Evadere dal palcoscenico per distruggere le carceri

di Autonomia Artistica.

Dal Living Theatre alle proteste nelle carceri italiane quando la teoria diviene prassi.

 

Quando nel 1947 Judith Malina e Julian Beck si recarono nell’appartamento dell’artista visivo newyorkese Robert Edmond Jones per esporre la loro idea di teatro, rimasero delusi dalla proposta del pittore di lavorare nel suo studio per la creazione di un teatro di rottura completa verso il passato, intimo, per pochi. I coniugi Beck aspiravano a un teatro alla “Broadway”, non per la tendenza a una produzione commerciale e di massa, ma al fine di creare spettacoli di alta risonanza che risvegliassero più coscienze critiche possibili. Il loro teatro, molto spesso frainteso come fenomeno meramente sperimentale e di rifiuto verso la tradizione, non voleva negare il teatro classico, al contrario introdurre al suo interno nuovi linguaggi e la veicolazione di messaggi sociali.

«Si è così agitata troppo spesso e trionfalmente la bandiera di un contro-teatro, cioè di un non-teatro che poi poco o nulla ha saputo dare per contrapporsi completamente al teatro pubblico in crisi di crescita arrestata». Intervento di Giorgio Strehler al convegno socialista il 26 maggio 1978.

«Per molti il teatro vuole essere considerato arte del passato, arte residua, incapace di interessare la collettività, incapace di parlare della nostra complessa contemporaneità. […] Teatro è conflitto-avvenimento fisico e psichico, e in quanto tale esige la nostra totale partecipazione attiva e per questo curatrice. Questo comporta la conseguenza che il teatro oggi è […] sempre più uno strumento di verità e di opposizione, uno strumento rivoluzionario proprio nel senso che l’educazione estetica e collettiva attraverso il teatro cerca di ricomporre l’armonia e l’unità nell’individuo quasi costretto alla dissoluzione e alla irresponsabilità». Appunti dattiloscritti di Giorgio Strehler, 1993.

Judith Malina e Julian Beck, New York, 1947.

Nell’ottica, dunque, di una produzione non alternativa ma integrativa, con grande vitalità Judith e Julian iniziarono a porre le basi per un teatro “popolare”, nel senso che aspirava a essere fruito da un pubblico vasto ed eterogeneo. Nel testo critico Il nuovo teatro. 1947-1970, Marco De Marinis individua tre fasi che inquadrano la loro pratica artistica avvenuta in territorio americano. La prima (1951-1955) è caratterizzata innanzitutto dalla ricerca di una sede, dapprima individuata a 789 Wooster Street (NY), ma di cui la polizia vietò l’apertura sospettando che i coniugi volessero mettere in piedi un bordello clandestino, e in seguito presso The Studio, che dopo un anno decisero di abbandonare a causa della richiesta da parte dell’Ufficio Agibilità di ridurre il numero delle sedie. Influenzati dai nuovi linguaggi performativi, nelle due strutture e al Cherry Lane, i coniugi Beck indagarono una forma di teatro poetico che dava maggiore spazio alla parola, a loro avviso più esplicativa della gestualità. Da questa prima produzione emergeva la volontà di rendere i loro lavori chiari e accessibili ad un pubblico ampio attraverso l’oggettività del linguaggio verbale, ma che ben presto si rivelò uno strumento artistico inefficace per narrare la crudeltà del reale. Dal ’55 al ’59 si aprì infatti la seconda fase, che vedeva in un primo momento l’analisi e la contestualizzazione storica di autori come Luigi Pirandello, poi l’eliminazione totale dell’inganno scenico insito in ogni rappresentazione teatrale, fino all’affermazione del Metateatro. In questa fase i coniugi Beck fecero giustizia al nome della compagnia “Living Theatre”, spingendo fino in fondo il connubio arte-vita predicato da John Cage e dal movimento Fluxus. Così come Martha Graham aveva intravisto una dimensione coreografica nei gesti quotidiani, il Living Theatre portò il reale all’interno dello spazio scenico.

 

The Living Theatre, Bologna, 13-25 giugno 1977, courtesy Gianfranco Boccafogli.

«Tra i tanti problemi affacciati per un teatro ci si potrebbe anche, una volta, soffermare sulla richiesta dei rapporti che esistono tra palcoscenico e platea, domandandosi fino a che punto il “teatro” rappresentato, può addentrarsi nel mezzo della comunità che assiste e che, più o meno partecipa ad una determinata azione drammatica». Giorgio Strehler, articolo comparso il 1giugno 1943 sulla rivista Eccoci!

Questa fase è anche segnata dall’inaugurazione di una nuova sede fissa tra la 14° strada e la 6° Avenue, in un vecchio magazzino che la compagnia ristrutturò nel giro di un anno.

«Un teatro ha bisogno di una casa, ha bisogno di case dove vivere e lavorare e stare insieme. Una struttura, il più possibile stabile, di gente legata al teatro che lavora e pensa e produce teatro […]». Intervento di Giorgio Strehler al convegno socialista il 26 maggio 1978.

Nel 1959 Judith e Julian ricevettero un manoscritto firmato Jack Gelber che raccontava la storia di un gruppo di drogati in attesa della dose in uno squallido appartamento di periferia. The Connection (1959) – in gergo spacciatore – chiamò sul palco dei veri tossicodipendenti che in uno stato di agitazione aspettarono per l’intera durata dello spettacolo l’arrivo del pusher. Non era più possibile scindere le reali azioni dalle finte improvvisazioni dei personaggi e l’assenza quasi totale di filtri teatrali disorientò il pubblico fino a farlo addirittura svenire durante la scena dell’overdose. Gli spettatori, interpellati in maniera diretta dai tossicodipendenti attraverso le continue richieste di denaro per l’acquisto della droga, erano immersi in un teatro che, per citare Antonin Artaud ne Il teatro e il suo doppio (1938), è come la peste: o si muore o si esce trasformati. È il ponte di lancio per la terza fase, in cui il Living Theatre si avvicinò all’ideologia anarchico-pacifista e fece sempre più suoi i capisaldi del Teatro della Crudeltà. La pratica teatrale, per essere efficace, deve aggredire gli spettatori e fornire loro gli strumenti necessari di critica tramite la fruizione di emozioni forti, violente e impetuose. Dopo una breve fase brechtiana, in cui mettono in scena spettacoli come In the jungle of living of the cities (1960) e Man is man (1962), il Living Theatre diviene vera e propria arma politica di sensibilizzazione sociale.

The Connection, volantino del 1959.

The 1961 film The Connection by Shirley Clarke will be shown in winter 2005 as part of the Cinematheque film series Reborn: Restorations from America’s Archives.

Nel 1963 Judith e Julian ricevono un manoscritto per posta firmato da un certo Kemeth H. Brown, il quale aveva vissuto nel 1957 come marine nella base navale giapponese di Okinawa e decise di raccontare per iscritto la giornata tipo di un prigioniero militare. Dopo alcune riflessioni i coniugi compresero che il modo migliore per rendere la brutalità dell’esperienza descritta in quella lettera era mettere in scena la realtà stessa delle prigioni. Durante le prove la compagnia si sottopose a vere e proprie vessazioni corporali, Judith imponeva loro regole ferree e la violazione comportava gravi punizioni, talvolta umilianti, talvolta dolorose. Furono stilate addirittura sei rigide norme che gli attori dovevano rispettare durante la creazione dello spettacolo, mentre il settimo punto conteneva le eventuali pene a cui sottoporre i trasgressori.

The Brig, 1964, Teatro in street Avenue.

Il risultato fu una messa in scena bestiale della situazione carceraria americana, un ambiente in cui camminare era proibito – le reclute dovevano correre qualsiasi azione dovessero compiere -, ogni infrazione implicava un pugno nello stomaco. In The Brig – il titolo dello spettacolo rimandava a un’espressione gergale usata per indicare il ponte vicino alle prigioni dei vascelli inglesi – un attore nei panni di prigioniero perdeva il manuale dell’esercito e veniva condannato all’isolamento, costretto a indossare una camicia di forza. Dovendo subire dei danni fisici non indifferenti, vittime e carnefici si scambiavano i ruoli ogni sera, per ricoprire rispettivamente dieci guardie e quattro carcerati.

The Brig, 1964, Teatro in street Avenue.

The Brig, 1964, Teatro in street Avenue.

The Brig, 1964, Teatro in street Avenue.

«Distruggere la violenza mediante la sua rappresentazione, ovvero, detto altrimenti, esorcizzare la violenza reale per mezzo della violenza teatrale» Antonin Artaud, da Il teatro e il suo doppio, 1938.

È un teatro di critica a una struttura legislativa in cui la forza pubblica e la sua dimensione coercitiva erano gli strumenti per il mantenimento dell’ordine. Il sistema capitalista, come spiega Toni Negri ne La forma stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione (1977) necessita di un rigido apparato burocratico-legislativo per distogliere l’attenzione dall’applicazione di principi imperialisti, neoliberisti e di accumulazione di profitto a discapito dei lavoratori. Lo spettacolo denunciava proprio le rigide strutture disciplinari che Foucault aveva descritto come veri e propri dispositivi attraverso cui il capitale reprimeva ogni tentativo di sovvertimento. Ulteriore testimonianza di questo controllo sfrenato fu il tentativo da parte del governo americano di ostacolare la messa in scena di The Brig, che era in cartellone solo da nove mesi ma aveva richiamato molta attenzione da parte delle masse. Nel 1963 Judith e Julian ricevettero la richiesta di saldare un debito con lo stato di 28.435,10 dollari fra tasse, assicurazioni e ammende. Non volendo e potendo pagare l’ingente somma, la compagnia si barricò all’interno del teatro e proseguì la messa in scena di The Brig come da programmazione. In tre giorni, durante i quali la polizia aveva circondato l’ingresso per impedire l’entrata al pubblico, più di 200 spettatori riuscirono ad accedere alla platea tramite i tetti e le scale di sicurezza. La terza sera le forze dell’ordine sfondarono le barricate e con undici capi d’accusa, tra cui resistenza al pubblico ufficiale, i coniugi Beck furono arrestati. Nonostante le numerose manifestazioni e le parole di solidarietà di alcuni intellettuali della controcultura come il poeta Allen Grinsberg, Judith e Julian rimasero in prigione per alcune settimane.

The Brig, 1964, Teatro in street Avenue.

The Brig, 1964, Teatro in street Avenue.

«La rivoluzione

Non è un semplice avvenimento […]

La rivoluzione,

è una conquista quotidiana […]

è la distruzione dei manicomi

degli ospizi

e le prigioni».

Neppi Modona, Carcere e società civile, op. cit. p. 1931.

 

La cultura carceraria della seconda metà del ‘900 mutava i contorni e risentiva direttamente delle lotte politiche che arrivavano dall’esterno. Le contraddizioni di un mondo che si rendeva sempre più conto che la battaglia contro i fascismi e i nazismi non era terminata nel 1945, ma che al contrario essi ritornavano mostrando il loro reale volto di puro servilismo alle politiche borghesi, ebbe nelle carceri uno dei massimi terreni di scontro. Le strutture di detenzione – lager legali – divennero, al crescere delle lotte politiche, dispositivi di controllo sussunti all’egemonia culturale dello Stato, che tramite ferri metodi di repressione ed estraniazione dell’individuo dal contesto sociale si ponevano di privare il detenuto della sua individualità-sostituzione del nome e cognome con numero di detenzione, rasatura dei capelli, uniforme carceraria, censura letteraria. La rigidità punitiva dello Stato denunciata da Judith e Julian ebbe modo di rapportarsi in quegli anni con un alto tipo di rigidità: quella della giustizia proletaria. La composizione della popolazione carceraria era a maggioranza rappresentata da elementi provenienti dalle classi subalterne, come se essi fossero più predisposti alla delinquenza, a una vita violenta, identificati, dunque, come il male supremo di una società benpensante che si nascondeva dietro un codice normativo il quale solo difendeva le contraddizioni e le diseguaglianze sociali. Il periodo a cavallo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80, rappresentò, non solo per l’esterno ma anche per l’interno, – centri di rieducazione – una fase di importanti lotte, di importanti conquiste, non solo sotto un profilo di reali avanzamenti di diritti lavorativi – che probabilmente  erano più appartenenti ad espedienti spontaneisti che socialisti – ma ancor di più nella dimensione dello sviluppo di una coscienza critica. Il detenuto comune che fino ad allora era considerato in maniera differente dal detenuto politico sviluppa, grazie all’aumento di quest’ultima categoria all’interno delle carceri, una coscienza di classe, e attraverso le avanguardie comuniste carcerate prende atto dei fattori materiali che hanno in una mancata uguaglianza di partenza la spiegazione di taluni atti criminosi.

2 ottobre 1979: rivolta al carcere dell’Asinara.

Cantava Fabrizio De André:

«C’hanno insegnato la meraviglia

verso la gente che ruba il pane

ora sappiamo che è un delitto

il non rubare quando si ha fame»

Sorgeva spontaneamente – e sorge sfortunatamente ancora oggi – la domanda: chi è ladro e chi santo? Chi è viene realmente difeso dalla legge e chi la legge la subisce?

Vi chiedo l’ergastolo, non per i morti che non ho ucciso, non per i reati in sé stessi, ma perché io sono vostro nemico, perché io sono vostro prigioniero, perché voi rappresentate il sistema capitalistico che è nemico mortale del genere umano, e perché al nemico vincitore non si chiede giustizia o pietà, ma si continua a combatterlo anche dal fondo delle sue putrescenti galere. Non sono qui per chiedere attenuanti, sono venuto davanti a voi, ma non per il motivo che spinge il detenuto comune a presenziare ai processi: difendersi cioè sul piano giuridico per attenuare la condanna.

Rivolta di detenuti sul tetto del carcere di san Vittore, 1969.

6 luglio 1968, prima protesta di massa organizzata dai detenuti del carcere milanese di san Vittore.

[…] Mi rivolgo alle forze sinceramente proletarie e rivoluzionarie. Solo rispetto ai valori che queste rappresentano, il mio passato può essere autocritico e condannato. Se io ho rapinato banche, se sono morti degli uomini, non per mano o volontà mia, non è certamente davanti a una classe che si fonda sulla rapina, sulla frode, sulla violenza più sanguinosa che debbo giustificarmi. Ho davanti a me una polizia assassina, ho davanti a me una legge fascista. […] La lotta contro di voi continua, fuori e dentro il carcere. Voi continuate a imprigionare tutti coloro che vi danno fastidio o sono un pericolo per il vostro disordine costituito. Voi mettete in carcere i pacifisti, gli obiettori di coscienza, noi li aiuteremo a superare le asprezze e le privazioni di questa vita e di questo ambiente, I detenuti comuni, gli sbandati, i ribelli senza speranza, noi ve li ritorneremo con una coscienza rivoluzionaria. […] Verrà il giorno in cui io, insieme al popolo, sarò vostro accusatore.

W Marx, W Lenin, W Mao Tse-tung!

Antonio Susca e Giancarla Rotondi, L’ARIA BRUCIA. Rivolte, solidarietà e repressione nelle carceri italiane (1968-1977), p. 82, 2018, Red Star Press, Roma.

Così come i prigionieri utilizzavano i tetti delle carceri come palcoscenici per rendere manifesta la loro esistenza e le loro condizioni al pubblico, usciti dalla galera e dopo cinque anni di libertà vigilata, Judith Malina e Julian Beck portarono gli spettacoli del Living Theatre in giro per l’Europa, anche in luoghi normalmente non adibiti al teatro come università, fabbriche, strade e musei. Quando De Marinis in relazione a questa fase nomade della compagnia parla di deteatralizzazione, si riferisce non tanto alla volontà di sradicare i capisaldi del teatro, ma di eliminare il connotato borghese di questa pratica e renderla arma politica e sociale. Lo confermano le numerose reinterpretazioni – e non negazioni – di spettacoli classici come Frankenstein e l’Antigone di Sofocle, riletti nel contesto sociale di quegli anni e attuando una denuncia alla struttura e alla sovrastruttura capitalista. Mysteries, ad esempio, messo in scena la prima volta il 26 ottobre 1964 a Parigi, era una grottesca rappresentazione di un mondo governato da dinamiche di potere e profitto. Nel secondo atto gli attori erano impegnati a recitare la Poesia del Dollaro, leggendo in adorazione tutte le scritte presenti sulla banconota americana.

The Living Theatre, Bologna, 13-25 giugno 1977, courtesy Gianfranco Boccafogli.

The Living Theatre, Bologna, 13-25 giugno 1977, courtesy Gianfranco Boccafogli.

Negli anni settanta la compagnia del Living Theatre si sciolse in quattro sottogruppi, riflettendo a pieno le dinamiche di frammentazione dovute alla mancanza di una solida ideologia, che i coniugi rifiutavano per l’ingenua paura di imporre una minima gerarchia. Judith, Julian e i pochi attori rimasti con loro, intrapresero una nuova forma teatrale più diretta, il cui confine l’attivismo politico era sempre più flebile. Nel luglio del 1970 si imbarcarono per San Paolo, alla volta di un paese governato dalla dittatura militare del generale Emílio Garrastazu Médici e una cerchia ristrettissima di imprenditori. Il Living Theatre voleva organizzare e mettere in scena gli spettacoli per quella vasta massa di proletari confinata nelle favelas, che però ben presto mostrò dei segni di perplessità nella comprensione di quelle performance dal retaggio intellettuale. Judith e Julian compresero che la struttura dei loro spettacoli doveva essere ricreata in loco, con la collaborazione diretta degli abitanti delle favelas, finché nel 1971 i coniugi furono arrestati dalle autorità brasiliane con l’accusa ufficiale – scusante – del possesso di droga, e rispediti in Nord America.

Così come i carcerati italiani degli anni settanta si presero la libertà di lottare al di là di ogni conquista giuridica, anche il Living Theatre combatté per la creazione di una pratica teatrale che non sradicasse completamente il teatro tradizionale ma ne superasse i limiti e l’astoricità, facendo dell’atto performativo un linguaggio di denuncia.

[…] Si tratta di aprire le porte della prigione alla società tutta intera: dimostrare che la prima è la conseguenza logica dello stato in cui si trova la seconda. Che le prigioni sono il ritratto fedele e veritiero dei regimi che le istituiscono e le fanno funzionare. Che esse ne smascherano l’ipocrisia; giudicateli dalle loro prigioni, questi difensori della “libertà individuale”, questi “liberali”, questi “democratici”, che hanno la sfrontatezza di dirsi missionari del “mondo libero”. La loro libertà vale quanto valgono le loro prigioni. Oppressiva, ingiusta, corrotta come lo sono queste […]

Antonio Susca e Giancarla Rotondi, L’ARIA BRUCIA. Rivolte, solidarietà e repressione nelle carceri italiane (1968-1977), pp. 194-195, 2018, Red Star Press, Roma.

Rebibbia femminile in rivolta, 1973 – foto Tano D’Amico.

Rebibbia femminile in rivolta, 1973 – foto Tano D’Amico.

 

 

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