«Il periodo caldo dell’arte femminista è stato durante gli anni ’70. Definirei l’arte come arte femminista quando la causa femminista è resa visibile attraverso l’opera stessa, ossia quando si concentra su vari aspetti della lotta di liberazione delle donne: il ruolo mono-dimensionale di madre, moglie e casalinga, l’emancipazione della sessualità, la dialettica tra prigione/costrizione e rottura/liberazione, il gioco dei ruoli, la dittatura della bellezza, lo stupro e la violenza contro le donne, la rivolta contro il culto del genio maschile, l’utilizzo del corpo femminile come codice di comportamento e di cambiamento sociale. Per riassumere, queste opere mostrano un radicale ripensamento dei valori nella società. Il motivo per cui definisco l’arte femminista degli anni ’70 come un’avanguardia è per sottolineare la posizione pioneristica che hanno occupato queste artiste in quel preciso momento storico. La loro arte ha mostrato un cambiamento di paradigma, soprattutto perché le rivendicazioni personali hanno assunto una dimensione politica» Gabriele Schor
«Per essere femministe tutte le opere devono essere concepite nel framework di una critica strutturale, economica, politica e ideologica delle relazioni di potere della società e con un impegno all’azione collettiva per le loro radicali trasformazioni» Griselda Pollock
Feminist Avant-Garde of the 1970s è una parte della SAMMLUNG VERBUND di Vienna, un’estesa corporate collection, della principale società elettrica austriaca, che hai fondato e dirigi dal 2004, e che si concentra sulla scena femminista internazionale degli anni ’70 (con oltre 600 opere storiche di quel decennio di 61 artiste femministe): da dove viene questa scelta? C’è una volontà di storicizzare la presenza della soggettività femminile nel sistema dell’arte, ricostruendo le sue narrative storiche e genealogiche?
Gabriele Schor: La SAMMLUNG VERBUND Collection di Vienna è costituita da due nuclei principali, due focus tematici, uno riguarda la ‘Perception of Spaces and Places’ con opere di Fred Sandback, Gordon Matta-Clark, Louise Lawler, Bernd and Hilla Becher, Jeff Wall, Olafur Eliasson e molti altri artisti.
Il secondo focus della collezione è, quello che io chiamo, Feminist Avant-Garde of the 1970s con opere di 61 donne artiste. Per alcune abbiamo prodotto una pubblicazione, tra cui le austriache Birgit Jürgenssen e Renate Bertlmann, ma anche Francesca Woodman e Cindy Sherman.
Una delle ragioni per cui le opere femministe degli anni ’70 hanno avuto poco valore – pensavo – è perché il loro lavoro non è stato incorporato in una specifica categoria della storia dell’arte. Poiché la storia dell’arte opera attraverso esplicitazioni terminologiche specifiche per individuare e storicizzare i movimenti e le tendenze, come il Costruttivismo, il Surrealismo o l’Azionismo Viennese, che sono ovviamente considerati in quanto avanguardie, anche il movimento femminista degli anni ‘70 dovrebbe avere una definizione appropriata dentro il linguaggio e le narrative storico-artistiche. Quindi volevo creare un concetto che indicasse una posizione pioneristica, quella delle donne artiste. E così che ho deciso di coniare il termine “Feminist Avant-Garde”.
Sappiamo tutti che l’arte prodotta dalle donne è stata sistematicamente esclusa dalla storia dell’arte. Tuttavia, nel corso degli ultimi decenni la scrittura della storia dell’arte è chiaramente cambiata, perché sempre più donne occupano posizioni importanti nelle istituzioni del mondo dell’arte e nelle università. Un numero sempre crescente di pubblicazioni di ricerca e di importanti esposizioni internazionali ha avviato una revisione approfondita dei canoni e della storia del movimento artistico femminista.
Marcella Campagnano, L’invenzione del femminile: Ruoli, 1974-1980, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna, courtesy the artist.
Marcella Campagnano, L’invenzione del femminile: Ruoli, 1974-1980, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna, courtesy the artist.
Quale il rapporto di queste artiste con il femminismo e i movimenti di liberazione della donna?
GS: Quasi tutte le artiste donne in Austria che fanno parte della collezione Feminist Avant-Garde oh the 1970s sono state membri attive di organizzazioni come IntAkt (International Women Artists’ Action Committee). I loro obiettivi dichiarati includevano «il miglioramento della situazione sociale e delle condizioni di lavoro delle donne artiste; il coinvolgimento attivo nella politica culturale contemporanea; l’impegno fattivo con problemi di rilevanza esistenziale». O altre, facevano parte della redazione della rivista AUF (Eine Frauenzeitschrift, Vienna, 1974–2011), di cui l’artista Renate Bertlmann ha progettato il layout della pubblicazione.
La selezione di opere d’arte della collezione enfatizza la connessione tra i concetti di “femminismo” e “avanguardia” per suggerire una relazione tra le richieste dell’agenda politica femminista, i dibattiti della teoria femminista e le esplorazioni di artiste informate da queste rivendicazioni sociali, con una straordinaria e capillare indagine nell’Est Europa. Potresti descrivere il contesto espositivo della SAMMLUNG VERBUND? Quali esperienze o pratiche espositive ti hanno influenzata?
GS: Ho iniziato la collezione nel 2004, questo è stato anche il momento in cui abbiamo acquisito i primi lavori della sezione Feminist Avant-Garde of the 1970s. L’esposizione WACK! Art and the Feminist Revolution, curata da Connie Butler, che girato gli Stati Uniti tra il 2007 e il 2009, è stata davvero un traguardo importante a questo proposito e ha incoraggiato molte donne curatrici e storiche dell’arte a continuare la loro ricerca in questo campo. Mi ricordo ancora bene le mie impressioni quando ho visitato la mostra WACK!. È stata una forte affermazione della mia ricerca sull’arte femminista degli anni ’70.
Uno slogan del movimento delle donne degli anni ’70 e un credo centrale di tante lotte sociali femministe è stato “il personale è politico”, diventavando rilevante per il discorso pubblico. Nuovi temi sono stati discussi per la prima volta in pubblico: la gravidanza, il parto e l’aborto, la maternità, la messa in discussione del ruolo riproduttivo e del lavoro produttivo di donna e di casalinga, la sessualità, la collaborazione tra donne, l’imposizione di stereotipi di bellezza, lo stupro e l’oggettificazione del corpo femminile.
Molte artiste hanno affrontato queste questioni nel proprio lavoro. Questo è il motivo per cui ho deciso di dividere l’esposizione in cinque temi principali:
«I corpi femminili, nel bene e nel male, sono ancora al centro di molta arte femminista, intrappolati tanto quanto lo sono il nostro sfruttamento sui fronti economici, domestici e mediatici, centrali quanto le nostre campagne per i diritti sul lavoro riproduttivo e contro leggi discriminatorie» – ha affermato Lucy Lippard (in “The Pains and Pleasures of Rebirth: European and American Women’s Body Art” del 1976) suggerendo come l’uso del corpo delle donne sia ancora «necessariamente complicato da stereotipi sociali». Che valore assume il corpo, che era stato l’oggetto fobico per eccellenza nel modernismo, in queste ricerche?
GS: I nuovi media, come la fotografia, il video e il cinema hanno permesso alle donne di produrre un tipo di arte che esibiva i loro corpi in quella che concepivano come una prospettiva femminile. Alcune esperienze corporee drammatizzate sono restituite con gesti sottili e contorsioni ironiche del volto, come nel lavoro di Hannah Wilke, che ha prodotto close-up e scatti ravvicinati delle sue mani mentre toccano parti del proprio viso con deliberata cautela. Le mani di Margot Pilz, al contrario, esprimono costernazione, disperazione, ribellione e rabbia, mentre Messer-Schnuller-Hände di Renate Bertlmann esprime i sentimenti ambivalenti di una donna circa la propria vita di madre, casalinga e moglie.
Ewa Partum, my touch is a touch of a woman, 1971, From the sexpartite Poem by Ewa, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
Iniziando con la sua performance Change nel 1974, Ewa Partum ha deciso ad esempio di rendere il proprio corpo nudo un oggetto centrale della sua arte. In azioni successive e pieces o performance come Selbstidentifikation and Frauen, die Ehe ist gegen Euch [Women, Marriage Is Against You, both del 1980] è apparsa nuda per mettere l’accento sulla ‘donna come significante’. Prendendo la decisione di una radicale autodeterminazione artistica ed esistenziale, decise di mettere tutto a nudo per la sua arte, Partum definì il corpo femminile né come “natura” né come “oggetto sessuale”, ma come realizzazione dell’autonomia; il sé e il corpo come una stessa opera d’arte.
Da una distanza di ormai diversi decenni, possiamo riconoscere come le immagini messe in scena, i video, i film, le azioni e le performance di queste donne artiste siano state animate da aspirazioni che alla fine hanno operato una rottura del potere di una tradizione secolare sulla raffigurazione del corpo femminile.
Ulrike Rosenbach, Bonnets for a Married Woman, 1970, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
Karin Mack, Bugeltraum [Iron Dream], 1975, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
Come ha scritto Nelly Richard e che abbiamo più volte citato in vari contributi di Hot Potatoes: «Una parte del dibattito che circonda le donne e la creazione artistica – in vari contesti internazionali – comporta la differenziazione tra “estetica femminile” ed “estetica femminista”. La definizione di una “estetica femminile” di solito connota l’arte che esprime la donna come un fatto naturale (essenziale) e non come una categoria simbolica-discorsiva formata e deformata dal sistema di rappresentazione culturale. L’arte femminista non rappresenta dunque l’universalità di un’essenza femminile che incarna un universo di valori e di significati (sensibilità, corporeità, affettività, ecc.) tradizionalmente riservato alle donne dentro un sistema binario maschile-femminile […] D’altra parte, una “estetica femminista” sarebbe quella che postula la donna come un segno immerso in una concatenazione di forme patriarcali di oppressione e repressione che devono essere rotte, attraverso la consapevolezza che la superiorità maschile possa essere esercitata ma anche combattuta. L’arte femminista cerca di correggere le immagini stereotipate del femminile che la maschera egemonica ha gradualmente squalificato e penalizzato». Come si produce, in mostra e nelle opere che hai scelto per la collezione, una critica dell’ideologia dominante di genere?
GS: Molte delle artiste della sezione Feminist Avant-Gardeof the 1970s hanno lavorato con gli stereotipi della femminilità e della mascolinità. Come ad esempio, Cindy Sherman nella sua prima serie Untitled (Bus Riders). Durante i suoi anni da studentessa a Buffalo, la giovane artista ha osservato i frequentatori degli autobus pubblici. Tornata nel suo studio, ha poi fotografato sé stessa nei ruoli di trentacinque di questi differenti passeggeri. Le acute osservazioni percettive di Sherman delle espressioni facciali, la gestualità e le posture hanno conferito a Untitled (Bus Riders) un posto nella storia dell’arte come uno “studio sociale” efficacemente messo in scena.
Marianne Wex, estratto dal libro “Let’s Take Back our Space”: ‘Female’ and ‘Male’ Body Language as a Result of Patriarchal Structures, Frauenliteraturverlag Hermine Fees, 1979.
Oppure per fare un altro esempio: in oltre 5.000 fotografie, l’insegnante d’arte tedesca Marianne Wex ha persuasivamente documentato le differenze tra il linguaggio del corpo femminile e quello maschile come risultato delle strutture patriarcali. Gli uomini di solito si siedono con le gambe divaricate, i piedi rivolti verso l’esterno e tengono le braccia aperte, allargate e distese sui loro corpi. Le donne, al contrario, tengono le ginocchia e i piedi uniti e appoggiano le mani sul proprio grembo. Di conseguenza, gli uomini invariabilmente rivendicano e occupano uno spazio maggiore rispetto alle donne, che si posizionano al centro del loro posto. Le differenze nella postura, scrive Wex, sono prodotte dal condizionamento sociale che definisce un soggetto come “forte” e l’altro come il sesso “debole” e perpetua una distinzione gerarchica tra i sessi sotto forma di modelli di comportamento fisico. Le mode hanno senza dubbio contribuito a costringere e limitare i corpi delle donne. Negli anni ’30 Marlene Dietrich provocò uno scandalo con la sua comparsa sul palco indossando un paio di pantaloni e, fino ai tardi anni ’50, le donne hanno rotto questo tabù tutte le volte che li hanno indossati nella vita di tutti i giorni. Per questa ragione, l’espressione idiomatica “indossare i pantaloni” designa l’equivalente di mascolinità e potere.
Lili Dujourie, Zonder Titel [Untitled], 1977, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
L’artista belga Lili Dujourie, d’altra parte, ha preso di mira la vulnerabilità dell’uomo piuttosto che la sua forza. Lo spettatore distratto potrebbe avere qualche dubbio sul genere della persona ritratta e distesa sul pavimento in alcune delle sue fotografie. Contrariamente a quello che i lunghi capelli potrebbero indurre a pensare, in realtà si tratta di un uomo. Quando il soggetto ritratto ha visto per la prima volta le immagini, è rimasto scioccato e sconcertato dal fatto che il suo corpo potesse sembrare così femminile. Dujourie ha creato questo lavoro espressivo per trasmettere l’ambiguità del genere.
Quali sono le fonti principali (esposizioni e retrospettive storiche, archivi, editoria di movimento, pubblicazioni specializzate, cataloghi) che hai indagato allo scopo di costituire la collezione? Hai avuto l’opportunità di incontrare personalmente le artiste?
GS: Per darti un’idea del mio lavoro di ricerca durato più di 15 anni sul movimento femminista, vorrei fare un esempio. In un vecchio catalogo di una mostra collettiva degli anni ’70 avevo rintracciato alcuni lavori dell’artista tedesca Renate Eisenegger. Le sue fotografie mi affascinavano e pensavo che sarebbero state perfette per il nostro focus Feminist Avant-Garde of the 1970s. Così ho provato a contattarla e ho notato che non aveva una homepage né un sito web, che non era rappresentata da nessuna galleria, né esisteva alcuna pubblicazione sul suo lavoro. Tuttavia, ho trovato il suo numero di telefono e l’ho chiamata direttamente. Volevo sapere se avesse ancora delle opere originali degli anni ’70. L’artista mi ha risposto: “In 40 anni nessuno me lo aveva mai chiesto. Dovrò guardare nella mia soffitta”. Il giorno dopo la richiamai di nuovo e lei mi disse: “Sì, tutto è ben confezionato, ma sei sicura che ti interessa davvero il mio lavoro?”. Mi meravigliai che fosse sorpresa del mio interessamento. Una settimana dopo l’ho incontrata e ho visitato il suo studio in Svizzera e abbiamo discusso delle sue opere femministe realizzate negli anni ’70 e soprattutto dei prezzi di queste opere storiche. I suoi prezzi erano veramente troppo bassi. Le ho detto che doveva aumentarne il valore economico perché le sue fotografie sono vintage e sono dei pezzi unici. Alla fine, abbiamo concordato un importo più elevato e sono stata in grado di acquisire alcune impressionanti serie fotografiche per la collezione. Sono molto felice di avere avuto la possibilità di incontrare personalmente molte delle nostre artiste. Questo mi ha dato l’opportunità di avere una autentica visione del loro lavoro.
Che tipo di visibilità ha SAMMLUNG VERBUND? È una raccolta privata o aperta al pubblico? Avete stabilito dei rapporti istituzionali per dare visibilità alla collezione? Quale è la relazione tra la collezione e i valori della corporate? Dopo il recente successo internazionale di SAMMLUNG VERBUND la corporate ha incrementato le risorse per la collezione?
GS: Poiché la nostra Feminist Avant-Garde of the 1970s è stata in tour per tutta Europa a partire dal 2010 e potrà anche essere vista anche negli Stati Uniti nel 2019, direi che la nostra collezione è molto pubblicizzata. Abbiamo anche uno spazio espositivo presso la sede VERBUND in un quartiere al centro di Vienna – la cosiddetta Vertical Gallery – dove una volta l’anno organizziamo un’esposizione di opere della nostra collezione. Finora, ci sono state mostre su Francesca Woodman, Cindy Sherman o Renate Bertlmann, tutte accompagnate da grandi pubblicazioni.
Sono ancora più soddisfatta che Renate Bertlmann rappresenterà l’Austria alla prossima Biennale di Venezia nel 2019 e l’anno scorso ha ricevuto il Grand Austrian State Prize for the Fine Arts. Questa è una significativa conferma del mio lavoro di ricerca per la collezione. L’ultima mostra a Vienna si è inaugurata a metà novembre 2018 ed è dedicata a Louise Lawler. Una volta alla settimana, i visitatori hanno l’opportunità di fare una visita guidata all’esposizione. Lungo la facciata dell’edificio della sede abbiamo anche un’invenzione dell’artista Olafur Eliasson. Ogni giorno quando il sole tramonta, una nebbia gialla si alza per un’ora.
Ritieni che all’attuale riscoperta e rivalutazione della presenza delle donne artiste nel sistema dell’arte internazionale potrà corrispondere anche un aumento del loro valore economico sul mercato?
GS: Sì, certamente, questi due aspetti vanno di pari passo e si influenzano a vicenda. Ma è anche giunto il momento per cui finalmente il lavoro delle artiste debba essere riconosciuto. Il percorso è ancora lungo e difficile.
Quale è generalmente la tipologia dei canali di acquisizione delle opere d’arte della collezione (attraverso gallerie, archivi, aste,studi di artisti, altri collezionisti)?
GS: Le nostre acquisizioni di opere d’arte passano principalmente attraverso le gallerie, a volte nelle aste e raramente dagli studi delle artiste – e solo quando non sono rappresentate da una galleria. Non abbiamo mai comprato da un’altra collezione.
Quali sono i progetti futuri di SAMMLUNG VERBUND considerando il crescente interesse per le questioni di genere nell’agenda politica internazionale?
GS: Ci sono molte posizioni emergenti e più giovani che si occupano di questioni di genere e di femminismo. Artiste come Roberta Lima, Ashley Hans Scheirl o Jakob Lena Knebl, solo per citarne alcune; una visione della prossima generazione a cui ci stiamo rivolgendo.
La SAMMLUNG VERBUND Collectiondi Vienna, fondata, diretta e curata da Gabriele Schor è stata avviata nel 2004 da VERBUND AG, la principale società elettrica austriaca, tra i maggiori produttori di energia idroelettrica in Europa. È una straordinaria Corporate Collection con un orientamento internazionale e contemporaneo. La collezione ha celebrato il suo decimo anniversario nel 2014. Il nucleo della collezione Feminist Avant-Garde of the 1970s comprende attualmente 600 opere di 61 artiste, tra cui le austriache Renate Bertlmann, Linda Christanell, VALIE EXPORT, Birgit Jürgenssen, Karin Mack, Margot Pilz e Friedericke Pezold. Inoltre, tra le altre, sono presenti le prime opere di Cindy Sherman, Francesca Woodman, Hannah Wilke, Eleanor Antin, Nil Yalter, Ketty La Rocca e Ana Mendieta. Le acquisizioni sono decise dalla direttrice Gabriele Schor e dal suo Advisory Board internazionale (costituito dalla stessa Gabriele Schor insieme a Jessica Morgan e Camille Morineau). Il consiglio di amministrazione della società ha dato alla direttrice e all’Advisory Board totale autonomia e libertà nella scelta delle acquisizioni.
Gabriele Schor ha studiato filosofia a Vienna e San Diego. Ha lavorato alla Tate Gallery di Londra; è stata corrispondente per l’arte di Neue Zürcher Zeitung; ha tenuto conferenze e lectures di storia dell’arte moderna e contemporanea presso università austriache. Dal 2004, è diventata direttrice della collezione SAMMLUNG VERBUND, che ha costruito sin dall’inizio con due focus principali: la percezione di spazi e luoghi e le avanguardie femministe degli anni ’70. Schor ha coniato il termine Feminists Avant-Garde of the 1970s per la collezione e lo ha introdotto nel discorso storico-artistico. Tra le numerose pubblicazioni: insieme ad Abigail Solomon-Godeau, il primo studio monografico su Birgit Jürgenssen (2009); nel 2012 il catalogo ragionato dei primi lavori di Cindy Sherman; nel 2014, con Elisabeth Bronfen, il primo catalogo tedesco sull’opera di Francesca Woodman; nel 2015 un compendio sulle avanguardie femministe, e nel 2016, con Jessica Morgan, uno studio monografico su Renate Bertlmann.
L’intervista a Gabriele Schor è stata elaborata da Elvira Vannini, durante il seminario sugli spazi di produzione e cooperazione femminista dagli anni Settanta fino all’attuale discussione internazionale sulla genderizzazione dell’exhibition-making, insieme agli studenti del Master in Contemporary Art Markets (a.a. 2016/2017) presso NABA – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano: Elena Casarotto, Chiara Celoria, Francesca Cucinotta, Irena Ivanova Filipova, Giulia Lopalco, Cristina Masturzo, Claudia Mazzoleni, Francesco Paini, Marta Sangiovanni, Juliana Soares Curvellano, Yang Zi.
La pubblicazione Donne Artiste in Italia – Presenza e Rappresentazione è il risultato di un seminario interdisciplinare sugli studi di genere nelle arti visive promosso dal Dipartimento di Arti Visive di NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano nel contesto del Master in Contemporary Art Markets tra 2016 e 2018. È la prima ricerca italiana che affronta attraverso lo strumento del Report, cifre, numeri alla mano, infografiche e percentuali, dati statistici, analisi quantitative e interviste, sulla presenza e la rappresentanza delle donne artiste nel mercato e nel sistema dell’arte, le sue strutture e infrastrutture produttive ed economiche. Un’analisi del mondo dell’arte dove si riproducono rapporti di potere che rispecchiano quelli presenti anche in altri campi culturali e sociali.
«Il periodo caldo dell’arte femminista è stato durante gli anni ’70. Definirei l’arte come arte femminista quando la causa femminista è resa visibile attraverso l’opera stessa, ossia quando si concentra su vari aspetti della lotta di liberazione delle donne: il ruolo mono-dimensionale di madre, moglie e casalinga, l’emancipazione della sessualità, la dialettica tra prigione/costrizione e rottura/liberazione, il gioco dei ruoli, la dittatura della bellezza, lo stupro e la violenza contro le donne, la rivolta contro il culto del genio maschile, l’utilizzo del corpo femminile come codice di comportamento e di cambiamento sociale. Per riassumere, queste opere mostrano un radicale ripensamento dei valori nella società. Il motivo per cui definisco l’arte femminista degli anni ’70 come un’avanguardia è per sottolineare la posizione pioneristica che hanno occupato queste artiste in quel preciso momento storico. La loro arte ha mostrato un cambiamento di paradigma, soprattutto perché le rivendicazioni personali hanno assunto una dimensione politica» Gabriele Schor
«Per essere femministe tutte le opere devono essere concepite nel framework di una critica strutturale, economica, politica e ideologica delle relazioni di potere della società e con un impegno all’azione collettiva per le loro radicali trasformazioni» Griselda Pollock
Ulrike Rosenbach, Art is a criminal action No. 4, 1969–1970 B/W photomontage and felt pen on barite paper © Ulrike Rosenbach / GESTOR, Prag, 2018/The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
Feminist Avant-Garde of the 1970s è una parte della SAMMLUNG VERBUND di Vienna, un’estesa corporate collection, della principale società elettrica austriaca, che hai fondato e dirigi dal 2004, e che si concentra sulla scena femminista internazionale degli anni ’70 (con oltre 600 opere storiche di quel decennio di 61 artiste femministe): da dove viene questa scelta? C’è una volontà di storicizzare la presenza della soggettività femminile nel sistema dell’arte, ricostruendo le sue narrative storiche e genealogiche?
Gabriele Schor: La SAMMLUNG VERBUND Collection di Vienna è costituita da due nuclei principali, due focus tematici, uno riguarda la ‘Perception of Spaces and Places’ con opere di Fred Sandback, Gordon Matta-Clark, Louise Lawler, Bernd and Hilla Becher, Jeff Wall, Olafur Eliasson e molti altri artisti.
Il secondo focus della collezione è, quello che io chiamo, Feminist Avant-Garde of the 1970s con opere di 61 donne artiste. Per alcune abbiamo prodotto una pubblicazione, tra cui le austriache Birgit Jürgenssen e Renate Bertlmann, ma anche Francesca Woodman e Cindy Sherman.
Una delle ragioni per cui le opere femministe degli anni ’70 hanno avuto poco valore – pensavo – è perché il loro lavoro non è stato incorporato in una specifica categoria della storia dell’arte. Poiché la storia dell’arte opera attraverso esplicitazioni terminologiche specifiche per individuare e storicizzare i movimenti e le tendenze, come il Costruttivismo, il Surrealismo o l’Azionismo Viennese, che sono ovviamente considerati in quanto avanguardie, anche il movimento femminista degli anni ‘70 dovrebbe avere una definizione appropriata dentro il linguaggio e le narrative storico-artistiche. Quindi volevo creare un concetto che indicasse una posizione pioneristica, quella delle donne artiste. E così che ho deciso di coniare il termine “Feminist Avant-Garde”.
Sappiamo tutti che l’arte prodotta dalle donne è stata sistematicamente esclusa dalla storia dell’arte. Tuttavia, nel corso degli ultimi decenni la scrittura della storia dell’arte è chiaramente cambiata, perché sempre più donne occupano posizioni importanti nelle istituzioni del mondo dell’arte e nelle università. Un numero sempre crescente di pubblicazioni di ricerca e di importanti esposizioni internazionali ha avviato una revisione approfondita dei canoni e della storia del movimento artistico femminista.
Marcella Campagnano, L’invenzione del femminile: Ruoli, 1974-1980, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna, courtesy the artist.
Marcella Campagnano, L’invenzione del femminile: Ruoli, 1974-1980, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna, courtesy the artist.
Quale il rapporto di queste artiste con il femminismo e i movimenti di liberazione della donna?
GS: Quasi tutte le artiste donne in Austria che fanno parte della collezione Feminist Avant-Garde oh the 1970s sono state membri attive di organizzazioni come IntAkt (International Women Artists’ Action Committee). I loro obiettivi dichiarati includevano «il miglioramento della situazione sociale e delle condizioni di lavoro delle donne artiste; il coinvolgimento attivo nella politica culturale contemporanea; l’impegno fattivo con problemi di rilevanza esistenziale». O altre, facevano parte della redazione della rivista AUF (Eine Frauenzeitschrift, Vienna, 1974–2011), di cui l’artista Renate Bertlmann ha progettato il layout della pubblicazione.
Birgit Jürgenssen, Nest, 1979, B/W photograph ©Estate Birgit Jürgenssen/GESTOR, Prag, 2018/The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
Katalin Ladik, Poemim (Series A) [Gedicht (Serie A)], Novi Sad, 1978 © Katalin Ladik/acb Gallery, Budapest/The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna/Foto © Imre Poth.
GS: Ho iniziato la collezione nel 2004, questo è stato anche il momento in cui abbiamo acquisito i primi lavori della sezione Feminist Avant-Garde of the 1970s. L’esposizione WACK! Art and the Feminist Revolution, curata da Connie Butler, che girato gli Stati Uniti tra il 2007 e il 2009, è stata davvero un traguardo importante a questo proposito e ha incoraggiato molte donne curatrici e storiche dell’arte a continuare la loro ricerca in questo campo. Mi ricordo ancora bene le mie impressioni quando ho visitato la mostra WACK!. È stata una forte affermazione della mia ricerca sull’arte femminista degli anni ’70.
Uno slogan del movimento delle donne degli anni ’70 e un credo centrale di tante lotte sociali femministe è stato “il personale è politico”, diventavando rilevante per il discorso pubblico. Nuovi temi sono stati discussi per la prima volta in pubblico: la gravidanza, il parto e l’aborto, la maternità, la messa in discussione del ruolo riproduttivo e del lavoro produttivo di donna e di casalinga, la sessualità, la collaborazione tra donne, l’imposizione di stereotipi di bellezza, lo stupro e l’oggettificazione del corpo femminile.
Molte artiste hanno affrontato queste questioni nel proprio lavoro. Questo è il motivo per cui ho deciso di dividere l’esposizione in cinque temi principali:
VALIE EXPORT Aktionshose: Genitalpanik [Action Pants: Genital Panic], 1969, Silkscreen on paper ©VALIE EXPORT /GESTOR, Prag, 2018/The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
GS: I nuovi media, come la fotografia, il video e il cinema hanno permesso alle donne di produrre un tipo di arte che esibiva i loro corpi in quella che concepivano come una prospettiva femminile. Alcune esperienze corporee drammatizzate sono restituite con gesti sottili e contorsioni ironiche del volto, come nel lavoro di Hannah Wilke, che ha prodotto close-up e scatti ravvicinati delle sue mani mentre toccano parti del proprio viso con deliberata cautela. Le mani di Margot Pilz, al contrario, esprimono costernazione, disperazione, ribellione e rabbia, mentre Messer-Schnuller-Hände di Renate Bertlmann esprime i sentimenti ambivalenti di una donna circa la propria vita di madre, casalinga e moglie.
Ewa Partum, my touch is a touch of a woman, 1971, From the sexpartite Poem by Ewa, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
Iniziando con la sua performance Change nel 1974, Ewa Partum ha deciso ad esempio di rendere il proprio corpo nudo un oggetto centrale della sua arte. In azioni successive e pieces o performance come Selbstidentifikation and Frauen, die Ehe ist gegen Euch [Women, Marriage Is Against You, both del 1980] è apparsa nuda per mettere l’accento sulla ‘donna come significante’. Prendendo la decisione di una radicale autodeterminazione artistica ed esistenziale, decise di mettere tutto a nudo per la sua arte, Partum definì il corpo femminile né come “natura” né come “oggetto sessuale”, ma come realizzazione dell’autonomia; il sé e il corpo come una stessa opera d’arte.
Da una distanza di ormai diversi decenni, possiamo riconoscere come le immagini messe in scena, i video, i film, le azioni e le performance di queste donne artiste siano state animate da aspirazioni che alla fine hanno operato una rottura del potere di una tradizione secolare sulla raffigurazione del corpo femminile.
Ulrike Rosenbach, Bonnets for a Married Woman, 1970, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
Karin Mack, Bugeltraum [Iron Dream], 1975, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
GS: Molte delle artiste della sezione Feminist Avant-Garde of the 1970s hanno lavorato con gli stereotipi della femminilità e della mascolinità. Come ad esempio, Cindy Sherman nella sua prima serie Untitled (Bus Riders). Durante i suoi anni da studentessa a Buffalo, la giovane artista ha osservato i frequentatori degli autobus pubblici. Tornata nel suo studio, ha poi fotografato sé stessa nei ruoli di trentacinque di questi differenti passeggeri. Le acute osservazioni percettive di Sherman delle espressioni facciali, la gestualità e le posture hanno conferito a Untitled (Bus Riders) un posto nella storia dell’arte come uno “studio sociale” efficacemente messo in scena.
Cindy Sherman, Untitled (Bus Riders), 1976, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
Marianne Wex, estratto dal libro “Let’s Take Back our Space”: ‘Female’ and ‘Male’ Body Language as a Result of Patriarchal Structures, Frauenliteraturverlag Hermine Fees, 1979.
Oppure per fare un altro esempio: in oltre 5.000 fotografie, l’insegnante d’arte tedesca Marianne Wex ha persuasivamente documentato le differenze tra il linguaggio del corpo femminile e quello maschile come risultato delle strutture patriarcali. Gli uomini di solito si siedono con le gambe divaricate, i piedi rivolti verso l’esterno e tengono le braccia aperte, allargate e distese sui loro corpi. Le donne, al contrario, tengono le ginocchia e i piedi uniti e appoggiano le mani sul proprio grembo. Di conseguenza, gli uomini invariabilmente rivendicano e occupano uno spazio maggiore rispetto alle donne, che si posizionano al centro del loro posto. Le differenze nella postura, scrive Wex, sono prodotte dal condizionamento sociale che definisce un soggetto come “forte” e l’altro come il sesso “debole” e perpetua una distinzione gerarchica tra i sessi sotto forma di modelli di comportamento fisico. Le mode hanno senza dubbio contribuito a costringere e limitare i corpi delle donne. Negli anni ’30 Marlene Dietrich provocò uno scandalo con la sua comparsa sul palco indossando un paio di pantaloni e, fino ai tardi anni ’50, le donne hanno rotto questo tabù tutte le volte che li hanno indossati nella vita di tutti i giorni. Per questa ragione, l’espressione idiomatica “indossare i pantaloni” designa l’equivalente di mascolinità e potere.
Lili Dujourie, Zonder Titel [Untitled], 1977, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
Renate Bertlmann, Zärtliche Pantomime [Tender Pantomime], 1976, B/W photograph © Renate Bertlmann/GESTOR, Prag, 2018/The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
GS: Per darti un’idea del mio lavoro di ricerca durato più di 15 anni sul movimento femminista, vorrei fare un esempio. In un vecchio catalogo di una mostra collettiva degli anni ’70 avevo rintracciato alcuni lavori dell’artista tedesca Renate Eisenegger. Le sue fotografie mi affascinavano e pensavo che sarebbero state perfette per il nostro focus Feminist Avant-Garde of the 1970s. Così ho provato a contattarla e ho notato che non aveva una homepage né un sito web, che non era rappresentata da nessuna galleria, né esisteva alcuna pubblicazione sul suo lavoro. Tuttavia, ho trovato il suo numero di telefono e l’ho chiamata direttamente. Volevo sapere se avesse ancora delle opere originali degli anni ’70. L’artista mi ha risposto: “In 40 anni nessuno me lo aveva mai chiesto. Dovrò guardare nella mia soffitta”. Il giorno dopo la richiamai di nuovo e lei mi disse: “Sì, tutto è ben confezionato, ma sei sicura che ti interessa davvero il mio lavoro?”. Mi meravigliai che fosse sorpresa del mio interessamento. Una settimana dopo l’ho incontrata e ho visitato il suo studio in Svizzera e abbiamo discusso delle sue opere femministe realizzate negli anni ’70 e soprattutto dei prezzi di queste opere storiche. I suoi prezzi erano veramente troppo bassi. Le ho detto che doveva aumentarne il valore economico perché le sue fotografie sono vintage e sono dei pezzi unici. Alla fine, abbiamo concordato un importo più elevato e sono stata in grado di acquisire alcune impressionanti serie fotografiche per la collezione. Sono molto felice di avere avuto la possibilità di incontrare personalmente molte delle nostre artiste. Questo mi ha dato l’opportunità di avere una autentica visione del loro lavoro.
Lorraine O’Grady, Mlle Bourgeoise Noire, 1980–1983/2009 b/w gelatin silver prints ©Lorraine O’Grady/Courtesy Alexander Gray Associates, New York/GESTOR, Prag, 2018/The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
Che tipo di visibilità ha SAMMLUNG VERBUND? È una raccolta privata o aperta al pubblico? Avete stabilito dei rapporti istituzionali per dare visibilità alla collezione? Quale è la relazione tra la collezione e i valori della corporate? Dopo il recente successo internazionale di SAMMLUNG VERBUND la corporate ha incrementato le risorse per la collezione?
GS: Poiché la nostra Feminist Avant-Garde of the 1970s è stata in tour per tutta Europa a partire dal 2010 e potrà anche essere vista anche negli Stati Uniti nel 2019, direi che la nostra collezione è molto pubblicizzata. Abbiamo anche uno spazio espositivo presso la sede VERBUND in un quartiere al centro di Vienna – la cosiddetta Vertical Gallery – dove una volta l’anno organizziamo un’esposizione di opere della nostra collezione. Finora, ci sono state mostre su Francesca Woodman, Cindy Sherman o Renate Bertlmann, tutte accompagnate da grandi pubblicazioni.
Sono ancora più soddisfatta che Renate Bertlmann rappresenterà l’Austria alla prossima Biennale di Venezia nel 2019 e l’anno scorso ha ricevuto il Grand Austrian State Prize for the Fine Arts. Questa è una significativa conferma del mio lavoro di ricerca per la collezione. L’ultima mostra a Vienna si è inaugurata a metà novembre 2018 ed è dedicata a Louise Lawler. Una volta alla settimana, i visitatori hanno l’opportunità di fare una visita guidata all’esposizione. Lungo la facciata dell’edificio della sede abbiamo anche un’invenzione dell’artista Olafur Eliasson. Ogni giorno quando il sole tramonta, una nebbia gialla si alza per un’ora.
Feminist Avant-Garde of the 1970s, The SAMMLUNG VERBUND Collection, exhibition view Photographers’ Gallery ©The Photographers’ Gallery.
Feminist Avant-Garde of the 1970s, The SAMMLUNG VERBUND Collection, exhibition view Photographers’ Gallery ©The Photographers’ Gallery.
Feminist Avant-Garde of the 1970s, The SAMMLUNG VERBUND Collection, exhibition view Photographers’ Gallery ©The Photographers’ Gallery.
Feminist Avant-Garde of the 1970s, The SAMMLUNG VERBUND Collection, exhibition view Photographers’ Gallery ©The Photographers’ Gallery.
Ritieni che all’attuale riscoperta e rivalutazione della presenza delle donne artiste nel sistema dell’arte internazionale potrà corrispondere anche un aumento del loro valore economico sul mercato?
GS: Sì, certamente, questi due aspetti vanno di pari passo e si influenzano a vicenda. Ma è anche giunto il momento per cui finalmente il lavoro delle artiste debba essere riconosciuto. Il percorso è ancora lungo e difficile.
Quale è generalmente la tipologia dei canali di acquisizione delle opere d’arte della collezione (attraverso gallerie, archivi, aste, studi di artisti, altri collezionisti)?
GS: Le nostre acquisizioni di opere d’arte passano principalmente attraverso le gallerie, a volte nelle aste e raramente dagli studi delle artiste – e solo quando non sono rappresentate da una galleria. Non abbiamo mai comprato da un’altra collezione.
Feminist Avant-Garde of the 1970s, The SAMMLUNG VERBUND Collection, exhibition view ZKM Karlsruhe ©Wootton.
Feminist Avant-Garde of the 1970s, The SAMMLUNG VERBUND Collection, exhibition view mumok Vienna ©Lena Deinhardstein.
Feminist Avant-Garde of the 1970s, The SAMMLUNG VERBUND Collection, exhibition view Photographers’ Gallery ©The Photographers’ Gallery.
Feminist Avant-Garde of the 1970s, The SAMMLUNG VERBUND Collection, exhibition view Photographers’ Gallery ©The Photographers’ Gallery.
Quali sono i progetti futuri di SAMMLUNG VERBUND considerando il crescente interesse per le questioni di genere nell’agenda politica internazionale?
GS: Ci sono molte posizioni emergenti e più giovani che si occupano di questioni di genere e di femminismo. Artiste come Roberta Lima, Ashley Hans Scheirl o Jakob Lena Knebl, solo per citarne alcune; una visione della prossima generazione a cui ci stiamo rivolgendo.
cover del catalogo Feminist Avant-Garde of the 1970s ©The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna / Prestel Verlag, München, London, New York.
La SAMMLUNG VERBUND Collection di Vienna, fondata, diretta e curata da Gabriele Schor è stata avviata nel 2004 da VERBUND AG, la principale società elettrica austriaca, tra i maggiori produttori di energia idroelettrica in Europa. È una straordinaria Corporate Collection con un orientamento internazionale e contemporaneo. La collezione ha celebrato il suo decimo anniversario nel 2014. Il nucleo della collezione Feminist Avant-Garde of the 1970s comprende attualmente 600 opere di 61 artiste, tra cui le austriache Renate Bertlmann, Linda Christanell, VALIE EXPORT, Birgit Jürgenssen, Karin Mack, Margot Pilz e Friedericke Pezold. Inoltre, tra le altre, sono presenti le prime opere di Cindy Sherman, Francesca Woodman, Hannah Wilke, Eleanor Antin, Nil Yalter, Ketty La Rocca e Ana Mendieta. Le acquisizioni sono decise dalla direttrice Gabriele Schor e dal suo Advisory Board internazionale (costituito dalla stessa Gabriele Schor insieme a Jessica Morgan e Camille Morineau). Il consiglio di amministrazione della società ha dato alla direttrice e all’Advisory Board totale autonomia e libertà nella scelta delle acquisizioni.
Per info sulla storia della SAMMLUNG VERBUND Collection
Gabriele Schor, Founding Director, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Wien ©Foto: Franz Johann Morgenbesser
Gabriele Schor ha studiato filosofia a Vienna e San Diego. Ha lavorato alla Tate Gallery di Londra; è stata corrispondente per l’arte di Neue Zürcher Zeitung; ha tenuto conferenze e lectures di storia dell’arte moderna e contemporanea presso università austriache. Dal 2004, è diventata direttrice della collezione SAMMLUNG VERBUND, che ha costruito sin dall’inizio con due focus principali: la percezione di spazi e luoghi e le avanguardie femministe degli anni ’70. Schor ha coniato il termine Feminists Avant-Garde of the 1970s per la collezione e lo ha introdotto nel discorso storico-artistico. Tra le numerose pubblicazioni: insieme ad Abigail Solomon-Godeau, il primo studio monografico su Birgit Jürgenssen (2009); nel 2012 il catalogo ragionato dei primi lavori di Cindy Sherman; nel 2014, con Elisabeth Bronfen, il primo catalogo tedesco sull’opera di Francesca Woodman; nel 2015 un compendio sulle avanguardie femministe, e nel 2016, con Jessica Morgan, uno studio monografico su Renate Bertlmann.
L’intervista a Gabriele Schor è stata elaborata da Elvira Vannini, durante il seminario sugli spazi di produzione e cooperazione femminista dagli anni Settanta fino all’attuale discussione internazionale sulla genderizzazione dell’exhibition-making, insieme agli studenti del Master in Contemporary Art Markets (a.a. 2016/2017) presso NABA – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano: Elena Casarotto, Chiara Celoria, Francesca Cucinotta, Irena Ivanova Filipova, Giulia Lopalco, Cristina Masturzo, Claudia Mazzoleni, Francesco Paini, Marta Sangiovanni, Juliana Soares Curvellano, Yang Zi.
La pubblicazione Donne Artiste in Italia – Presenza e Rappresentazione è il risultato di un seminario interdisciplinare sugli studi di genere nelle arti visive promosso dal Dipartimento di Arti Visive di NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano nel contesto del Master in Contemporary Art Markets tra 2016 e 2018. È la prima ricerca italiana che affronta attraverso lo strumento del Report, cifre, numeri alla mano, infografiche e percentuali, dati statistici, analisi quantitative e interviste, sulla presenza e la rappresentanza delle donne artiste nel mercato e nel sistema dell’arte, le sue strutture e infrastrutture produttive ed economiche. Un’analisi del mondo dell’arte dove si riproducono rapporti di potere che rispecchiano quelli presenti anche in altri campi culturali e sociali.
Scarica qui la pubblicazione.
Ulrike Rosenbach, Bonnets for a Married Woman, 1970, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
Ulrike Rosenbach, Bonnets for a Married Woman, 1970, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.
Ulrike Rosenbach, Bonnets for a Married Woman, 1970, The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.