Qui è Ulrike Meinhof che parla agli abitanti della Terra.
Dovete rendere pubblica la vostra morte.
La notte del 9 maggio 1976, in una cella d’isolamento speciale della prigione di Stammheim dove, in attesa della sentenza, mi trovavo rinchiusa per ordine del Pubblico Ministero della Repubblica Federale Tedesca come uno dei responsabili, ai vertici della Rote Armee Fraktion….
……zzzz………
Mentre il cappio stava stringendosi al mio collo, nell’attimo cruciale di perdere i sensi, smarrii all’improvviso ogni percezione, ripresi però piena coscienza e la mia intera facoltà di giudizio. Un Alieno faceva l’amore con me.
Chris Kraus, Aliens &Anorexia, 2000[i].
“Every summer I sit down and try again to write about “art and politics”. Every summer, the more the possibilities have expanded and the changes have been frustrated, the harder it gets. Despite years of art activism the two still crouch in separate corners of my life, teasing, sometimes sparring, coming to grips rarely, uneasily, and without conclusion or issue”[ii].
HOT POTATOES è ripreso da un testo di Lucy R. Lippard intitolato “Hot Potatoes: Art and Politics in 1980” e raccolto in Get the message? A decade of Art for Social Change, negli anni in cui, dopo la militanza femminista [iii] aveva fondato il collettivo PAD/D (Political Art Documentation/Distribution) – a partire da un archivio di arte antagonista e politicamente impegnata che si era subito trasformato in una nuova organizzazione di artisti e attivisti. Lippard parla di Potatoes sia come un’arte ben cotta ma ormai normalizzata dentro il sistema e che quindi non ti “scotta le dita” (Warhol) sia di un altro tipo di arte troppo hot, too hot to handle, come lo S.C.U.M. Manifesto di Valerie Solanas.
logo di Edizioni dalla parte delle bambine, tratto da “Arianna, tra le righe di una leggenda”, Milano, 1979.
“Even now, when many more visual artists are informed about radical politics, when ‘political’ or ‘socially concerned’ art has even enjoyed a doubtful chic, artists still tend to think they’re above it all and the Left still tends to think art’s below it all. Within the feminist art movement as well, polarities reign, although because of its fundamental credo – ‘the personal is political’ – they have different roots, and different blossoms […] And if retro-punk is too hot to handle, where are all those burned fingers?Most of the hot potatoes seem to have been cooled to an acceptable temperature and made into a nice salad. If Warhol is king of the punk party, the real retrochic heroine should be Valerie Solanas – the uninvited guest, whose “Scum Manifesto” was too hot for anyone to handle.”
Il 3 giugno 1968 Solanas, che all’epoca aveva frequentato la Factory come attrice di una piccola parte, tentò di assassinare Andy Warhol sparandogli tre volte [iv].
HOT POTATOES sviluppa e rivisita esperienze femministe degli anni Settanta per riposizionarne le istanze, sia linguistiche, sociali, che politiche ed estetico-artistiche, nel presente.
Illustrazione tratta da EFFE “settimanale di controinformazione al femminile”, 1973.
Un mestiere fasullo*
“Non potrò tornare all’arte. Ho scartato un pacco con tanti fogli d’imballaggio per arrivare poi alla constatazione di niente, di una molla interna che non funziona così e non c’è da sganciarla perché allora finisce tutto….” [v]. HOT POTATOES nasce da una crisi– personale, artistica e della costituzione politica del presente. Da una contrapposizione di pensiero. Dall’essere contro qualcosa. “Quando tu mi accusi di essere contro il lavoro, contro l’arte, contro tutto quanto, io penso che non è vero, sono contro questo tipo di lavoro, questo tipo di arte, questo tipo di società…..” [vi]. Da qui l’insoddisfazione per i modi, gli strumenti e i paradigmi di cui si sono dotate la critica e la ricerca artistico-curatoriale nell’affrontare le questioni connesse alla trasformazioni sociali in atto, dentro e contro la storia, al capolinea della codificazione di una soggettività modernista, nell’immaginare segni, discorsi e pratiche politiche. Nel mettere in crisi le strutture del sapere si scopre la fragilità delle narrative, la complicità col potere, la matrice economica di ruoli e funzioni (quella tendenza neo-arcaista, come l’ha definita Maurizio Lazzarato, che nell’arte tenderebbe a re-imporre i ruoli tradizionali e il concetto di proprietà tipico dell’estetica modernista). Occorre allora chiedersi – e come Benjamin non ha mai smesso di fare – di quale libertà stiamo parlando se poi un soggetto ha il consenso e la possibilità di esprimersi ma senza vedere riconosciuti i propri diritti e le condizioni sociali? Senza cioè intaccare i rapporti di proprietà, le asimmetrie di potere e le gerarchie tra le cose?
Il sistema dell’arte è oggi uno dei principali agenti di “naturalizzazione” della ricchezza in mano a pochi e di legittimazione delle disuguaglianze sociali. Non si può più credere a una presunta “esteriorità” economica dell’arte al regime produttivo capitalistico – con tutte le retoriche e i processi di mediatizzazione che lo accompagnano e che favoriscono nei “pubblici” una condizione di ignoranza che possa dissimulare, o rendere ormai irriconoscibile, il proprio sfruttamento.
See Red Womens Workshop, ‘Capitalism also depends on domestic labour (1970s-90s), feminist silk-screen poster collective, UK.
“Siamo di fronte all’evidenza di una tipica situazione di valorizzazione capitalista in cui è consentito partecipare a forme d’espressione e di creazione a patto però di rimanere esclusi dal regime di proprietà delle stesse. Le industrie creative sollecitano ideologie e natura politica del soggetto per poi capitalizzare desideri, sovradeterminare ruoli e funzioni sociali, restaurare dispositivi e gerarchie disciplinari. […] Sempre più si cerca di far apparire la ricchezza di una parte limitata della società – continua Marco Scotini in Artecrazia [vii]- come assolutamente naturale. L’arte diventa una sorta di privilegio in grado di fornire un senso di diritto acquisito, qualcosa che nessuno osa mettere in discussione. Ma il pubblico dell’arte che fa? Sta passivamente a guardare?”. Qui c’è la risposta a una nuova critica istituzionale che muova dalla consapevolezza e dalla capacità di rottura e di rovesciamento dei rapporti di potere e di subordinazione tra governati e governanti e dei “dispositivi semiotici del nostro sfruttamento e del nostro controllo”.
Negli anni Settanta in Italia la questione non è stata l’ingresso del pensiero femminista nell’arte e nella cultura ma la sua fuoriuscita. Il momento fondativo del femminismo italiano, con la sua radicalità, contestativa e biopolitica, è stato profondamente legato al mondo dell’arte, ma nasce da un rifiuto risolutivo: Carla Lonzi abbandona il mestiere fasullo della critica d’arte. Contrariamente alla scrittura, non considera l’arte come una forza di liberazione per la donna, nè un possibile terreno di sperimentazione femminista; troppo compromessa con le strutture dell’oppressione femminile, la creatività è appannaggio esclusivo dei rapporti di dominio patriarcale e la donna ne è esclusa, se non in qualità di spettatrice, quindi in una posizione “strumentale e passiva”.
«Riconosciamo in noi stesse la capacità di fare di questo attimo una modificazione totale della vita. Chi non è nella dialettica servo-padrone diventa cosciente e introduce nel mondo il Soggetto Imprevisto». Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, 1974.
Carla Lonzi a Minneapolis, 1967.
Se Lonzi ha ricercato tutta la vita il riconoscimento (e questo è il tema drammatico di Vai pure) è vero che “con la sua assenza la donna compie un gesto di presa di coscienza, liberatorio, dunque creativo” [viii]. Ma la rivoluzione (è stata) interrotta – come sostiene Silvia Federici oggi. E “Noi non vogliamo d’ora in poi tra noi e il mondo nessuno schermo” (Rivolta Femminile). La donna allora “irrompe” come soggetto imprevisto, che abbandona una cultura della presa del potere maschile, per disfare l’ordine costituito e trovare un altro tempo, un altro spazio, attraverso la soggettivazione conflittuale dell’esperienza e del sapere, rovesciando anche il canone che la storia ci aveva consegnato nella dialettica dello scontro (operai-capitale, servo-padrone, vincitore-vinto), in un processo artistico che diventa politico ma di cui non ne conosciamo ancora i confini. Un atto di rottura che invita, ancora oggi, a riflettere sulla nostra capacità di innescare processi di sottrazione e di insorgenza: non tanto quanto Carla Lonzi ha dato all’arte ma come ha ripensato in termini artistici la politica. Contro quei modelli (di femminilizzazione della biopolitica) che mettono al lavoro differenze, tempo, precarietà, affettività e sessualità.
L’attuale dibattito istituzionale si fonda su un’impolitica narrazione e un progressivo svuotamento del ruolo storico ed emancipativo dell’agenda femminista nel porre la liberazione della donna come una lotta contro una presunta e residuale superiorità ontologica del maschile, ossia quello che resta di una condizione di inferiorità che non ha ancora realizzato il proprio riscatto. In quell’altrove c’è una storia non scritta, esaltata nell’immaginario ma insignificante politicamente. Siamo di fronte a nuove forme di subalternità che valorizzano gli aspetti della cura. Anche l’illusione di una reciprocità (non solo amorosa) è un rapporto di potere che crea dissimmetrie, forti legami di dipendenza. È il riconoscimento di una subordinazione che non viene mai raccontata come uno degli elementi strutturali del capitalismo.
Smontare le configurazioni dei segni e i dispositivi di rappresentazione per far sì che l’immaginazione critica possa sognare altri modi di percezione e comprensione possibili, rimane una promessa utopica e di liberazione dell’arte. Come i meccanismi del lavoro artistico e i suoi linguaggi sono obliqui, le temporalità che intrecciano i temi e le opere (passato-presente) sono non lineari. L’emersione sociale delle “strutture” (semiotiche, ideologico-culturali), il regime di visibilità con cui si mostra l’arte oggi, i sistemi discorsivi ed espositivi coinvolti e le funzioni creative che essi producono, segnalano una diversa prospettiva storica – oltre la modernità – del rapporto con la società, dei processi di costituzione della storia e delle soggettività contemporanee.
La traiettoria personale, artistico-culturale e soprattutto politica di Carla Lonzi presenta ancora oggi questioni irrisolte: tra tutte, il problema della soggettivazione patriarcale dei ruoli istituzionali (artista, critico, curatore, collezionista, gallerista, manager) che non solo resta la stessa ma è, in aggiunta, assoggettata alle strategie gorvernamentali del dominio neo-liberale (la cui cattura non soffoca le libertà e le eccedenze ma si basa sulla loro continua valorizzazione). Non è più il tempo di disfarsi della critica d’arte rifiutando, per rigetto e per delusione, di farsi trovare là dove si è attese (così come intendeva Lonzi) ma occorre piuttosto ri-afferrare tutti gli arnesi necessari per attrezzare il pensiero, smascherare le mistificazioni ideologiche a cui siamo sottoposti e riappropriarsi degli spazi della critica culturale, delle sue istituzioni e strutture sociali.Chi ha la memoria di essere stata vinta “irrompe” nella storia senza mimare gli effetti del potere (i vincitori) ma lavora per decostruire quella stessa storia. O almeno “sputarci sopra” per desiderare di farlo.
Elvira Vannini, ottobre 2017.
[i] Nell’affabulazione letteraria di Aliens & Anorexia, Chris Kraus ripercorre gli ultimi istanti di vita di Ulrike Meinof, come un refrain in tutto il testo, tratto da Andy Warhol’s last love, di Eva Buchmiller, uno tra i tanti personaggi immaginari che si mescolano con vicende autobiografiche e insieme ad altri reali tra cui Simone Weil, in una corrosiva critica al capitalismo che passa attraverso il corpo e il rifiuto del cibo.
[ii] crf. Lucy R. Lippard, “Hot Potatoes: Art and Politics in 1980”, in Get the message? A decade of Art for Social Change, 1984; in quegli anni Lippard si definiva una “femminista marxista impegnata”, e ancora ribadisce come “a quel punto scrittura e attivismo erano i miei strumenti ideologici”.
[iii] Lippard prese parte a collettivi femministi come Women Artists’ in Revolution, sottogruppo di Art Workers’ Coalition, o Ad Hoc Women Artists’ Committee o lo spazio a gestione cooperativa di sole donne A.I.R. Gallery, organizzarono azioni, pubblicarono newsletter, articoli, realizzarono posters, rivendicarono e ottennero una serie di richieste dentro i luoghi istituzionali dell’arte, attaccando i musei e le gallerie – dai picchetti fuori dal Whitney per arrivare a una più alta rappresentanza percentuale femminile nelle mostre annuali, alle proteste fuori del MoMA, le strategie pedagogiche di programmi educativi come The Feminist Art Programs at Fresno e le esperienze comunitarie di spazi alternativi (Women’s Interart Center) – diedero un forte impulso alla diffusione di mostre, eventi, pubblicazioni. Ma era soprattutto l’istituzione soprattutto ad essere attaccata.
[iv] Nel 1966 Valerie Solanas aveva inviato a Warhol un copione del suo dramma teatrale Up Your Ass chiedendogli di produrlo ma fu rifiutato; poi partecipò a un suo film come comparsa con una piccola parte (I, a Man). Dopo l’attentato che ferì gravemente Warhol, il suo critico d’arte, e il suo curatore e compagno di allora Mario Amaya, la Solanas dichiarò di avergli sparato perchè: “aveva troppo controllo sulla mia vita”. Lo SCUM Manifesto (Society for Cutting Up Men) era stato pubblicato per la prima volta nel 1968 e si apriva così: «In questa società la vita, nel migliore dei casi, è una noia sconfinata e nulla riguarda le donne: dunque, alle donne responsabili, civilmente impegnate e in cerca di emozioni sconvolgenti, non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione globale e distruggere il sesso maschile.»
[v] Carla Lonzi, Taci. Anzi Parla. Diario di una Femminista, 1978.
[vi] Carla Lonzi, Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, 1980.
[vii] Marco Scotini, Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici, DeriveApprodi, 2017.
[viii] Carla Lonzi, “Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile”, in Sputiamo su Hegel e La donna clitoridea e la donna vaginale, Scritti di Rivolta Femminile, 1974 Milano, p.65.
For those times you desperately need 20 pounds of potatoes and the stores are closed.
EDITORIALE
di Elvira Vannini.
……zzzz………
Qui è Ulrike Meinhof che parla agli abitanti della Terra.
Dovete rendere pubblica la vostra morte.
La notte del 9 maggio 1976, in una cella d’isolamento speciale della prigione di Stammheim dove, in attesa della sentenza, mi trovavo rinchiusa per ordine del Pubblico Ministero della Repubblica Federale Tedesca come uno dei responsabili, ai vertici della Rote Armee Fraktion….
……zzzz………
Mentre il cappio stava stringendosi al mio collo, nell’attimo cruciale di perdere i sensi, smarrii all’improvviso ogni percezione, ripresi però piena coscienza e la mia intera facoltà di giudizio. Un Alieno faceva l’amore con me.
Chris Kraus, Aliens & Anorexia, 2000[i].
“Every summer I sit down and try again to write about “art and politics”. Every summer, the more the possibilities have expanded and the changes have been frustrated, the harder it gets. Despite years of art activism the two still crouch in separate corners of my life, teasing, sometimes sparring, coming to grips rarely, uneasily, and without conclusion or issue”[ii].
HOT POTATOES è ripreso da un testo di Lucy R. Lippard intitolato “Hot Potatoes: Art and Politics in 1980” e raccolto in Get the message? A decade of Art for Social Change, negli anni in cui, dopo la militanza femminista [iii] aveva fondato il collettivo PAD/D (Political Art Documentation/Distribution) – a partire da un archivio di arte antagonista e politicamente impegnata che si era subito trasformato in una nuova organizzazione di artisti e attivisti. Lippard parla di Potatoes sia come un’arte ben cotta ma ormai normalizzata dentro il sistema e che quindi non ti “scotta le dita” (Warhol) sia di un altro tipo di arte troppo hot, too hot to handle, come lo S.C.U.M. Manifesto di Valerie Solanas.
logo di Edizioni dalla parte delle bambine, tratto da “Arianna, tra le righe di una leggenda”, Milano, 1979.
“Even now, when many more visual artists are informed about radical politics, when ‘political’ or ‘socially concerned’ art has even enjoyed a doubtful chic, artists still tend to think they’re above it all and the Left still tends to think art’s below it all. Within the feminist art movement as well, polarities reign, although because of its fundamental credo – ‘the personal is political’ – they have different roots, and different blossoms […] And if retro-punk is too hot to handle, where are all those burned fingers? Most of the hot potatoes seem to have been cooled to an acceptable temperature and made into a nice salad. If Warhol is king of the punk party, the real retrochic heroine should be Valerie Solanas – the uninvited guest, whose “Scum Manifesto” was too hot for anyone to handle.”
Il 3 giugno 1968 Solanas, che all’epoca aveva frequentato la Factory come attrice di una piccola parte, tentò di assassinare Andy Warhol sparandogli tre volte [iv].
HOT POTATOES sviluppa e rivisita esperienze femministe degli anni Settanta per riposizionarne le istanze, sia linguistiche, sociali, che politiche ed estetico-artistiche, nel presente.
Illustrazione tratta da EFFE “settimanale di controinformazione al femminile”, 1973.
Un mestiere fasullo*
“Non potrò tornare all’arte. Ho scartato un pacco con tanti fogli d’imballaggio per arrivare poi alla constatazione di niente, di una molla interna che non funziona così e non c’è da sganciarla perché allora finisce tutto….” [v]. HOT POTATOES nasce da una crisi – personale, artistica e della costituzione politica del presente. Da una contrapposizione di pensiero. Dall’essere contro qualcosa. “Quando tu mi accusi di essere contro il lavoro, contro l’arte, contro tutto quanto, io penso che non è vero, sono contro questo tipo di lavoro, questo tipo di arte, questo tipo di società…..” [vi]. Da qui l’insoddisfazione per i modi, gli strumenti e i paradigmi di cui si sono dotate la critica e la ricerca artistico-curatoriale nell’affrontare le questioni connesse alla trasformazioni sociali in atto, dentro e contro la storia, al capolinea della codificazione di una soggettività modernista, nell’immaginare segni, discorsi e pratiche politiche. Nel mettere in crisi le strutture del sapere si scopre la fragilità delle narrative, la complicità col potere, la matrice economica di ruoli e funzioni (quella tendenza neo-arcaista, come l’ha definita Maurizio Lazzarato, che nell’arte tenderebbe a re-imporre i ruoli tradizionali e il concetto di proprietà tipico dell’estetica modernista). Occorre allora chiedersi – e come Benjamin non ha mai smesso di fare – di quale libertà stiamo parlando se poi un soggetto ha il consenso e la possibilità di esprimersi ma senza vedere riconosciuti i propri diritti e le condizioni sociali? Senza cioè intaccare i rapporti di proprietà, le asimmetrie di potere e le gerarchie tra le cose?
Il sistema dell’arte è oggi uno dei principali agenti di “naturalizzazione” della ricchezza in mano a pochi e di legittimazione delle disuguaglianze sociali. Non si può più credere a una presunta “esteriorità” economica dell’arte al regime produttivo capitalistico – con tutte le retoriche e i processi di mediatizzazione che lo accompagnano e che favoriscono nei “pubblici” una condizione di ignoranza che possa dissimulare, o rendere ormai irriconoscibile, il proprio sfruttamento.
See Red Womens Workshop, ‘Capitalism also depends on domestic labour (1970s-90s), feminist silk-screen poster collective, UK.
“Siamo di fronte all’evidenza di una tipica situazione di valorizzazione capitalista in cui è consentito partecipare a forme d’espressione e di creazione a patto però di rimanere esclusi dal regime di proprietà delle stesse. Le industrie creative sollecitano ideologie e natura politica del soggetto per poi capitalizzare desideri, sovradeterminare ruoli e funzioni sociali, restaurare dispositivi e gerarchie disciplinari. […] Sempre più si cerca di far apparire la ricchezza di una parte limitata della società – continua Marco Scotini in Artecrazia [vii]- come assolutamente naturale. L’arte diventa una sorta di privilegio in grado di fornire un senso di diritto acquisito, qualcosa che nessuno osa mettere in discussione. Ma il pubblico dell’arte che fa? Sta passivamente a guardare?”. Qui c’è la risposta a una nuova critica istituzionale che muova dalla consapevolezza e dalla capacità di rottura e di rovesciamento dei rapporti di potere e di subordinazione tra governati e governanti e dei “dispositivi semiotici del nostro sfruttamento e del nostro controllo”.
Negli anni Settanta in Italia la questione non è stata l’ingresso del pensiero femminista nell’arte e nella cultura ma la sua fuoriuscita. Il momento fondativo del femminismo italiano, con la sua radicalità, contestativa e biopolitica, è stato profondamente legato al mondo dell’arte, ma nasce da un rifiuto risolutivo: Carla Lonzi abbandona il mestiere fasullo della critica d’arte. Contrariamente alla scrittura, non considera l’arte come una forza di liberazione per la donna, nè un possibile terreno di sperimentazione femminista; troppo compromessa con le strutture dell’oppressione femminile, la creatività è appannaggio esclusivo dei rapporti di dominio patriarcale e la donna ne è esclusa, se non in qualità di spettatrice, quindi in una posizione “strumentale e passiva”.
Carla Lonzi a Minneapolis, 1967.
Se Lonzi ha ricercato tutta la vita il riconoscimento (e questo è il tema drammatico di Vai pure) è vero che “con la sua assenza la donna compie un gesto di presa di coscienza, liberatorio, dunque creativo” [viii]. Ma la rivoluzione (è stata) interrotta – come sostiene Silvia Federici oggi. E “Noi non vogliamo d’ora in poi tra noi e il mondo nessuno schermo” (Rivolta Femminile). La donna allora “irrompe” come soggetto imprevisto, che abbandona una cultura della presa del potere maschile, per disfare l’ordine costituito e trovare un altro tempo, un altro spazio, attraverso la soggettivazione conflittuale dell’esperienza e del sapere, rovesciando anche il canone che la storia ci aveva consegnato nella dialettica dello scontro (operai-capitale, servo-padrone, vincitore-vinto), in un processo artistico che diventa politico ma di cui non ne conosciamo ancora i confini. Un atto di rottura che invita, ancora oggi, a riflettere sulla nostra capacità di innescare processi di sottrazione e di insorgenza: non tanto quanto Carla Lonzi ha dato all’arte ma come ha ripensato in termini artistici la politica. Contro quei modelli (di femminilizzazione della biopolitica) che mettono al lavoro differenze, tempo, precarietà, affettività e sessualità.
L’attuale dibattito istituzionale si fonda su un’impolitica narrazione e un progressivo svuotamento del ruolo storico ed emancipativo dell’agenda femminista nel porre la liberazione della donna come una lotta contro una presunta e residuale superiorità ontologica del maschile, ossia quello che resta di una condizione di inferiorità che non ha ancora realizzato il proprio riscatto. In quell’altrove c’è una storia non scritta, esaltata nell’immaginario ma insignificante politicamente. Siamo di fronte a nuove forme di subalternità che valorizzano gli aspetti della cura. Anche l’illusione di una reciprocità (non solo amorosa) è un rapporto di potere che crea dissimmetrie, forti legami di dipendenza. È il riconoscimento di una subordinazione che non viene mai raccontata come uno degli elementi strutturali del capitalismo.
Smontare le configurazioni dei segni e i dispositivi di rappresentazione per far sì che l’immaginazione critica possa sognare altri modi di percezione e comprensione possibili, rimane una promessa utopica e di liberazione dell’arte. Come i meccanismi del lavoro artistico e i suoi linguaggi sono obliqui, le temporalità che intrecciano i temi e le opere (passato-presente) sono non lineari. L’emersione sociale delle “strutture” (semiotiche, ideologico-culturali), il regime di visibilità con cui si mostra l’arte oggi, i sistemi discorsivi ed espositivi coinvolti e le funzioni creative che essi producono, segnalano una diversa prospettiva storica – oltre la modernità – del rapporto con la società, dei processi di costituzione della storia e delle soggettività contemporanee.
La traiettoria personale, artistico-culturale e soprattutto politica di Carla Lonzi presenta ancora oggi questioni irrisolte: tra tutte, il problema della soggettivazione patriarcale dei ruoli istituzionali (artista, critico, curatore, collezionista, gallerista, manager) che non solo resta la stessa ma è, in aggiunta, assoggettata alle strategie gorvernamentali del dominio neo-liberale (la cui cattura non soffoca le libertà e le eccedenze ma si basa sulla loro continua valorizzazione). Non è più il tempo di disfarsi della critica d’arte rifiutando, per rigetto e per delusione, di farsi trovare là dove si è attese (così come intendeva Lonzi) ma occorre piuttosto ri-afferrare tutti gli arnesi necessari per attrezzare il pensiero, smascherare le mistificazioni ideologiche a cui siamo sottoposti e riappropriarsi degli spazi della critica culturale, delle sue istituzioni e strutture sociali. Chi ha la memoria di essere stata vinta “irrompe” nella storia senza mimare gli effetti del potere (i vincitori) ma lavora per decostruire quella stessa storia. O almeno “sputarci sopra” per desiderare di farlo.
Elvira Vannini, ottobre 2017.
[i] Nell’affabulazione letteraria di Aliens & Anorexia, Chris Kraus ripercorre gli ultimi istanti di vita di Ulrike Meinof, come un refrain in tutto il testo, tratto da Andy Warhol’s last love, di Eva Buchmiller, uno tra i tanti personaggi immaginari che si mescolano con vicende autobiografiche e insieme ad altri reali tra cui Simone Weil, in una corrosiva critica al capitalismo che passa attraverso il corpo e il rifiuto del cibo.
[ii] crf. Lucy R. Lippard, “Hot Potatoes: Art and Politics in 1980”, in Get the message? A decade of Art for Social Change, 1984; in quegli anni Lippard si definiva una “femminista marxista impegnata”, e ancora ribadisce come “a quel punto scrittura e attivismo erano i miei strumenti ideologici”.
[iii] Lippard prese parte a collettivi femministi come Women Artists’ in Revolution, sottogruppo di Art Workers’ Coalition, o Ad Hoc Women Artists’ Committee o lo spazio a gestione cooperativa di sole donne A.I.R. Gallery, organizzarono azioni, pubblicarono newsletter, articoli, realizzarono posters, rivendicarono e ottennero una serie di richieste dentro i luoghi istituzionali dell’arte, attaccando i musei e le gallerie – dai picchetti fuori dal Whitney per arrivare a una più alta rappresentanza percentuale femminile nelle mostre annuali, alle proteste fuori del MoMA, le strategie pedagogiche di programmi educativi come The Feminist Art Programs at Fresno e le esperienze comunitarie di spazi alternativi (Women’s Interart Center) – diedero un forte impulso alla diffusione di mostre, eventi, pubblicazioni. Ma era soprattutto l’istituzione soprattutto ad essere attaccata.
[iv] Nel 1966 Valerie Solanas aveva inviato a Warhol un copione del suo dramma teatrale Up Your Ass chiedendogli di produrlo ma fu rifiutato; poi partecipò a un suo film come comparsa con una piccola parte (I, a Man). Dopo l’attentato che ferì gravemente Warhol, il suo critico d’arte, e il suo curatore e compagno di allora Mario Amaya, la Solanas dichiarò di avergli sparato perchè: “aveva troppo controllo sulla mia vita”. Lo SCUM Manifesto (Society for Cutting Up Men) era stato pubblicato per la prima volta nel 1968 e si apriva così: «In questa società la vita, nel migliore dei casi, è una noia sconfinata e nulla riguarda le donne: dunque, alle donne responsabili, civilmente impegnate e in cerca di emozioni sconvolgenti, non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione globale e distruggere il sesso maschile.»
[v] Carla Lonzi, Taci. Anzi Parla. Diario di una Femminista, 1978.
[vi] Carla Lonzi, Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, 1980.
[vii] Marco Scotini, Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici, DeriveApprodi, 2017.
[viii] Carla Lonzi, “Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile”, in Sputiamo su Hegel e La donna clitoridea e la donna vaginale, Scritti di Rivolta Femminile, 1974 Milano, p.65.
For those times you desperately need 20 pounds of potatoes and the stores are closed.