PERFORMANCE OF IDEAS. Una post-istituzione del lavoro immateriale
«Il curatore che opera a livello globale è sempre un grande opportunista», afferma Pascal Gielen nel suo saggio “The Biennal: a post-istitution for Immaterial Labour”. Secondo il sociologo, questa tonalità emotiva è ricorrente tra gli operatori dell’arte ed è da intendere in senso amorale in quanto capacità di cogliere occasioni. Paolo Virno afferma che l’opportunismo, assieme al cinismo, appartengono all’intera collettività contemporanea: un’idea ripresa da Gianna Codeluppi nel suo libro Il biocapitalismo.
Siamo tutte persone ciniche e opportuniste, dunque. Per quanto la lettura di queste qualità emotive come prive di una ricaduta sulla morale sia volta a giudizio non individuale ma sociale, non può che illuminarci sulla temperatura del contemporaneo, vista l’ascesa, nel mondo delle mostre, di idee antiliberali e, senza temere a dirlo, di sinistra. Per questo, Gielen racconta il dualismo di chi lavora nell’arte, spiegando l’imbarazzo del curatore che «beneficia di tutti i piaceri che l’estesa economia neoliberista del nostro tempo offre» senza rinunciare però, nelle sue mostre, di trattare tematiche di attivismo, ecologia e politica. Se solo ne fossero a conoscenza, gli squadristi che spopolano oggi in tutto l’occidente non tarderebbero a dare dei “comunisti col rolex” ai curatori che maneggiano dall’alto concept, idee e denaro nelle Biennali e nelle grandi gallerie di tutto il mondo. «Insistono sulle vie di fuga da percorrere per allontanarsi dall’egemonia del neoliberalismo, con un bicchiere di buon vino in mano», ironizza Gielen.
L’abilità di prendere al volo le occasioni e la freddezza di passare da una situazione all’altra con nonchalance, sono due dei tre requisiti acquisiti dall’uomo contemporaneo in seguito all’avvento del post-fordismo. Dall’organizzazione scientifica del lavoro e dall’efficienza produttiva teorizzata da Frederick W. Taylor, si è passati, negli ultimi decenni del secolo scorso, ad un sistema Just in time, flessibile e interdisciplinare. Questo stravolgimento non può che re-identificare la qualità della forza-lavoro, che assume sempre più il volto del freelance. Tutto è modulabile, perchè in stretta dipendenza alla domanda di mercato effettiva, e tutto è instabile vista l’essenza variabile e indefinita dell’economia: la paura è la terza qualità emotiva degli individui del nostro tempo. Sulla scia di questo cambiamento, i curatori e gli operatori dell’arte si adattano ogni volta a nuove circostanze, nuovi contesti sociali e culturali, nuove idee, che devono trasformarsi sempre e comunque in un prodotto controverso e incoerente: una mostra.
Che lavoro è richiesto al curatore? «Viene ingaggiato per le sue abilità organizzative? O piuttosto per la fama?» chiede il sociologo. Fare il curatore è un lavoro creativo, e, come tutti i lavori creativi, si occupa di “sfornare” idee geniali. Quando una biennale entra in contatto con un certo curatore, è perchè da lui «cerca un’idea buona e appropriata», sintomo di un pensiero innovativo. Egli ha quindi il compito opportunistico di avere, nel momento giusto, un’idea appropriata e innovativa per il luogo che ospiterà il suo intervento, muovendosi in un paesaggio politico, sociale, economico diverso da quello di provenienza. Non c’è ovviamente modo di prevedere se effettivamente l’idea prodotta sarà un’idea appropriata e innovativa, e la speranza di una buona riuscita rimane tutta sul campo della speculazione. Nelle biennali, spiega il sociologo, il contratto di accordo con il curatore si basa non su un oggetto o un lavoro terminato, ma su una promessa di riuscita. Paolo Virno trova l’essenza del postfordismo proprio in questo aspetto potenziale del lavoro, che Gielen chiama lavoro immateriale. Il curatore è un performer di idee in potenza.
Cecilia Meroni, L’attesa infinita (16/10/1998), penna nera su carta, 29,7×21 cm, 2018.
La smaterializzazione della produzione, e quindi del lavoro, si fa risalire tendenzialmente agli anni ‘70, proprio quando il primo curatore indipendente internazionale di arte contemporanea inizia ad attrarre l’attenzione. Harald Szeemann, come operatore dell’arte, “lubrifica” il passaggio dal white cube agli spazi anti-istituzionali, inaugurando anche l’interesse per la politica e la società: da un’«istituzione diffusa e affermata a causa della sua capacità di neutralizzare problemi e conflitti sociali», agli spazi indipendenti, scenari veri e propri delle trasformazioni culturali. Szeemann, assieme ad altri come Seth Siegelaub, rende fluida la trasformazione dell’arte legata agli oggetti ad un’arte concettuale, inquadrata all’interno della contro-cultura. Eppure la serie Art as idea as idea di Kosuth e gli Statements di Weiner, per fare due esempi, si rinchiudono nelle istituzioni che invece, idealmente, combattono, sponsorizzati, tra l’altro, da un programma pubblicitario degno di un imprenditore. L’aspetto antieconomico e il carattere anti-istituzionale della Conceptual Art, che Lucy Lippard appunta come sintomo della smaterializzazione del mercato, si rivelano un parrucchino posticcio sul volto di furbi businessman incravattati.
Mauro Valsecchi, Silvio Berlusconi il re sòla, polvere di pigmento su carta, 2018.
Cos’è l’istituzione? E perchè gli artisti contemporanei sentono la necessità di evaderne, pur rimanendone sempre impigliati? Gielen parla dei luoghi che accolgono il contenuto, e quindi, nel caso dell’arte, si riferisce a gallerie, biennali, centri artistici, musei. Il sociologo comprende nella sua riflessione anche le persone che popolano l’ambiente dell’arte, in quanto artisti, curatori, galleristi e imprenditori. Ma, per istituzione, si intendono anche le dinamiche sociali, economiche e politiche che animano questi spazi, l’eredità storica del luogo stesso e quello che Jean Loup Amselle chiama sintagma museale, ovvero il sistema globale di musei, gallerie, biennali. L’istituzione è un fatto sociale che contiene oggetti d’arte ma anche un apparato produttivo: orari di lavoro, compiti, funzioni, appuntamenti. Le biennali, in particolare, hanno organizzato il proprio sistema lavorativo in modo da corrispondere esattamente al post-fordismo, con contratti di lavoro temporanei e eventi circoscritti in un preciso periodo di tempo, causa, purtroppo, di un’amnesia strutturale che non dà voce al contesto locale. La rilettura di un luogo, di una società, di un contesto politico ed economico non ha sempre il tempo di essere trattata in modo esaustivo, evidenziando la mancanza di radicamento rispetto al contesto. Restituire l’idea di un paesaggio stratificato e complesso è un compito difficile per chi abita un luogo solo per trenta giorni. Questo «virus» di decontestualizzazione e sradicamento rispetto alla storia e alla società, secondo Gielen, sta investendo sempre di più anche i musei, con l’aumento di esposizioni temporanee volte a far profitto e una scarsa attenzione verso la ricerca e la collezione permanente, rendendo questi spazi vere e proprie imprese postfordiste: le post-istituzioni.
Alla luce dell’analisi di Pascal Gielen, quello che sembra descriversi nella società contemporanea è un atteggiamento schizofrenico: all’interno del mondo artistico, abbiamo, da una parte, la curiosità, l’innovazione, l’orizzontalità e la flessibilità, ma, dall’altra un allontanamento dalla memoria collettiva delle comunità locali. Questa presa di distanza rispetto alla stabilità che un’«istituzione artistica classica» concede all’identità culturale e sociale di un luogo, si scontra bruscamente con l’idea promessa del curatore, che deve essere «appropriata» per lo spazio che la ospita: «un’idea nuova non è sempre una buona idea» dice Gielen. Il nomadismo degli operatori dell’arte, la velocità con la quale le mostre si susseguono, l’estrema adattabilità e variabilità di contenuti e contenitori, procurano instabilità invece che autenticità: «nella rete del mondo, la domanda di autenticità non può più essere posta», dicono Luc Boltanski e Eve Chiapello. La schizofrenia, dunque, coinvolge anche le opere d’arte, che appaiono antiliberali, anticapitalistiche, anti-istituzionali, ma che vengono poggiate all’interno di un sistema che trae la sua forza economica e morale da ideali antidemocratici e dispotici. Il sistema post-istituzionale basato sul postfordismo fagocita le critiche alla sua stessa essenza, depotenziandole. Re-immettendole nel ricchissimo e perverso sistema economico neoliberista dell’arte, neutralizzano il valore sovversivo di lotta dei contenuti. Che sia un modo per stare «dentro il sistema, contro il sistema»?
[Carolina Mancini]
Federico Catagnoli, Sotto lo stesso cielo, china su carta 29,7×21, 2018.
PUBLIC SERVANTS WITH A PARTICULAR ROLE. Biennali, curatori e nuovi ordini mondiali
“L’opera d’arte sembra essere originariamente malata, indifesa – per vederla, gli spettatori devono essere accompagnati ad essa proprio come il personale dell’ospedale accompagna i visitatori a trovare un paziente costretto a letto. Non è un caso che la parola “curatore” sia etimologicamente collegata al verbo “curare”. Fare il curatore significa prendersi cura. La curatela cura l’impotenza dell’immagine, la sua incapacità di mostrare sé stessa da sola” [i].
A partire dagli anni ’90, la figura del curatore ha acquisito sempre maggiore potere e riconoscibilità. Gli studi curatoriali sono entrati nelle scuole, la richiesta di tali professionisti è aumentata esponenzialmente e non per ragioni puramente “evoluzionistiche”, bensì in relazione con la proliferazione del numero di biennali, musei e fiere d’arte in tutto il mondo. Questi eventi sono rivolti più al grande pubblico che ai collezionisti e hanno permesso al sistema dell’arte di accedere a quella cultura di massa che, fino ad ora, aveva sempre osservato e analizzato solo dall’esterno.
Nonostante il notevole incremento di curatori, queste “nuove” entità sono sempre attorniate da un alone di diffidenza, di sospetto e, talvolta, ci si chiede ancora se ci sia davvero bisogno di loro. Ma ricostruendo la genealogia di questa figura professionale, a partire dalla sua definizione etimologica e dai suoi esordi, ben lontani dall’ambito artistico [ii], quale è il suo significato?
La mansione del curatore venne istituita durante l’Impero Romano in qualità di dipendente dello stato che doveva prendersi cura dei beni di coloro che erano considerati mentalmente incapaci di occuparsene. Inizialmente affidati ai malati mentali e ai prodighi, successivamente vennero assegnati anche ai minori, alle donne (prima “tutelate” dal padre e in seguito automaticamente dal marito), ai malati irreversibili e agli schiavi, considerati entità ibride a cavallo tra gli oggetti e i soggetti. Anche la gestione di determinati spazi pubblici rientrava tra le loro mansioni. Successivamente questa figura venne adottata in ambito ecclesiastico, coincidendo con quella del parroco, colui che doveva accudire le anime della comunità, il cui valore era considerato al pari dei beni materiali.
Cecilia Meroni, La scomparsa della terra (26/12/2004), penna nera su carta, 29,7×21 cm, 2018.
La figura curatoriale compare all’interno del mondo dell’arte solo verso la fine dell’Ottocento, diventando il guardiano dei musei che custodivano collezioni di oggetti storici. Qui venivano celebrati con narrazioni epiche che celavano le loro reali origini, in quanto conquiste avvenute tramite sanguinolente battaglie. A partire dagli anni ’60 emerge, invece, il cosiddetto “curatore indipendente”, non più come colui che preserva l’arte in nome di un’istituzione, bensì lo scopritore di nuovi artisti e movimenti e l’organizzatore di eventi espositivi. Si passa, così, dall’anonimia istituzionale al diventare un nuovo protagonista della scena culturale, con un nome, un’autorità sull’esibizione e uno stile riconoscibile. Una sorta di brand. Harald Szeemann è sicuramente colui che più di tutti ha contribuito a questo passaggio, creando quella che è la concezione attuale del curatore-personaggio, apparentemente autonomo e svincolato dalle istituzioni, ma diventato egli stesso l’istituzione da cui svincolarsi.
Dalle sue origini, quindi, la curatela si divide in due procedure: controllo dei soggetti e guardia (ossia governo) degli oggetti. I curatori sono gli agenti che operano nella zona grigia tra di essi, in cui gli oggetti saranno trattati come soggetti, e i soggetti verranno trasformati in oggetti. Svolgono il ruolo di mediatori, ma di un processo che gli dà il potere di trasformare gli uni negli altri, sorvolando sugli effettivi problemi etici.
Questa funzione di mediazione emerge soprattutto nell’ambito di grandi manifestazioni internazionali come le biennali e le esposizioni internazionali su larga scala, in cui i curatori devono mettere in relazione la scena artistica locale del paese ospitante con l’establishment internazionale, identità culturali e mode globali, successo economico e politicamente relativo. Secondo il teorico dell’arte Boris Groys, proprio questa negoziazione fa delle biennali i modelli di un nuovo ordine mondiale. Non sempre riuscite, a volte eticamente discutibili, ma pur sempre dei tentativi concreti. Questo, però, presuppone che non si possa più restare nell’incantata illusione di una separazione tra sistema capitalistico e sistema dell’arte, tra potere economico e potere simbolico. Tutto l’apparato strutturale di queste manifestazioni ha l’impostazione di una qualsiasi impresa capitalistica e la stessa cadenza biennale non ha altre ragioni, se non quella di seguire il ritmo del turismo internazionale, il calcolato equilibrio tra nostalgia e dimenticanza.
Libertà sembra essere la parola chiave del mondo dell’arte. Una libertà rivendicata dall’artista nella possibilità di creare, scegliere, selezionare senza giustificazioni e dal curatore odierno di svincolarsi dalle istituzioni. Ma forse, più che di libertà si dovrebbe parlare di liberismo, come afferma Marco Scotini parlando del “brand Manifesta”. È sempre più urgente smascherare l’ipervisibilità di organizzazioni più supposte che reali, riconoscere la vera natura dei curatori come «pastori» di un nuovo proselitismo unilaterale (propaganda neoliberista) e rendere visibili le procedure e le reti invisibili che si nascondono dietro i brand e le corporate identities dello spazio dell’arte [iii].
In realtà i limiti esistono ed emergono nettamente soprattutto nelle palesi controversie delle grandi manifestazioni internazionali. L’artista Robert Smithson scrisse all’alba della celebre documenta V, come atto di una protesta resa inefficace:
“La funzione del guardiano curatore è di separare l’arte dal resto della società. Dopo arriva l’integrazione. Una volta che l’opera è totalmente neutralizzata, inefficace, astratta, sicura e politicamente lobotomizzata è pronta per essere consumata dalla società. (…) Un processo limitato non è affatto un processo. Sarebbe meglio rivelare l’esistenza di un confine, piuttosto che dare l’illusione della libertà” [iv].
Nonostante il termine curare inviti ad un positivo senso di altruistica fiducia, la curatela sembra essere più simile al pharmakon di Derrida, sostanza che al contempo guarisce e infetta. D’altro canto, il concetto di prendersi cura spinge a chiedersi: qual è la malattia da cui tutti questi soggetti/oggetti debbano essere curati? – E, soprattutto – quali sono gli effetti collaterali della cura?
[Mariateresa Lattarulo]
Carmine Agosto, Cleaning Germany, flag, 2018.
ENGAGED AUTONOMY. Conservatorismo e nuove possibilità
Negli ultimi decenni molti teorici e critici d’arte hanno posto la questione di un possibile ritorno del “white cube” [v]. Il curatore Igor Zabel nel suo “The Return of the White Cube” si chiede se questa presunta ricomparsa sia da leggere come un nuovo conservatorismo nell’arte oppure se artisti e curatori abbiano scoperto nuove possibilità. Il collettivo curatoriale What, How & for Whom/WHW in “The Possibilities of the White Cube” si interroga sul perché “data l’affermazione continua di una varietà di spazi alternativi espositivi e numerosi progetti di arte sociale, urbana e pubblica e fenomeni come la net.art, la produzione di arte contemporanea si aggrappa ancora allo spazio “classico” della mostra?”. La risposta, secondo il collettivo, è da trovare nella dipendenza dell’arte dai meccanismi di rappresentazione del sistema, ma anche nel fatto che una mostra dovrebbe offrire vari tipi di modulazione temporanea nel quadro sociale e la sua stessa ridefinizione creativa. Nel 2013 Vesna Madžoski in “De Cvratoribvs: The Dialectics of Care and Confinement” scrive: “Il mondo dell’arte occidentale è ancora incorporato nella costruzione modernista del white cube”.
In realtà secondo Zabel non si dovrebbe parlare di un ritorno ma di una trasformazione di questo modello: “Questo, allora, è mai realmente scomparso?” [vi].
Brian O’ Doherty nel suo influente saggio del 1976, “Inside the White Cube”, scrive che una galleria è costruita secondo leggi rigide: le pareti sono bianche, il soffitto è la fonte di luce e le finestre sono chiuse in modo da non far entrare il mondo esterno. “L’arte è libera di togliersi la vita/The art is free to take on its own life” [vii], aggiunge. “Questa forma bianca e sterile d’esposizione è stata considerata uno spazio neutrale fuori dal tempo” [viii] ed è divenuta la norma qualche anno dopo la decisione di Willem Sandberg, il quale alla fine degli anni ‘30 fu il primo a far dipingere di bianco le pareti dello Stedelijk Museum. L’azione era stata vista come una particolare affermazione estetica per osservare l’opera d’arte sotto una nuova prospettiva.
Proprio la natura asettica e impermeabile del white cube è stata oggetto di critica nelle strategie degli artisti, nella pratica curatoriale, così come nella teoria museologica e nei concetti architettonici. Lo spazio espositivo era così neutrale che sembrava svanire; in esso si perdeva la cognizione del tempo e dello spazio, del contesto naturale, culturale, sociale e storico. Un particolare dissenso è stato quello di Robert Smithson che, nel suo testo “Cultural Confinement”, attacca violentemente lo spazio del white cube e il sistema dell’arte poiché considerati una forza isolante che separava l’estetico dal “mondo al di fuori del confine culturale” [ix]. Creando un parallelismo tra i musei e le prigioni, afferma che le stanze neutre delle gallerie sono come delle celle carcerarie. “Un’opera d’arte collocata in una galleria perde la sua carica e diventa un oggetto portatile o una superficie disimpegnata dal mondo esterno. Una volta che l’opera d’arte è totalmente neutralizzata, inefficace, astratta, sicura e politicamente lobotomizzata, è pronta per essere consumata dalla società. […] Le innovazioni sono consentite solo se supportano questo tipo di isolamento” [x].
Come osserva Igor Zabel, ciò che veniva criticato in verità non era la natura dello spazio espositivo ma il concetto stesso di arte. Quello che era stato interpretato come l’isolamento di un’opera d’arte nello spazio del white cube, corrispondeva alla “natura autonoma” dell’opera d’arte modernista. Dunque la critica poteva essere estesa allo stato autonomo dell’arte moderna, al fatto che questa era stata sempre considerata solo in termini formali, venendo di conseguenza neutralizzata e depoliticizzata. Allontanarsi dal white cube voleva dire, allora, rendere l’arte più rilevante per la società, contestualizzandola.
Yoogin Kim, WAR, collage con stampa, scotch e pennarello su carta 27×19,8 cm, 2018.
Il collettivo WHW sostiene che il luogo in cui l’arte “accade” [xi] non può mai essere completamente neutrale. È impossibile vederlo come uno spazio alleggerito da qualsiasi significato esterno che possa puntare verso il carattere istituzionale e ideologico della concezione della rappresentazione.
La Madžoski a sua volta spiega che le caratteristiche d’indipendenza e di neutralità si complicano con l’ingresso degli oggetti d’arte e degli spettatori. I primi sono prodotti caricati con diversi significati attraverso l’atto dell’esibire; gli altri portano nello spazio espositivo complesse reti di relazioni e il loro modo di percepire gli oggetti esposti. La neutralità delle esposizioni viene perciò influenzata dal sistema sociale, economico e politico circostante.
Negli ultimi decenni in particolare, artisti e curatori hanno cercato di legare lo spazio espositivo al suo contesto. Si è tentato di decostruire la nozione di ambiente museale come struttura omogenea e neutra “per rivelare lo sfondo ideologico su cui è costituito, così come la funzione all’interno delle relazioni di potere nella società” [xii]. Zabel definisce questa una strategia essenziale di “(ri)localizzazione e quindi di (ri)contestualizzazione”[xiii].
In generale vi è una riaffermazione del white cube attraverso diverse forme di “evenemenzialità”[xiv] e altri processi di interazione. Piuttosto che presentare l’opera d’arte come un atto finalizzato, si sta optando per “forme di occupazione temporanea, appropriazione, e privatizzazione dello spazio. […] L’uso innovativo del white cube solleva continuamente interrogativi sui meccanismi di rappresentazione e sul quadro istituzionale come background contestuale. In questo senso, è infatti ambivalente: può essere inteso come una sineddoche di istituzioni e contratti sociali, le cui regole e restrizioni, precisamente stabilite, presentano un campo in cui si possa mettere in discussione e smascherare il funzionamento delle istituzioni culturali e le loro condizioni più ampie” [xv]. Le mostre sembra che stiano portando l’esterno nella galleria e, allo stesso tempo, stabiliscono un contesto di “autonomia impegnata/engaged autonomy, che si basa su una certa distanza, un confine necessario, attraverso il quale le relazioni esistenziali possono essere viste con occhi moderati” [xvi].
Mauro Valsecchi, La guerra fa i ladri, e la pace li impicca, polvere di pigmento su carta, 2018.
Nonostante questi cambiamenti, secondo WHW la nostra percezione dello spazio non può sfuggire alla funzione sociale originaria del white cube, che in un certo modo garantisce la sua autorità simbolica. L’artista Mladen Stilinović afferma: “Proprio come il denaro è carta, quindi la galleria è una stanza”, sottolineando il paradosso del ridurre le posizioni sociali “sublimi” al loro livello materiale. Anche secondo Zabel il white cube ha mantenuto uno status particolare: esibirsi in esso significa, direttamente o indirettamente, alludere a concetti modernisti. Questi infatti rimangono essenziali all’interno del complesso eterogeneo di aspetti e contraddizioni conflittuali che determinano la posizione dell’arte contemporanea.
Il white cube essendo stato trasformato e caricato di numerosi riferimenti, richiede adesso una strategia attiva da parte di artisti e curatori, un riflesso delle possibilità, dei limiti e dei significati che incarna e dell’importanza dei suoi concetti fondamentali per l’arte di oggi. Quindi potrebbe “riacquistare il ruolo attivo che aveva nei giorni in cui le pareti furono dipinte per la prima volta di bianco” [xvii].
Riguardo invece al cambiamento delle condizioni di base della ricezione artistica, la questione è indubbiamente indirizzata al potenziale politico dell’arte e alla sua capacità di articolare delicati temi sociali in un contesto più ampio, nonché di offrire nuove forme di resistenza e collettività.
[Daniela Sangiorgio]
Talk, (Un)pinning the butterfly, seminario, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, 2018.
Gli interventi e le voci del glossario di Mariateresa Lattarulo, Carolina Mancini e Daniela Sangiorgio sono tratti dal seminario (Un)pinning the Butterfly. Le retoriche di Manifesta che si è svolto il 18 luglio presso Naba – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.
L’immagine di copertina è di Mauro Valsecchi, Biopecoralismo, polvere di pigmento su carta, 2018.
note:
[i] Boris Groys, dal saggio “From medium to message. The Art exhibition as a model of a new world order”, in Open n.16, 2009, rivista monografica dal titolo The Art Biennial as a Global Phenomenon. Strategies in Neo-Political Times, 2009.
[ii] cfr. Vesna Madžoski, De Cvratoribvs: The Dialectics of Care and Confinement, Atropos Press, 2013.
[iii] Marco Scotini,“Il brand Manifesta. La versione cinica dell’Exhibition making”, in Artecrazia, DeriveApprodi, Roma, 2017.
[iv] Robert Smithson, dallo statement che inviò al posto dell’opera per documenta 5 e che Harald Szeemann inserì nel catalogo della manifestazione, 1972.
[v] In “Manifesta: Journal of Contemporary Curatorship 1 (Spring / Summer 2003)” si trovano diversi contributi testuali a riguardo.
[vi] Igor Zabel, “The Return of White Cube”, Manifesta: Journal of Contemporary Curatorship 1 (Spring / Summer 2003).
[vii]Brian O’Doherty, “Inside the White Cube. The ideology of the gallery space”, Expanded edition. University of California Press, Berkeley, Los Angeles and London, 1999.
[viii] Vesna Madžoski, “De Cvratoribvs: The Dialectics of Care and Confinement”, 2013.
[ix] Robert Smithson, “Cultural Confinement”, in: Charles Harrison and Paul Wood (Eds.), Art in Theory, 1900-1990, Blackwell, Oxford (UK) and Cambridge (USA), 1992. The text was first published in the catalogue of Documenta 5, Kassel, 1972.
[x] Ibidem.
[xi] WHW, “The Possibilities of the White Cube”, Manifesta: Journal of Contemporary Curatorship 1 (Spring / Summer 2003).
[xii] Ibidem.
[xiii] Igor Zabel, “The Return of White Cube”, Manifesta: Journal of Contemporary Curatorship 1 (Spring / Summer 2003).
[xiv] WHW, “The Possibilities of the White Cube”, Manifesta: Journal of Contemporary Curatorship 1 (Spring / Summer 2003).
[xv] Ibidem.
[xvi] Ibidem.
[xvii] Igor Zabel, “The Return of White Cube”, Manifesta: Journal of Contemporary Curatorship 1 (Spring / Summer 2003).
Yoogin Kim, G8 summit: Whose fault is it?, collage con stampa, scotch e pennarello su carta, 27×19,8 cm, 2018.
PERFORMANCE OF IDEAS. Una post-istituzione del lavoro immateriale
«Il curatore che opera a livello globale è sempre un grande opportunista», afferma Pascal Gielen nel suo saggio “The Biennal: a post-istitution for Immaterial Labour”. Secondo il sociologo, questa tonalità emotiva è ricorrente tra gli operatori dell’arte ed è da intendere in senso amorale in quanto capacità di cogliere occasioni. Paolo Virno afferma che l’opportunismo, assieme al cinismo, appartengono all’intera collettività contemporanea: un’idea ripresa da Gianna Codeluppi nel suo libro Il biocapitalismo.
Siamo tutte persone ciniche e opportuniste, dunque. Per quanto la lettura di queste qualità emotive come prive di una ricaduta sulla morale sia volta a giudizio non individuale ma sociale, non può che illuminarci sulla temperatura del contemporaneo, vista l’ascesa, nel mondo delle mostre, di idee antiliberali e, senza temere a dirlo, di sinistra. Per questo, Gielen racconta il dualismo di chi lavora nell’arte, spiegando l’imbarazzo del curatore che «beneficia di tutti i piaceri che l’estesa economia neoliberista del nostro tempo offre» senza rinunciare però, nelle sue mostre, di trattare tematiche di attivismo, ecologia e politica. Se solo ne fossero a conoscenza, gli squadristi che spopolano oggi in tutto l’occidente non tarderebbero a dare dei “comunisti col rolex” ai curatori che maneggiano dall’alto concept, idee e denaro nelle Biennali e nelle grandi gallerie di tutto il mondo. «Insistono sulle vie di fuga da percorrere per allontanarsi dall’egemonia del neoliberalismo, con un bicchiere di buon vino in mano», ironizza Gielen.
L’abilità di prendere al volo le occasioni e la freddezza di passare da una situazione all’altra con nonchalance, sono due dei tre requisiti acquisiti dall’uomo contemporaneo in seguito all’avvento del post-fordismo. Dall’organizzazione scientifica del lavoro e dall’efficienza produttiva teorizzata da Frederick W. Taylor, si è passati, negli ultimi decenni del secolo scorso, ad un sistema Just in time, flessibile e interdisciplinare. Questo stravolgimento non può che re-identificare la qualità della forza-lavoro, che assume sempre più il volto del freelance. Tutto è modulabile, perchè in stretta dipendenza alla domanda di mercato effettiva, e tutto è instabile vista l’essenza variabile e indefinita dell’economia: la paura è la terza qualità emotiva degli individui del nostro tempo. Sulla scia di questo cambiamento, i curatori e gli operatori dell’arte si adattano ogni volta a nuove circostanze, nuovi contesti sociali e culturali, nuove idee, che devono trasformarsi sempre e comunque in un prodotto controverso e incoerente: una mostra.
Che lavoro è richiesto al curatore? «Viene ingaggiato per le sue abilità organizzative? O piuttosto per la fama?» chiede il sociologo. Fare il curatore è un lavoro creativo, e, come tutti i lavori creativi, si occupa di “sfornare” idee geniali. Quando una biennale entra in contatto con un certo curatore, è perchè da lui «cerca un’idea buona e appropriata», sintomo di un pensiero innovativo. Egli ha quindi il compito opportunistico di avere, nel momento giusto, un’idea appropriata e innovativa per il luogo che ospiterà il suo intervento, muovendosi in un paesaggio politico, sociale, economico diverso da quello di provenienza. Non c’è ovviamente modo di prevedere se effettivamente l’idea prodotta sarà un’idea appropriata e innovativa, e la speranza di una buona riuscita rimane tutta sul campo della speculazione. Nelle biennali, spiega il sociologo, il contratto di accordo con il curatore si basa non su un oggetto o un lavoro terminato, ma su una promessa di riuscita. Paolo Virno trova l’essenza del postfordismo proprio in questo aspetto potenziale del lavoro, che Gielen chiama lavoro immateriale. Il curatore è un performer di idee in potenza.
Cecilia Meroni, L’attesa infinita (16/10/1998), penna nera su carta, 29,7×21 cm, 2018.
La smaterializzazione della produzione, e quindi del lavoro, si fa risalire tendenzialmente agli anni ‘70, proprio quando il primo curatore indipendente internazionale di arte contemporanea inizia ad attrarre l’attenzione. Harald Szeemann, come operatore dell’arte, “lubrifica” il passaggio dal white cube agli spazi anti-istituzionali, inaugurando anche l’interesse per la politica e la società: da un’«istituzione diffusa e affermata a causa della sua capacità di neutralizzare problemi e conflitti sociali», agli spazi indipendenti, scenari veri e propri delle trasformazioni culturali. Szeemann, assieme ad altri come Seth Siegelaub, rende fluida la trasformazione dell’arte legata agli oggetti ad un’arte concettuale, inquadrata all’interno della contro-cultura. Eppure la serie Art as idea as idea di Kosuth e gli Statements di Weiner, per fare due esempi, si rinchiudono nelle istituzioni che invece, idealmente, combattono, sponsorizzati, tra l’altro, da un programma pubblicitario degno di un imprenditore. L’aspetto antieconomico e il carattere anti-istituzionale della Conceptual Art, che Lucy Lippard appunta come sintomo della smaterializzazione del mercato, si rivelano un parrucchino posticcio sul volto di furbi businessman incravattati.
Mauro Valsecchi, Silvio Berlusconi il re sòla, polvere di pigmento su carta, 2018.
Cos’è l’istituzione? E perchè gli artisti contemporanei sentono la necessità di evaderne, pur rimanendone sempre impigliati? Gielen parla dei luoghi che accolgono il contenuto, e quindi, nel caso dell’arte, si riferisce a gallerie, biennali, centri artistici, musei. Il sociologo comprende nella sua riflessione anche le persone che popolano l’ambiente dell’arte, in quanto artisti, curatori, galleristi e imprenditori. Ma, per istituzione, si intendono anche le dinamiche sociali, economiche e politiche che animano questi spazi, l’eredità storica del luogo stesso e quello che Jean Loup Amselle chiama sintagma museale, ovvero il sistema globale di musei, gallerie, biennali. L’istituzione è un fatto sociale che contiene oggetti d’arte ma anche un apparato produttivo: orari di lavoro, compiti, funzioni, appuntamenti. Le biennali, in particolare, hanno organizzato il proprio sistema lavorativo in modo da corrispondere esattamente al post-fordismo, con contratti di lavoro temporanei e eventi circoscritti in un preciso periodo di tempo, causa, purtroppo, di un’amnesia strutturale che non dà voce al contesto locale. La rilettura di un luogo, di una società, di un contesto politico ed economico non ha sempre il tempo di essere trattata in modo esaustivo, evidenziando la mancanza di radicamento rispetto al contesto. Restituire l’idea di un paesaggio stratificato e complesso è un compito difficile per chi abita un luogo solo per trenta giorni. Questo «virus» di decontestualizzazione e sradicamento rispetto alla storia e alla società, secondo Gielen, sta investendo sempre di più anche i musei, con l’aumento di esposizioni temporanee volte a far profitto e una scarsa attenzione verso la ricerca e la collezione permanente, rendendo questi spazi vere e proprie imprese postfordiste: le post-istituzioni.
Alla luce dell’analisi di Pascal Gielen, quello che sembra descriversi nella società contemporanea è un atteggiamento schizofrenico: all’interno del mondo artistico, abbiamo, da una parte, la curiosità, l’innovazione, l’orizzontalità e la flessibilità, ma, dall’altra un allontanamento dalla memoria collettiva delle comunità locali. Questa presa di distanza rispetto alla stabilità che un’«istituzione artistica classica» concede all’identità culturale e sociale di un luogo, si scontra bruscamente con l’idea promessa del curatore, che deve essere «appropriata» per lo spazio che la ospita: «un’idea nuova non è sempre una buona idea» dice Gielen. Il nomadismo degli operatori dell’arte, la velocità con la quale le mostre si susseguono, l’estrema adattabilità e variabilità di contenuti e contenitori, procurano instabilità invece che autenticità: «nella rete del mondo, la domanda di autenticità non può più essere posta», dicono Luc Boltanski e Eve Chiapello. La schizofrenia, dunque, coinvolge anche le opere d’arte, che appaiono antiliberali, anticapitalistiche, anti-istituzionali, ma che vengono poggiate all’interno di un sistema che trae la sua forza economica e morale da ideali antidemocratici e dispotici. Il sistema post-istituzionale basato sul postfordismo fagocita le critiche alla sua stessa essenza, depotenziandole. Re-immettendole nel ricchissimo e perverso sistema economico neoliberista dell’arte, neutralizzano il valore sovversivo di lotta dei contenuti. Che sia un modo per stare «dentro il sistema, contro il sistema»?
[Carolina Mancini]
Federico Catagnoli, Sotto lo stesso cielo, china su carta 29,7×21, 2018.
PUBLIC SERVANTS WITH A PARTICULAR ROLE. Biennali, curatori e nuovi ordini mondiali
“L’opera d’arte sembra essere originariamente malata, indifesa – per vederla, gli spettatori devono essere accompagnati ad essa proprio come il personale dell’ospedale accompagna i visitatori a trovare un paziente costretto a letto. Non è un caso che la parola “curatore” sia etimologicamente collegata al verbo “curare”. Fare il curatore significa prendersi cura. La curatela cura l’impotenza dell’immagine, la sua incapacità di mostrare sé stessa da sola” [i].
A partire dagli anni ’90, la figura del curatore ha acquisito sempre maggiore potere e riconoscibilità. Gli studi curatoriali sono entrati nelle scuole, la richiesta di tali professionisti è aumentata esponenzialmente e non per ragioni puramente “evoluzionistiche”, bensì in relazione con la proliferazione del numero di biennali, musei e fiere d’arte in tutto il mondo. Questi eventi sono rivolti più al grande pubblico che ai collezionisti e hanno permesso al sistema dell’arte di accedere a quella cultura di massa che, fino ad ora, aveva sempre osservato e analizzato solo dall’esterno.
Nonostante il notevole incremento di curatori, queste “nuove” entità sono sempre attorniate da un alone di diffidenza, di sospetto e, talvolta, ci si chiede ancora se ci sia davvero bisogno di loro. Ma ricostruendo la genealogia di questa figura professionale, a partire dalla sua definizione etimologica e dai suoi esordi, ben lontani dall’ambito artistico [ii], quale è il suo significato?
La mansione del curatore venne istituita durante l’Impero Romano in qualità di dipendente dello stato che doveva prendersi cura dei beni di coloro che erano considerati mentalmente incapaci di occuparsene. Inizialmente affidati ai malati mentali e ai prodighi, successivamente vennero assegnati anche ai minori, alle donne (prima “tutelate” dal padre e in seguito automaticamente dal marito), ai malati irreversibili e agli schiavi, considerati entità ibride a cavallo tra gli oggetti e i soggetti. Anche la gestione di determinati spazi pubblici rientrava tra le loro mansioni. Successivamente questa figura venne adottata in ambito ecclesiastico, coincidendo con quella del parroco, colui che doveva accudire le anime della comunità, il cui valore era considerato al pari dei beni materiali.
Cecilia Meroni, La scomparsa della terra (26/12/2004), penna nera su carta, 29,7×21 cm, 2018.
La figura curatoriale compare all’interno del mondo dell’arte solo verso la fine dell’Ottocento, diventando il guardiano dei musei che custodivano collezioni di oggetti storici. Qui venivano celebrati con narrazioni epiche che celavano le loro reali origini, in quanto conquiste avvenute tramite sanguinolente battaglie. A partire dagli anni ’60 emerge, invece, il cosiddetto “curatore indipendente”, non più come colui che preserva l’arte in nome di un’istituzione, bensì lo scopritore di nuovi artisti e movimenti e l’organizzatore di eventi espositivi. Si passa, così, dall’anonimia istituzionale al diventare un nuovo protagonista della scena culturale, con un nome, un’autorità sull’esibizione e uno stile riconoscibile. Una sorta di brand. Harald Szeemann è sicuramente colui che più di tutti ha contribuito a questo passaggio, creando quella che è la concezione attuale del curatore-personaggio, apparentemente autonomo e svincolato dalle istituzioni, ma diventato egli stesso l’istituzione da cui svincolarsi.
Dalle sue origini, quindi, la curatela si divide in due procedure: controllo dei soggetti e guardia (ossia governo) degli oggetti. I curatori sono gli agenti che operano nella zona grigia tra di essi, in cui gli oggetti saranno trattati come soggetti, e i soggetti verranno trasformati in oggetti. Svolgono il ruolo di mediatori, ma di un processo che gli dà il potere di trasformare gli uni negli altri, sorvolando sugli effettivi problemi etici.
Questa funzione di mediazione emerge soprattutto nell’ambito di grandi manifestazioni internazionali come le biennali e le esposizioni internazionali su larga scala, in cui i curatori devono mettere in relazione la scena artistica locale del paese ospitante con l’establishment internazionale, identità culturali e mode globali, successo economico e politicamente relativo. Secondo il teorico dell’arte Boris Groys, proprio questa negoziazione fa delle biennali i modelli di un nuovo ordine mondiale. Non sempre riuscite, a volte eticamente discutibili, ma pur sempre dei tentativi concreti. Questo, però, presuppone che non si possa più restare nell’incantata illusione di una separazione tra sistema capitalistico e sistema dell’arte, tra potere economico e potere simbolico. Tutto l’apparato strutturale di queste manifestazioni ha l’impostazione di una qualsiasi impresa capitalistica e la stessa cadenza biennale non ha altre ragioni, se non quella di seguire il ritmo del turismo internazionale, il calcolato equilibrio tra nostalgia e dimenticanza.
Libertà sembra essere la parola chiave del mondo dell’arte. Una libertà rivendicata dall’artista nella possibilità di creare, scegliere, selezionare senza giustificazioni e dal curatore odierno di svincolarsi dalle istituzioni. Ma forse, più che di libertà si dovrebbe parlare di liberismo, come afferma Marco Scotini parlando del “brand Manifesta”. È sempre più urgente smascherare l’ipervisibilità di organizzazioni più supposte che reali, riconoscere la vera natura dei curatori come «pastori» di un nuovo proselitismo unilaterale (propaganda neoliberista) e rendere visibili le procedure e le reti invisibili che si nascondono dietro i brand e le corporate identities dello spazio dell’arte [iii].
In realtà i limiti esistono ed emergono nettamente soprattutto nelle palesi controversie delle grandi manifestazioni internazionali. L’artista Robert Smithson scrisse all’alba della celebre documenta V, come atto di una protesta resa inefficace:
“La funzione del guardiano curatore è di separare l’arte dal resto della società. Dopo arriva l’integrazione. Una volta che l’opera è totalmente neutralizzata, inefficace, astratta, sicura e politicamente lobotomizzata è pronta per essere consumata dalla società. (…) Un processo limitato non è affatto un processo. Sarebbe meglio rivelare l’esistenza di un confine, piuttosto che dare l’illusione della libertà” [iv].
Nonostante il termine curare inviti ad un positivo senso di altruistica fiducia, la curatela sembra essere più simile al pharmakon di Derrida, sostanza che al contempo guarisce e infetta. D’altro canto, il concetto di prendersi cura spinge a chiedersi: qual è la malattia da cui tutti questi soggetti/oggetti debbano essere curati? – E, soprattutto – quali sono gli effetti collaterali della cura?
[Mariateresa Lattarulo]
Carmine Agosto, Cleaning Germany, flag, 2018.
ENGAGED AUTONOMY. Conservatorismo e nuove possibilità
Negli ultimi decenni molti teorici e critici d’arte hanno posto la questione di un possibile ritorno del “white cube” [v]. Il curatore Igor Zabel nel suo “The Return of the White Cube” si chiede se questa presunta ricomparsa sia da leggere come un nuovo conservatorismo nell’arte oppure se artisti e curatori abbiano scoperto nuove possibilità. Il collettivo curatoriale What, How & for Whom/WHW in “The Possibilities of the White Cube” si interroga sul perché “data l’affermazione continua di una varietà di spazi alternativi espositivi e numerosi progetti di arte sociale, urbana e pubblica e fenomeni come la net.art, la produzione di arte contemporanea si aggrappa ancora allo spazio “classico” della mostra?”. La risposta, secondo il collettivo, è da trovare nella dipendenza dell’arte dai meccanismi di rappresentazione del sistema, ma anche nel fatto che una mostra dovrebbe offrire vari tipi di modulazione temporanea nel quadro sociale e la sua stessa ridefinizione creativa. Nel 2013 Vesna Madžoski in “De Cvratoribvs: The Dialectics of Care and Confinement” scrive: “Il mondo dell’arte occidentale è ancora incorporato nella costruzione modernista del white cube”.
In realtà secondo Zabel non si dovrebbe parlare di un ritorno ma di una trasformazione di questo modello: “Questo, allora, è mai realmente scomparso?” [vi].
Brian O’ Doherty nel suo influente saggio del 1976, “Inside the White Cube”, scrive che una galleria è costruita secondo leggi rigide: le pareti sono bianche, il soffitto è la fonte di luce e le finestre sono chiuse in modo da non far entrare il mondo esterno. “L’arte è libera di togliersi la vita/The art is free to take on its own life” [vii], aggiunge. “Questa forma bianca e sterile d’esposizione è stata considerata uno spazio neutrale fuori dal tempo” [viii] ed è divenuta la norma qualche anno dopo la decisione di Willem Sandberg, il quale alla fine degli anni ‘30 fu il primo a far dipingere di bianco le pareti dello Stedelijk Museum. L’azione era stata vista come una particolare affermazione estetica per osservare l’opera d’arte sotto una nuova prospettiva.
Proprio la natura asettica e impermeabile del white cube è stata oggetto di critica nelle strategie degli artisti, nella pratica curatoriale, così come nella teoria museologica e nei concetti architettonici. Lo spazio espositivo era così neutrale che sembrava svanire; in esso si perdeva la cognizione del tempo e dello spazio, del contesto naturale, culturale, sociale e storico. Un particolare dissenso è stato quello di Robert Smithson che, nel suo testo “Cultural Confinement”, attacca violentemente lo spazio del white cube e il sistema dell’arte poiché considerati una forza isolante che separava l’estetico dal “mondo al di fuori del confine culturale” [ix]. Creando un parallelismo tra i musei e le prigioni, afferma che le stanze neutre delle gallerie sono come delle celle carcerarie. “Un’opera d’arte collocata in una galleria perde la sua carica e diventa un oggetto portatile o una superficie disimpegnata dal mondo esterno. Una volta che l’opera d’arte è totalmente neutralizzata, inefficace, astratta, sicura e politicamente lobotomizzata, è pronta per essere consumata dalla società. […] Le innovazioni sono consentite solo se supportano questo tipo di isolamento” [x].
Come osserva Igor Zabel, ciò che veniva criticato in verità non era la natura dello spazio espositivo ma il concetto stesso di arte. Quello che era stato interpretato come l’isolamento di un’opera d’arte nello spazio del white cube, corrispondeva alla “natura autonoma” dell’opera d’arte modernista. Dunque la critica poteva essere estesa allo stato autonomo dell’arte moderna, al fatto che questa era stata sempre considerata solo in termini formali, venendo di conseguenza neutralizzata e depoliticizzata. Allontanarsi dal white cube voleva dire, allora, rendere l’arte più rilevante per la società, contestualizzandola.
Yoogin Kim, WAR, collage con stampa, scotch e pennarello su carta 27×19,8 cm, 2018.
Il collettivo WHW sostiene che il luogo in cui l’arte “accade” [xi] non può mai essere completamente neutrale. È impossibile vederlo come uno spazio alleggerito da qualsiasi significato esterno che possa puntare verso il carattere istituzionale e ideologico della concezione della rappresentazione.
La Madžoski a sua volta spiega che le caratteristiche d’indipendenza e di neutralità si complicano con l’ingresso degli oggetti d’arte e degli spettatori. I primi sono prodotti caricati con diversi significati attraverso l’atto dell’esibire; gli altri portano nello spazio espositivo complesse reti di relazioni e il loro modo di percepire gli oggetti esposti. La neutralità delle esposizioni viene perciò influenzata dal sistema sociale, economico e politico circostante.
Negli ultimi decenni in particolare, artisti e curatori hanno cercato di legare lo spazio espositivo al suo contesto. Si è tentato di decostruire la nozione di ambiente museale come struttura omogenea e neutra “per rivelare lo sfondo ideologico su cui è costituito, così come la funzione all’interno delle relazioni di potere nella società” [xii]. Zabel definisce questa una strategia essenziale di “(ri)localizzazione e quindi di (ri)contestualizzazione”[xiii].
In generale vi è una riaffermazione del white cube attraverso diverse forme di “evenemenzialità”[xiv] e altri processi di interazione. Piuttosto che presentare l’opera d’arte come un atto finalizzato, si sta optando per “forme di occupazione temporanea, appropriazione, e privatizzazione dello spazio. […] L’uso innovativo del white cube solleva continuamente interrogativi sui meccanismi di rappresentazione e sul quadro istituzionale come background contestuale. In questo senso, è infatti ambivalente: può essere inteso come una sineddoche di istituzioni e contratti sociali, le cui regole e restrizioni, precisamente stabilite, presentano un campo in cui si possa mettere in discussione e smascherare il funzionamento delle istituzioni culturali e le loro condizioni più ampie” [xv]. Le mostre sembra che stiano portando l’esterno nella galleria e, allo stesso tempo, stabiliscono un contesto di “autonomia impegnata/engaged autonomy, che si basa su una certa distanza, un confine necessario, attraverso il quale le relazioni esistenziali possono essere viste con occhi moderati” [xvi].
Mauro Valsecchi, La guerra fa i ladri, e la pace li impicca, polvere di pigmento su carta, 2018.
Nonostante questi cambiamenti, secondo WHW la nostra percezione dello spazio non può sfuggire alla funzione sociale originaria del white cube, che in un certo modo garantisce la sua autorità simbolica. L’artista Mladen Stilinović afferma: “Proprio come il denaro è carta, quindi la galleria è una stanza”, sottolineando il paradosso del ridurre le posizioni sociali “sublimi” al loro livello materiale. Anche secondo Zabel il white cube ha mantenuto uno status particolare: esibirsi in esso significa, direttamente o indirettamente, alludere a concetti modernisti. Questi infatti rimangono essenziali all’interno del complesso eterogeneo di aspetti e contraddizioni conflittuali che determinano la posizione dell’arte contemporanea.
Il white cube essendo stato trasformato e caricato di numerosi riferimenti, richiede adesso una strategia attiva da parte di artisti e curatori, un riflesso delle possibilità, dei limiti e dei significati che incarna e dell’importanza dei suoi concetti fondamentali per l’arte di oggi. Quindi potrebbe “riacquistare il ruolo attivo che aveva nei giorni in cui le pareti furono dipinte per la prima volta di bianco” [xvii].
Riguardo invece al cambiamento delle condizioni di base della ricezione artistica, la questione è indubbiamente indirizzata al potenziale politico dell’arte e alla sua capacità di articolare delicati temi sociali in un contesto più ampio, nonché di offrire nuove forme di resistenza e collettività.
[Daniela Sangiorgio]
Talk, (Un)pinning the butterfly, seminario, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, 2018.
Gli interventi e le voci del glossario di Mariateresa Lattarulo, Carolina Mancini e Daniela Sangiorgio sono tratti dal seminario (Un)pinning the Butterfly. Le retoriche di Manifesta che si è svolto il 18 luglio presso Naba – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.
L’immagine di copertina è di Mauro Valsecchi, Biopecoralismo, polvere di pigmento su carta, 2018.
note:
[i] Boris Groys, dal saggio “From medium to message. The Art exhibition as a model of a new world order”, in Open n.16, 2009, rivista monografica dal titolo The Art Biennial as a Global Phenomenon. Strategies in Neo-Political Times, 2009.
[ii] cfr. Vesna Madžoski, De Cvratoribvs: The Dialectics of Care and Confinement, Atropos Press, 2013.
[iii] Marco Scotini,“Il brand Manifesta. La versione cinica dell’Exhibition making”, in Artecrazia, DeriveApprodi, Roma, 2017.
[iv] Robert Smithson, dallo statement che inviò al posto dell’opera per documenta 5 e che Harald Szeemann inserì nel catalogo della manifestazione, 1972.
[v] In “Manifesta: Journal of Contemporary Curatorship 1 (Spring / Summer 2003)” si trovano diversi contributi testuali a riguardo.
[vi] Igor Zabel, “The Return of White Cube”, Manifesta: Journal of Contemporary Curatorship 1 (Spring / Summer 2003).
[vii]Brian O’Doherty, “Inside the White Cube. The ideology of the gallery space”, Expanded edition. University of California Press, Berkeley, Los Angeles and London, 1999.
[viii] Vesna Madžoski, “De Cvratoribvs: The Dialectics of Care and Confinement”, 2013.
[ix] Robert Smithson, “Cultural Confinement”, in: Charles Harrison and Paul Wood (Eds.), Art in Theory, 1900-1990, Blackwell, Oxford (UK) and Cambridge (USA), 1992. The text was first published in the catalogue of Documenta 5, Kassel, 1972.
[x] Ibidem.
[xi] WHW, “The Possibilities of the White Cube”, Manifesta: Journal of Contemporary Curatorship 1 (Spring / Summer 2003).
[xii] Ibidem.
[xiii] Igor Zabel, “The Return of White Cube”, Manifesta: Journal of Contemporary Curatorship 1 (Spring / Summer 2003).
[xiv] WHW, “The Possibilities of the White Cube”, Manifesta: Journal of Contemporary Curatorship 1 (Spring / Summer 2003).
[xv] Ibidem.
[xvi] Ibidem.
[xvii] Igor Zabel, “The Return of White Cube”, Manifesta: Journal of Contemporary Curatorship 1 (Spring / Summer 2003).
Yoogin Kim, G8 summit: Whose fault is it?, collage con stampa, scotch e pennarello su carta, 27×19,8 cm, 2018.