Pallavi Paul (1987) vive a Nuova Delhi. Nel suo lavoro utilizza video, installazione, testo scritto, fotografia, ricerca e performance. La sua pratica eterogenea è basata sul lavoro con domande sulla verità e con il collaudo delle prove con cui queste stesse domande si devono confrontare. Paul è anche dottoranda all’Università Jawaharlal Nehru di Delhi. La sua tesi guarda alla ‘non-finzione’ come provocazione filosofica, in particolar modo con un interesse per forme discorsive che la non-finzione produce e per il loro incontro con pratiche come cinema, legge, arte e tecnologia.
Pallavi Paul, Nayi Kheti/ New Harvest, HD Video, 11:02 min, 2013.
Michelangelo Corsaro: Vorrei cominciare chiedendoti qualcosa sulla trilogia di film Nayi Kheti/ New Harvest (2013), Shabdkosh/ A Dictionary (2014), e Long Hair Short Ideas (2014). In particolare mi interessano gli incontri con le diverse persone che compaiono nei film: Vidrohi, un uomo che ha scelto di vivere come poeta e attivista in relazione alle lotte studentesche condotte all’interno dell’Università Jawaharlal Nehru di Delhi, e Shantiji, sua moglie, alla quale la vita e la propria condizione di donna all’interno di un sistema di valori tradizionali hanno imposto lotte del tutto diverse. Tu hai usato in precedenza la metafora dell’ospite per descrivere il modo in cui il loro coinvolgimento nel film supera il concetto di ‘personaggio’ e fuoriesce da esso. Vorresti raccontarmi qualcosa in più?
Pallavi Paul: La forma del documentario perlopiù produce – o si basa su – personaggi. Un ‘personaggio’ è un ordinamento coerente di intenzioni, motivazioni e, per estensione, di conseguenze. Questo ordinamento è quasi sempre giustificato attraverso la biografia. Vorrei fare qui una distinzione fra contesto e biografia: il contesto come sappiamo lascia sufficiente spazio alle contingenze. Anche eventi che implodono su loro stessi possono formare un contesto. La biografia invece situa il gesto in un dominio di certezza. È la certezza che è essenziale a produrre testimoni. Le persone che compaiono nei miei film non sono testimoni ma piuttosto presenze, mi piace pensare a loro come ospiti. L’ospite di una festa è spesso la premessa per altre persone per incontrarsi, la fuoriuscita da questi incontri sorpassa i parametri stabiliti dall’ospite. Per riportare questa analogia al mio lavoro, le persone che appaiono in questi film sono le premesse per un incontro; quello che avviene dopo non è determinato dal biografico.
Pallavi Paul, Shabdkosh/ A Dictionary, HD Video, 19:16 min, 2014.
Pallavi Paul, Shabdkosh/ A Dictionary, HD Video, 19:16 min, 2014.
I film Nayi Kheti/ New Harvest, Shadbkosh/ A Dictionary, Long Hair Short Ideas ad oggi sono stati presentati insieme e se ne è scritto come di una trilogia. Tuttavia, quando ho cominciato a lavorarci per me hanno preso forma come lavori indipendenti. È stato solo a posteriori che li ho visti funzionare tutti insieme e mettersi in discussione a vicenda. Nel 2012 mi sono imbattuta in un libro intitolato After Lorca, il libro è una commovente collezione di lettere scritte dal poeta Jack Spicer a Federico Garcia Lorca vent’anni dopo la sua morte. Immergendomi poco a poco nelle domande di Spicer ho cominciato a immaginare uno scenario in cui Lorca potesse rispondergli. È qui che la poesia di Vidrohi mi è ritornata utile. Le sue poesie attraversano l’Himalaya, le rovine di Mohenjodaro, l’altopiano di Pamir e così via, diventando in qualche modo il tramite più adatto per far accadere il paradossale anacronismo di questo incontro. In aggiunta, sono finite in questa sceneggiatura anche narrazioni riguardanti cinema, magia, tecnologia, storia. Il secondo film Shabdkosh è successivo al momento in cui avevo già finito di registrare la maggior parte delle poesie di Vidrohi in video. La sua opera è prevalentemente orale e, dopo averne registrata una larga parte, la domanda su cosa sarebbe successo dopo è divenuta centrale. Cosa viene dopo il documento? La sensazione è il residuo della storia o è piuttosto la premessa necessaria per scriverla? In questo film ho messo in scena il silenzio che segue alle poesie di Vidrohi e l’ultimo discorso di Salvador Allende, pronunciato mentre il palazzo presidenziale cileno veniva bombardato. Entrambi i momenti riguardano in qualche modo la fede nell’archivio e allo stesso modo la consapevolezza che questa fede deve essere performata a livello sociale. Cosa comporta questa performatività per le pratiche documentarie? L’ultimo film della trilogia è Long Hair Short Ideas, qui mi sono rivolta alla cultura politica che riecheggia nella poesia di Vidrohi – dall’esterno. Nel film compare la moglie che Vidrohi ha ripudiato, una tipologia di figura assente da qualsiasi discorso sulla politica rivoluzionaria. La moglie del rivoluzionario è un’assenza dalla storia e qui Shantiji riempie questa assenza parlando di domesticità, lavoro e sessualità.
Pallavi Paul, Long Hair Short Ideas, HD Video, 21:33 min, 2014.
MC: Vorrei chiederti una cosa che trovo centrale nei tuoi film e nel modo in cui ne strutturi i processi esecutivi: memoria e immaginazione. Ho come l’impressione che la memoria e l’immaginazione si uniscano in una forza trasformativa che concede alle diverse componenti del lavoro un alto livello di libertà e autodeterminazione. La sensazione è che la memoria e l’immaginazione spingano contro l’emergere di una narrazione vera e propria, disfacendo il contesto storico, le relazioni sociali fra le diverse voci, persino le loro affezioni. Quali sono i problemi che incontri di fronte a categorie come ‘documentario’ e ‘finzione’?
PP: ‘Memoria’ e ‘immaginazione’: è interessante che suggerisci questo binomio e ti appelli allo stesso tempo a documentario e finzione. Per come l’immagine in movimento è stata storicizzata, le rispettive relazioni fra documentario e memoria e fra finzione e immaginazione sembrano le più elementari. Questo tipo di storicizzazione d’altro canto non è poi così interessante perché i suoi limiti sono evidenti a chiunque pensi all’immagine come a un trasmettitore. Quando penso alle categorie di documentario e finzione penso a quello che Deleuze ha definito “il tentativo di una classificazione dei segni”. Per me l’immagine in movimento non mette solo in discussione la distinzione fra documentario e finzione, piuttosto accoglie anche la proposta radicale contenuta nel lavoro di Deleuze: la liberazione dalla distinzione fra la dimensione fisica e psicologica. L’appiattirsi di questa distinzione fra pensiero e realtà materiale è la principale avventura dell’immagine nel mio lavoro. Questo avviene in modi diversi e ogni cosa è strategia. Lo schermo potrebbe essere qualsiasi cosa: segnale, carta, messaggio, lettera, conversazione, report, osservatorio, rumore. L’altra cosa che mi aiuta a pensare alla possibilità della trasformazione è la poesia. La poesia è molto importante nella mia pratica perché funziona come una rigorosa distilleria di idee. Come forma di produzione culturale la trovo un’utile provocazione per il visivo. La dilatazione del tempo, dello spazio, della geografia, del luogo è qualcosa che apprezzo molto quando ho a che fare con la poesia. C’è anche una sorta di competizione con l’immagine, che è al cuore dell’opera di Federico Garcia Lorca, Vidrohi, Anish Ahluwalia, Jack Spicer. C’è una specie di immagine latente con cui tutti questi artisti lavorano; la domanda per il filmmaker diventa allora: come mantenere la superficie rilevante? Come può ciò che viene mostrato al pubblico conservare il sensato spessore della dimensione della poesia e rimanere allo stesso tempo in grado di muoversi liberamente in comunione con altri materiali e altri toni?
Pallavi Paul, Cynthia Ke Sapne/ The Dreams of Cynthia, video a tre canali, 44:00 min, foto dell’installazione, Countour Biennale, Mechelen 2017.
MC: C’è qualcosa che diventa veramente importante nel momento in cui il tuo lavoro si realizza come qualcosa di eminentemente politico. Mi riferisco a un impegno per la ri-mediazione delle tensioni fra registrazione e immagine. Perché la registrazione possiede una sorta di potere trasformativo, in quanto esiste come documento, esce fuori di sé e informa la realtà, vi agisce e cerca di cambiarla. L’immagine, invece, lotta per essere auto-trasformativa, per rimanere in costante movimento, perché quando un’immagine diventa troppo fissa o rigida allora la percepiamo come una falsa immagine – come l’immagine di un’immagine. Si tratta di un problema che ritorna su diversi livelli di significato – con l’opera d’arte, con l’archivio, con il museo, con l’istituzione: come tenere questi oggetti in movimento?
PP: Ci sono diverse tracce qui – significato, immobilità, trasformazione. La registrazione diventa l’atto attraverso il quale la relazione fra queste cose può essere ricomposta. Quando guardiamo alla registrazione nel contesto dell’immobilità, invochiamo una specifica cadenza, una compressione del tempo che sembra quasi lavorare contro l’istinto dell’immagine – che hai appropriatamente chiamato auto-trasformativo. In questa auto-trasformazione dell’immagine è anche codificata la questione dell’agentività e per me questa questione è al cuore della politica. L’agentività ci protegge dalle categorie di vittima assoluta, di carnefice assoluto, persino di immagine assoluta. Nell’agentività dilaga la possibilità di mettere in atto sotterfugi e di usare la ‘falsità’ come terreno fertile per il verificarsi di molte cose. Di conseguenza, i “diversi livelli di significato” di cui parli sono già di per sé inscritti nei materiali e negli spazi. Mi piace pensare a questo aspetto come a un orizzonte della volontà. Questa volontà è per sua natura politica, una specie di carica che è al contempo caotica e incantevole. Le continue revisioni di archivi e istituzioni sono essenziali per mantenere aperte le possibilità prodotte da una certa mobilità.
Un altro terreno su cui misurarsi con i tuoi suggerimenti è costituito dall’idea di ‘verità’, per me questa è una costante curiosità. Per verità intendo articolazioni provvisorie e mitizzate di gesti e possibilità vis-à-vis alla conoscenza. Queste articolazioni possono funzionare come barricate o come aperture. La storia della verità, dunque, è la storia sia del potere sia dell’immaginazione. La politica è al contempo la congiunzione e la fuoriuscita di queste forme.
Pallavi Paul, Burn the Diaries I, inchiostro su carta (set di 12), 22,9 x 27,9 cm, 2014.
MC: L’interagire di diversi elementi come la temporalità, la politica, e la verità mi porta a un’altra questione che emerge qui in connessione con un certo interesse, in un qualche modo continuo all’interno del tuo lavoro, per la nozione di segretezza. Inizialmente sono stato tentato di associare questo tuo interesse al modo in cui i segreti funzionano come un’interferenza fra documento e immagine, specialmente nella misura in cui metti in discussione le definizioni di film documentario, l’idea di archivio e di memoria. Detto questo, rimane il fatto che esiste qualcos’altro che ha più a che vedere con il tuo desiderio di lavorare con la pratica della narrazione in maniera sperimentale, in particolar modo in relazione a idee di cui abbiamo parlato in precedenza, come quella di risonanza e di narrazione circolare ma anche a un’esplorazione della valenza scultorea o visiva di nuove forme narrative. Come ti poni riguardo a certe idee?
PP: È molto interessante il modo in cui hai impostato questa domanda intorno alla nozione di segretezza. Nel lavoro che sto al momento terminando mi sono posta due domande:
“Le rivelazioni spodestano i segreti?”
“Le rivelazioni hanno la capacità di allentare la tenuta del tempo e la sua opacità?”
Trovo queste domande proficue in quanto permettono una fuoriuscita al di là della memoria e delle sue forme ausiliarie. Per me la presenza di un segreto non significa semplicemente qualcosa che necessariamente deve essere decifrato o esaltato. Il segreto rende visibili i limiti delle forme narrative: è questo che lo rende interessante come interlocutore metodologico, un agent provocateur.
La sperimentazione è inerente all’immaginazione del ‘segreto’. Le condizioni che danno vita al segreto sono ovviamente interessanti ma ancora più essenziale è il punto di vista stesso della segretezza. Contrariamente a una trasparenza che affronta il segreto per estendere la propria portata – che è poi il modo in cui la legge e la scienza hanno tradizionalmente trattato il segreto – trovo che l’arte possa abitare nel segreto con più facilità. L’arte non è primariamente governata dal principio di trasparenza, anche se la visione è una delle sue forze propulsive. Quello che sto cercando di dire è che l’arte può essere un terreno molto fertile su cui la segretezza e il visivo possono incontrarsi, senza l’imperativo di una rivelazione.
Pallavi Paul, Burn the Diaries, stampa a inchiostro su carta, 22,8 m, performance, Imperial War Museum, Londra, 2014.
Lo statuto dell’oggetto nel mio lavoro è molto invischiato in queste idee. Ci sono diverse circostanze in cui l’uso di oggetti è stato del tutto integrale all’attenzione per le sfide filosofiche poste dal materiale di partenza del mio lavoro. Giusto per fare un esempio: quando ero nel Regno Unito a fare ricerca sulla storia dell’agente della Special Operations Executive (SOE), Noor Inayat Khan, la sua vicenda mi si manifestò come la storia di un’assenza. Per essere un buon agente segreto era importante che non lasciasse traccia. L’unico documento che le è sopravvissuto è il dossier del personale ufficiale conservato all’Archivio Nazionale di Londra. Cercare di creare un’immagine filmica di questa storia sarebbe stato contro-intuitivo all’esperienza di quell’assenza. Per questo ho riprodotto il dossier stesso come un lungo ingombrante rotolo sul quale erano riportate in codice Morse le notizie ufficiali sulla sua vita e sulla sua successiva morte (evento sul quale lo stesso dossier riporta multiple discordanti versioni). Questo oggetto cartaceo è diventato sia qualcosa che ho esposto a diverse mostre sia il copione per una performance (Burn the Diaries, 2014). Ho lavorato con fotografie, disegni, recentemente anche con un tappeto (Terra Firma, 2017) nel tentativo di sollecitare l’immaginazione dell’oggetto filmico. È qui che il documento, il materiale e l’immagine coesistono in una condizione di dissenso costruttivo.
Pallavi Paul, Burn the Diaries, stampa a inchiostro su carta, 22,8 m, foto dell’installazione, Beirut Art Center, Beirut, 2014.
MC: Avendo parlato di trasparenza e visione, di poesia, di potere, di curiosità e di agentività, penso che sarebbe importante discutere ora di un tuo lavoro che mi è molto caro. Si tratta di una serie di opere su carta, intitolate Elsewhere (2018), sul linguaggio e sulla politica delle sue dinamiche interne. Ancora una volta, questo discorso ha a che vedere con la poesia e una specie di natura performativa, al di là del valore denotativo, connotativo, o rappresentazionale del linguaggio. In passato abbiamo già parlato di questi lavori e continuo a pensare alle relazioni che qui hai creato fra parole, immagini e significato. Vuoi dirmi qualcosa di più su questi lavori e su come guardi a queste relazioni?
PP: Nella serie Elsewhere avevo sicuramente in mente il linguaggio ma non solo. Pensavo anche all’influenza del linguaggio su atti non rappresentazionali e sulle diverse convenzioni di significato. Sotto questa luce, anche la questione dell’alterità può essere avvicinata con discrezione. Intendo per alterità un testimone della nostra conversazione a proposito del linguaggio. Sappiamo come alcune forme di legittimazione e autorità sono prodotte attraverso l’evocazione dell’‘altro’. Il linguaggio non è innocente: può diventare una provocazione estetica piuttosto che un’intenzione predeterminata e carica di valore. In Elsewhere provo a fare questa operazione in primo luogo con le forme del disegno e del dizionario. Esiste un gioco fra il contenimento delle definizioni nei testi presi dal dizionario e le immagini che queste definizioni potrebbero istigare. L’altro discorso è quello della traduzione, qui fra il testo in hindi e in inglese. Questo funzionamento delle opere è modulare e ci si può giocare all’infinito perché non si rivolge a un’‘essenza’ ma c’è semplicemente una proceduralità strategica e un senso del tempo aperto e libero. Inoltre i disegni, simili a quelli dei dizionari, funzionano attraverso l’associazione e non attraverso una causalità materiale essenziale. Il collage è dunque al contempo un’alleanza, una collisione e una coreografia. Quando li ho esposti li chiamavo “cose da fare” ma adesso la tua domanda me li fa anche ripensare come esercizi per la produzione di spazio.
Pallavi Paul, Elsewhere 5, inchiostro, filo e collage su carta, 22,9 x 19 cm, 2018.
MC: Volevo ritornare su una conversazione che abbiamo avuto di recente a proposito di idee che spesso vengono associate alla relazione fra te e il tuo lavoro, come il fatto di essere donna, o la tua provenienza dall’Asia meridionale. Come si sviluppano queste relazioni e in quale misura senti il bisogno di rompere con certe idee che sono associate all’identità? In particolare mi interessa sapere cosa hai da dire sulla misura in cui la tua posizione differisce da quelle precedenti, se senti che ci siano cambiamenti in atto e verso quali tipi di processi politici.
PP: Sì, ritornare a questo tema ricorrente nelle nostre discussioni è forse un buon modo di concludere questa conversazione. Abbiamo recentemente perso Okwui Enwezor e alla luce della sua scomparsa ho riletto la sua ultima intervista su “Der Spiegel”, dove dichiara “In ultima analisi, non mi vedo come vittima di nulla. Ma è piuttosto plausibile che le mie origini, o anche il mio aspetto, portino qualcuno a creare proiezioni. Constato molto bene come vengo svalutato culturalmente.” È una cosa che mi è rimasta impressa, specialmente detta da una persona che all’epoca stava combattendo per la propria salute ed era umiliata a livello professionale. Okwui presentò così tante e fondamentali sfide al discorso sull’arte, così come anche alle sue circostanze personali – io penso che questo sia stato possibile solo perché non considerava sé stesso come esclusivamente prodotto dalle condizioni della sua nascita. Da un lato è importante essere consapevoli delle nostre posizioni e delle influenze critiche da esse attivate dall’altro fare dell’identità la sola base per il discorso intellettuale riproduce la tirannia dell’esperienza. Qualsiasi conversazione corre il rischio di diventare esclusiva invece che fare l’opposto. Questo ha anche implicazioni dirette sulle finalità del pensiero speculativo. L’effetto collaterale di un lavoro basato sull’identità è l’immobilità.
È in questo contesto che durante la conversazione che abbiamo avuto a Delhi ti ho detto che mi rifiuto di vedere me stessa come primariamente un’artista donna, di pelle scura, originaria dell’Asia meridionale. Mentre questa è la mia realtà quotidiana, non deve d’altro canto essere l’unica premessa del mio discorso artistico. Devo sottolineare qui che dico questo da una posizione di piena consapevolezza della precaria distinzione che corre fra amnesia reazionaria e un rifiuto politicamente conscio di un’immobilità (S)torica. Trovo molto più produttivo abbracciare il rischio insito in questa sottile distinzione che cercare conforto in una replicazione formulaica dell’identità.
Pallavi Paul, Elsewhere 8, inchiostro, filo e collage su carta, 22,9 x 19 cm, 2018.
Michelangelo Corsaro è un curatore indipendente che vive e lavora ad Atene. Ha lavorato nel team curatoriale della Kunsthalle Athena, alla rivista South As a State of Mind, e come assistente curatore di documenta 14.
L’intervista è stata realizzata in occasione di Conversations in Fugitive Spaces, un progetto voluto e realizzato da Standards in collaborazione con Archive Kabinett e curato da Michelangelo Corsaro; con film di Alessandra Ferrini, Antje Majewski, Thi Trinh Nguyễn, Pallavi Paul.
Pallavi Paul, Terra Firma, tappeto, poliammide, 4 x 5 m, foto dell’installazione, Fitzwilliam Museum, Cambridge, 2017.
Pallavi Paul, Terra Firma, dettaglio, tappeto, poliammide, 4 x 5 m, 2017.
Pallavi Paul (1987) vive a Nuova Delhi. Nel suo lavoro utilizza video, installazione, testo scritto, fotografia, ricerca e performance. La sua pratica eterogenea è basata sul lavoro con domande sulla verità e con il collaudo delle prove con cui queste stesse domande si devono confrontare. Paul è anche dottoranda all’Università Jawaharlal Nehru di Delhi. La sua tesi guarda alla ‘non-finzione’ come provocazione filosofica, in particolar modo con un interesse per forme discorsive che la non-finzione produce e per il loro incontro con pratiche come cinema, legge, arte e tecnologia.
Pallavi Paul, Nayi Kheti/ New Harvest, HD Video, 11:02 min, 2013.
Michelangelo Corsaro: Vorrei cominciare chiedendoti qualcosa sulla trilogia di film Nayi Kheti/ New Harvest (2013), Shabdkosh/ A Dictionary (2014), e Long Hair Short Ideas (2014). In particolare mi interessano gli incontri con le diverse persone che compaiono nei film: Vidrohi, un uomo che ha scelto di vivere come poeta e attivista in relazione alle lotte studentesche condotte all’interno dell’Università Jawaharlal Nehru di Delhi, e Shantiji, sua moglie, alla quale la vita e la propria condizione di donna all’interno di un sistema di valori tradizionali hanno imposto lotte del tutto diverse. Tu hai usato in precedenza la metafora dell’ospite per descrivere il modo in cui il loro coinvolgimento nel film supera il concetto di ‘personaggio’ e fuoriesce da esso. Vorresti raccontarmi qualcosa in più?
Pallavi Paul: La forma del documentario perlopiù produce – o si basa su – personaggi. Un ‘personaggio’ è un ordinamento coerente di intenzioni, motivazioni e, per estensione, di conseguenze. Questo ordinamento è quasi sempre giustificato attraverso la biografia. Vorrei fare qui una distinzione fra contesto e biografia: il contesto come sappiamo lascia sufficiente spazio alle contingenze. Anche eventi che implodono su loro stessi possono formare un contesto. La biografia invece situa il gesto in un dominio di certezza. È la certezza che è essenziale a produrre testimoni. Le persone che compaiono nei miei film non sono testimoni ma piuttosto presenze, mi piace pensare a loro come ospiti. L’ospite di una festa è spesso la premessa per altre persone per incontrarsi, la fuoriuscita da questi incontri sorpassa i parametri stabiliti dall’ospite. Per riportare questa analogia al mio lavoro, le persone che appaiono in questi film sono le premesse per un incontro; quello che avviene dopo non è determinato dal biografico.
Pallavi Paul, Shabdkosh/ A Dictionary, HD Video, 19:16 min, 2014.
Pallavi Paul, Shabdkosh/ A Dictionary, HD Video, 19:16 min, 2014.
I film Nayi Kheti/ New Harvest, Shadbkosh/ A Dictionary, Long Hair Short Ideas ad oggi sono stati presentati insieme e se ne è scritto come di una trilogia. Tuttavia, quando ho cominciato a lavorarci per me hanno preso forma come lavori indipendenti. È stato solo a posteriori che li ho visti funzionare tutti insieme e mettersi in discussione a vicenda. Nel 2012 mi sono imbattuta in un libro intitolato After Lorca, il libro è una commovente collezione di lettere scritte dal poeta Jack Spicer a Federico Garcia Lorca vent’anni dopo la sua morte. Immergendomi poco a poco nelle domande di Spicer ho cominciato a immaginare uno scenario in cui Lorca potesse rispondergli. È qui che la poesia di Vidrohi mi è ritornata utile. Le sue poesie attraversano l’Himalaya, le rovine di Mohenjodaro, l’altopiano di Pamir e così via, diventando in qualche modo il tramite più adatto per far accadere il paradossale anacronismo di questo incontro. In aggiunta, sono finite in questa sceneggiatura anche narrazioni riguardanti cinema, magia, tecnologia, storia. Il secondo film Shabdkosh è successivo al momento in cui avevo già finito di registrare la maggior parte delle poesie di Vidrohi in video. La sua opera è prevalentemente orale e, dopo averne registrata una larga parte, la domanda su cosa sarebbe successo dopo è divenuta centrale. Cosa viene dopo il documento? La sensazione è il residuo della storia o è piuttosto la premessa necessaria per scriverla? In questo film ho messo in scena il silenzio che segue alle poesie di Vidrohi e l’ultimo discorso di Salvador Allende, pronunciato mentre il palazzo presidenziale cileno veniva bombardato. Entrambi i momenti riguardano in qualche modo la fede nell’archivio e allo stesso modo la consapevolezza che questa fede deve essere performata a livello sociale. Cosa comporta questa performatività per le pratiche documentarie? L’ultimo film della trilogia è Long Hair Short Ideas, qui mi sono rivolta alla cultura politica che riecheggia nella poesia di Vidrohi – dall’esterno. Nel film compare la moglie che Vidrohi ha ripudiato, una tipologia di figura assente da qualsiasi discorso sulla politica rivoluzionaria. La moglie del rivoluzionario è un’assenza dalla storia e qui Shantiji riempie questa assenza parlando di domesticità, lavoro e sessualità.
Pallavi Paul, Long Hair Short Ideas, HD Video, 21:33 min, 2014.
MC: Vorrei chiederti una cosa che trovo centrale nei tuoi film e nel modo in cui ne strutturi i processi esecutivi: memoria e immaginazione. Ho come l’impressione che la memoria e l’immaginazione si uniscano in una forza trasformativa che concede alle diverse componenti del lavoro un alto livello di libertà e autodeterminazione. La sensazione è che la memoria e l’immaginazione spingano contro l’emergere di una narrazione vera e propria, disfacendo il contesto storico, le relazioni sociali fra le diverse voci, persino le loro affezioni. Quali sono i problemi che incontri di fronte a categorie come ‘documentario’ e ‘finzione’?
PP: ‘Memoria’ e ‘immaginazione’: è interessante che suggerisci questo binomio e ti appelli allo stesso tempo a documentario e finzione. Per come l’immagine in movimento è stata storicizzata, le rispettive relazioni fra documentario e memoria e fra finzione e immaginazione sembrano le più elementari. Questo tipo di storicizzazione d’altro canto non è poi così interessante perché i suoi limiti sono evidenti a chiunque pensi all’immagine come a un trasmettitore. Quando penso alle categorie di documentario e finzione penso a quello che Deleuze ha definito “il tentativo di una classificazione dei segni”. Per me l’immagine in movimento non mette solo in discussione la distinzione fra documentario e finzione, piuttosto accoglie anche la proposta radicale contenuta nel lavoro di Deleuze: la liberazione dalla distinzione fra la dimensione fisica e psicologica. L’appiattirsi di questa distinzione fra pensiero e realtà materiale è la principale avventura dell’immagine nel mio lavoro. Questo avviene in modi diversi e ogni cosa è strategia. Lo schermo potrebbe essere qualsiasi cosa: segnale, carta, messaggio, lettera, conversazione, report, osservatorio, rumore. L’altra cosa che mi aiuta a pensare alla possibilità della trasformazione è la poesia. La poesia è molto importante nella mia pratica perché funziona come una rigorosa distilleria di idee. Come forma di produzione culturale la trovo un’utile provocazione per il visivo. La dilatazione del tempo, dello spazio, della geografia, del luogo è qualcosa che apprezzo molto quando ho a che fare con la poesia. C’è anche una sorta di competizione con l’immagine, che è al cuore dell’opera di Federico Garcia Lorca, Vidrohi, Anish Ahluwalia, Jack Spicer. C’è una specie di immagine latente con cui tutti questi artisti lavorano; la domanda per il filmmaker diventa allora: come mantenere la superficie rilevante? Come può ciò che viene mostrato al pubblico conservare il sensato spessore della dimensione della poesia e rimanere allo stesso tempo in grado di muoversi liberamente in comunione con altri materiali e altri toni?
Pallavi Paul, Cynthia Ke Sapne/ The Dreams of Cynthia, video a tre canali, 44:00 min, foto dell’installazione, Countour Biennale, Mechelen 2017.
MC: C’è qualcosa che diventa veramente importante nel momento in cui il tuo lavoro si realizza come qualcosa di eminentemente politico. Mi riferisco a un impegno per la ri-mediazione delle tensioni fra registrazione e immagine. Perché la registrazione possiede una sorta di potere trasformativo, in quanto esiste come documento, esce fuori di sé e informa la realtà, vi agisce e cerca di cambiarla. L’immagine, invece, lotta per essere auto-trasformativa, per rimanere in costante movimento, perché quando un’immagine diventa troppo fissa o rigida allora la percepiamo come una falsa immagine – come l’immagine di un’immagine. Si tratta di un problema che ritorna su diversi livelli di significato – con l’opera d’arte, con l’archivio, con il museo, con l’istituzione: come tenere questi oggetti in movimento?
PP: Ci sono diverse tracce qui – significato, immobilità, trasformazione. La registrazione diventa l’atto attraverso il quale la relazione fra queste cose può essere ricomposta. Quando guardiamo alla registrazione nel contesto dell’immobilità, invochiamo una specifica cadenza, una compressione del tempo che sembra quasi lavorare contro l’istinto dell’immagine – che hai appropriatamente chiamato auto-trasformativo. In questa auto-trasformazione dell’immagine è anche codificata la questione dell’agentività e per me questa questione è al cuore della politica. L’agentività ci protegge dalle categorie di vittima assoluta, di carnefice assoluto, persino di immagine assoluta. Nell’agentività dilaga la possibilità di mettere in atto sotterfugi e di usare la ‘falsità’ come terreno fertile per il verificarsi di molte cose. Di conseguenza, i “diversi livelli di significato” di cui parli sono già di per sé inscritti nei materiali e negli spazi. Mi piace pensare a questo aspetto come a un orizzonte della volontà. Questa volontà è per sua natura politica, una specie di carica che è al contempo caotica e incantevole. Le continue revisioni di archivi e istituzioni sono essenziali per mantenere aperte le possibilità prodotte da una certa mobilità.
Un altro terreno su cui misurarsi con i tuoi suggerimenti è costituito dall’idea di ‘verità’, per me questa è una costante curiosità. Per verità intendo articolazioni provvisorie e mitizzate di gesti e possibilità vis-à-vis alla conoscenza. Queste articolazioni possono funzionare come barricate o come aperture. La storia della verità, dunque, è la storia sia del potere sia dell’immaginazione. La politica è al contempo la congiunzione e la fuoriuscita di queste forme.
Pallavi Paul, Burn the Diaries I, inchiostro su carta (set di 12), 22,9 x 27,9 cm, 2014.
MC: L’interagire di diversi elementi come la temporalità, la politica, e la verità mi porta a un’altra questione che emerge qui in connessione con un certo interesse, in un qualche modo continuo all’interno del tuo lavoro, per la nozione di segretezza. Inizialmente sono stato tentato di associare questo tuo interesse al modo in cui i segreti funzionano come un’interferenza fra documento e immagine, specialmente nella misura in cui metti in discussione le definizioni di film documentario, l’idea di archivio e di memoria. Detto questo, rimane il fatto che esiste qualcos’altro che ha più a che vedere con il tuo desiderio di lavorare con la pratica della narrazione in maniera sperimentale, in particolar modo in relazione a idee di cui abbiamo parlato in precedenza, come quella di risonanza e di narrazione circolare ma anche a un’esplorazione della valenza scultorea o visiva di nuove forme narrative. Come ti poni riguardo a certe idee?
PP: È molto interessante il modo in cui hai impostato questa domanda intorno alla nozione di segretezza. Nel lavoro che sto al momento terminando mi sono posta due domande:
“Le rivelazioni spodestano i segreti?”
“Le rivelazioni hanno la capacità di allentare la tenuta del tempo e la sua opacità?”
Trovo queste domande proficue in quanto permettono una fuoriuscita al di là della memoria e delle sue forme ausiliarie. Per me la presenza di un segreto non significa semplicemente qualcosa che necessariamente deve essere decifrato o esaltato. Il segreto rende visibili i limiti delle forme narrative: è questo che lo rende interessante come interlocutore metodologico, un agent provocateur.
La sperimentazione è inerente all’immaginazione del ‘segreto’. Le condizioni che danno vita al segreto sono ovviamente interessanti ma ancora più essenziale è il punto di vista stesso della segretezza. Contrariamente a una trasparenza che affronta il segreto per estendere la propria portata – che è poi il modo in cui la legge e la scienza hanno tradizionalmente trattato il segreto – trovo che l’arte possa abitare nel segreto con più facilità. L’arte non è primariamente governata dal principio di trasparenza, anche se la visione è una delle sue forze propulsive. Quello che sto cercando di dire è che l’arte può essere un terreno molto fertile su cui la segretezza e il visivo possono incontrarsi, senza l’imperativo di una rivelazione.
Pallavi Paul, Burn the Diaries, stampa a inchiostro su carta, 22,8 m, performance, Imperial War Museum, Londra, 2014.
Lo statuto dell’oggetto nel mio lavoro è molto invischiato in queste idee. Ci sono diverse circostanze in cui l’uso di oggetti è stato del tutto integrale all’attenzione per le sfide filosofiche poste dal materiale di partenza del mio lavoro. Giusto per fare un esempio: quando ero nel Regno Unito a fare ricerca sulla storia dell’agente della Special Operations Executive (SOE), Noor Inayat Khan, la sua vicenda mi si manifestò come la storia di un’assenza. Per essere un buon agente segreto era importante che non lasciasse traccia. L’unico documento che le è sopravvissuto è il dossier del personale ufficiale conservato all’Archivio Nazionale di Londra. Cercare di creare un’immagine filmica di questa storia sarebbe stato contro-intuitivo all’esperienza di quell’assenza. Per questo ho riprodotto il dossier stesso come un lungo ingombrante rotolo sul quale erano riportate in codice Morse le notizie ufficiali sulla sua vita e sulla sua successiva morte (evento sul quale lo stesso dossier riporta multiple discordanti versioni). Questo oggetto cartaceo è diventato sia qualcosa che ho esposto a diverse mostre sia il copione per una performance (Burn the Diaries, 2014). Ho lavorato con fotografie, disegni, recentemente anche con un tappeto (Terra Firma, 2017) nel tentativo di sollecitare l’immaginazione dell’oggetto filmico. È qui che il documento, il materiale e l’immagine coesistono in una condizione di dissenso costruttivo.
Pallavi Paul, Burn the Diaries, stampa a inchiostro su carta, 22,8 m, foto dell’installazione, Beirut Art Center, Beirut, 2014.
MC: Avendo parlato di trasparenza e visione, di poesia, di potere, di curiosità e di agentività, penso che sarebbe importante discutere ora di un tuo lavoro che mi è molto caro. Si tratta di una serie di opere su carta, intitolate Elsewhere (2018), sul linguaggio e sulla politica delle sue dinamiche interne. Ancora una volta, questo discorso ha a che vedere con la poesia e una specie di natura performativa, al di là del valore denotativo, connotativo, o rappresentazionale del linguaggio. In passato abbiamo già parlato di questi lavori e continuo a pensare alle relazioni che qui hai creato fra parole, immagini e significato. Vuoi dirmi qualcosa di più su questi lavori e su come guardi a queste relazioni?
PP: Nella serie Elsewhere avevo sicuramente in mente il linguaggio ma non solo. Pensavo anche all’influenza del linguaggio su atti non rappresentazionali e sulle diverse convenzioni di significato. Sotto questa luce, anche la questione dell’alterità può essere avvicinata con discrezione. Intendo per alterità un testimone della nostra conversazione a proposito del linguaggio. Sappiamo come alcune forme di legittimazione e autorità sono prodotte attraverso l’evocazione dell’‘altro’. Il linguaggio non è innocente: può diventare una provocazione estetica piuttosto che un’intenzione predeterminata e carica di valore. In Elsewhere provo a fare questa operazione in primo luogo con le forme del disegno e del dizionario. Esiste un gioco fra il contenimento delle definizioni nei testi presi dal dizionario e le immagini che queste definizioni potrebbero istigare. L’altro discorso è quello della traduzione, qui fra il testo in hindi e in inglese. Questo funzionamento delle opere è modulare e ci si può giocare all’infinito perché non si rivolge a un’‘essenza’ ma c’è semplicemente una proceduralità strategica e un senso del tempo aperto e libero. Inoltre i disegni, simili a quelli dei dizionari, funzionano attraverso l’associazione e non attraverso una causalità materiale essenziale. Il collage è dunque al contempo un’alleanza, una collisione e una coreografia. Quando li ho esposti li chiamavo “cose da fare” ma adesso la tua domanda me li fa anche ripensare come esercizi per la produzione di spazio.
Pallavi Paul, Elsewhere 5, inchiostro, filo e collage su carta, 22,9 x 19 cm, 2018.
MC: Volevo ritornare su una conversazione che abbiamo avuto di recente a proposito di idee che spesso vengono associate alla relazione fra te e il tuo lavoro, come il fatto di essere donna, o la tua provenienza dall’Asia meridionale. Come si sviluppano queste relazioni e in quale misura senti il bisogno di rompere con certe idee che sono associate all’identità? In particolare mi interessa sapere cosa hai da dire sulla misura in cui la tua posizione differisce da quelle precedenti, se senti che ci siano cambiamenti in atto e verso quali tipi di processi politici.
PP: Sì, ritornare a questo tema ricorrente nelle nostre discussioni è forse un buon modo di concludere questa conversazione. Abbiamo recentemente perso Okwui Enwezor e alla luce della sua scomparsa ho riletto la sua ultima intervista su “Der Spiegel”, dove dichiara “In ultima analisi, non mi vedo come vittima di nulla. Ma è piuttosto plausibile che le mie origini, o anche il mio aspetto, portino qualcuno a creare proiezioni. Constato molto bene come vengo svalutato culturalmente.” È una cosa che mi è rimasta impressa, specialmente detta da una persona che all’epoca stava combattendo per la propria salute ed era umiliata a livello professionale. Okwui presentò così tante e fondamentali sfide al discorso sull’arte, così come anche alle sue circostanze personali – io penso che questo sia stato possibile solo perché non considerava sé stesso come esclusivamente prodotto dalle condizioni della sua nascita. Da un lato è importante essere consapevoli delle nostre posizioni e delle influenze critiche da esse attivate dall’altro fare dell’identità la sola base per il discorso intellettuale riproduce la tirannia dell’esperienza. Qualsiasi conversazione corre il rischio di diventare esclusiva invece che fare l’opposto. Questo ha anche implicazioni dirette sulle finalità del pensiero speculativo. L’effetto collaterale di un lavoro basato sull’identità è l’immobilità.
È in questo contesto che durante la conversazione che abbiamo avuto a Delhi ti ho detto che mi rifiuto di vedere me stessa come primariamente un’artista donna, di pelle scura, originaria dell’Asia meridionale. Mentre questa è la mia realtà quotidiana, non deve d’altro canto essere l’unica premessa del mio discorso artistico. Devo sottolineare qui che dico questo da una posizione di piena consapevolezza della precaria distinzione che corre fra amnesia reazionaria e un rifiuto politicamente conscio di un’immobilità (S)torica. Trovo molto più produttivo abbracciare il rischio insito in questa sottile distinzione che cercare conforto in una replicazione formulaica dell’identità.
Pallavi Paul, Elsewhere 8, inchiostro, filo e collage su carta, 22,9 x 19 cm, 2018.
Michelangelo Corsaro è un curatore indipendente che vive e lavora ad Atene. Ha lavorato nel team curatoriale della Kunsthalle Athena, alla rivista South As a State of Mind, e come assistente curatore di documenta 14.
L’intervista è stata realizzata in occasione di Conversations in Fugitive Spaces, un progetto voluto e realizzato da Standards in collaborazione con Archive Kabinett e curato da Michelangelo Corsaro; con film di Alessandra Ferrini, Antje Majewski, Thi Trinh Nguyễn, Pallavi Paul.
Pallavi Paul, Terra Firma, tappeto, poliammide, 4 x 5 m, foto dell’installazione, Fitzwilliam Museum, Cambridge, 2017.
Pallavi Paul, Terra Firma, dettaglio, tappeto, poliammide, 4 x 5 m, 2017.