse e in ogni modalità tramite cui lo attualizzassi. Credo che chiunque voglia fare qualcosa di nuovo, togliendosi dal rischio di cadere nella sola ideazione di trovate effettistiche (tanti artisti ne sono condizionati producendo arte anche a costo di diventare dissacranti per la propria interiorità), dovrebbe lavorare in profondità per capire quale sia il percorso migliore per realizzare al meglio il proprio lavoro. Quindi più che giustificazioni ideologiche o culturali, è importante restituire al concetto di improvvisazione la corrispondenza alle proprie tradizioni, alla propria natura, sempre capaci di orientare al meglio la propria autenticità. È importante cercare di essere sé stessi anche nel mutamento. Per questo ora mi dedico solo all’improvvisazione. Ognuno di noi potrebbe pensare che la tradizione sia limitante, ma ho sempre trovato questa componente molto stimolante. Essere capaci di rinnovare qualcosa pur rimanendo attaccati alla continuità della propria vita. Il potere dell’effimero esiste nella misura in cui diventa portavoce del cambiamento intrinseco ad ogni forma di pratica culturale e della sua costante ridefinizione.
GP: Sempre a partire dalla fine degli anni Sessanta ha dato origine ad altre espressioni artistiche e di ricerca interiore, che continua ad affinare tutt’oggi: lo yoga, la danza e la pittura, per le quali il concetto di arte En-statica acquisisce un valore unico. Potrebbe approfondirlo?
FS: In passato scrissi un testo critico in cui mi ribellavo all’idea pseudo-religiosa e settaria che si nascondeva in quel periodo dietro alcuni movimenti femministi, la loro necessità di categorizzarsi mi sembrava falsata e senza la giusta prospettiva. Io ho adottato questa definizione inventata da Mircea Eliade, che la formulò a partire dal greco “EN” (che significa dentro), che differisce da “IN”, in quanto potrebbe rivolgersi a tante forme di introspezione. En-statico è il mio approccio creativo e di conoscenza interiore, per cui la ricerca della mia interiorità è passata in primo luogo dall’organizzazione dei suoni, e poi all’organizzazione di me stessa.
Qualunque cosa avessi fatto in futuro, avrei comunque espresso questa organizzazione. Con arte En-statica intendo quell’arte che parte dalla persona, che possa imparare a conoscersi nel profondo della propria essenza sapendo individuare ciò che è stato acquisito da fuori, dal mondo, rispetto a ciò che lo ha formato in modo viscerale. L’arte dovrebbe sempre condurre l’individuo a riconoscere le maschere sociali per poi dissolverle e raggiungere eventualmente i principi universali.
Paolo Scheggi e Franca Sacchi, Marcia funebre o della geometria, passione secondo Paolo Scheggi, musiche di Franca Sacchi, Campo Urbano, Como, 1969.
Su “Marcia funebre o della geometria” azione di Paolo Scheggi e Franca Sacchi
Il 21 settembre del 1969 si svolse a Como un evento polimorfo: Campo Urbano. Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana a cura di Luciano Caramel, Ugo Mulas e Bruno Munari. In quella giornata ogni luogo del centro storico di Como venne invaso da una serie di interventi artistici radicalmente partecipativi. Vennero coinvolti una cinquantina di creativi e artisti, molti di loro conosciuti oggi a livello internazionale e tra cui spiccano i nomi di Ugo la Pietra, Enrico Baj, Gianni Colombo e Gianni Pettena.
Alle 22.00 di quella giornata, venne fissato l’ultimo evento che vide lo svolgersi di una performance complessa ed enigmatica: Marcia funebre o della geometria con la regia di Paolo Scheggi, le musiche di Franca Sacchi, le voci di Elena Vicini e Giampiero Bianchi. L’immediatezza dell’evento performativo era combinata alla profonda necessità da parte di Paolo Scheggi e di Franca Sacchi di sovvertire la classica modalità di fruire gli spazi pubblici insieme alla necessità di invogliare le persone a partecipare a nuove modalità di percezione multi-sensoriale dell’arte. Alessandra Acocella si esprime in merito a tutte le azioni svoltesi quel giorno di settembre scrivendo: “La realtà urbana viene quindi interpretata come spazio da sovvertire, criticare, svelare in tutte le sue contraddizioni e aporie legate al vivere comune, ricercando un rapporto di stimolazione critica ludico-ironica e provocatoria con la popolazione.
La Marcia funebre o della geometria conduceva una linea drammaturgica tipica dell’azione teatrale e fu progettata per poter essere realizzata in qualsiasi spazio aperto del mondo. L’azione era suddivisa in quattro momenti e sei movimenti dove la performance veniva scandita da suoni, proiettori, distorsioni vocali, danze e gesti. I protagonisti dell’azione venivano annunciati con nomi che richiamavano diverse figure geometriche ed ogni elemento era pensato per suggestionare il pubblico: gli attori indossavano costumi simili a quelli delle sette massoniche e performavano a turno reggendo e facendo vacillare grosse figure geometriche di carta.
I testi utilizzati da Scheggi per la stesura dei dialoghi e del copione portano a domandarsi quale fosse il significato delle complesse associazioni letterarie. Qui distinguiamo il primo e il terzo momento con i nove punti di Ulrico Molitoris, insieme all’enunciazione delle usanze omicide e peccaminose perpetrate dalla stregoneria e le riflessioni sul coincidere d’essenza degli angeli con il diavolo. Il secondo momento con “il tempo come condizione” da Christopher Marlowe, il quarto momento con “il tempo come catarsi” estratto dalla Bibbia. Risulta naturale notare come la pianificazione, la schematizzazione e il rigore nel progettare tutto l’evento fosse in forte contrasto con il contenuto dei testi appena citati, inerenti a tematiche onirico-religiose. È possibile pensare che l’azione venne realizzata nel tentativo di sfuggire al ‘carnevale cosmopolitico’ e dall’essere vissuta da spettatori distaccati incapaci di partecipazione o coinvolgimento.
Il 1967/68 fu un periodo cruciale per gli sviluppi dei percorsi già intrapresi da Scheggi, il quale si confrontava con tanti fermenti nella realtà artistica internazionale come il cinema, il teatro, la musica sperimentale, la poesia visiva e concreta e la danza, fornendo sempre nuove visualizzazioni formali per la interpretazione sperimentale della spazialità. La ricerca per la progettazione totale dello spazio si intensificò per Scheggi con alcune collaborazioni per il Teatro Piccolo di Milano o il teatro di Grotowsky.
In alcuni suoi appunti del 1964 Scheggi scrive: “Il concetto di progettazione totale, trae le sue origini spirituali ma non metodologiche, in quella serie di trasformazioni che l’architettura ha subito dal cominciare del primo decennio del secolo. Da de Stijl al Bauhaus, dal gruppo lombardo del ’35 alla progettazione integrata, si sono avute infatti una serie di proposte che hanno avuto per denominatore comune il lavoro in ‘team’ di più differenti discipline. Un lavoro coordinato in cui fossero stabiliti a priori i termini e i criteri del progettare”.
Paolo Scheggi e Franca Sacchi, Marcia funebre o della geometria, passione secondo Paolo Scheggi, musiche di Franca Sacchi, Campo Urbano, Como, 1969, foto di Ugo Mulas, archivio Lia Rumma.
Con Marcia funebre o della geometria lo spettatore doveva essere portato, a riformularsi nella propria capacità di introiezione dei contenuti visivi, ripristinando la ritualità e le pratiche di condivisione attraverso la rivalutazione spaziale della dimensione urbana collettiva. La marcia innescava un ribollire perpetuo di iconografie e linguaggi appartenuti al passato, in cui parole di paura, speranza, discriminazione e fantasia servivano ad innescare un nuovo (in quanto gradualmente dimenticato), interesse ermeneutico. Innalzare sul podio usi e costumi mitizzanti per evadere dal sistema capitalistico imperante capace di trasformare la meraviglia del torbido umano in una sorta di cinica spettacolarizzazione degli eventi.
La morte (in senso simbolico) risulta un altro aspetto costituente nella ricerca di Paolo Scheggi, che fornisce un’ulteriore possibilità interpretativa alla sua ricerca. Successivamente alla produzione delle Intersuperfici modulari, Scheggi si dedicò quasi interamente alla sperimentazione artistica interdisciplinare utilizzando la dialettica vita e morte.
Lara Vinca Masini esprime alcune perplessità in merito all’uso da parte di Scheggi del medium teatrale: “è indubbio che tra le ricerche artistiche attuali e il teatro ci siano oggi molte possibilità d’intesa, proprio per la necessità dell’operazione artistica di proiettarsi sempre più in una dinamica che si proponga come vita, ma non sono del tutto convinta invece, che il teatro sia questo e che dunque il teatro sia la strada giusta per l’arte figurativa”. Le sue opere comunicano nell’ampiezza dei temi a lui cari, alla programmazione rigida nel suo lavoro artistico Giano Accame risponde che viene bilanciata dallo sfuggire da categorizzazioni. “Scheggi ha scelto l’arte non soltanto per vivere con intensità il poco tempo che gli era concesso, ma per compiere con estrema lucidità l’esperienza ineluttabile della morte. Forse e perciò una delle sue opere ultime e più pensate è Il monumento tombale delle forme geometriche, simbolo dell’estrema contraddizione tra l’immortalità teorica e l’inevitabile morte storica delle idee”.
La produzione delle sue opere raggiunge il culmine in modo circolare, ricongiungendosi ai primi momenti della sua attività. Di questo se ne ha testimonianza ad esempio in alcuni sintetici appunti datati 1962, in cui tutto viene predetto, appunti filosofici e insolitamente poco tecnici, dove i limiti vengono respinti nell’invocazione della libertà e della felicità: “L’uomo, si è scoperto un caso assurdo e ingiustificabile, e nella sua condanna ha voluto riconoscersi libero. Se non c’è altro da fare, se la sola verità è la negazione, io propongo di negare almeno la negazione di noi stessi. La felicità (ha detto Marx), è un’idea nuova in Europa e nel mondo!”
Queste contraddizioni erano da lui viste nel segno della costante ricerca d’innovazione, dove la vitalità caratteristica del decennio in cui visse profetizzava il ritorno del senso della morte ma dal punto di vista della vita. Bruno Corà parla della “lucidissima trasgressione di Scheggi nei confronti delle ideologie del nostro tempo” notando come molte delle sue opere fossero collegate all’idea di cerimonia e all’agire del mito sul nostro tessuto sociale, ovvero che “l’ideologia sta mutando in un sistema mitologico”.
Nell’intervista che ho realizzato con Franca Sacchi, questo aspetto viene esposto ampiamente, sottolineando come per entrambi fosse necessario attribuire alle proprie ricerche, valenze filosofiche, rituali e spirituali. Specialmente nella ideazione di Marcia funebre o della geometria e Dies Irae, inquisizione secondo Paolo Scheggi e Franca Sacchi realizzata nello stesso anno, e strutturata in tre momenti, la quale venne messa in scena a Varese, a Milano e a Firenze, e dove la morte era inscenata come trionfo dell’esistenzialismo.
In ultima analisi potremmo realmente dare credito al pensiero condiviso da molti che vedrebbe la Marcia funebre o della geometria come una sorta di funesta premonizione della morte di Scheggi avvenuta nel 1971. In un articolo pubblicato nel 2015 su Flash art, Alberto Mugnaini si espresse in merito ricollegandosi al vero funerale, scrivendo: “… e quando, pochi mesi dopo, si svolse a Roma il funerale di Paolo Scheggi, predisposto e “programmato” dall’artista come un’estrema opera in absentia, tra musiche di Chopin e aromi di rose sfiorenti nella calura di prima estate, si ebbe quasi l’impressione, secondo la testimonianza di Vincenzo Agnetti, di assistere a un falso, a “una copia della copia… realtà come ripercorso di una recente simulazione… recuperata solo dalle ordinate valenze dell’apparire e sparire nella geometria dell’essere”.
Greta Pasini e Franca Sacchi, settembre 2019.
L’intervista e il testo sono stati realizzati per il corso di Museologia tenuto da Luca Cerizza al Biennio Specialistico in Arti Visive e Studi Curatoriali presso NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e come approfondimento in occasione del convegno e della mostra documentaria Campo Umano – Arte pubblica 50 anni dopo, a cura di Luca Cerizza e Zasha Colah, organizzati dalla Fondazione Antonio Ratti, che celebra e rievoca il cinquantesimo anniversario di Campo Urbano, la manifestazione artistica, a cura di Luciano Caramel con Ugo Mulas e Bruno Munari, che radunò molti giovani artisti delle più diverse tendenze per occupare gli spazi pubblici del centro storico di Como il 21 settembre 1969 per l’intera giornata.
Greta Pasini è nata a Bologna nel 1992, città a cui rimane legata e che accresce la sua formazione poliedrica nel campo delle arti visive e degli studi socio-culturali. Dopo la laurea presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna in Antropologia, religioni e civiltà orientali inizia, nel 2018, il biennio specialistico in Arti visive e Studi Curatoriali presso NABA (Milano). La sua ricerca spazia tra tutte queste discipline da cui trae costanti stimoli per attività curatoriali, di critica e di approfondimento sull’attualità delle arti contemporanee. Tra le sue ultime ricerche e collaborazioni, partecipa come artista e curatrice al ciclo di residenze del programma Dono, Cammino ideato dall’artista G. Olmo Stuppia all’interno della piattaforma Cassata Drone Expanded Archive (Palermo, agosto 2019). Ha scritto e recensito gli spazi e studi d’artista aperti a Milano in occasione di Walk-in Studio (giugno, 2019), e partecipato alle attività di mediazione culturale per la mostra: Il soggetto imprevisto – 1978 arte e femminismo in Italia presso FM centro per l’Arte Contemporanea di Milano.
Le Immersioni Franca Sacchi e Ugo La Pietra
Franca Sacchi, Danza, mia cara, 1971 [early electronic, experimental, musique concrète]