In opposizione alla dominante cultura patriarcale e maschilista veicolata dalla società, la pedagogia femminista ha apportato un contributo fondamentale all’educazione così come ci è stata imposta, allo scopo di scardinarla e renderla “altro”. Fuori da modelli educativi cui sottostare, l’esperienza delle 150 ore di via Gabbro di Lea Melandri ha proposto un linguaggio altro poiché all’interno del corso serale per casalinghe iniziano ad essere affrontate temi quali il lavoro domestico e riproduttivo, il rapporto con figli e mariti, il legame di servitù che la lega alla casa ecc., che permettono alle donne di iniziare a prendere coscienza, e parola, della loro condizione sociale.
Più polvere in casa meno polvere nel cervello
Se non hai la licenza media o elementare FAI ATTENZIONE: ho da farti una comunicazione importante. Lo sai che esistono le 150 ore? […]
L’esperienza di questa scuola serve soprattutto a noi donne, casalinghe, in quanto ci offre un’occasione per uscire dall’isolamento delle mura domestiche e per incontrare altre donne.
Per noi che abbiamo seguito il corso quest’anno, le 150 ore sono state un’iniezione di vitalità; sono servite ad aggiungere altri strumenti alla nostra cultura, ma anche a farci vedere più chiaro tante cose che accadono intorno e dentro di noi.
Inoltre è stato bello poter vivere assieme nella scuola senza competizione e senza arrivismo.
Le donne del corso 150 ore di via Gabbro
Corso 150 ore. Via Gabbro 6, Affori, Milano. Courtesy Lea Melandri.
Una scuola senza fine, un’esperienza di vita: le 150 ore di Via Gabbro
L’indagine e l’atteggiamento critico nei confronti del nostro presente e del nostro passato è essenziale per comprendere l’attualità in cui viviamo. Lo insegna la storia in generale. A me lo ha insegnato soprattutto la storia del femminismo. Esso infatti mi ha fatto capire quanto fosse importante guardare il presente con occhio critico, cercare di comprendere andando alle radici delle cose. Il femminismo stesso, che negli anni Sessanta e Settanta ha vissuto il proprio apice nel mondo occidentale, ha scoperto che grazie alle riflessioni che andavano al di là degli schemi conosciuti e imposti, poteva essere possibile scardinare l’autoritarismo dell’esistente e vedere migliorate delle situazioni di subordinazione e disuguaglianza politica, sociale e culturale che non riguardavano solo le donne. Si tratta di storie che fanno parte del nostro passato ma anche del nostro presente, quindi conoscere ciò che è stato è utile per riflettere e lavorare su ciò che è.
Non possiamo più conoscere tutte le storie a partire dalle parole di chi le ha vissute, molto è racchiuso negli archivi, luoghi che sopravvivono a fatica ma che raccolgono tesori, luoghi densi di storia ma, soprattutto, di storie.
La storia della scuola delle 150 ore di Via Gabbro – e le storie delle donne che ne hanno preso parte – ha destato in me un grande interesse. Nasceva certo dalla lettura e dal confronto con le grandi donne che hanno scritto la storia dei femminismi come Simone De Beauvoir, prima, e Judith Butler, Silvia Federici, Rosi Braidotti, poi. E questi sono solo dei piccoli esempi lo so, ma sono i miei.
Forse anche io, qualche anno fa, ho avuto bisogno di abbandonare la teoria confrontandomi con le esperienze pratiche per comprendere come il femminismo degli anni Sessanta e Settanta era riuscito a influenzare l’esistenza di donne – e non solo – che stavano davvero vivendo gli anni di lotte e movimenti per l’emancipazione e come la teoria si era trasformata in pratica. Grazie all’incontro con Lea Melandri presso la Libera Università delle Donne di Milano e grazie alle sue parole ho scoperto l’esperienza della Scuola di Via Gabbro. Grazie ai suoi racconti dettagliati ho compreso tanto di quello che quell’esperienza ha rappresentato, allora come oggi, e l’influenza che ha avuto e che potrebbe ancora avere sul nostro presente. Cercherò dunque di raccontarla.
Corso 150 ore. Via Gabbro 6. Corso monografico sul corpo. Courtesy Lea Melandri.
Dal miracolo economico italiano nacque un nuovo soggetto sulla scena economica, sociale e politica italiana: l’industria. In essa molte persone avevano trovato impiego dopo la guerra. La fabbrica, luogo di lavoro prima di tutto, divenne anche luogo di agitazioni, rivendicazioni e rivoluzioni, oltre che teatro dei più importanti cambiamenti strutturali del nostro paese.
Il potere dei sindacati, fiacco nel periodo del dopoguerra, aumentò sempre più tanto da divenire il punto cardine nella relazione tra datori di lavoro e lavoratori.
La crescita dell’impiego nel settore industriale ebbe come conseguenza una netta diminuzione di lavoro nel settore industriale, cosa che determinò una grande migrazione dalle campagne alle città. Milano vide drasticamente aumentata la sua popolazione, soprattutto nelle zone periferiche dove venivano costruite le nuove industrie e i quartieri operai che servivano ad ospitare i “nuovi lavoratori” e le loro famiglie.
I sindacati lavoravano per fare in modo le condizioni di lavoro degli operai impiegati nelle fabbriche migliorassero: essi infatti chiedevano di lavorare meno ore e di ricevere una migliore retribuzione.
Presto le rivendicazioni operaie si allinearono a quelle studentesche. Le modalità messe in atto al fine di raggiungere gli obiettivi – scioperi, astensioni dal lavoro ecc. – furono in grado di condurre a importanti conquiste sociali tra cui uno dei più importanti fu il diritto allo studio per i lavoratori. I corsi “150 ore” rappresentano una delle vittorie più significative che i sindacati riuscirono a raggiungere. A renderli un diritto fu dapprima il CCNL metalmeccanici che dava la possibilità ai lavoratori dipendenti di utilizzare dei permessi per sospendevano la prestazione di lavoro per poter accedere a corsi di studio. Così vennero organizzati dei corsi di alfabetizzazione e di formazione al fine di conseguire il diploma delle scuole elementari, medie e superiori.
Inizialmente questi corsi furono organizzati solo per due gruppi di lavoratori, i chimici e i metalmeccanici, i quali ottennero la concessione dai datori di lavoro come impegno contrattuale. Inoltre lo stato italiano si impegnò a riconoscere i corsi come regolari corsi di studio. I “corsi 150 ore” per adulti rappresentano una grande conquista delle lotte operaie per chi non aveva la licenza media. Le ore superarono presto le 150 per arrivare a 350 ma il loro nome rimase invariato.
Il progetto aveva lo scopo di implementare la consapevolezza del lavoratore, la sua alfabetizzazione ma anche, in generale, la liberà dello stesso di gestire il suo tempo e la sua conoscenza. Altra importante innovazione fu che gli insegnamenti di questi corsi non avevano lo scopo di essere praticamente applicati e applicabili al lavoro: i lavoratori tornavano a scuola per benefici personali, non aziendali, e per riflettere sulle condizioni di lavoro e, in generale, di vita. La fabbrica non venne mai esclusa dallo studio ma divenne oggetto di riflessione e di analisi. Si trattava dell’impatto delle ore e del ritmo di lavoro sul fisico e sulla mente dei lavoratori, si analizzava l’ambiente di lavoro, i diritti e così via.
Corso 150 ore, Affori, Milano. Scuola media di via Gabbro 1976. Educazione permanente degli adulti.
Una gran parte dei corsi venne dedicata a trattare del vissuto delle persone, il loro passato, le loro storie, le loro relazioni con la famiglia e l’ambiente sociale, il loro corpo e le loro sensazioni ed emozioni. Gli studenti avevano un’età che andava dai 20 ai 60 anni ed erano, per di più, persone analfabete o quasi che avevano dedicato la maggior parte della loro vita a lavorare e che avevano alle spalle storie di immigrazione e di discriminazione linguistica e culturale.
Si può facilmente comprendere come il corso restava però molto eterogeneo: diverse erano le storie, diverse le esigenze e quindi tutte le lezioni cercavano di mettere insieme le differenze facendo di queste la propria forza. La vita privata e affettiva di ciascuno diveniva spunto di riflessioni differenti. Era il desiderio di condivisione ciò che accumunava tutti.
Il corpo insegnanti aveva il compito di far emergere tutte queste storie e tutte le consapevolezze. Ovviamente il rapporto tra gli insegnanti e i lavoratori non poteva rimanere un rapporto frontale ma divenne una vera e propria relazione che portò gli insegnanti stessi a mettersi in gioco e a condividere le proprie esperienze. Il percorso cognitivo partiva proprio dal personale, un personale che diventava soggetto e oggetto di analisi.
Questo ebbe un’altra importante conseguenza: concetti che furono tradizionalmente repressi nella scena politica, come l’emotività, l’affettività, la corporalità ecc., irruppero al suo interno sconvolgendo i confini di quello che fino a quel momento era considerato solo privato. Il privato diventa pubblico.
Tra il 1974 e il 1976 i corsi si diffusero e andarono oltre le sole due categorie iniziali dei metalmeccanici e dei chimici per rivolgersi a tutti i lavoratori, ai disoccupati, ai pensionati e alle casalinghe. Chiunque, se desiderava, poteva rimettersi sui libri seguendo i corsi che la città e i quartieri mettevano loro a disposizione.
Il Collettivo di via Cherubini 8. Dall’autocoscienza alla pratica dell’inconscio.
La più grande e importante trasformazione fu determinata proprio dalla partecipazione delle donne. Le necessità delle donne, in quel particolare periodo storico, erano diverse rispetto a quelle degli uomini. Le allieve e le insegnanti portarono all’interno del corso la loro esperienza di donne, di mogli, di madri. Le insegnanti si erano battute per poter insegnare, mentre le allieve lo avevano fatto per poter seguire i corsi lasciando, per qualche ora, i doveri che la famiglia imponeva loro.
La consapevolezza delle donne stava trovando un riscontro politico all’interno del Movimento delle Donne. La stessa pratica femminista dello sviluppo della consapevolezza, della cura e dei gruppi dell’inconscio sfociarono direttamente nei corsi delle 150 ore. Per le allieve, i corsi divennero pretesto per discussioni collettive su tematiche che riguardavano la casa, la cura dei figli, la relazione con il marito ma soprattutto, la relazione con il proprio corpo, con le proprie paure. I corsi permettevano loro di mettere per la prima volta se stesse al centro della propria attenzione, guardare così alle proprie esigenze e necessità.
Anche la relazione con le insegnanti, donne con una cultura superiore alla loro, divenne oggetto di riflessione e di analisi. Le insegnanti dovettero limitare l’uso del linguaggio erudito che erano solite utilizzare nelle scuole tradizionali per assumere il linguaggio della vita, universalmente comprensibile, il linguaggio dei corpi.
Senza dubbio il risultato più originale e gratificante della partecipazione delle donne ai corsi serali si realizzò nella Scuola di Via Gabbro di Affori, nella periferia nord di Milano. Dal 1974 un gruppo di insegnanti – Lea Melandri, Paola Melchiorri e Adriana Monti, tra le altre – e un gruppo di allieve diedero vita a un’esperienza davvero unica e creativa che aprì a importantissime riflessioni e che si dilungò fino al 1982.
Quando l’educazione di genere cominciava ballando. Corso 150 ore. Scuola Media di via Gabbro 6, Affori, Milano. courtesy Lea Melandri.
Lea Melandri negli anni Sessanta si allontanò dalla Romagna per trasferirsi a Milano. Qui prese parte al Movimento non Autoritario della Scuola e al Movimento Femminista che le insegnarono come il corpo, la sessualità, la vita personale e affettiva, considerati da sempre temi da tenere per sé e non condividere, potevano diventare materia e soggetti di riflessioni e analisi, questioni politiche a tutti gli effetti.
Lea desiderava riflettere sulle forme anti-autoritarie di educazione per portare all’interno della scuola gli insegnamenti del femminismo: mettere al centro dell’apprendimento la propria vita mirando a uno sviluppo prima di tutto personale e relazionale e, successivamente, pratico e finalizzato al lavoro. Tentare un’inversione tra vita e cultura, vita e politica, era argomento per cui tanti iniziavano a lottare e divenne centrale nei suoi corsi. È fu proprio per questi motivi, per aver dato troppa voce al “sottobanco” senza la censura del “politicamente corretto”, che Lea Melandri insegnava alle scuole medie da Melegnano fu allontanata da quel ruolo e iniziò a dedicarsi alla formazione degli adulti.
Fu proprio quando iniziò a insegnare alle donne che capì che si stava finalmente mettendo in pratica e attuando quello che fino a quel momento aveva solo teorizzato.
All’inizio i sindacati non comprendevano perché tante donne provassero il desiderio di tornare a scuola dato che il fine non era quello di imparare un mestiere che permettesse loro di entrare nel mondo del lavoro. Era evidente che la motivazione andava ben al di là della licenza scolastica. Le allieve erano mosse da necessità e desideri diversi. La loro domanda rispondeva a un bisogno culturale, un bisogno che da personale si dimostrava essere collettivo. Lo scopo era quello di affrontare meglio la quotidianità, la realtà, la vita. Si determinò così il valore fondativo e fondante dello stare insieme. A scuola si affrontavano degli argomenti che non erano mai stati trattati nella scuola tradizionale: i problemi all’interno delle fabbriche, l’educazione dei figli, problemi legati al proprio corpo, alla sessualità ecc. Molte testimonianze raccontano che una delle principali caratteristiche di Lea Melandri era proprio la sua predisposizione all’ascolto e le donne trovavano questo emozionante non essendo abituate a raccontare ad altri di sé stesse.
ritratto di Ada Flamino in Scuola Senza Fine, di Adriana Monti, 1979.
L’importanza del dialogo, dello stare insieme divenne tanto significativo che finito un corso le donne chiedevano di poter proseguire le lezioni. Vennero così organizzati dei corsi monografici allo scopo di continuare il percorso di apprendimento e di emancipazione. Lea Melandri ricorda il corso di scrittura e quello di cinema, tenuto dalla registra Adriana Monti, che diede vita al film Scuola Senza Fine dove le allieve e le insegnanti raccontarono dell’esperienza in prima persona.
Corso 150 ore. Via Gabbro 6, Affori, Milano. Courtesy Lea Melandri. Foto di Paola Mattioli.
Nell’autunno del 1979 comparve per la prima volta l’esigenza di rendere la ricerca e il percorso di studio più continuativi e organici. Si chiese al comune un finanziamento per tre corsi monografici accorpati (che corrispondevano a nove mesi di scuola) e, alla fine, la possibilità di sostenere l’esame di idoneità alla terza classe superiore presso la scuola statale, come privatiste. Con l’approvazione del CEP iniziò il biennio sperimentale, chiamato in questo modo per cercare di coprire in un solo anno un campo di conoscenza che nella scuola si protrae per due anni. Ne furono coordinatrici Paola Melchiori e Lea Melandri. Anche in questo caso venne presentato un piano di lavoro anomalo rispetto alle scuole “comuni” ma adeguato al tipo di utenza. Nel giugno 1980 le corsiste sostennero l’esame di idoneità alla terza superiore presso l’Itis di Sesto San Giovanni. Superata al meglio questa prova, nacque subito un’altra esigenza, quella di entrare nel mondo del lavoro. È il lavoro infatti che rendeva la persona economicamente indipendente e le corsiste lo sapevano bene. Nel luglio 1980 le donne cominciarono a progettare un corso professionale che permettesse loro di continuare l’esperienza del biennio e, nello stesso tempo, usufruisse del finanziamento del Fondo Sociale Europeo – Cee che all’art.4 scrive: “riqualificazione professionale delle donne, inserimento in settori di attività tradizionalmente maschili”. Per avere un riconoscimento giuridico e facilitare i rapporti con gli Enti pubblici, le donne si costituirono in una cooperativa e la chiamarono “Gervasia Broxon”, nome di fantasia con sede presso via Litta Modigliani 101/C, in uno spazio che le donne avevano preso in affitto per proseguire le loro attività. In base all’art.4, chiesero un finanziamento per un corso professionale con indirizzo in grafica. Il loro desiderio era quello di portare avanti le loro riflessioni ma diedero anche vita a diverse locandine e produzioni pratiche molto interessanti.
Fu però proprio l’amministrazione e la gestione di una cospicua somma di denaro che portò il progetto alla sua fine, nel 1982, anno in cui la Cooperativa venne chiusa e l’esperienza finì dopo aver sostenuto l’esame di idoneità alla presenza del Commissariato Regionale, del rappresentante del Ministero del Lavoro e del Sindacato. A partire da quel momento i fondi terminarono.
La cosa più importante fu che i tentativi di mantenere in vita i corsi continuarono. L’influenza dell’educazione delle donne casalinghe non si concluse ma è arrivata fino a noi con la Libera Università delle Donne di Milano, tutt’ora attiva. Ma soprattutto grazie a quei corsi per molte donne fu possibile migliorare le proprie conoscenze, insieme alla consapevolezza di sé e delle relazioni con gli altri.
Corso 150 ore. Courtesy Lea Melandri.
Guardare oggi a questo tipo di esperienze è utile per imparare quanto sia importante ritornare a dare interesse alle esperienze personali attraverso quel linguaggio dei corpi che si sempre più perdendo.
Per concludere riporto le parole scritte da Lea Melandri nell’articolo Un’educazione che vada alle radici dell’umano e pubblicato nel blog della Ventisettesima Ora: “Corpo, individuo e legame sociale sono parti inscindibili dell’essere umano, ma siamo abituati a pensarli come fossero separati, tanto da non meravigliarci che siano diventati oggetto di saperi diversi (biologia, psicanalisi, sociologia, ecc.), quasi sempre senza alcuna relazione tra di loro. Per quanto utile un lavoro interdisciplinare non basta. Occorre trovare il luogo concreto, reale, dove questi aspetti dell’esperienza si danno insieme, in una circolarità che impedisce di dire quale è venuto per primo. Questo luogo è l’individuo, uomo o donna: è da lì che passano sia il tempo biologico che il tempo storico – il fatto di appartenere a una determinata società e cultura – è lì che tutti questi elementi si organizzano a formare la persona che siamo. La conquista più importante della “rivoluzione” culturale portata dal movimento degli insegnati degli anni ’70 è stata quella di mettere al centro la “vita intera” a partire da lì, dalla soggettività di ognuno/a per ripensare la società, le sue istituzioni, i suoi linguaggi, i suoi poteri”.
Marcella Campagnano, ritratto di Lea Melandri, documentazione degli incontri sulla strategia femminista internazionale, isola di Femø, agosto 1974. Cortesy Marcella Campagnano.
Marcella Campagnano, sulla nave verso Femø, con al centro Lea Melandri, documentazione degli incontri sulla strategia femminista internazionale, isola di Femø, agosto 1974. Cortesy Marcella Campagnano.
cover Off Screen: Women and Film in Italy, 1988.
Scuola senza fine, il film-documentario di Adriana Monti, in cui sono ricostruite le storie di alcune corsiste e l’incontro con Lea Melandri, è stato presentato alla New York University in occasione del convegno “Italian and American directions: women’s film theory and practice” (1984). Molto apprezzato dalle femministe americane lo script fu poi riportato quasi per intero nel libro Off Screen: Women and Film in Italy, a cura di Giuliana Bruno & Maria Nadotti, Routledge, Londra, New York, 1988.
di Marcella Toscani
In opposizione alla dominante cultura patriarcale e maschilista veicolata dalla società, la pedagogia femminista ha apportato un contributo fondamentale all’educazione così come ci è stata imposta, allo scopo di scardinarla e renderla “altro”. Fuori da modelli educativi cui sottostare, l’esperienza delle 150 ore di via Gabbro di Lea Melandri ha proposto un linguaggio altro poiché all’interno del corso serale per casalinghe iniziano ad essere affrontate temi quali il lavoro domestico e riproduttivo, il rapporto con figli e mariti, il legame di servitù che la lega alla casa ecc., che permettono alle donne di iniziare a prendere coscienza, e parola, della loro condizione sociale.
Più polvere in casa meno polvere nel cervello
Se non hai la licenza media o elementare FAI ATTENZIONE: ho da farti una comunicazione importante. Lo sai che esistono le 150 ore? […]
L’esperienza di questa scuola serve soprattutto a noi donne, casalinghe, in quanto ci offre un’occasione per uscire dall’isolamento delle mura domestiche e per incontrare altre donne.
Per noi che abbiamo seguito il corso quest’anno, le 150 ore sono state un’iniezione di vitalità; sono servite ad aggiungere altri strumenti alla nostra cultura, ma anche a farci vedere più chiaro tante cose che accadono intorno e dentro di noi.
Inoltre è stato bello poter vivere assieme nella scuola senza competizione e senza arrivismo.
Le donne del corso 150 ore di via Gabbro
Corso 150 ore. Via Gabbro 6, Affori, Milano. Courtesy Lea Melandri.
Una scuola senza fine, un’esperienza di vita: le 150 ore di Via Gabbro
L’indagine e l’atteggiamento critico nei confronti del nostro presente e del nostro passato è essenziale per comprendere l’attualità in cui viviamo. Lo insegna la storia in generale. A me lo ha insegnato soprattutto la storia del femminismo. Esso infatti mi ha fatto capire quanto fosse importante guardare il presente con occhio critico, cercare di comprendere andando alle radici delle cose. Il femminismo stesso, che negli anni Sessanta e Settanta ha vissuto il proprio apice nel mondo occidentale, ha scoperto che grazie alle riflessioni che andavano al di là degli schemi conosciuti e imposti, poteva essere possibile scardinare l’autoritarismo dell’esistente e vedere migliorate delle situazioni di subordinazione e disuguaglianza politica, sociale e culturale che non riguardavano solo le donne. Si tratta di storie che fanno parte del nostro passato ma anche del nostro presente, quindi conoscere ciò che è stato è utile per riflettere e lavorare su ciò che è.
Non possiamo più conoscere tutte le storie a partire dalle parole di chi le ha vissute, molto è racchiuso negli archivi, luoghi che sopravvivono a fatica ma che raccolgono tesori, luoghi densi di storia ma, soprattutto, di storie.
La storia della scuola delle 150 ore di Via Gabbro – e le storie delle donne che ne hanno preso parte – ha destato in me un grande interesse. Nasceva certo dalla lettura e dal confronto con le grandi donne che hanno scritto la storia dei femminismi come Simone De Beauvoir, prima, e Judith Butler, Silvia Federici, Rosi Braidotti, poi. E questi sono solo dei piccoli esempi lo so, ma sono i miei.
Forse anche io, qualche anno fa, ho avuto bisogno di abbandonare la teoria confrontandomi con le esperienze pratiche per comprendere come il femminismo degli anni Sessanta e Settanta era riuscito a influenzare l’esistenza di donne – e non solo – che stavano davvero vivendo gli anni di lotte e movimenti per l’emancipazione e come la teoria si era trasformata in pratica. Grazie all’incontro con Lea Melandri presso la Libera Università delle Donne di Milano e grazie alle sue parole ho scoperto l’esperienza della Scuola di Via Gabbro. Grazie ai suoi racconti dettagliati ho compreso tanto di quello che quell’esperienza ha rappresentato, allora come oggi, e l’influenza che ha avuto e che potrebbe ancora avere sul nostro presente. Cercherò dunque di raccontarla.
Corso 150 ore. Via Gabbro 6. Corso monografico sul corpo. Courtesy Lea Melandri.
Dal miracolo economico italiano nacque un nuovo soggetto sulla scena economica, sociale e politica italiana: l’industria. In essa molte persone avevano trovato impiego dopo la guerra. La fabbrica, luogo di lavoro prima di tutto, divenne anche luogo di agitazioni, rivendicazioni e rivoluzioni, oltre che teatro dei più importanti cambiamenti strutturali del nostro paese.
Il potere dei sindacati, fiacco nel periodo del dopoguerra, aumentò sempre più tanto da divenire il punto cardine nella relazione tra datori di lavoro e lavoratori.
La crescita dell’impiego nel settore industriale ebbe come conseguenza una netta diminuzione di lavoro nel settore industriale, cosa che determinò una grande migrazione dalle campagne alle città. Milano vide drasticamente aumentata la sua popolazione, soprattutto nelle zone periferiche dove venivano costruite le nuove industrie e i quartieri operai che servivano ad ospitare i “nuovi lavoratori” e le loro famiglie.
I sindacati lavoravano per fare in modo le condizioni di lavoro degli operai impiegati nelle fabbriche migliorassero: essi infatti chiedevano di lavorare meno ore e di ricevere una migliore retribuzione.
Presto le rivendicazioni operaie si allinearono a quelle studentesche. Le modalità messe in atto al fine di raggiungere gli obiettivi – scioperi, astensioni dal lavoro ecc. – furono in grado di condurre a importanti conquiste sociali tra cui uno dei più importanti fu il diritto allo studio per i lavoratori. I corsi “150 ore” rappresentano una delle vittorie più significative che i sindacati riuscirono a raggiungere. A renderli un diritto fu dapprima il CCNL metalmeccanici che dava la possibilità ai lavoratori dipendenti di utilizzare dei permessi per sospendevano la prestazione di lavoro per poter accedere a corsi di studio. Così vennero organizzati dei corsi di alfabetizzazione e di formazione al fine di conseguire il diploma delle scuole elementari, medie e superiori.
Inizialmente questi corsi furono organizzati solo per due gruppi di lavoratori, i chimici e i metalmeccanici, i quali ottennero la concessione dai datori di lavoro come impegno contrattuale. Inoltre lo stato italiano si impegnò a riconoscere i corsi come regolari corsi di studio. I “corsi 150 ore” per adulti rappresentano una grande conquista delle lotte operaie per chi non aveva la licenza media. Le ore superarono presto le 150 per arrivare a 350 ma il loro nome rimase invariato.
Il progetto aveva lo scopo di implementare la consapevolezza del lavoratore, la sua alfabetizzazione ma anche, in generale, la liberà dello stesso di gestire il suo tempo e la sua conoscenza. Altra importante innovazione fu che gli insegnamenti di questi corsi non avevano lo scopo di essere praticamente applicati e applicabili al lavoro: i lavoratori tornavano a scuola per benefici personali, non aziendali, e per riflettere sulle condizioni di lavoro e, in generale, di vita. La fabbrica non venne mai esclusa dallo studio ma divenne oggetto di riflessione e di analisi. Si trattava dell’impatto delle ore e del ritmo di lavoro sul fisico e sulla mente dei lavoratori, si analizzava l’ambiente di lavoro, i diritti e così via.
Corso 150 ore, Affori, Milano. Scuola media di via Gabbro 1976. Educazione permanente degli adulti.
Una gran parte dei corsi venne dedicata a trattare del vissuto delle persone, il loro passato, le loro storie, le loro relazioni con la famiglia e l’ambiente sociale, il loro corpo e le loro sensazioni ed emozioni. Gli studenti avevano un’età che andava dai 20 ai 60 anni ed erano, per di più, persone analfabete o quasi che avevano dedicato la maggior parte della loro vita a lavorare e che avevano alle spalle storie di immigrazione e di discriminazione linguistica e culturale.
Si può facilmente comprendere come il corso restava però molto eterogeneo: diverse erano le storie, diverse le esigenze e quindi tutte le lezioni cercavano di mettere insieme le differenze facendo di queste la propria forza. La vita privata e affettiva di ciascuno diveniva spunto di riflessioni differenti. Era il desiderio di condivisione ciò che accumunava tutti.
Il corpo insegnanti aveva il compito di far emergere tutte queste storie e tutte le consapevolezze. Ovviamente il rapporto tra gli insegnanti e i lavoratori non poteva rimanere un rapporto frontale ma divenne una vera e propria relazione che portò gli insegnanti stessi a mettersi in gioco e a condividere le proprie esperienze. Il percorso cognitivo partiva proprio dal personale, un personale che diventava soggetto e oggetto di analisi.
Questo ebbe un’altra importante conseguenza: concetti che furono tradizionalmente repressi nella scena politica, come l’emotività, l’affettività, la corporalità ecc., irruppero al suo interno sconvolgendo i confini di quello che fino a quel momento era considerato solo privato. Il privato diventa pubblico.
Tra il 1974 e il 1976 i corsi si diffusero e andarono oltre le sole due categorie iniziali dei metalmeccanici e dei chimici per rivolgersi a tutti i lavoratori, ai disoccupati, ai pensionati e alle casalinghe. Chiunque, se desiderava, poteva rimettersi sui libri seguendo i corsi che la città e i quartieri mettevano loro a disposizione.
Il Collettivo di via Cherubini 8. Dall’autocoscienza alla pratica dell’inconscio.
La più grande e importante trasformazione fu determinata proprio dalla partecipazione delle donne. Le necessità delle donne, in quel particolare periodo storico, erano diverse rispetto a quelle degli uomini. Le allieve e le insegnanti portarono all’interno del corso la loro esperienza di donne, di mogli, di madri. Le insegnanti si erano battute per poter insegnare, mentre le allieve lo avevano fatto per poter seguire i corsi lasciando, per qualche ora, i doveri che la famiglia imponeva loro.
La consapevolezza delle donne stava trovando un riscontro politico all’interno del Movimento delle Donne. La stessa pratica femminista dello sviluppo della consapevolezza, della cura e dei gruppi dell’inconscio sfociarono direttamente nei corsi delle 150 ore. Per le allieve, i corsi divennero pretesto per discussioni collettive su tematiche che riguardavano la casa, la cura dei figli, la relazione con il marito ma soprattutto, la relazione con il proprio corpo, con le proprie paure. I corsi permettevano loro di mettere per la prima volta se stesse al centro della propria attenzione, guardare così alle proprie esigenze e necessità.
Anche la relazione con le insegnanti, donne con una cultura superiore alla loro, divenne oggetto di riflessione e di analisi. Le insegnanti dovettero limitare l’uso del linguaggio erudito che erano solite utilizzare nelle scuole tradizionali per assumere il linguaggio della vita, universalmente comprensibile, il linguaggio dei corpi.
Senza dubbio il risultato più originale e gratificante della partecipazione delle donne ai corsi serali si realizzò nella Scuola di Via Gabbro di Affori, nella periferia nord di Milano. Dal 1974 un gruppo di insegnanti – Lea Melandri, Paola Melchiorri e Adriana Monti, tra le altre – e un gruppo di allieve diedero vita a un’esperienza davvero unica e creativa che aprì a importantissime riflessioni e che si dilungò fino al 1982.
Quando l’educazione di genere cominciava ballando. Corso 150 ore. Scuola Media di via Gabbro 6, Affori, Milano. courtesy Lea Melandri.
Lea Melandri negli anni Sessanta si allontanò dalla Romagna per trasferirsi a Milano. Qui prese parte al Movimento non Autoritario della Scuola e al Movimento Femminista che le insegnarono come il corpo, la sessualità, la vita personale e affettiva, considerati da sempre temi da tenere per sé e non condividere, potevano diventare materia e soggetti di riflessioni e analisi, questioni politiche a tutti gli effetti.
Lea desiderava riflettere sulle forme anti-autoritarie di educazione per portare all’interno della scuola gli insegnamenti del femminismo: mettere al centro dell’apprendimento la propria vita mirando a uno sviluppo prima di tutto personale e relazionale e, successivamente, pratico e finalizzato al lavoro. Tentare un’inversione tra vita e cultura, vita e politica, era argomento per cui tanti iniziavano a lottare e divenne centrale nei suoi corsi. È fu proprio per questi motivi, per aver dato troppa voce al “sottobanco” senza la censura del “politicamente corretto”, che Lea Melandri insegnava alle scuole medie da Melegnano fu allontanata da quel ruolo e iniziò a dedicarsi alla formazione degli adulti.
Fu proprio quando iniziò a insegnare alle donne che capì che si stava finalmente mettendo in pratica e attuando quello che fino a quel momento aveva solo teorizzato.
All’inizio i sindacati non comprendevano perché tante donne provassero il desiderio di tornare a scuola dato che il fine non era quello di imparare un mestiere che permettesse loro di entrare nel mondo del lavoro. Era evidente che la motivazione andava ben al di là della licenza scolastica. Le allieve erano mosse da necessità e desideri diversi. La loro domanda rispondeva a un bisogno culturale, un bisogno che da personale si dimostrava essere collettivo. Lo scopo era quello di affrontare meglio la quotidianità, la realtà, la vita. Si determinò così il valore fondativo e fondante dello stare insieme. A scuola si affrontavano degli argomenti che non erano mai stati trattati nella scuola tradizionale: i problemi all’interno delle fabbriche, l’educazione dei figli, problemi legati al proprio corpo, alla sessualità ecc. Molte testimonianze raccontano che una delle principali caratteristiche di Lea Melandri era proprio la sua predisposizione all’ascolto e le donne trovavano questo emozionante non essendo abituate a raccontare ad altri di sé stesse.
ritratto di Ada Flamino in Scuola Senza Fine, di Adriana Monti, 1979.
L’importanza del dialogo, dello stare insieme divenne tanto significativo che finito un corso le donne chiedevano di poter proseguire le lezioni. Vennero così organizzati dei corsi monografici allo scopo di continuare il percorso di apprendimento e di emancipazione. Lea Melandri ricorda il corso di scrittura e quello di cinema, tenuto dalla registra Adriana Monti, che diede vita al film Scuola Senza Fine dove le allieve e le insegnanti raccontarono dell’esperienza in prima persona.
Corso 150 ore. Via Gabbro 6, Affori, Milano. Courtesy Lea Melandri. Foto di Paola Mattioli.
Nell’autunno del 1979 comparve per la prima volta l’esigenza di rendere la ricerca e il percorso di studio più continuativi e organici. Si chiese al comune un finanziamento per tre corsi monografici accorpati (che corrispondevano a nove mesi di scuola) e, alla fine, la possibilità di sostenere l’esame di idoneità alla terza classe superiore presso la scuola statale, come privatiste. Con l’approvazione del CEP iniziò il biennio sperimentale, chiamato in questo modo per cercare di coprire in un solo anno un campo di conoscenza che nella scuola si protrae per due anni. Ne furono coordinatrici Paola Melchiori e Lea Melandri. Anche in questo caso venne presentato un piano di lavoro anomalo rispetto alle scuole “comuni” ma adeguato al tipo di utenza. Nel giugno 1980 le corsiste sostennero l’esame di idoneità alla terza superiore presso l’Itis di Sesto San Giovanni. Superata al meglio questa prova, nacque subito un’altra esigenza, quella di entrare nel mondo del lavoro. È il lavoro infatti che rendeva la persona economicamente indipendente e le corsiste lo sapevano bene. Nel luglio 1980 le donne cominciarono a progettare un corso professionale che permettesse loro di continuare l’esperienza del biennio e, nello stesso tempo, usufruisse del finanziamento del Fondo Sociale Europeo – Cee che all’art.4 scrive: “riqualificazione professionale delle donne, inserimento in settori di attività tradizionalmente maschili”. Per avere un riconoscimento giuridico e facilitare i rapporti con gli Enti pubblici, le donne si costituirono in una cooperativa e la chiamarono “Gervasia Broxon”, nome di fantasia con sede presso via Litta Modigliani 101/C, in uno spazio che le donne avevano preso in affitto per proseguire le loro attività. In base all’art.4, chiesero un finanziamento per un corso professionale con indirizzo in grafica. Il loro desiderio era quello di portare avanti le loro riflessioni ma diedero anche vita a diverse locandine e produzioni pratiche molto interessanti.
Fu però proprio l’amministrazione e la gestione di una cospicua somma di denaro che portò il progetto alla sua fine, nel 1982, anno in cui la Cooperativa venne chiusa e l’esperienza finì dopo aver sostenuto l’esame di idoneità alla presenza del Commissariato Regionale, del rappresentante del Ministero del Lavoro e del Sindacato. A partire da quel momento i fondi terminarono.
La cosa più importante fu che i tentativi di mantenere in vita i corsi continuarono. L’influenza dell’educazione delle donne casalinghe non si concluse ma è arrivata fino a noi con la Libera Università delle Donne di Milano, tutt’ora attiva. Ma soprattutto grazie a quei corsi per molte donne fu possibile migliorare le proprie conoscenze, insieme alla consapevolezza di sé e delle relazioni con gli altri.
Corso 150 ore. Courtesy Lea Melandri.
Guardare oggi a questo tipo di esperienze è utile per imparare quanto sia importante ritornare a dare interesse alle esperienze personali attraverso quel linguaggio dei corpi che si sempre più perdendo.
Per concludere riporto le parole scritte da Lea Melandri nell’articolo Un’educazione che vada alle radici dell’umano e pubblicato nel blog della Ventisettesima Ora: “Corpo, individuo e legame sociale sono parti inscindibili dell’essere umano, ma siamo abituati a pensarli come fossero separati, tanto da non meravigliarci che siano diventati oggetto di saperi diversi (biologia, psicanalisi, sociologia, ecc.), quasi sempre senza alcuna relazione tra di loro. Per quanto utile un lavoro interdisciplinare non basta. Occorre trovare il luogo concreto, reale, dove questi aspetti dell’esperienza si danno insieme, in una circolarità che impedisce di dire quale è venuto per primo. Questo luogo è l’individuo, uomo o donna: è da lì che passano sia il tempo biologico che il tempo storico – il fatto di appartenere a una determinata società e cultura – è lì che tutti questi elementi si organizzano a formare la persona che siamo. La conquista più importante della “rivoluzione” culturale portata dal movimento degli insegnati degli anni ’70 è stata quella di mettere al centro la “vita intera” a partire da lì, dalla soggettività di ognuno/a per ripensare la società, le sue istituzioni, i suoi linguaggi, i suoi poteri”.
Marcella Campagnano, ritratto di Lea Melandri, documentazione degli incontri sulla strategia femminista internazionale, isola di Femø, agosto 1974. Cortesy Marcella Campagnano.
Marcella Campagnano, sulla nave verso Femø, con al centro Lea Melandri, documentazione degli incontri sulla strategia femminista internazionale, isola di Femø, agosto 1974. Cortesy Marcella Campagnano.
cover Off Screen: Women and Film in Italy, 1988.
Scuola senza fine, il film-documentario di Adriana Monti, in cui sono ricostruite le storie di alcune corsiste e l’incontro con Lea Melandri, è stato presentato alla New York University in occasione del convegno “Italian and American directions: women’s film theory and practice” (1984). Molto apprezzato dalle femministe americane lo script fu poi riportato quasi per intero nel libro Off Screen: Women and Film in Italy, a cura di Giuliana Bruno & Maria Nadotti, Routledge, Londra, New York, 1988.