“….era radicalizzata da un attivismo che riguardava la decolonizzazione, la questione dell’imperialismo e il suo impegno in vari movimenti politici per la giustizia sociale. E la sua politicizzazione iniziò intorno alla questione della classe, non attorno alla questione del genere”.
bell hooks su Frida Kahlo, in “Feminist iconography”, conversazione tra bell hook e Amalia Mesa-Bains, in Homegrown. Engaged cultural criticism, 2006.
Intervista a cura di Elvira Vannini e Valentina Avanzini.
La messicana Frida Kahlo è tra le poche artiste del XX secolo che hanno osato esporre il proprio corpo – malato, sofferente e desiderante – e rappresentarlo nell’interstizio tra reale e surreale, tra testimonianza e finzione. La scrittrice cilena Lina Meruane sarà a Milano ospite di BOOK PRIDE, la fiera nazionale dell’editoria indipendente, per un talk sul tema della malattia nelle arti e nella letteratura degli ultimi decenni, sul modo in cui la crisi del corpo biologico si trasforma in una metafora e sintomo della crisi del corpo sociale e politico. Perché partire da Frida Kahlo?
Lina Meruane: Ciò che trovo affascinante in Frida è il suo esporsi in un’epoca in cui le donne dovevano soffrire in silenzio – perché la sofferenza faceva parte della mistica femminile. Esporre sé stessa diventa così sovversivo alla norma. Ci si aspetta che le donne appaiano belle, devote e fedeli, eterosessuali, materne, sane e soddisfatte della propria inferiorità sociale e politica. Ma Frida scopre il suo corpo per mostrare il contrario. Non solo rifiuta il corpo come privato, il dolore come privato, ma l’idea che qualsiasi cosa accada a una donna dietro le mura domestiche dovrebbe essere tenuta lì. Lei sta dicendo, guardami. Guarda me, guarda noi. Non saremo più invisibili.
Frida Kalho prima della sua morte, foto di Gisele Freund.
Frida Kahlo ha trovato un modo per creare arte in un momento di grandi sofferenze fisiche. Il suo corpo è un corpo politico, ma ora le sue immagini sono diventate “addomesticate” (bell hook le ha definite “depoliticizzate”) attraverso demarcazioni di classe, razza e preferenze sessuali. Le persone ora possono acquistare la cartolina con Frida Kahlo, i bottoni, gli orecchini, le spillette, la maglietta di Frida Kahlo, ecc.; probabilmente è la donna più ampiamente riconosciuta come artista di colore a livello globale, ma il modo in cui è rappresentata ha indubbiamente indebolito la radicalità artistica del suo lavoro. Cosa ne pensi?
LM: Il modo in cui funziona il capitalismo è esattamente come lo descrivi: appropriandosi e consumando, rendendo persino l’arte più politica e radicale un oggetto commerciale, depotenziando così il suo potere di rottura. Così in Frida abbiamo una cancellazione del corpo e dell’anima sofferenti di una straordinaria artista donna, figlia di immigrati in Messico. Un deliberato oblio della sua affiliazione comunista, del suo nazionalismo e del suo interesse per le culture precolombiane. Della sua irriverenza. Le sue numerose relazioni extraconiugali con gli uomini (Trostsky, per esempio) e le donne, perché era bisessuale. Il suo desiderio di diventare madre e non esserne in grado (e tutti quei dipinti sanguinanti del suo aborto a Detroit). In molti modi lei è radicale nel suo tempo e nel suo spazio. Ma poi, non siamo forse complici di questa cancellazione quando dimentichiamo che usa il proprio corpo (spesso nudo, esponendolo in modo crudo, come appare sotto i variopinti vestiti messicani) che è anche diventato un modello potente per la resistenza femminista e l’America Latina e le artiste donne latino-americane che hanno seguito il suo esempio, nonché un modello per altri artisti radicali. Sto pensando – e anche di questo parlerò – allo scrittore e performer cileno Pedro Lemebel, tra i più irriverenti a cui riferirsi. Ha preso Kahlo come sua modella, più e più volte, in diverse opere, e ha risignificato il suo lavoro, anche parodiando la sua immagine iconica, che ammira e trasforma nella sua politica queer. Ritorna da lei quando afferma, nella sua ultima dichiarazione all’amico Fernando Blanco – quando stava morendo di cancro all’età di 60 anni – “Frida did not age. I am the aged Frida”. Questa è una forma di appropriazione molto diversa, che non spoglia Frida del suo potere.
Frida Kahlo nel suo corsetto dipinto a mano con la falce e il martello.
Come ha scritto Nelly Richard: “Una parte del dibattito che circonda le donne e la creazione artistica – in vari contesti internazionali – comporta la differenziazione tra “estetica femminile” ed “estetica femminista”. La definizione di una “estetica femminile” di solito connota l’arte che esprime la donna come un fatto naturale (essenziale) e non come una categoria simbolica-discorsiva formata e deformata dal sistema di rappresentazione culturale. L’arte femminista non rappresenta dunque l’universalità di un’essenza femminile che incarna un universo di valori e di significati (sensibilità, corporeità, affettività, ecc.) tradizionalmente riservato alle donne dentro un sistema binario maschile-femminile […] D’altra parte, una “estetica femminista” sarebbe quella che postula la donna come un segno immerso in una concatenazione di forme patriarcali di oppressione e repressione che devono essere rotte, attraverso la consapevolezza che la superiorità maschile possa essere esercitata ma anche combattuta. L’arte femminista cerca di correggere le immagini stereotipate del femminile che la maschera egemonica ha gradualmente squalificato e penalizzato”. Cosa pensi, rispetto al contesto della letteratura e a una critica dell’ideologia dominante di genere?
LM: Come sempre, Nelly Richard punta il dito su una tensione molto importante oggi – il problema è che le donne che non sfidano la norma, le donne-artiste che di fatto la riconfermano, considerano sé stesse come femministe. Semplicemente perché hanno “scelto” di sottomettersi alla norma. E questo è molto confuso, disorientante. Quindi è ancora importante sottolineare che ogni produzione culturale può affermare o mettere in questione la norma, e che solo quest’ultima azione critica e decostruttiva può essere chiamata femminista. Questo è ovviamente anche il caso della produzione letteraria. Troviamo spesso che i bestseller scritti da donne rientrano nella tradizione al “femminile” – e quindi, in quelle produzioni più ampiamente accettate e lette – mentre le più letterarie (anche se non sempre) tendono ad essere più trasgressive e complicare le cose.
Frida Kahlo e la malattia.
È un dato statistico che sempre più persone (specialmente giovani donne) soffrano di disturbi alimentari. Corpi martoriati, divorati da una nevrosi che parte da pulsioni individuali ma è profondamente influenzata da una complessa rete di aspettative, imposizioni e stereotipi di genere. È quindi il corpo individuale a essere malato? O è quello sociale? Questi due corpi sono realmente divisibili?
LM: Assolutamente no. Sono indissolubilmente legate, ma il problema è che spesso vediamo solo il corpo individuale e ci dimentichiamo il corpo sociale. Questo accade perché le aspettative e le imposizioni sul corpo femminile da parte di un sistema patriarcale sono avvertite come buon senso. Come sappiamo, ci sono forme dirette di potere, visibili per la loro evidente violenza, e poi ci sono norme egemoniche che abbiano interiorizzato e a cui obbediamo volontariamente (o così sembra). I disordini alimentari sono uno dei modi più evidenti in cui si manifesta questa tensione: corpi di giovani donne che si disintegrano per conformarsi a norme non scritte, corpi che hanno accettato la normatività sociale e cercano di performare la loro accettazione – ma durante il processo si fanno del male. Non solo hanno interiorizzato la norma, l’hanno incarnata, e questa norma fatta invisibile le distrugge. È un meccanismo incredibilmente perverso.
Frida Kahlo dopo che una delle sue gambe è stata amputata, a un anno prima della sua morte, fotografia di Lola Alvarez Bravo.
Outsider è il corpo malato, è il corpo deforme, il corpo che eccede – volontariamente o meno – i parametri della normatività. Questo gli permette di essere un osservatore privilegiato delle dinamiche sociali e di forzarne le tensioni. Nel tuo libro Sangue negli occhi, Lucina è una giovane donna che perde la facoltà della vista. Questo cambiamento inficia solo la sua vita o anche il sistema in cui è inserita?
LM: Ho appena finito di leggere King Kong Theory di Virginie Despentes, dove lei si identifica come e scrive dal punto di vista della “donna brutta” e “donna virile” e connette questo luogo di osservazione con quello di tutte le donne che non appartengono all’ideale femminile (che, ideale com’è, lei dubita possa realmente esistere). La condizione del malato è sempre problematica, ma una volta che si colloca nel posto del brutto, del virile, del deforme, una volta che si è fuori dalla norma o dal normale (che nei fatti è la stessa cosa), si può capire più chiaramente come operi il sistema. Non si fa esperienza della pressione del potere quando si segue la norma e si agisce come una brava ragazza. Questa pressione si avverte unicamente quando si è fuori o contro la norma. Nel caso di Lucina, la mia protagonista cieca, ero interessata a trasformare la sua vulnerabilità, la sua subordinazione, che è sede privilegiata del femminile, in qualcos’altro. Sarebbe stata in grado di trovare la forza nella sua situazione? C’erano, come suggerisce Josefina Ludmer, “Tretas del Debil”? (trucchi o strategie dei deboli)? E queste strategie possono ribaltare le convenzioni del potere maschile? Queste sono le domande che mi sono posta scrivendo Sangre en el ojo.
L’ultima fotografia di Frida Kahlo nella sedia a rotelle durante una manifestazione contro l’intervento militare americano in Guatemala, 1954.
Molte delle istanze presenti nell’agenda femminista hanno avuto un grande potenziale di rottura conflittuale che non rivendicava solo la specificità di genere ma denunciando la propria posizione dentro l’organizzazione del lavoro, dei rapporti sociali e delle discriminazioni sessuali, hanno aperto – e continuano a farlo – uno sguardo inedito sui meccanismi di sfruttamento, come elemento strutturale del capitalismo contemporaneo. Siamo ancora in grado di inventare un immaginario di segni e di discorsi in grado di annullare il confine tra azioni culturali e politiche?
LM: È una svolta importante che reintroduce la questione di classe, la questione dello sfruttamento nelle nostre società capitaliste. Genere, classe e razza non dovrebbero più essere separati ma uniti insieme, perché si completano a vicenda. E inoltre, non dimentichiamolo, bisogna essere consapevoli del rischio di essere cooptati dalle idee capitaliste del successo e della competizione: le persone che hanno occupato posizioni discriminate potrebbero essere tentate (o comprate) per dimenticare da dove vengono, potrebbero ripetere comportamenti da sfruttatore, avendo invece le condizioni per essere in grado di agire diversamente.
Puoi raccontarci qualcosa sul tuo ultimo libro Contra los hijos? La materinità è uno dei ruoli sociali imposti e storicamente riservati alle donne dentro l’assegnazione capitalistica della messa a valore del lavoro riproduttivo che diventa produttivo – economia femminile e domestica, cura e dedizione, invisibilità politica, assorbimento del tempo di lavoro a quello della vita….
LM: Quello che osservo in questo breve saggio è che ci troviamo di nuovo di fronte alla chiamata materna – ancora una volta ci viene raccontato che la maternità è tutto. Mentre il capitalismo ci dice che siamo liberi di scegliere ciò che vogliamo, di fatto ci sta sfidando, per non dire costringendo, a scegliere la maternità intensiva, forzata. E questo perché il sistema capitalista è contro lo “estado subsiduario”, perché sotto questo sistema è il singolo, e non la collettività, che deve prendersi cura di sé e della famiglia. Il sistema si costituisce sul salario discriminato, spesso sfruttato delle donne, tanto quanto nel lavoro non retribuito delle madri. E le madri accettano questo perché gli viene raccontato che il futuro dei loro figli non può più contare sullo Stato: la qualità dell’istruzione pubblica è stata distrutta, la mobilità sociale sta scomparendo, ecc. Quindi è la famiglia che deve assicurarsi di fornire tutti gli extra – assicurazioni sanitarie private con buoni medici, educazione privata più lezioni extra di ogni genere, tempo extra dedicato ai figli, extra giocattoli e gadget… meglio ancora se più costosi. Perché devono garantire che i bambini diventeranno competitivi e conquisteranno gli altri bambini. Sotto l’incantesimo capitalista, le persone non dovrebbero più preoccuparsi del benessere di tutti i bambini o di tutti i cittadini o di tutte le persone, solo dei propri figli e di sé stessi.
Una nuova ondata femminista, potente e scomposta, a partire da «Ni una menos» ha denunciato le ambivalenze connesse con tutto ciò che riguarda la sessualità, il potere, le gerarchie e le norme di genere, cosa pensi di questa ricomposizione delle lotte delle donne e delle mobilitazioni che ne sono seguite?
LM: In uno scenario molto preoccupante di pressione e anche di violenza contro le donne, questo movimento che è iniziato in Argentina e poi ha attraversato tutto il continente, mi conferma che è la moltitudine e l’attivismo delle donne, che può rendere le cose visibili e indurre al cambiamento. I politici non muoverebbero un dito per la protezione delle donne a meno che non siano costretti a farlo.
Frida Kahlo con una persona non identificata.
Lina Meruane (Santiago del Cile, 1970) è una scrittrice e saggista cilena. Ha pubblicato la raccolta di racconti Las infantas (1998) e i romanzi Póstuma (2000), Cercada (2000), Fruta podrida (2007) e Sangue negli occhi (pubblicato in Italia da La Nuova Frontiera, 2012), tradotti in numerose lingue, per i quali ha ricevuto prestigiosi premi internazionali tra cui: Sor Juana Inés de la Cruz (2012) e Anna Seghers (2011). Vive e lavora a New York dove insegna letteratura latinoamericana alla University of New York e dirige la casa editrice Brutas Editoras.
“….era radicalizzata da un attivismo che riguardava la decolonizzazione, la questione dell’imperialismo e il suo impegno in vari movimenti politici per la giustizia sociale. E la sua politicizzazione iniziò intorno alla questione della classe, non attorno alla questione del genere”.
bell hooks su Frida Kahlo, in “Feminist iconography”, conversazione tra bell hook e Amalia Mesa-Bains, in Homegrown. Engaged cultural criticism, 2006.
Intervista a cura di Elvira Vannini e Valentina Avanzini.
La messicana Frida Kahlo è tra le poche artiste del XX secolo che hanno osato esporre il proprio corpo – malato, sofferente e desiderante – e rappresentarlo nell’interstizio tra reale e surreale, tra testimonianza e finzione. La scrittrice cilena Lina Meruane sarà a Milano ospite di BOOK PRIDE, la fiera nazionale dell’editoria indipendente, per un talk sul tema della malattia nelle arti e nella letteratura degli ultimi decenni, sul modo in cui la crisi del corpo biologico si trasforma in una metafora e sintomo della crisi del corpo sociale e politico. Perché partire da Frida Kahlo?
Lina Meruane: Ciò che trovo affascinante in Frida è il suo esporsi in un’epoca in cui le donne dovevano soffrire in silenzio – perché la sofferenza faceva parte della mistica femminile. Esporre sé stessa diventa così sovversivo alla norma. Ci si aspetta che le donne appaiano belle, devote e fedeli, eterosessuali, materne, sane e soddisfatte della propria inferiorità sociale e politica. Ma Frida scopre il suo corpo per mostrare il contrario. Non solo rifiuta il corpo come privato, il dolore come privato, ma l’idea che qualsiasi cosa accada a una donna dietro le mura domestiche dovrebbe essere tenuta lì. Lei sta dicendo, guardami. Guarda me, guarda noi. Non saremo più invisibili.
Frida Kalho prima della sua morte, foto di Gisele Freund.
Frida Kahlo ha trovato un modo per creare arte in un momento di grandi sofferenze fisiche. Il suo corpo è un corpo politico, ma ora le sue immagini sono diventate “addomesticate” (bell hook le ha definite “depoliticizzate”) attraverso demarcazioni di classe, razza e preferenze sessuali. Le persone ora possono acquistare la cartolina con Frida Kahlo, i bottoni, gli orecchini, le spillette, la maglietta di Frida Kahlo, ecc.; probabilmente è la donna più ampiamente riconosciuta come artista di colore a livello globale, ma il modo in cui è rappresentata ha indubbiamente indebolito la radicalità artistica del suo lavoro. Cosa ne pensi?
LM: Il modo in cui funziona il capitalismo è esattamente come lo descrivi: appropriandosi e consumando, rendendo persino l’arte più politica e radicale un oggetto commerciale, depotenziando così il suo potere di rottura. Così in Frida abbiamo una cancellazione del corpo e dell’anima sofferenti di una straordinaria artista donna, figlia di immigrati in Messico. Un deliberato oblio della sua affiliazione comunista, del suo nazionalismo e del suo interesse per le culture precolombiane. Della sua irriverenza. Le sue numerose relazioni extraconiugali con gli uomini (Trostsky, per esempio) e le donne, perché era bisessuale. Il suo desiderio di diventare madre e non esserne in grado (e tutti quei dipinti sanguinanti del suo aborto a Detroit). In molti modi lei è radicale nel suo tempo e nel suo spazio. Ma poi, non siamo forse complici di questa cancellazione quando dimentichiamo che usa il proprio corpo (spesso nudo, esponendolo in modo crudo, come appare sotto i variopinti vestiti messicani) che è anche diventato un modello potente per la resistenza femminista e l’America Latina e le artiste donne latino-americane che hanno seguito il suo esempio, nonché un modello per altri artisti radicali. Sto pensando – e anche di questo parlerò – allo scrittore e performer cileno Pedro Lemebel, tra i più irriverenti a cui riferirsi. Ha preso Kahlo come sua modella, più e più volte, in diverse opere, e ha risignificato il suo lavoro, anche parodiando la sua immagine iconica, che ammira e trasforma nella sua politica queer. Ritorna da lei quando afferma, nella sua ultima dichiarazione all’amico Fernando Blanco – quando stava morendo di cancro all’età di 60 anni – “Frida did not age. I am the aged Frida”. Questa è una forma di appropriazione molto diversa, che non spoglia Frida del suo potere.
Frida Kahlo nel suo corsetto dipinto a mano con la falce e il martello.
Come ha scritto Nelly Richard: “Una parte del dibattito che circonda le donne e la creazione artistica – in vari contesti internazionali – comporta la differenziazione tra “estetica femminile” ed “estetica femminista”. La definizione di una “estetica femminile” di solito connota l’arte che esprime la donna come un fatto naturale (essenziale) e non come una categoria simbolica-discorsiva formata e deformata dal sistema di rappresentazione culturale. L’arte femminista non rappresenta dunque l’universalità di un’essenza femminile che incarna un universo di valori e di significati (sensibilità, corporeità, affettività, ecc.) tradizionalmente riservato alle donne dentro un sistema binario maschile-femminile […] D’altra parte, una “estetica femminista” sarebbe quella che postula la donna come un segno immerso in una concatenazione di forme patriarcali di oppressione e repressione che devono essere rotte, attraverso la consapevolezza che la superiorità maschile possa essere esercitata ma anche combattuta. L’arte femminista cerca di correggere le immagini stereotipate del femminile che la maschera egemonica ha gradualmente squalificato e penalizzato”. Cosa pensi, rispetto al contesto della letteratura e a una critica dell’ideologia dominante di genere?
LM: Come sempre, Nelly Richard punta il dito su una tensione molto importante oggi – il problema è che le donne che non sfidano la norma, le donne-artiste che di fatto la riconfermano, considerano sé stesse come femministe. Semplicemente perché hanno “scelto” di sottomettersi alla norma. E questo è molto confuso, disorientante. Quindi è ancora importante sottolineare che ogni produzione culturale può affermare o mettere in questione la norma, e che solo quest’ultima azione critica e decostruttiva può essere chiamata femminista. Questo è ovviamente anche il caso della produzione letteraria. Troviamo spesso che i bestseller scritti da donne rientrano nella tradizione al “femminile” – e quindi, in quelle produzioni più ampiamente accettate e lette – mentre le più letterarie (anche se non sempre) tendono ad essere più trasgressive e complicare le cose.
Frida Kahlo e la malattia.
È un dato statistico che sempre più persone (specialmente giovani donne) soffrano di disturbi alimentari. Corpi martoriati, divorati da una nevrosi che parte da pulsioni individuali ma è profondamente influenzata da una complessa rete di aspettative, imposizioni e stereotipi di genere. È quindi il corpo individuale a essere malato? O è quello sociale? Questi due corpi sono realmente divisibili?
LM: Assolutamente no. Sono indissolubilmente legate, ma il problema è che spesso vediamo solo il corpo individuale e ci dimentichiamo il corpo sociale. Questo accade perché le aspettative e le imposizioni sul corpo femminile da parte di un sistema patriarcale sono avvertite come buon senso. Come sappiamo, ci sono forme dirette di potere, visibili per la loro evidente violenza, e poi ci sono norme egemoniche che abbiano interiorizzato e a cui obbediamo volontariamente (o così sembra). I disordini alimentari sono uno dei modi più evidenti in cui si manifesta questa tensione: corpi di giovani donne che si disintegrano per conformarsi a norme non scritte, corpi che hanno accettato la normatività sociale e cercano di performare la loro accettazione – ma durante il processo si fanno del male. Non solo hanno interiorizzato la norma, l’hanno incarnata, e questa norma fatta invisibile le distrugge. È un meccanismo incredibilmente perverso.
Frida Kahlo dopo che una delle sue gambe è stata amputata, a un anno prima della sua morte, fotografia di Lola Alvarez Bravo.
Outsider è il corpo malato, è il corpo deforme, il corpo che eccede – volontariamente o meno – i parametri della normatività. Questo gli permette di essere un osservatore privilegiato delle dinamiche sociali e di forzarne le tensioni. Nel tuo libro Sangue negli occhi, Lucina è una giovane donna che perde la facoltà della vista. Questo cambiamento inficia solo la sua vita o anche il sistema in cui è inserita?
LM: Ho appena finito di leggere King Kong Theory di Virginie Despentes, dove lei si identifica come e scrive dal punto di vista della “donna brutta” e “donna virile” e connette questo luogo di osservazione con quello di tutte le donne che non appartengono all’ideale femminile (che, ideale com’è, lei dubita possa realmente esistere). La condizione del malato è sempre problematica, ma una volta che si colloca nel posto del brutto, del virile, del deforme, una volta che si è fuori dalla norma o dal normale (che nei fatti è la stessa cosa), si può capire più chiaramente come operi il sistema. Non si fa esperienza della pressione del potere quando si segue la norma e si agisce come una brava ragazza. Questa pressione si avverte unicamente quando si è fuori o contro la norma. Nel caso di Lucina, la mia protagonista cieca, ero interessata a trasformare la sua vulnerabilità, la sua subordinazione, che è sede privilegiata del femminile, in qualcos’altro. Sarebbe stata in grado di trovare la forza nella sua situazione? C’erano, come suggerisce Josefina Ludmer, “Tretas del Debil”? (trucchi o strategie dei deboli)? E queste strategie possono ribaltare le convenzioni del potere maschile? Queste sono le domande che mi sono posta scrivendo Sangre en el ojo.
L’ultima fotografia di Frida Kahlo nella sedia a rotelle durante una manifestazione contro l’intervento militare americano in Guatemala, 1954.
Molte delle istanze presenti nell’agenda femminista hanno avuto un grande potenziale di rottura conflittuale che non rivendicava solo la specificità di genere ma denunciando la propria posizione dentro l’organizzazione del lavoro, dei rapporti sociali e delle discriminazioni sessuali, hanno aperto – e continuano a farlo – uno sguardo inedito sui meccanismi di sfruttamento, come elemento strutturale del capitalismo contemporaneo. Siamo ancora in grado di inventare un immaginario di segni e di discorsi in grado di annullare il confine tra azioni culturali e politiche?
LM: È una svolta importante che reintroduce la questione di classe, la questione dello sfruttamento nelle nostre società capitaliste. Genere, classe e razza non dovrebbero più essere separati ma uniti insieme, perché si completano a vicenda. E inoltre, non dimentichiamolo, bisogna essere consapevoli del rischio di essere cooptati dalle idee capitaliste del successo e della competizione: le persone che hanno occupato posizioni discriminate potrebbero essere tentate (o comprate) per dimenticare da dove vengono, potrebbero ripetere comportamenti da sfruttatore, avendo invece le condizioni per essere in grado di agire diversamente.
Puoi raccontarci qualcosa sul tuo ultimo libro Contra los hijos? La materinità è uno dei ruoli sociali imposti e storicamente riservati alle donne dentro l’assegnazione capitalistica della messa a valore del lavoro riproduttivo che diventa produttivo – economia femminile e domestica, cura e dedizione, invisibilità politica, assorbimento del tempo di lavoro a quello della vita….
LM: Quello che osservo in questo breve saggio è che ci troviamo di nuovo di fronte alla chiamata materna – ancora una volta ci viene raccontato che la maternità è tutto. Mentre il capitalismo ci dice che siamo liberi di scegliere ciò che vogliamo, di fatto ci sta sfidando, per non dire costringendo, a scegliere la maternità intensiva, forzata. E questo perché il sistema capitalista è contro lo “estado subsiduario”, perché sotto questo sistema è il singolo, e non la collettività, che deve prendersi cura di sé e della famiglia. Il sistema si costituisce sul salario discriminato, spesso sfruttato delle donne, tanto quanto nel lavoro non retribuito delle madri. E le madri accettano questo perché gli viene raccontato che il futuro dei loro figli non può più contare sullo Stato: la qualità dell’istruzione pubblica è stata distrutta, la mobilità sociale sta scomparendo, ecc. Quindi è la famiglia che deve assicurarsi di fornire tutti gli extra – assicurazioni sanitarie private con buoni medici, educazione privata più lezioni extra di ogni genere, tempo extra dedicato ai figli, extra giocattoli e gadget… meglio ancora se più costosi. Perché devono garantire che i bambini diventeranno competitivi e conquisteranno gli altri bambini. Sotto l’incantesimo capitalista, le persone non dovrebbero più preoccuparsi del benessere di tutti i bambini o di tutti i cittadini o di tutte le persone, solo dei propri figli e di sé stessi.
Una nuova ondata femminista, potente e scomposta, a partire da «Ni una menos» ha denunciato le ambivalenze connesse con tutto ciò che riguarda la sessualità, il potere, le gerarchie e le norme di genere, cosa pensi di questa ricomposizione delle lotte delle donne e delle mobilitazioni che ne sono seguite?
LM: In uno scenario molto preoccupante di pressione e anche di violenza contro le donne, questo movimento che è iniziato in Argentina e poi ha attraversato tutto il continente, mi conferma che è la moltitudine e l’attivismo delle donne, che può rendere le cose visibili e indurre al cambiamento. I politici non muoverebbero un dito per la protezione delle donne a meno che non siano costretti a farlo.
Frida Kahlo con una persona non identificata.
Lina Meruane (Santiago del Cile, 1970) è una scrittrice e saggista cilena. Ha pubblicato la raccolta di racconti Las infantas (1998) e i romanzi Póstuma (2000), Cercada (2000), Fruta podrida (2007) e Sangue negli occhi (pubblicato in Italia da La Nuova Frontiera, 2012), tradotti in numerose lingue, per i quali ha ricevuto prestigiosi premi internazionali tra cui: Sor Juana Inés de la Cruz (2012) e Anna Seghers (2011). Vive e lavora a New York dove insegna letteratura latinoamericana alla University of New York e dirige la casa editrice Brutas Editoras.