Spunti per una ricerca sull’influenza a breve termine del “campo economico” sull’autonomia relativa del “campo della cultura”
PARTE I
Cercare di stabilire una correlazione diretta tra i produttori e il gruppo sociale da cui traggono il loro sostegno economico (collezionisti, spettatori, mecenati, ecc.) è dimenticare che la logica del campo prevede come possibile l’utilizzo delle risorse offerte da un gruppo o un’istituzione per produrre oggetti d’arte più o meno indipendenti dagli interessi e dai valori di questo gruppo o di quella istituzione.[i]
In quali punti la sfera economica incontra quella culturale? Cosa sono queste due sfere, concetti così generali e apparentemente privi di confini? Il concetto di “autonomia relativa” della sfera (o campo) dell’arte, elaborato dal sociologo Pierre Bourdieu negli anni ’70, non comprende soltanto una dimensione sociale (cioè il rapporto tra le sfere della produzione culturale e le sfere del potere economico e politico) ma si estende anche alla relazione tra il valore culturale e monetario dei beni simbolici. Esso apre quindi le porte per una ricerca sul legame tra mercato dell’arte, esposizione e produzione culturale.
Durante quello che gli economisti Ulf Wuggenig e Steffen Rudolph chiamano il “decennio avido”,[ii] che comprende i primi dieci anni del ventunesimo secolo, diversi sociologi hanno avanzato delle ipotesi che confutano il carattere di relativa autonomia della sfera dell’arte, soprattutto a causa della recente crescita del mercato dell’arte contemporanea e postbellica nel 2009, la prima grande ripresa dopo la recessione del 2007. Tali ipotesi – diverse da quelle degli economisti neoclassici che «tendono tradizionalmente a propagare una posizione ontologicamente riduzionista, assumendo una coerenza di valore estetico e valore di mercato» [iii] – si chiedono se esista ancora una relativa autonomia del campo dell’arte nei confronti del mercato oppure se la crescita di quest’ultimo (almeno quello legato all’acquisto nelle case d’asta) si trascina dietro anche significati culturali che riescono a plasmare il valore e la reputazione degli artisti.
Lo studio di Wuggenig e Rudolf del 2010 (che riporteremo tra poco) mostra una divergenza tra il valore estetico e quello economico e, quindi, una inconsistenza delle recenti ipotesi di “relativa eteronomia” del campo dell’arte. Tuttavia, vedremo anche come proprio quel carattere di “relatività” dell’autonomia sia diventato indubbiamente più articolato negli ultimi quindici anni, producendo delle criticità. Anche se è certamente difficile dimostrare come tali criticità abbiano un impatto a lungo termine sulla produzione e la ricezione culturale, e cioè su quello che Bourdieu chiamerebbe “ciclo di produzione a lungo termine” (vedi sotto), a venir messi in discussione non sono solo quei confini, difficili da tracciare, della cultura, ma, di fatto, la sua natura e la sua funzione all’interno di una società così complessa come quella nella quale viviamo.
Cosa succede, cioè, al campo dell’arte a lungo termine e cosa a breve termine? Cosa c’è in gioco oltre alla consacrazione degli artisti all’interno della storia dell’arte?
Louise Lawler, Pollock and Tureen, Arranged by Mr. and Mrs. Burton Tremaine, Connecticut, 1984.
L’economia del simbolico
Per partire con la nostra riflessione è fondamentale riferirsi alla teoria dei campi elaborata da Bourdieu per la prima volta nel suo articolo “Champe intellectuel et projet créateur” del 1966 (pubblicato in Temps modernes) e sviluppata in Le Regole dell’Arte del 1975, dove si narra la progressiva autonomizzazione del campo culturale da quello politico, economico e, in una certa misura, anche sociale. Quella che Bourdieu delinea è stata una teoria abbastanza innovativa rispetto a quelle allora in circolazione, in cui «non si tratta di scegliere tra il testo e il contesto [ma di] oggettivare metodicamente le condizioni di possibilità di due diversi fenomeni: l’opera, con le sue proprietà specifiche, e la ricezione dell’opera». [iv]
Sotto la definizione di “simbolico” Bourdieu metteva insieme diversi aspetti che, però, avevano una stessa consistenza: «il simbolico come attività cognitiva (senso) contrapposta ai rapporti di forza; come sfera del “soggettivo” (percezione) contrapposta all’ “oggettivo” (struttura); infine come forma di valore non riducibile al valore economico».[v]
La stessa autonomia, tuttavia, è riconosciuta da Bourdieu come un valore prodotto dallo stesso campo dell’arte: un valore, cioè, da non assolutizzare come universale o come metro di giudizio esterno al campo.
Come si comporta economicamente, quindi, il campo dei beni simbolici?
«La rivoluzione simbolica – dice Bourdieu – con cui gli artisti si affrancano dalla domanda borghese […] ha come conseguenza di far sparire il mercato».[vi] Il sociologo, infatti, descrive il campo dell’arte come un “mondo economico alla rovescia” proprio in virtù della sua relativa autonomia. È un mondo in cui «l’artista non può trionfare sul terreno simbolico se non perdendo su quello economico (quantomeno a breve termine) e viceversa (quantomeno a lungo termine)». [vii] Ci parla, quindi, di come le opere d’arte “intellettualmente valide” siano quelle che a breve termine non hanno mercato (dove il «senza prezzo» di Flaubert significherebbe un «senza valore commerciale» [viii])e che, affinché trionfino sul piano simbolico, e cioè entrino nella Storia dell’arte, abbiano bisogno di un intervallo di tempo in cui esse impongano al pubblico le loro “norme di percezione”. Addirittura riporta esempi di come, agli albori del fenomeno di autonomizzazione, questo sarebbe stato da alcuni studiosi considerato in modo pseudo-ideologico, vedendo cioè il successo commerciale di un’opera come sintomo di inferiorità intellettuale. [ix]
Louise Lawler, WAR IS TERROR, 2001/2003, cibachrome, 76.2 x 63.5 cm, 30 x 25 3/4 in., Courtesy Louise Lawler and Metro Pictures, New York.
“Prices now determine reputations”
Tuttavia, Bourdieu riconosce come l’autonomia dell’arte (anche quell’“arte per l’arte”, l’“arte pura” nata intorno al circolo di intellettuali di metà Ottocento, ma soprattutto con la figura di Charles Baudelaire) sia sempre relativa. Questo proprio in virtù dell’«omologia che collega la struttura del campo di produzione e quella del campo sociale nel suo insieme».[x] Infatti, come riportano Wuggenig e Rudolf, secondo il sociologo «il valore specificamente culturale [delle opere] e il loro valore commerciale rimangono relativamente indipendenti, sebbene una loro affermazione economica possa giungere a rafforzare la loro consacrazione culturale» [xi] Insomma, non si esclude, di fatto, un’influenza da parte del successo di mercato di un’opera sul suo valore simbolico. Tuttavia, i due economisti ci dicono come, negli ultimi anni, l’ipotesi che esista “un profondo abisso” tra valore simbolico e valore di mercato nel campo delle arti visive è stata messa in dubbio. [xii] Invece, secondo Isabelle Graw, Sighard Neckel e Diana Crane la sfera dell’arte sarebbe “relativamente eteronoma”. Si è postulato addirittura una forma di determinismo economico, secondo il quale i prezzi delle opere stabiliscano il loro valore estetico («per riassumere, secondo un critico d’arte americano, i prezzi ora determinano la reputazione» [xiii])smontata da Wuggenig e Rudolf in quanto si sottendono in realtà inesistenti o scarsi dati sul capitale di reputazione degli artisti [xiv]. Inoltre, in Pricing the priceless (1989), William Grampp afferma che «dire che il valore economico coincide con quello estetico è come dire che il particolare coincide con il generale, o che il valore estetico è una forma di valore economico così come qualsiasi altra forma di valore». [xv] Ma anche questa ipotesi viene smontata dai due economisti che ne riconoscono una problematicità analitica perché «una quantità abbastanza grande di varianza rimane inspiegata, cioè il 75% nelle analisi commissionate». [xvi]
Insomma, tutte le teorie di “relativa eteronomia” insieme a quelle che postulano un diretto determinismo economico del campo dell’arte sembrano non reggere il confronto con i dati a disposizione. Se analizziamo il mercato dell’arte e le scelte dei collezionisti, possiamo dire che i fattori che spingono all’acquisto di un’opera non sono prevedibili e monitorabili con criteri razionali (o quanto meno seguenti tutti la medesima logica) come quello del “the more it costs the more it worths”. Quello dei collezionisti è un gruppo molto diversificato al suo interno, in cui, come descrive Egidi, «vi sono quei collezionisti che acquistano arte solo per piacere, e quegli investitori che collezionano per raggiungere obiettivi finanziari»[xvii]; in più «Mentre la maggior parte dei collezionisti per passione si specializzano in un particolare settore del mercato, quello di loro interesse, molti investitori comprano in varie categorie e attingono a diversi periodi in modo da mitigare il rischio e bilanciare il loro portafoglio di investimenti» [xviii]. Ciò si potrebbe anche evincere dall’euforica oscillazione dei prezzi nel mercato dell’arte. Insomma: si colleziona e si compra arte contemporanea per motivi estremamente diversi.
Questo studio muove da quello di Larissa Buchholz in The global rules of art che, attingendo ai dati delle vendite delle aste dal 1998 al 2007, rivela un profondo gap tra le due sfere[xix] che dimostra come «la relativa indipendenza del valore simbolico rispetto al valore commerciale non solo è sopravvissuta alla spinta più recente nell’economia e nella globalizzazione nell’arte contemporanea, ma è anche prodotta e riprodotta in condizioni globali storicamente nuove». [xx]
Utilizzando un metodo soggettivista, Wuggenig e Rudolph incrociano tre insiemi di dati. Il primo è un insieme di giudizi sul valore estetico degli 83 artisti contemporanei e postbellici più venduti ottenuto da un campione di 810 visitatori di mostre presso il Migros Museum of Contemporary Art a Zurigo tra il 2009 e 2010 (tra cui un sotto-campione di 140 esperti e addetti ai lavori): ciò avrebbe determinato un indicatore per il valore simbolico. Il secondo, per il valore economico, sono i dati sui prezzi delle aste associate alle opere degli artisti nel 2010. Il terzo insieme è relativo al ranking di reputazione di suddetti artisti basato sui dati del 2010 di Artfacts.net ed indica indirettamente una forma di valore estetico legato all’esponibilità [xxi] (dipendente dalle libere scelte di curatori, direttori di musei e galleristi). La domanda formulata è stata la seguente: “Abbiamo messo insieme una lista di nomi e vorremmo sapere: a) se conosci alcuni di loro e b) se apprezzi quegli artisti che conosci”. Come scrivono i due studiosi, un primo risultato mostra come il «valore della correlazione tra le posizioni in classifica [rank correlation] nella dimensione estetica e in quella economica [sia] di 0.19. C’e quindi una correlazione positiva tra il valore di mercato e il valore estetico. L’intensità della correlazione, tuttavia, è piuttosto debole». [xxii] Questo contribuisce a creare tre gruppi di artisti: gli underprivileged (valore economico < reputazione), gli overprivileged (valore economico > reputazione) e i profili che portano una relativa consistenza tra valore economico e reputazione.
Valore economico secondo le vendite all’asta totali del 2010 raccolte da Artprice e valore estetico per 83 artisti secondo le valutazioni di esperti nel campo dell’arte a Zurigo 2009/2010 (n = 140, Kendall’s tau b = 0.19). Fonte: Ulf Wuggenig e Steffen Rudolph “Valuation beyond the Market: On Symbolic and Economic Value in Contemporary Art”, Art Production Beyond the Art Market, Karen van den Berg and Ursula Pasero (eds.), Berlino: Sternberg, 2013.
Valore economico secondo le vendite delle aste totali nel 2010 e valore estetico di 83 artisti secondo le posizioni in ArtFacts.net (novembre 2010). (Kendall’s tau b = 0.36). Fonte: Ulf Wuggenig e Steffen Rudolph “Valuation beyond the Market: On Symbolic and Economic Value in Contemporary Art”, Art Production Beyond the Art Market, Karen van den Berg and Ursula Pasero (eds.), Berlino: Sternberg, 2013.
Seguendo una procedura suggerita da Buchholz, fu scelta una seconda classifica culturale più oggettiva degli artisti, basata sui dati di ArtFacts.net, che riporta il ranking generale degli artisti. Si è ottenuto quindi un secondo interessante risultato riportato dal secondo grafico di dispersione.
Tutte e due i grafici indicano, quindi, come ci sia una bassa correlazione (e quindi una inconsistenza) tra valore estetico e valore economico nel campo delle arti visive contemporanee. In altre parole, «il riconoscimento culturale degli artisti continua a svolgersi in modo relativamente indipendente dai “segnali” inviati dai prezzi nel mercato delle aste».[xxiii]
A distanza di sei anni, vediamo come questi risultati siano in qualche modo supportati anche dal report di Art Basel e UBS del 2017 (riferiti ai dati di vendita del 2016). Nel 2016 i venti artisti viventi più venduti sono stati, in ordine decrescente: Gerhard Richter, Cui Ruzhuo, Yayoi Kusama, Richard Prince, Christopher Wool, Jeff Koons, David Hockney, Peter Doig, Adrian Ghenie, Yoshitomo Nara, Robert Ryman, Zeng Fanzhi, Rudolf Stingel, Frank Auerbach, Anselm Keifer, Mark Bradford, Pierre Soulages, Frank Stella, Maurizio Cattelan, Damien Hirst.
A sinistra i 20 artisti più venduti del 2016. A destra i 20 artisti più esposti (basato sul ranking delle istituzioni dove sono apparsi) dello stesso anni. Fonte: The Art Market: An Art Basel & UBS Report, condotto da Clare McAndrew (Fondatore di Arts Economics), 2017.
Avvicinando questi primi dati a quelli relativi al settore delle esposizioni, vediamo come non vi sia una corrispondenza di nomi (l’unica artista che appare in entrambe le tabelle è Yayoi Kusama). Inoltre: «la quota globale delle vendite dei quattro maggiori mercati del dopoguerra e del settore contemporaneo ha superato il 90% in valore nel 2016, ma ha rappresentato solo il 32% delle esposizioni totali»[xxiv]. I risultati dimostrano un’ulteriore differenza tra la posizione di un artista nel mercato delle aste e il loro valore culturale (considerando le esposizioni pubbliche). [xxv]
***
Questa autonomia relativa del campo dell’arte, questa sua “indipendenza dipendente”, sembra quindi essere sopravvissuta anche alla forte finanziarizzazione dell’ultimo decennio[xxvi]. Complice, probabilmente, anche il nuovo collezionismo, che vede sia un ampliamento della fascia dei più ricchi [xxvii] sia, forse, una percezione generale di impoverimento culturale dello stesso [xxviii]. Si è quindi tornati alla teoria di Bourdieu. Come, infatti, riconosce Boschetti, «[…] alcuni dei problemi con cui si scontrano i ricercatori che applicano la nozione di autonomia nascono da un uso mal definito del concetto, [che] impone di distinguere tra autonomia intellettuale (o artistica), autonomia politica e autonomia economica», cioè bisogna pensare che «l’autonomia intellettuale e artistica non presupponga necessariamente l’indipendenza finanziaria e politica e, viceversa, come queste non bastino a garantire l’originalità e l’eccellenza di un artista». [xxix]
note:
[i] Bourdieu, The rules of art, citato in Wuggenig, op. cit., p. 147.
[ii] “Decade of greed” è un concetto che riprendono dallo scrittore e collezionista tedesco Harald Falckenberg, il quale ne rielabora la nozione negli anni 80. Cfr. Ulf Wuggenig e Steffen Rudolph “Valuation beyond the Market: On Symbolic and Economic Value in Contemporary Art”, Art Production Beyond the Art Market, Karen van den Berg and Ursula Pasero (eds.), Berlino: Sternberg, 2013, p. 100-149.
[iii] Wuggenig e Rudolph, op. cit., p. 145 [traduzione dell’autrice].
[iv] Anna Boschetti, introduzione all’edizione italiana di Le Regole dell’arte Genesi e struttura del campo letterario, di Pierre Bourdieu. Milano: Il Saggiatore, 2013, p. 37.
[v] Ibid., p. 17.
[vi] Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte. Milano: Il Saggiatore, 2013, p. 142.
[vii] Ibid., p. 144.
[viii] Cfr. ibid., p. 142.
[ix] Ibid., p. 143.
[x] Boschetti, op. cit., p. 29.
[xi] Bourdieu, The Field of Cultural Production, citato in Wuggenig, op. cit., p. 115 [traduzione dell’autrice].
[xii] Wuggenig e Rudolph, op. cit., p. 115. [traduzione dell’autrice].
[xiii] Tomkins, “A Fool for Art: Jeffrey Deitch and the Exuberance of the Art Market,” New Yorker, citato in Wuggenig, op. cit., p. 123. [traduzione dell’autrice].
[xiv] Wuggenig e Rudolph, op. cit., p. 126. [traduzione dell’autrice].
[xv] William Grampp, Pricing the Priceless, citato in Wuggenig, op. cit., p. 124. [traduzione dell’autrice].
[xvi] Wuggenig e Rudolph, op. cit., p. 129. [traduzione dell’autrice].
[xvii] Chiara Zampetti Egidi, Guida al mercato dell’arte moderna e contemporanea. Skira, 2014, p. 72.
[xviii] Chiara Zampetti Egidi, Guida al mercato dell’arte moderna e contemporanea. Skira, 2014, p. 72.
[xix] Come riportano Wuggenig e Rudolph «Con l’aiuto delle analisi a grappolo dell’élite globale delle carriere transnazionali degli artisti, questo studio teorico sul campo ha rivelato che c’è un divario considerevole tra queste due sfere di valore – caratterizzate da un lato da status, carisma e giudizi di esperti o esperti. e dall’altra per decisioni di mercato e dei consumatori» (op. cit., p. 130)
[xx] Wuggenig e Rudolph, op. cit., p. 131. [traduzione dell’autrice].
[xxi] Ibid., p. 131-132. [traduzione dell’autrice].
[xxii] Ibid., p. 139. [traduzione dell’autrice].
[xxiii] Ibid., p. 146. [traduzione dell’autrice].
[xxiv] The Art Market: An Art Basel & UBS Report, condotto da Clare McAndrew (Fondatore di Arts Economics), 2017, p. 158.
[xxv] Ibid., p. 162. [traduzione dell’autrice].
[xxvi] Cfr. Wuggenig, op. cit., p. 148.
[xxvii] Fattore questo strettamente collegato alla recente crescita dei prezzi dell’arte del dopoguerra e contemporanea. «La ricchezza a livello globale è una delle principali spinte del mercato dell’arte. Secondo Capgemini e la Royal Bank of Canada, la popolazione globale di HNWIs, ovvero “highnet-worth-individuals” è cresciuta più del 53% tra il 2000 e il 2011» (Anders Petterson intervistato da Egidi, op.cit., p. 47). E ancora «The art market boom of the past decade has been associated widely with the rise of HNWIs or ultra- HNWIs (people worth over $1 million or $30 million respectively), terms popularized by the World Wealth Reports that Merrill Lynch and CapGemini began releasing in 1997. These reports show the total wealth of HNWIs exploding from $19.1 trillion in 1997 to $42.7 trillion in 2010» (Andrea Fraser, “L’1% c’est moi”, Texte Zur Kunst, n.83/settembre, 2011, p. 4).
[xxviii] «In un mondo dove è importante la gratificazione immediata, la nuova generazione di collezionisti è più irrequieta, e vuole costruire le proprie collezioni velocemente, cosa che è possibile nel mercato dell’arte contemporanea» (Anders Petterson intervistato da Egidi, op.cit., p. 48).
di Giulia Carletti.
Spunti per una ricerca sull’influenza a breve termine del “campo economico” sull’autonomia relativa del “campo della cultura”
PARTE I
Cercare di stabilire una correlazione diretta tra i produttori e il gruppo sociale da cui traggono il loro sostegno economico (collezionisti, spettatori, mecenati, ecc.) è dimenticare che la logica del campo prevede come possibile l’utilizzo delle risorse offerte da un gruppo o un’istituzione per produrre oggetti d’arte più o meno indipendenti dagli interessi e dai valori di questo gruppo o di quella istituzione.[i]
In quali punti la sfera economica incontra quella culturale? Cosa sono queste due sfere, concetti così generali e apparentemente privi di confini? Il concetto di “autonomia relativa” della sfera (o campo) dell’arte, elaborato dal sociologo Pierre Bourdieu negli anni ’70, non comprende soltanto una dimensione sociale (cioè il rapporto tra le sfere della produzione culturale e le sfere del potere economico e politico) ma si estende anche alla relazione tra il valore culturale e monetario dei beni simbolici. Esso apre quindi le porte per una ricerca sul legame tra mercato dell’arte, esposizione e produzione culturale.
Durante quello che gli economisti Ulf Wuggenig e Steffen Rudolph chiamano il “decennio avido”,[ii] che comprende i primi dieci anni del ventunesimo secolo, diversi sociologi hanno avanzato delle ipotesi che confutano il carattere di relativa autonomia della sfera dell’arte, soprattutto a causa della recente crescita del mercato dell’arte contemporanea e postbellica nel 2009, la prima grande ripresa dopo la recessione del 2007. Tali ipotesi – diverse da quelle degli economisti neoclassici che «tendono tradizionalmente a propagare una posizione ontologicamente riduzionista, assumendo una coerenza di valore estetico e valore di mercato» [iii] – si chiedono se esista ancora una relativa autonomia del campo dell’arte nei confronti del mercato oppure se la crescita di quest’ultimo (almeno quello legato all’acquisto nelle case d’asta) si trascina dietro anche significati culturali che riescono a plasmare il valore e la reputazione degli artisti.
Lo studio di Wuggenig e Rudolf del 2010 (che riporteremo tra poco) mostra una divergenza tra il valore estetico e quello economico e, quindi, una inconsistenza delle recenti ipotesi di “relativa eteronomia” del campo dell’arte. Tuttavia, vedremo anche come proprio quel carattere di “relatività” dell’autonomia sia diventato indubbiamente più articolato negli ultimi quindici anni, producendo delle criticità. Anche se è certamente difficile dimostrare come tali criticità abbiano un impatto a lungo termine sulla produzione e la ricezione culturale, e cioè su quello che Bourdieu chiamerebbe “ciclo di produzione a lungo termine” (vedi sotto), a venir messi in discussione non sono solo quei confini, difficili da tracciare, della cultura, ma, di fatto, la sua natura e la sua funzione all’interno di una società così complessa come quella nella quale viviamo.
Cosa succede, cioè, al campo dell’arte a lungo termine e cosa a breve termine? Cosa c’è in gioco oltre alla consacrazione degli artisti all’interno della storia dell’arte?
Louise Lawler, Pollock and Tureen, Arranged by Mr. and Mrs. Burton Tremaine, Connecticut, 1984.
L’economia del simbolico
Per partire con la nostra riflessione è fondamentale riferirsi alla teoria dei campi elaborata da Bourdieu per la prima volta nel suo articolo “Champe intellectuel et projet créateur” del 1966 (pubblicato in Temps modernes) e sviluppata in Le Regole dell’Arte del 1975, dove si narra la progressiva autonomizzazione del campo culturale da quello politico, economico e, in una certa misura, anche sociale. Quella che Bourdieu delinea è stata una teoria abbastanza innovativa rispetto a quelle allora in circolazione, in cui «non si tratta di scegliere tra il testo e il contesto [ma di] oggettivare metodicamente le condizioni di possibilità di due diversi fenomeni: l’opera, con le sue proprietà specifiche, e la ricezione dell’opera». [iv]
Sotto la definizione di “simbolico” Bourdieu metteva insieme diversi aspetti che, però, avevano una stessa consistenza: «il simbolico come attività cognitiva (senso) contrapposta ai rapporti di forza; come sfera del “soggettivo” (percezione) contrapposta all’ “oggettivo” (struttura); infine come forma di valore non riducibile al valore economico».[v]
La stessa autonomia, tuttavia, è riconosciuta da Bourdieu come un valore prodotto dallo stesso campo dell’arte: un valore, cioè, da non assolutizzare come universale o come metro di giudizio esterno al campo.
Come si comporta economicamente, quindi, il campo dei beni simbolici?
«La rivoluzione simbolica – dice Bourdieu – con cui gli artisti si affrancano dalla domanda borghese […] ha come conseguenza di far sparire il mercato».[vi] Il sociologo, infatti, descrive il campo dell’arte come un “mondo economico alla rovescia” proprio in virtù della sua relativa autonomia. È un mondo in cui «l’artista non può trionfare sul terreno simbolico se non perdendo su quello economico (quantomeno a breve termine) e viceversa (quantomeno a lungo termine)». [vii] Ci parla, quindi, di come le opere d’arte “intellettualmente valide” siano quelle che a breve termine non hanno mercato (dove il «senza prezzo» di Flaubert significherebbe un «senza valore commerciale» [viii])e che, affinché trionfino sul piano simbolico, e cioè entrino nella Storia dell’arte, abbiano bisogno di un intervallo di tempo in cui esse impongano al pubblico le loro “norme di percezione”. Addirittura riporta esempi di come, agli albori del fenomeno di autonomizzazione, questo sarebbe stato da alcuni studiosi considerato in modo pseudo-ideologico, vedendo cioè il successo commerciale di un’opera come sintomo di inferiorità intellettuale. [ix]
Louise Lawler, WAR IS TERROR, 2001/2003, cibachrome, 76.2 x 63.5 cm, 30 x 25 3/4 in., Courtesy Louise Lawler and Metro Pictures, New York.
“Prices now determine reputations”
Tuttavia, Bourdieu riconosce come l’autonomia dell’arte (anche quell’“arte per l’arte”, l’“arte pura” nata intorno al circolo di intellettuali di metà Ottocento, ma soprattutto con la figura di Charles Baudelaire) sia sempre relativa. Questo proprio in virtù dell’«omologia che collega la struttura del campo di produzione e quella del campo sociale nel suo insieme».[x] Infatti, come riportano Wuggenig e Rudolf, secondo il sociologo «il valore specificamente culturale [delle opere] e il loro valore commerciale rimangono relativamente indipendenti, sebbene una loro affermazione economica possa giungere a rafforzare la loro consacrazione culturale» [xi] Insomma, non si esclude, di fatto, un’influenza da parte del successo di mercato di un’opera sul suo valore simbolico. Tuttavia, i due economisti ci dicono come, negli ultimi anni, l’ipotesi che esista “un profondo abisso” tra valore simbolico e valore di mercato nel campo delle arti visive è stata messa in dubbio. [xii] Invece, secondo Isabelle Graw, Sighard Neckel e Diana Crane la sfera dell’arte sarebbe “relativamente eteronoma”. Si è postulato addirittura una forma di determinismo economico, secondo il quale i prezzi delle opere stabiliscano il loro valore estetico («per riassumere, secondo un critico d’arte americano, i prezzi ora determinano la reputazione» [xiii])smontata da Wuggenig e Rudolf in quanto si sottendono in realtà inesistenti o scarsi dati sul capitale di reputazione degli artisti [xiv]. Inoltre, in Pricing the priceless (1989), William Grampp afferma che «dire che il valore economico coincide con quello estetico è come dire che il particolare coincide con il generale, o che il valore estetico è una forma di valore economico così come qualsiasi altra forma di valore». [xv] Ma anche questa ipotesi viene smontata dai due economisti che ne riconoscono una problematicità analitica perché «una quantità abbastanza grande di varianza rimane inspiegata, cioè il 75% nelle analisi commissionate». [xvi]
Insomma, tutte le teorie di “relativa eteronomia” insieme a quelle che postulano un diretto determinismo economico del campo dell’arte sembrano non reggere il confronto con i dati a disposizione. Se analizziamo il mercato dell’arte e le scelte dei collezionisti, possiamo dire che i fattori che spingono all’acquisto di un’opera non sono prevedibili e monitorabili con criteri razionali (o quanto meno seguenti tutti la medesima logica) come quello del “the more it costs the more it worths”. Quello dei collezionisti è un gruppo molto diversificato al suo interno, in cui, come descrive Egidi, «vi sono quei collezionisti che acquistano arte solo per piacere, e quegli investitori che collezionano per raggiungere obiettivi finanziari»[xvii]; in più «Mentre la maggior parte dei collezionisti per passione si specializzano in un particolare settore del mercato, quello di loro interesse, molti investitori comprano in varie categorie e attingono a diversi periodi in modo da mitigare il rischio e bilanciare il loro portafoglio di investimenti» [xviii]. Ciò si potrebbe anche evincere dall’euforica oscillazione dei prezzi nel mercato dell’arte. Insomma: si colleziona e si compra arte contemporanea per motivi estremamente diversi.
Louise Lawler, Still Life – Candle, 2003 © Louise Lawler.
Uno studio e un report
Questo studio muove da quello di Larissa Buchholz in The global rules of art che, attingendo ai dati delle vendite delle aste dal 1998 al 2007, rivela un profondo gap tra le due sfere[xix] che dimostra come «la relativa indipendenza del valore simbolico rispetto al valore commerciale non solo è sopravvissuta alla spinta più recente nell’economia e nella globalizzazione nell’arte contemporanea, ma è anche prodotta e riprodotta in condizioni globali storicamente nuove». [xx]
Utilizzando un metodo soggettivista, Wuggenig e Rudolph incrociano tre insiemi di dati. Il primo è un insieme di giudizi sul valore estetico degli 83 artisti contemporanei e postbellici più venduti ottenuto da un campione di 810 visitatori di mostre presso il Migros Museum of Contemporary Art a Zurigo tra il 2009 e 2010 (tra cui un sotto-campione di 140 esperti e addetti ai lavori): ciò avrebbe determinato un indicatore per il valore simbolico. Il secondo, per il valore economico, sono i dati sui prezzi delle aste associate alle opere degli artisti nel 2010. Il terzo insieme è relativo al ranking di reputazione di suddetti artisti basato sui dati del 2010 di Artfacts.net ed indica indirettamente una forma di valore estetico legato all’esponibilità [xxi] (dipendente dalle libere scelte di curatori, direttori di musei e galleristi). La domanda formulata è stata la seguente: “Abbiamo messo insieme una lista di nomi e vorremmo sapere: a) se conosci alcuni di loro e b) se apprezzi quegli artisti che conosci”. Come scrivono i due studiosi, un primo risultato mostra come il «valore della correlazione tra le posizioni in classifica [rank correlation] nella dimensione estetica e in quella economica [sia] di 0.19. C’e quindi una correlazione positiva tra il valore di mercato e il valore estetico. L’intensità della correlazione, tuttavia, è piuttosto debole». [xxii] Questo contribuisce a creare tre gruppi di artisti: gli underprivileged (valore economico < reputazione), gli overprivileged (valore economico > reputazione) e i profili che portano una relativa consistenza tra valore economico e reputazione.
Valore economico secondo le vendite all’asta totali del 2010 raccolte da Artprice e valore estetico per 83 artisti secondo le valutazioni di esperti nel campo dell’arte a Zurigo 2009/2010 (n = 140, Kendall’s tau b = 0.19). Fonte: Ulf Wuggenig e Steffen Rudolph “Valuation beyond the Market: On Symbolic and Economic Value in Contemporary Art”, Art Production Beyond the Art Market, Karen van den Berg and Ursula Pasero (eds.), Berlino: Sternberg, 2013.
Valore economico secondo le vendite delle aste totali nel 2010 e valore estetico di 83 artisti secondo le posizioni in ArtFacts.net (novembre 2010). (Kendall’s tau b = 0.36). Fonte: Ulf Wuggenig e Steffen Rudolph “Valuation beyond the Market: On Symbolic and Economic Value in Contemporary Art”, Art Production Beyond the Art Market, Karen van den Berg and Ursula Pasero (eds.), Berlino: Sternberg, 2013.
Seguendo una procedura suggerita da Buchholz, fu scelta una seconda classifica culturale più oggettiva degli artisti, basata sui dati di ArtFacts.net, che riporta il ranking generale degli artisti. Si è ottenuto quindi un secondo interessante risultato riportato dal secondo grafico di dispersione.
Tutte e due i grafici indicano, quindi, come ci sia una bassa correlazione (e quindi una inconsistenza) tra valore estetico e valore economico nel campo delle arti visive contemporanee. In altre parole, «il riconoscimento culturale degli artisti continua a svolgersi in modo relativamente indipendente dai “segnali” inviati dai prezzi nel mercato delle aste».[xxiii]
A distanza di sei anni, vediamo come questi risultati siano in qualche modo supportati anche dal report di Art Basel e UBS del 2017 (riferiti ai dati di vendita del 2016). Nel 2016 i venti artisti viventi più venduti sono stati, in ordine decrescente: Gerhard Richter, Cui Ruzhuo, Yayoi Kusama, Richard Prince, Christopher Wool, Jeff Koons, David Hockney, Peter Doig, Adrian Ghenie, Yoshitomo Nara, Robert Ryman, Zeng Fanzhi, Rudolf Stingel, Frank Auerbach, Anselm Keifer, Mark Bradford, Pierre Soulages, Frank Stella, Maurizio Cattelan, Damien Hirst.
A sinistra i 20 artisti più venduti del 2016. A destra i 20 artisti più esposti (basato sul ranking delle istituzioni dove sono apparsi) dello stesso anni. Fonte: The Art Market: An Art Basel & UBS Report, condotto da Clare McAndrew (Fondatore di Arts Economics), 2017.
Avvicinando questi primi dati a quelli relativi al settore delle esposizioni, vediamo come non vi sia una corrispondenza di nomi (l’unica artista che appare in entrambe le tabelle è Yayoi Kusama). Inoltre: «la quota globale delle vendite dei quattro maggiori mercati del dopoguerra e del settore contemporaneo ha superato il 90% in valore nel 2016, ma ha rappresentato solo il 32% delle esposizioni totali»[xxiv]. I risultati dimostrano un’ulteriore differenza tra la posizione di un artista nel mercato delle aste e il loro valore culturale (considerando le esposizioni pubbliche). [xxv]
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Questa autonomia relativa del campo dell’arte, questa sua “indipendenza dipendente”, sembra quindi essere sopravvissuta anche alla forte finanziarizzazione dell’ultimo decennio[xxvi]. Complice, probabilmente, anche il nuovo collezionismo, che vede sia un ampliamento della fascia dei più ricchi [xxvii] sia, forse, una percezione generale di impoverimento culturale dello stesso [xxviii]. Si è quindi tornati alla teoria di Bourdieu. Come, infatti, riconosce Boschetti, «[…] alcuni dei problemi con cui si scontrano i ricercatori che applicano la nozione di autonomia nascono da un uso mal definito del concetto, [che] impone di distinguere tra autonomia intellettuale (o artistica), autonomia politica e autonomia economica», cioè bisogna pensare che «l’autonomia intellettuale e artistica non presupponga necessariamente l’indipendenza finanziaria e politica e, viceversa, come queste non bastino a garantire l’originalità e l’eccellenza di un artista». [xxix]
note:
[i] Bourdieu, The rules of art, citato in Wuggenig, op. cit., p. 147.
[ii] “Decade of greed” è un concetto che riprendono dallo scrittore e collezionista tedesco Harald Falckenberg, il quale ne rielabora la nozione negli anni 80. Cfr. Ulf Wuggenig e Steffen Rudolph “Valuation beyond the Market: On Symbolic and Economic Value in Contemporary Art”, Art Production Beyond the Art Market, Karen van den Berg and Ursula Pasero (eds.), Berlino: Sternberg, 2013, p. 100-149.
[iii] Wuggenig e Rudolph, op. cit., p. 145 [traduzione dell’autrice].
[iv] Anna Boschetti, introduzione all’edizione italiana di Le Regole dell’arte Genesi e struttura del campo letterario, di Pierre Bourdieu. Milano: Il Saggiatore, 2013, p. 37.
[v] Ibid., p. 17.
[vi] Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte. Milano: Il Saggiatore, 2013, p. 142.
[vii] Ibid., p. 144.
[viii] Cfr. ibid., p. 142.
[ix] Ibid., p. 143.
[x] Boschetti, op. cit., p. 29.
[xi] Bourdieu, The Field of Cultural Production, citato in Wuggenig, op. cit., p. 115 [traduzione dell’autrice].
[xii] Wuggenig e Rudolph, op. cit., p. 115. [traduzione dell’autrice].
[xiii] Tomkins, “A Fool for Art: Jeffrey Deitch and the Exuberance of the Art Market,” New Yorker, citato in Wuggenig, op. cit., p. 123. [traduzione dell’autrice].
[xiv] Wuggenig e Rudolph, op. cit., p. 126. [traduzione dell’autrice].
[xv] William Grampp, Pricing the Priceless, citato in Wuggenig, op. cit., p. 124. [traduzione dell’autrice].
[xvi] Wuggenig e Rudolph, op. cit., p. 129. [traduzione dell’autrice].
[xvii] Chiara Zampetti Egidi, Guida al mercato dell’arte moderna e contemporanea. Skira, 2014, p. 72.
[xviii] Chiara Zampetti Egidi, Guida al mercato dell’arte moderna e contemporanea. Skira, 2014, p. 72.
[xix] Come riportano Wuggenig e Rudolph «Con l’aiuto delle analisi a grappolo dell’élite globale delle carriere transnazionali degli artisti, questo studio teorico sul campo ha rivelato che c’è un divario considerevole tra queste due sfere di valore – caratterizzate da un lato da status, carisma e giudizi di esperti o esperti. e dall’altra per decisioni di mercato e dei consumatori» (op. cit., p. 130)
[xx] Wuggenig e Rudolph, op. cit., p. 131. [traduzione dell’autrice].
[xxi] Ibid., p. 131-132. [traduzione dell’autrice].
[xxii] Ibid., p. 139. [traduzione dell’autrice].
[xxiii] Ibid., p. 146. [traduzione dell’autrice].
[xxiv] The Art Market: An Art Basel & UBS Report, condotto da Clare McAndrew (Fondatore di Arts Economics), 2017, p. 158.
[xxv] Ibid., p. 162. [traduzione dell’autrice].
[xxvi] Cfr. Wuggenig, op. cit., p. 148.
[xxvii] Fattore questo strettamente collegato alla recente crescita dei prezzi dell’arte del dopoguerra e contemporanea. «La ricchezza a livello globale è una delle principali spinte del mercato dell’arte. Secondo Capgemini e la Royal Bank of Canada, la popolazione globale di HNWIs, ovvero “highnet-worth-individuals” è cresciuta più del 53% tra il 2000 e il 2011» (Anders Petterson intervistato da Egidi, op.cit., p. 47). E ancora «The art market boom of the past decade has been associated widely with the rise of HNWIs or ultra- HNWIs (people worth over $1 million or $30 million respectively), terms popularized by the World Wealth Reports that Merrill Lynch and CapGemini began releasing in 1997. These reports show the total wealth of HNWIs exploding from $19.1 trillion in 1997 to $42.7 trillion in 2010» (Andrea Fraser, “L’1% c’est moi”, Texte Zur Kunst, n.83/settembre, 2011, p. 4).
[xxviii] «In un mondo dove è importante la gratificazione immediata, la nuova generazione di collezionisti è più irrequieta, e vuole costruire le proprie collezioni velocemente, cosa che è possibile nel mercato dell’arte contemporanea» (Anders Petterson intervistato da Egidi, op.cit., p. 48).
[xix] Boschetti, op. cit., p. 42.