“È così che si costruisce una storia corale, in cui possiamo offrire una nostra visione della storia e altri possono, al tempo stesso, spiegare la propria percezione, a noi e a loro. È importante che queste storie si moltiplichino e circolino il più possibile. Se il sistema economico della nostra società capitalista è fondato sul principio di rarità, permettendo alle opere d’arte di raggiungere valori stratosferici, allora l’archivio universale è fondato su quello dell’eccesso, su un ordinamento che rifiuta il criterio della contabilità. In questo contesto i più ricchi sono quelli che ricevono le storie ma, al tempo stesso, quelli che narrano non sono i più poveri. Si tratta di costituire federazioni di comunità libere che contribuiscano al bene comune.”
Manuel Borja-Villel, The Museum rivisited, in “Art Forum”, vol. 48, n. 10, 2010.
“L’esposizione della documentazione artistica avviene di solito in forma d’installazione. […] Collocare la documentazione in un’installazione come atto di inclusione in un particolare spazio non è un’azione neutra che mostra qualcosa, ma un’azione che raggiunge sul piano spaziale quello che il racconto raggiunge sul piano temporale: l’inclusione nella vita”.
Boris Groys, “L’arte nell’era della biopolitica. Dall’opera alla documentazione”, in Art Power, Postmedia, Milano, 2012, p.72.
Vladislav Shapovalov. Image Diplomacy. 28’56”, 2017. Film still. Courtesy Vladislav Shapovalov, Produced by V-A-C.
Image Diplomacy è un film e un duplice progetto espositivo – curato da Emanuele Guidi ad Ar/ge Kunst di Bolzano e da Anna Ilchenko al Moscow Museum of Modern Art con V-A-C Foundation a Mosca – che racconta la storia della “diplomazia delle mostre” e la costruzione dell’immaginario politico mediante differenti strategie di display e attraverso un network di archivi della Società per le relazioni culturali con i paesi stranieri (VOKS) che, fondata nell’URSS nel 1925, ha usato la diplomazia culturale come uno strumento per rompere ciò che Lenin aveva definito la “cospirazione del silenzio” intorno al suo grande esperimento sociale – come hai sottolineato. In cosa consisteva il “Soviet Exhibitionary Complex” che doveva diffondere un’immagine positiva della vita sovietica durante il periodo della Guerra Fredda?
Vladislav Shapovalov: La Società per le relazioni culturali con i paesi stranieri (VOKS) era l’istituzione principale per la diplomazia culturale sovietica. Attraverso mostre, proiezioni di film e visite di artisti, VOKS diffondeva un’immagine positiva e ponderata dell’URSS all’estero, gestendo tutti i contatti culturali internazionali che riguardavano i rappresentanti dell’Unione Sovietica e i suoi artefatti culturali. Molto prima che venisse formulato il concetto di “soft power” introdotto alla fine degli anni ‘80 e solitamente applicato ai prodotti culturali creati dagli Stati Uniti, l’Unione Sovietica si preoccupava di come promuovere l’ideologia comunista e influenzare l’opinione pubblica attraverso la cultura. VOKS era la controparte di USIA (United States Information Agency) coinvolta nella promozione della cultura americana e dei suoi valori al di fuori degli Stati Uniti.
L’importanza di queste agenzie emerse significativamente durante la Guerra Fredda poiché, le due nazioni dominanti, gli USA e l’Unione Sovietica, che rappresentavano rispettivamente le versioni della modernità capitalista e socialista, non furono in grado l’una di conquistare l’altra, e ricorsero alla cultura quale mezzo di competizione ideologica. Era un momento storico in cui il ruolo della cultura crebbe significativamente, e fu denominato come periodo di “diplomazia culturale”. Il film e le installazioni in entrambe le esposizioni Image Diplomacy trattano l’archivio di mostre fotografiche che VOKS ha inviato in Europa. In particolare il lavoro parte dalla scoperta di un archivio appartenente all’ex associazione Italia-URSS (oggi Italia-Russia) che consiste di circa 4500 immagini suddivise in 150 mostre inviate in Italia in scatole tra il 1958 e il 1991 e che toccano i temi centrali del progetto socialista – dalla sfera domestica alla vita pubblica, dai risultati del progresso alle esplorazioni spaziali, dall’emancipazione della donna all’istruzione, dall’architettura alla questione abitativa fino ad abbracciare l’intera geografia dell’URSS per mostrare il progetto dell’internazionalismo socialista.
Usando il termine “Soviet Exhibitionary Complex” alludo al testo The Exhibitionary Complex di Tony Bennett in cui discute la prospettiva di Foucault sulla creazione istituzionale della conoscenza e analizza il “complesso espositivo” come composto da istituzioni (musei, fiere e altri spazi espositivi) coinvolti nella visualizzazione e rappresentazione di oggetti, corpi e immagini su arene pubbliche e quindi coinvolti nella formazione di veicoli per inscrivere e trasmettere i messaggi del potere in tutta la società. Il “complesso espositivo sovietico” era composto dalle persone e dalle istituzioni implicate nella concezione e nella produzione di rappresentazioni fotografiche – gli editori che organizzavano i photoshots, i fotografi, le persone che selezionavano le immagini e compilavano le mostre, le reti di società di amicizia fondate in vari paesi da persone solidali con l’esperimento sovietico, il mondo delle fiere e degli Expo e i numerosi spazi espositivi che ospitavano queste mostre. Un’altra dimensione importante di questo “complesso espositivo” è l’interdipendenza concettuale tra il desiderio del lato sovietico di produrre auto-rappresentazioni per essere visto e riconosciuto dagli spettatori stranieri, anche se questi spettatori erano oppositori ideologici e dall’altra parte il desiderio ossessivo della soggettività occidentale di rappresentare per sé stessi il resto del mondo. In un certo modo la proliferazione di Expo, Biennale, World Fairs, zoo e così via sono nati da questo desiderio.
Come hai cercato di mettere in scena la dimensione estetico-politica dello spazio culturale sovietico, che oggi è un concetto superato dal punto di vista storico e geopolitico? Quali sono gli assetti e le memorie storiche che hai rievocato? Come si mette in mostra un’esposizione? O come elevare il livello di documentazione espositiva al livello dell’opera? È quella che hai definito “una fantasia modernista” della mostra nella mostra…..
VS: Il soggetto della mia ricerca è la mostra come strumento per articolare idee politiche in un contesto pubblico con l’aiuto di un display basato sull’uso della visualizzazione fotografica. La decisione di formalizzare la ricerca come una mostra, quindi di parlare di mostre facendo un’altra mostra, è stata guidata dall’interesse di esplorare i mezzi espressivi del display.
A parte il difficile lascito di progetti politici di massa del XX secolo come il comunismo, il fascismo o il capitalismo, il momento contemporaneo è perseguitato dalle preoccupazioni moderniste sull’arte come linguaggio autonomo e autoreferenziale capace di auto-comprensione e auto-analisi. Creando questa tautologia di una mostra su una mostra volevo alludere a questo filone del ventesimo secolo già indagato da autori come ad esempio Chris Marker che sostanzialmente faceva i film sui film o James Joyce che in certo senso scriveva letteratura sulla letteratura…
Inoltre, come spiegavo prima, l’archivio fotografico dell’Associazione Italia-Russia su cui ho lavorato non è un archivio di semplici fotografie ma di mostre. Ciò significa che ogni cartella è un insieme di immagini create intenzionalmente e ogni fotografia doveva avere relazioni concettuali e spaziali con altre immagini della stessa cartella. Ora queste mostre sono conservate in un archivio di scatole e quindi le esposizioni sovietiche non hanno più alcuna dimensione spaziale. Al contrario la mostra The Family of Man è stata fedelmente ricostruita nel castello di Clervaux e i criteri per questa ricostruzione sono stati proprio quelli di preservare le relazioni, la rete di riferimenti, collegamenti e i nessi tra singole fotografie.
Nel mio lavoro ho cercato di estrarre dalla frammentaria documentazione delle mostre sovietiche i pezzi della grammatica espositiva dell’epoca della Guerra Fredda e di rimetterli in scena.
Così facendo non volevo però produrre un re-enactment ma una loro re-interpretazione per creare una situazione contemporanea che interrogasse il nostro modo di guardare i materiali oggi. Ho quindi estratto alcune caratteristiche da queste strutture, come per esempio i tavoli e i cavalletti, e ho svuotato i volumi per rendere le strutture visibili e più presenti nello spazio, ho tolto le didascalie dai muri. Le foto originali da cui erano prese le strutture le ho trasformate in una didascalia visiva, una sorta di indice che guidasse lo spettatore. Nel film ho cercato di enfatizzare la materialità delle immagini mostrando questa disparità tra le modalità espositive sovietiche e quelle occidentali.
Raccontaci ancora qualcosa sulla grammatica espositiva che hai elaborato dato che non si può parlare semplicemente di re-enactments di condizioni espositive storiche prodotte dal processo politico durante il conflitto ideologico tra capitalismo e modernità socialista. Come erano organizzate le mostre nelle scatole? E come hai sviluppato le forme – e le strategie – del display [teche, cavalletto, foto-murales]?
VS: Le mostre fotografiche venivano impacchettate in cartelle che contenevano dalle quaranta alle settanta stampe, che misuravano da trenta a quaranta centimetri. Le immagini erano accompagnate da uno schema che indicava la posizione di ciascuna foto nella mostra. Grazie a queste istruzioni, l’allestimento poteva essere fatto da chiunque, essendo ogni cartella di per se una piccola mostra itinerante prefabbricata.
Vladislav Shapovalov. Image Diplomacy. 28’56”, 2017. Film still. Courtesy Vladislav Shapovalov. Produced by V-A-C.
Nelle mie mostre gli elementi di display – il tavolo e il cavalletto – provengono principalmente dalle esposizioni sovietiche organizzate in Italia e negli Stati Uniti. Come spiegavo prima le fotografie che documentano queste mostre sono sui muri e fungono da didascalia visiva per le opere in mostra. Ad esempio, l’idea del tavolo con una superficie inclinata è stato ripreso dalla mostra sovietica a San Francisco nel 1937. Questo tipo di tavolo non consente di essere utilizzato come mobile funzionale, ma solo come un dispositivo espositivo su cui solo i documenti o le stampe possono essere inseriti. Ridisegnandolo e rivelando la struttura di questo elemento e aggiungendo la seconda superficie lo trasformo in un nuovo oggetto che nella mostra ad ar/ge Kunst svolge la funzione di supportare da un lato un discorso per immagini che rappresenta la dimensione pubblica della diplomazia culturale in Italia, quindi mostre conferenze avvenimenti in città, mentre dall’altro ne documenta la dimensione privata, quindi gli appuntamenti, i salotti, le visite dei politici, tutto ciò che accadeva a porte chiuse.
Il design del cavalletto si ispira invece ad una mostra sovietica organizzata a Milano nel 1967. In questo caso riprendo la struttura originale del cavalletto e sostituisco i disegni della mostra originale con due quadri contenenti ognuno diverse immagini di documentazioni di mostre.
Questo lavoro riflette anche il carattere dei documenti con cui ho lavorato durante la mia ricerca. Le mostre sovietiche non hanno mai ricevuto grande attenzione da parte degli studiosi come le mostre americane e i materiali con cui stavo lavorando sono molto frammentari. Così il ritmo delle lacune bianche rappresenta i vuoti e la mancanza di informazione che ci permetterebbe di ricostruire l’esperienza delle mostre nella loro totalità.
Hai definito l’esposizione come “un network comunicativo di significati incarnati nei sistemi, nei generi, nelle storie, nella politica e nell’architettura delle mostre e della loro ricezione”, che oltre ad essere delle macchine governamentali hanno rappresentato il paradigma della cultura espositiva della modernità con tutte le retoriche che le hanno accompagnate rispetto al predominio indiscusso del canone occidentale, universalista ed egemonico. Nelle immagini delle mostre sovietiche quale è il rapporto tra la moltitudine e lo spazio pubblico fotografico?
VS: Tutti i progetti politici di massa del XX secolo – comunismo, fascismo o capitalismo – erano basati sulla partecipazione di massa, su convinzioni e valori condivisi e utilizzavano una tecnica visuale per istituire un’identificazione tra i gruppi di persone raffigurate nelle foto e il gruppo di spettatori delle esposizioni. Ad esempio, questo avveniva con grandi foto-murali, enormi immagini impaginate sulle pareti e raffiguranti folle, collettivi politici. É possibile ritrovare questo elemento nei padiglioni sovietici progettati da Lissitzky nel 1928 a Colonia, nell’esposizione di Giuseppe Terragni Mostra della Rivoluzione Fascista nel 1934 a Roma o nell’esposizione The Road To Victory di Edward Steichen nel 1942 a New York.
In Image Diplomacy l’elemento che riflette sul tema della rappresentazione della collettività è la foto-murale che documenta la folla di persone venute per l’inaugurazione dell’esposizione sovietica a Palazzo Reale a Milano nel 1967. Ho ingrandito questa foto e collocandola sulla parete in modo che sia rivolta verso la strada, verso il pubblico e i potenziali spettatori delle mie mostre. Il mio obiettivo era creare una sorta di effetto specchiante tra l’esperienza dello spettatore della storica esposizione di Milano nel 1967 e lo spettatore che visita la mia mostra adesso, nel 2018. Entrambi i gruppi di persone stanno per entrare nello spazio pubblico organizzato in un certo modo e guardano le fotografie – stanno per entrare dentro la mostra. Volevo così sottolineare, anche se oggi sembra che siamo oramai usciti dall’epoca della politica dell’identità, come alcuni modelli culturali sono presenti e provocano una vivace reazione. La partecipazione e la reazione rispetto alle fotografie delle persone che ci guardano dalle immagini sono assolutamente le stesse. Penso che chiunque possa essere toccato dallo sguardo di un gruppo di persone che ci guarda dal passato, anche se pensiamo che tutte queste problematiche, argomenti e media sembrino obsoleti e abbandonati nel passato, ma continuiamo a reagire a queste immagini.
Se in The Power of Display Mary Anne Staniszewsky sottolinea come in tutte le riproduzioni fotografiche delle mostre del MoMA avvenga una rimozione ideologica del pubblico, qua si potrebbe sostenere il contrario….
VS: Al contrario di come le mostre vengono fotografate oggi, come spazi vuoti con tutta l’attenzione focalizzata sulle installazioni, il modo in cui le mostre sono state documentate prima suggerisce l’importanza delle immagini della collettività e l’enfasi su un incontro tra le immagini e le persone all’interno dello spazio espositivo. Spesso l’obiettivo della documentazione di questi incontri visuali è stato espresso nelle “shootings scripts”, le raccomandazioni fornite al fotografo. Gli veniva richiesto di fotografare le “persone che guardano le persone”.
La divisione in blocchi durante la Guerra Fredda è stato un cliché usato con l’obiettivo di una strumentalizzazione ideologica, quando il processo della sua storicizzazione doveva essere compiuto. Oggi non si può più pensare a una storia «ontologica» dell’arte quando le categorie implicate sono di natura politica ed economica, l’Est Europa è stato recepito come l’oggetto di una lettura occidentale e come una forma di colonizzazione culturale, per una meta-narrativa che aveva imposto una visione univoca delle fenomenizzazioni in atto anche se con un differente registro di retroazione. Cosa significa parlare oggi dell’Est Europa quando i parametri di analisi sono storici, ideologici e politici (post-comunismo) o rimandano a una proiezione geografica ormai dissolta?
VS: Ci sono due opinioni che ritengo entrambe vere: una è che la Guerra Fredda sia finita e l’altra è che la Guerra Fredda continui. Benché storicamente finita, da un certo punto di vista essa continua come vediamo ad esempio nelle notizie in primo piano sulle tensioni in Korea, che fu anche il primo conflitto caldo della Guerra Fredda. Ritengo tuttavia che leggere la Guerra Fredda come un fenomeno accaduto tra due paesi o tra due “blocchi”, sia però un altro cliché. Vorrei ribadire che la Guerra Fredda è stata un fenomeno globale, e non si parla solo di East-West. Questa dimensione globale della Guerra Fredda è enfatizzata nel film “Image Diplomacy” dove diversi spezzoni dei film sovietici dell’archivio della cineteca di Bologna documentano la conquista ideologica del Terzo Mondo e il progetto dell’internazionalismo socialista, ovvero il progetto della globalizzazione alternativa che unisce il Terzo e il Secondo Mondo contro il Primo.
Lo si vede anche nel lavoro Opening Titles, una sequenza di stampe di titoli di apertura di notiziari, tratte da bobine di 16 mm, che erano distribuite regolarmente attraverso il network di associazioni per l’amicizia e i contatti culturali con l’Unione Sovietica. Oltre alle diverse lingue europee c’è anche l’arabo che pare essere una traccia degli interessi sovietici oltre i confini occidentali.
catalogo The Family of Man, 1955.
The Family of Man che inaugurò al MoMA nel 1955 definiva un modello di ‘expanded vision’ exhibition che sostiene Jorge Ribalta segnava anche un punto di “svolta nell’uso di questo tipo di esibizione come mezzo di comunicazione di massa e di propaganda ideologica”. Quale il rapporto con The Family of Man che si tenne a Mosca nel 1959? Come hai ricostruito le vicende della fotografia censurata che ritraeva le prime complicazioni politiche con la rivolta in Germania contro l’esercito sovietico nel 1953?
VS: La vicenda della foto censurata nella mostra The Family of Man a Mosca è il soggetto del lavoro Political Complications che presenta un display di documenti dal National Archives di Washington e dallo State Archive of Russian Federation di Mosca riguardo l’organizzazione della mostra a Mosca nel 1959. La corrispondenza epistolare tra l’USIA (United States Information Agency), il Dipartimento Statale e altre agenzie rivela l’episodio di auto-censura da parte Americana. Le lettere disposte sul tavolo illustrano la conversazione rispetto a possibili conseguenze e ripercussioni all’atto di rimozione dalla mostra dell’immagine di una rivolta anti-sovietica nella Berlino Est del 1953. Secondo gli ufficiali americani la foto avrebbe potuto causare una serie di scomode “complicazioni politiche” a Mosca. Allo stesso tempo sono riluttanti a violare “l’integrità artistica” dell’opera di Steichen e sono preoccupati che la rimozione dell’immagine possa compromettere l’intera ideologia della mostra – libertà di parola e libertà di espressione, democrazia, ecc.
Vladislav Shapovalov, I Left My Heart In Rhodesia, veduta della mostra, Kunstpavillon, Innsbruck, photo: Daniel Jarosch, Künstlerhaus Büchsenhausen, 2017.
“Tutto, contenuto e fotogenia delle immagini, discorso che le giustifica, mira a sopprimere il peso determinante della Storia: siamo trattenuti alla superficie di una identità, impediti dalla stessa sentimentalità a penetrare in quella zona ulteriore dei comportamenti umani dove l’alienazione storica introduce quelle «differenze» che qui chiameremo molto semplicemente «ingiustizie»”. Così se Roland Barthes parlava di negazione della storia per The Family of Man proprio nell’individuazione delle verità universali, invece cosa presentavano queste mostre a partire dal materiale storico sovietico?
VS: La differenza principale tra le mostre e le fotografie sovietiche e quelle americane è che le immagini sovietiche hanno una dimensione storica. La società e le persone sono sempre esibite in un contesto storico, dunque qualsiasi configurazione sociale risulta un prodotto storico. Invece The Family of Man rappresenta la fratellanza universale umana tramite le caratteristiche antropologiche: siamo tutti uniti perché siamo membri dello stesso genere biologico. L’URSS invece proponeva una visione dell’umanità come il risultato del progresso storico: nello specifico nelle immagini sovietiche troviamo spesso elementi di collage ovvero di interventi dentro le immagini che erano fatti per introdurre la dimensione temporale nelle immagini istantanee, ovvero la fotografia. Nel caso più semplice le immagini con questi elementi mostravano un prima e un dopo. Lo si vede ad esempio nella foto di una studentessa proveniente da una delle repubbliche dell’Asia Centrale in cui l’autore inserisce il suo presunto passato di donna velata. E’ chiaro che questa immagine è molto problematica perché è il risultato della coincidenza dello sguardo che modernizza e quello che colonizza di cui parlo nell’installazione I Left My Heart In Rhodesia che si focalizza sulla presentazione della popolazione delle repubbliche sovietiche. Poi ci sono immagini che mostrano delle rappresentazioni infografiche. Nel caso più complesso invece guardiamo alle mostre in sè dove gli schemi di allestimento definivano una narrativa di inizio e di fine della mostra che ne definiva dunque una temporalità introducendo così la temporalità nella staticità della mostra.
Vladislav Shapovalov. Image Diplomacy. 28’56”, 2017. Film still. Courtesy Vladislav Shapovalov. Produced by V-A-C.
A proposito Reesa Greenberg in Remembering exhibitions ha sottolineato il pericolo dell’ondata di installazioni espositive recenti che hanno cercato di fare una storia delle esposizioni (anche come pratica curatoriale auto-riflessiva) con la tendenza a scivolare nel cliché storico-artistico della canonizzazione, rafforzando il concetto di mostra paradigmatica, invece di mettere in discussione questa forma di storiografia. Come dobbiamo guardare oggi questi materiali?
VS: Probabilmente il rischio c’è e possiamo dire che appare una specie di cliché della pratica curatoriale ed espositiva ma secondo me anche questo cliché può essere produttivo perché l’uso conscio del cliché permette di rinforzare il senso, il significato, il messaggio e creare un discorso riconoscibile. Diversamente da altri progetti curatoriali o artistici che concernono la questione del display e della pratica espositiva, io scelgo come soggetto non tanto l’arte o la mostra d’arte ma le mostre politiche, di propaganda e le rappresentazioni nazionali di un certo “soft power”, che usano la cultura come mezzo per disseminare una visione politica definita. Inoltre cerco di spostare l’attenzione dai media artistici tradizionali, come ad esempio la pittura o la scultura, all’immaginario fotografico che, insieme al cinema, è il vero zeitgeist della politica di massa e il materiale principale nella costruzione dell’immaginario politico del mondo contemporaneo. Concentrandomi sulle immagini fotografiche, il cui potere rappresentativo è stato coinvolto nei processi di articolazione visiva delle principali idee politiche del XX secolo diventandone il loro principale strumento, cerco di avvicinarmi alla comprensione del nostro momento storico in cui la politica diventa sempre più rappresentativa e in cui i media visivi giocano un ruolo di protagonisti. Spero che le opere della mostra Image Diplomacy invitino dunque lo spettatore a confrontare e contrapporre gli esempi storici alla realtà quotidiana di oggi e al funzionamento della politica della rappresentazione e delle immagini nella cultura politica.
Vladislav Shapovalov. Image Diplomacy. 28’56”, 2017. Film still. Courtesy Vladislav Shapovalov. Produced by V-A-C.
Oltre al processo di ricerca e di indagine storica e spaziale hai individuato numerose references: dai testi di Jorge Ribalta sulla storia delle mostre fotografiche di propaganda, uno scritto di Alan Sekula fino ai concetti di “exhibition paradigm” (Benjamin H. D. Buchloh) e della mostra come “contact zone” (Susan Reid in un saggio sulle esposizioni durante la Guerra Fredda), solo per citarne alcuni….questo è molto interessante per ripensare alle mostre come potenziali formazioni discorsive con molteplici campi di possibilità [e non solamente un sottocapitolo della storia dell’arte]….
VS: Tra i numerosi testi scritti di recenti sul soggetto quelli che nomini mi sono sembrati i più rilevanti. In particolare l’ipotesi speculativa, ma a mio avviso produttiva, dell'”exhibition paradigm” di Benjamin H.D. Buchloh che propone una traiettoria di influenze reciproche nei metodi di lavoro sui display basati sulle immagini fotografiche che lui traccia dai primi esperimenti di Lissitzky negli anni ’20 e poi le mostre nazionalsocialiste in Germania degli anni ’30, disegnate da Herbert Bayer e da altri fino a Giuseppe Terragni con la Mostra della Rivoluzione Fascista del 1934 fino alle mostre di Steichen disegnate dallo stesso Bayer, trasferitosi negli Stati Uniti e la mostra The Road to Victory e poi The Family of Man. La mia ricerca aggiunge un passo successivo a questo viaggio di forme espositive ovvero quando The Family of Man andò a Mosca nel 1959 e così il ciclo iniziato da Lissitzky in Germania torna indietro nell’URSS, non come prodotto dall’avanguardia ma già come prodotto culturale della modernità occidentale.
Il concetto di “contact zone” invece, che Susan Raid riprende dalla teorica post-coloniale Mary Louise Pratt, tratta della mostra come spazio di contatto culturale tra diverse culture in modo non unidirezionale ma mutuale. Se normalmente si riteneva che la cultura centrale e dominante ne influenzasse un’altra più “debole”, nell’idea di “contact zone” può essere che sia la cultura marginale a influenzare quella dominante, la quale normalmente misconosce questa influenza. Susan Raid applica questa teoria agli scambi culturali nelle mostre internazionali durante la Guerra Fredda. Io vedo le mostre sovietiche fotografiche all’estero non esclusivamente come un evento orchestrato da un lato, dall’URSS o dall’occidente, ma come un processo mutuale in cui l’occidente era inevitabilmente influenzato dalle visioni di un’altra società.
Nel definire lo statuto dell’immagine (ma anche le forme del display) rispetto all’accezione di valore d’esposizione (e non solo per il legame con i rapporti di produzione capitalistica) Benjamin si è basato sulla pratica della politica: il potenziale, insieme effettivo e discorsivo, dell’arte in un pubblico dominio attraverso l’atto di esibizione. Si potrebbe sostenere (rispetto al paradigma espositivo della modernità e la sua storia) una teatralizzazione della mostra come strumento di comunicazione. L’atto espositivo definisce un regime di rappresentazione ed è uno strumento di potere” in quanto è regolato e disciplinato attraverso la sua visibilità o invisibilità, dallo status politico ed economico di ciò che è stato esposto, così come è stato posizionato lo spettatore. “La storia delle mostre è la storia della politica e non meno dei cambiamenti che hanno avuto luogo nelle fondamenta delle nostre strutture sociali”*. In che termini si può parlare di potere del display nelle mostre di propaganda?
VS: Lo spazio espositivo è sempre uno spazio artificiale, costruito. Nel caso delle mostre sovietiche, questa caratteristica dello spazio espositivo corrisponde alla volontà di rappresentare quelli che Susan Buck-Morss definisce i “dreamwords of modernity”, i tentativi di organizzare, costruire, formare lo spazio sociale e la vita dell’uomo per risolvere una serie di problemi sociali. Nonostante le conseguenze spesso tragiche di questo desiderio di riordinare il mondo non si può rifiutare nemmeno il potenziale emancipatorio e liberatorio di questi tentativi. Parallelamente lo spazio della rappresentazione, privo della dimensione di naturalezza, deve essere apprezzato come un monumento della volontà, capacità dell’uomo di organizzare la conoscenza.
Perché chiudi il film con una frase di Paolo Virno, che significato assume nel tuo lavoro?
VS: Il film si chiude con una domanda “Perché guardiamo al passato?” la risposta la prendo dal libro Il ricordo del presente di Paolo Virno. Virno scrive che le relazioni tra il passato e la sfera del possibile, che tendiamo a collocare nel futuro, sono più vicine di quanto pensavamo una volta. Per me questa frase significa l’importanza degli studi del passato che sono strettamente collegati alla nostra capacità di leggere il contemporaneo e prevedere e costruire il futuro.
“È così che si costruisce una storia corale, in cui possiamo offrire una nostra visione della storia e altri possono, al tempo stesso, spiegare la propria percezione, a noi e a loro. È importante che queste storie si moltiplichino e circolino il più possibile. Se il sistema economico della nostra società capitalista è fondato sul principio di rarità, permettendo alle opere d’arte di raggiungere valori stratosferici, allora l’archivio universale è fondato su quello dell’eccesso, su un ordinamento che rifiuta il criterio della contabilità. In questo contesto i più ricchi sono quelli che ricevono le storie ma, al tempo stesso, quelli che narrano non sono i più poveri. Si tratta di costituire federazioni di comunità libere che contribuiscano al bene comune.”
Manuel Borja-Villel, The Museum rivisited, in “Art Forum”, vol. 48, n. 10, 2010.
“L’esposizione della documentazione artistica avviene di solito in forma d’installazione. […] Collocare la documentazione in un’installazione come atto di inclusione in un particolare spazio non è un’azione neutra che mostra qualcosa, ma un’azione che raggiunge sul piano spaziale quello che il racconto raggiunge sul piano temporale: l’inclusione nella vita”.
Boris Groys, “L’arte nell’era della biopolitica. Dall’opera alla documentazione”, in Art Power, Postmedia, Milano, 2012, p.72.
Vladislav Shapovalov. Image Diplomacy. 28’56”, 2017. Film still. Courtesy Vladislav Shapovalov, Produced by V-A-C.
Image Diplomacy è un film e un duplice progetto espositivo – curato da Emanuele Guidi ad Ar/ge Kunst di Bolzano e da Anna Ilchenko al Moscow Museum of Modern Art con V-A-C Foundation a Mosca – che racconta la storia della “diplomazia delle mostre” e la costruzione dell’immaginario politico mediante differenti strategie di display e attraverso un network di archivi della Società per le relazioni culturali con i paesi stranieri (VOKS) che, fondata nell’URSS nel 1925, ha usato la diplomazia culturale come uno strumento per rompere ciò che Lenin aveva definito la “cospirazione del silenzio” intorno al suo grande esperimento sociale – come hai sottolineato. In cosa consisteva il “Soviet Exhibitionary Complex” che doveva diffondere un’immagine positiva della vita sovietica durante il periodo della Guerra Fredda?
Vladislav Shapovalov: La Società per le relazioni culturali con i paesi stranieri (VOKS) era l’istituzione principale per la diplomazia culturale sovietica. Attraverso mostre, proiezioni di film e visite di artisti, VOKS diffondeva un’immagine positiva e ponderata dell’URSS all’estero, gestendo tutti i contatti culturali internazionali che riguardavano i rappresentanti dell’Unione Sovietica e i suoi artefatti culturali. Molto prima che venisse formulato il concetto di “soft power” introdotto alla fine degli anni ‘80 e solitamente applicato ai prodotti culturali creati dagli Stati Uniti, l’Unione Sovietica si preoccupava di come promuovere l’ideologia comunista e influenzare l’opinione pubblica attraverso la cultura. VOKS era la controparte di USIA (United States Information Agency) coinvolta nella promozione della cultura americana e dei suoi valori al di fuori degli Stati Uniti.
L’importanza di queste agenzie emerse significativamente durante la Guerra Fredda poiché, le due nazioni dominanti, gli USA e l’Unione Sovietica, che rappresentavano rispettivamente le versioni della modernità capitalista e socialista, non furono in grado l’una di conquistare l’altra, e ricorsero alla cultura quale mezzo di competizione ideologica. Era un momento storico in cui il ruolo della cultura crebbe significativamente, e fu denominato come periodo di “diplomazia culturale”. Il film e le installazioni in entrambe le esposizioni Image Diplomacy trattano l’archivio di mostre fotografiche che VOKS ha inviato in Europa. In particolare il lavoro parte dalla scoperta di un archivio appartenente all’ex associazione Italia-URSS (oggi Italia-Russia) che consiste di circa 4500 immagini suddivise in 150 mostre inviate in Italia in scatole tra il 1958 e il 1991 e che toccano i temi centrali del progetto socialista – dalla sfera domestica alla vita pubblica, dai risultati del progresso alle esplorazioni spaziali, dall’emancipazione della donna all’istruzione, dall’architettura alla questione abitativa fino ad abbracciare l’intera geografia dell’URSS per mostrare il progetto dell’internazionalismo socialista.
Vladislav Shapovalov, Image Diplomacy, veduta dell’esposizone da ar/ge kunst. Photo Sorvillo, 2017 ©argekunst, Bolzano
Usando il termine “Soviet Exhibitionary Complex” alludo al testo The Exhibitionary Complex di Tony Bennett in cui discute la prospettiva di Foucault sulla creazione istituzionale della conoscenza e analizza il “complesso espositivo” come composto da istituzioni (musei, fiere e altri spazi espositivi) coinvolti nella visualizzazione e rappresentazione di oggetti, corpi e immagini su arene pubbliche e quindi coinvolti nella formazione di veicoli per inscrivere e trasmettere i messaggi del potere in tutta la società. Il “complesso espositivo sovietico” era composto dalle persone e dalle istituzioni implicate nella concezione e nella produzione di rappresentazioni fotografiche – gli editori che organizzavano i photoshots, i fotografi, le persone che selezionavano le immagini e compilavano le mostre, le reti di società di amicizia fondate in vari paesi da persone solidali con l’esperimento sovietico, il mondo delle fiere e degli Expo e i numerosi spazi espositivi che ospitavano queste mostre. Un’altra dimensione importante di questo “complesso espositivo” è l’interdipendenza concettuale tra il desiderio del lato sovietico di produrre auto-rappresentazioni per essere visto e riconosciuto dagli spettatori stranieri, anche se questi spettatori erano oppositori ideologici e dall’altra parte il desiderio ossessivo della soggettività occidentale di rappresentare per sé stessi il resto del mondo. In un certo modo la proliferazione di Expo, Biennale, World Fairs, zoo e così via sono nati da questo desiderio.
Come hai cercato di mettere in scena la dimensione estetico-politica dello spazio culturale sovietico, che oggi è un concetto superato dal punto di vista storico e geopolitico? Quali sono gli assetti e le memorie storiche che hai rievocato? Come si mette in mostra un’esposizione? O come elevare il livello di documentazione espositiva al livello dell’opera? È quella che hai definito “una fantasia modernista” della mostra nella mostra…..
VS: Il soggetto della mia ricerca è la mostra come strumento per articolare idee politiche in un contesto pubblico con l’aiuto di un display basato sull’uso della visualizzazione fotografica. La decisione di formalizzare la ricerca come una mostra, quindi di parlare di mostre facendo un’altra mostra, è stata guidata dall’interesse di esplorare i mezzi espressivi del display.
A parte il difficile lascito di progetti politici di massa del XX secolo come il comunismo, il fascismo o il capitalismo, il momento contemporaneo è perseguitato dalle preoccupazioni moderniste sull’arte come linguaggio autonomo e autoreferenziale capace di auto-comprensione e auto-analisi. Creando questa tautologia di una mostra su una mostra volevo alludere a questo filone del ventesimo secolo già indagato da autori come ad esempio Chris Marker che sostanzialmente faceva i film sui film o James Joyce che in certo senso scriveva letteratura sulla letteratura…
Inoltre, come spiegavo prima, l’archivio fotografico dell’Associazione Italia-Russia su cui ho lavorato non è un archivio di semplici fotografie ma di mostre. Ciò significa che ogni cartella è un insieme di immagini create intenzionalmente e ogni fotografia doveva avere relazioni concettuali e spaziali con altre immagini della stessa cartella. Ora queste mostre sono conservate in un archivio di scatole e quindi le esposizioni sovietiche non hanno più alcuna dimensione spaziale. Al contrario la mostra The Family of Man è stata fedelmente ricostruita nel castello di Clervaux e i criteri per questa ricostruzione sono stati proprio quelli di preservare le relazioni, la rete di riferimenti, collegamenti e i nessi tra singole fotografie.
Nel mio lavoro ho cercato di estrarre dalla frammentaria documentazione delle mostre sovietiche i pezzi della grammatica espositiva dell’epoca della Guerra Fredda e di rimetterli in scena.
Così facendo non volevo però produrre un re-enactment ma una loro re-interpretazione per creare una situazione contemporanea che interrogasse il nostro modo di guardare i materiali oggi. Ho quindi estratto alcune caratteristiche da queste strutture, come per esempio i tavoli e i cavalletti, e ho svuotato i volumi per rendere le strutture visibili e più presenti nello spazio, ho tolto le didascalie dai muri. Le foto originali da cui erano prese le strutture le ho trasformate in una didascalia visiva, una sorta di indice che guidasse lo spettatore. Nel film ho cercato di enfatizzare la materialità delle immagini mostrando questa disparità tra le modalità espositive sovietiche e quelle occidentali.
Vladislav Shapovalov, Exchange of Exhibitions. Installation View at ar/ge kunst. Photo Sorvillo, 2017 ©argekunst, Bolzano Black and white print of the installation view of the exhibition by Kukryniksy caricaturists collective (part of USSR – 1967 exhibition in Milan), 2 frames with photographs documenting Soviet photographic exhibitions in Italy, 2017. Courtesy of the artist. Courtesy of photograph: The State Archive of the Russian Federation (GARF) and Associazione Italia Russia, Milan.
Raccontaci ancora qualcosa sulla grammatica espositiva che hai elaborato dato che non si può parlare semplicemente di re-enactments di condizioni espositive storiche prodotte dal processo politico durante il conflitto ideologico tra capitalismo e modernità socialista. Come erano organizzate le mostre nelle scatole? E come hai sviluppato le forme – e le strategie – del display [teche, cavalletto, foto-murales]?
VS: Le mostre fotografiche venivano impacchettate in cartelle che contenevano dalle quaranta alle settanta stampe, che misuravano da trenta a quaranta centimetri. Le immagini erano accompagnate da uno schema che indicava la posizione di ciascuna foto nella mostra. Grazie a queste istruzioni, l’allestimento poteva essere fatto da chiunque, essendo ogni cartella di per se una piccola mostra itinerante prefabbricata.
Vladislav Shapovalov. Image Diplomacy. 28’56”, 2017. Film still. Courtesy Vladislav Shapovalov. Produced by V-A-C.
Nelle mie mostre gli elementi di display – il tavolo e il cavalletto – provengono principalmente dalle esposizioni sovietiche organizzate in Italia e negli Stati Uniti. Come spiegavo prima le fotografie che documentano queste mostre sono sui muri e fungono da didascalia visiva per le opere in mostra. Ad esempio, l’idea del tavolo con una superficie inclinata è stato ripreso dalla mostra sovietica a San Francisco nel 1937. Questo tipo di tavolo non consente di essere utilizzato come mobile funzionale, ma solo come un dispositivo espositivo su cui solo i documenti o le stampe possono essere inseriti. Ridisegnandolo e rivelando la struttura di questo elemento e aggiungendo la seconda superficie lo trasformo in un nuovo oggetto che nella mostra ad ar/ge Kunst svolge la funzione di supportare da un lato un discorso per immagini che rappresenta la dimensione pubblica della diplomazia culturale in Italia, quindi mostre conferenze avvenimenti in città, mentre dall’altro ne documenta la dimensione privata, quindi gli appuntamenti, i salotti, le visite dei politici, tutto ciò che accadeva a porte chiuse.
Il design del cavalletto si ispira invece ad una mostra sovietica organizzata a Milano nel 1967. In questo caso riprendo la struttura originale del cavalletto e sostituisco i disegni della mostra originale con due quadri contenenti ognuno diverse immagini di documentazioni di mostre.
Questo lavoro riflette anche il carattere dei documenti con cui ho lavorato durante la mia ricerca. Le mostre sovietiche non hanno mai ricevuto grande attenzione da parte degli studiosi come le mostre americane e i materiali con cui stavo lavorando sono molto frammentari. Così il ritmo delle lacune bianche rappresenta i vuoti e la mancanza di informazione che ci permetterebbe di ricostruire l’esperienza delle mostre nella loro totalità.
Vladislav Shapovalov, Political Complications. Detail. 2017. Photo Ivan Erofeev, 2017 ©V-A-C Foundation. Courtesy artista” ©argekunst, Bolzano.
Hai definito l’esposizione come “un network comunicativo di significati incarnati nei sistemi, nei generi, nelle storie, nella politica e nell’architettura delle mostre e della loro ricezione”, che oltre ad essere delle macchine governamentali hanno rappresentato il paradigma della cultura espositiva della modernità con tutte le retoriche che le hanno accompagnate rispetto al predominio indiscusso del canone occidentale, universalista ed egemonico. Nelle immagini delle mostre sovietiche quale è il rapporto tra la moltitudine e lo spazio pubblico fotografico?
VS: Tutti i progetti politici di massa del XX secolo – comunismo, fascismo o capitalismo – erano basati sulla partecipazione di massa, su convinzioni e valori condivisi e utilizzavano una tecnica visuale per istituire un’identificazione tra i gruppi di persone raffigurate nelle foto e il gruppo di spettatori delle esposizioni. Ad esempio, questo avveniva con grandi foto-murali, enormi immagini impaginate sulle pareti e raffiguranti folle, collettivi politici. É possibile ritrovare questo elemento nei padiglioni sovietici progettati da Lissitzky nel 1928 a Colonia, nell’esposizione di Giuseppe Terragni Mostra della Rivoluzione Fascista nel 1934 a Roma o nell’esposizione The Road To Victory di Edward Steichen nel 1942 a New York.
In Image Diplomacy l’elemento che riflette sul tema della rappresentazione della collettività è la foto-murale che documenta la folla di persone venute per l’inaugurazione dell’esposizione sovietica a Palazzo Reale a Milano nel 1967. Ho ingrandito questa foto e collocandola sulla parete in modo che sia rivolta verso la strada, verso il pubblico e i potenziali spettatori delle mie mostre. Il mio obiettivo era creare una sorta di effetto specchiante tra l’esperienza dello spettatore della storica esposizione di Milano nel 1967 e lo spettatore che visita la mia mostra adesso, nel 2018. Entrambi i gruppi di persone stanno per entrare nello spazio pubblico organizzato in un certo modo e guardano le fotografie – stanno per entrare dentro la mostra. Volevo così sottolineare, anche se oggi sembra che siamo oramai usciti dall’epoca della politica dell’identità, come alcuni modelli culturali sono presenti e provocano una vivace reazione. La partecipazione e la reazione rispetto alle fotografie delle persone che ci guardano dalle immagini sono assolutamente le stesse. Penso che chiunque possa essere toccato dallo sguardo di un gruppo di persone che ci guarda dal passato, anche se pensiamo che tutte queste problematiche, argomenti e media sembrino obsoleti e abbandonati nel passato, ma continuiamo a reagire a queste immagini.
Vladislav Shapovalov, Opening of Soviet Week Veduta dell’esposizione presso ar/ge kunst. Photo Sorvillo, 2017 ©argekunst, Bolzano Esposizione a Palazzo Reale a Milano nel 1967. Foto-installazione, 2017. Courtesy artista. Courtesy fotografia: Associazione Italia Russia, Milano.
Se in The Power of Display Mary Anne Staniszewsky sottolinea come in tutte le riproduzioni fotografiche delle mostre del MoMA avvenga una rimozione ideologica del pubblico, qua si potrebbe sostenere il contrario….
VS: Al contrario di come le mostre vengono fotografate oggi, come spazi vuoti con tutta l’attenzione focalizzata sulle installazioni, il modo in cui le mostre sono state documentate prima suggerisce l’importanza delle immagini della collettività e l’enfasi su un incontro tra le immagini e le persone all’interno dello spazio espositivo. Spesso l’obiettivo della documentazione di questi incontri visuali è stato espresso nelle “shootings scripts”, le raccomandazioni fornite al fotografo. Gli veniva richiesto di fotografare le “persone che guardano le persone”.
Vladislav Shapovalov, Opening Titles, 2016. Installation View at ar/ge kunst. Photo Sorvillo, 2017 ©argekunst, Bolzano 5 archival pigment prints. Courtesy of the artist Produced by Künstlerhaus Büchsenhausen, Innsbruck. Vladislav Shapovalov, Political Complications. Detail.
La divisione in blocchi durante la Guerra Fredda è stato un cliché usato con l’obiettivo di una strumentalizzazione ideologica, quando il processo della sua storicizzazione doveva essere compiuto. Oggi non si può più pensare a una storia «ontologica» dell’arte quando le categorie implicate sono di natura politica ed economica, l’Est Europa è stato recepito come l’oggetto di una lettura occidentale e come una forma di colonizzazione culturale, per una meta-narrativa che aveva imposto una visione univoca delle fenomenizzazioni in atto anche se con un differente registro di retroazione. Cosa significa parlare oggi dell’Est Europa quando i parametri di analisi sono storici, ideologici e politici (post-comunismo) o rimandano a una proiezione geografica ormai dissolta?
VS: Ci sono due opinioni che ritengo entrambe vere: una è che la Guerra Fredda sia finita e l’altra è che la Guerra Fredda continui. Benché storicamente finita, da un certo punto di vista essa continua come vediamo ad esempio nelle notizie in primo piano sulle tensioni in Korea, che fu anche il primo conflitto caldo della Guerra Fredda. Ritengo tuttavia che leggere la Guerra Fredda come un fenomeno accaduto tra due paesi o tra due “blocchi”, sia però un altro cliché. Vorrei ribadire che la Guerra Fredda è stata un fenomeno globale, e non si parla solo di East-West. Questa dimensione globale della Guerra Fredda è enfatizzata nel film “Image Diplomacy” dove diversi spezzoni dei film sovietici dell’archivio della cineteca di Bologna documentano la conquista ideologica del Terzo Mondo e il progetto dell’internazionalismo socialista, ovvero il progetto della globalizzazione alternativa che unisce il Terzo e il Secondo Mondo contro il Primo.
Lo si vede anche nel lavoro Opening Titles, una sequenza di stampe di titoli di apertura di notiziari, tratte da bobine di 16 mm, che erano distribuite regolarmente attraverso il network di associazioni per l’amicizia e i contatti culturali con l’Unione Sovietica. Oltre alle diverse lingue europee c’è anche l’arabo che pare essere una traccia degli interessi sovietici oltre i confini occidentali.
catalogo The Family of Man, 1955.
The Family of Man che inaugurò al MoMA nel 1955 definiva un modello di ‘expanded vision’ exhibition che sostiene Jorge Ribalta segnava anche un punto di “svolta nell’uso di questo tipo di esibizione come mezzo di comunicazione di massa e di propaganda ideologica”. Quale il rapporto con The Family of Man che si tenne a Mosca nel 1959? Come hai ricostruito le vicende della fotografia censurata che ritraeva le prime complicazioni politiche con la rivolta in Germania contro l’esercito sovietico nel 1953?
VS: La vicenda della foto censurata nella mostra The Family of Man a Mosca è il soggetto del lavoro Political Complications che presenta un display di documenti dal National Archives di Washington e dallo State Archive of Russian Federation di Mosca riguardo l’organizzazione della mostra a Mosca nel 1959. La corrispondenza epistolare tra l’USIA (United States Information Agency), il Dipartimento Statale e altre agenzie rivela l’episodio di auto-censura da parte Americana. Le lettere disposte sul tavolo illustrano la conversazione rispetto a possibili conseguenze e ripercussioni all’atto di rimozione dalla mostra dell’immagine di una rivolta anti-sovietica nella Berlino Est del 1953. Secondo gli ufficiali americani la foto avrebbe potuto causare una serie di scomode “complicazioni politiche” a Mosca. Allo stesso tempo sono riluttanti a violare “l’integrità artistica” dell’opera di Steichen e sono preoccupati che la rimozione dell’immagine possa compromettere l’intera ideologia della mostra – libertà di parola e libertà di espressione, democrazia, ecc.
Vladislav Shapovalov, I Left My Heart In Rhodesia, veduta della mostra, Kunstpavillon, Innsbruck, photo: Daniel Jarosch, Künstlerhaus Büchsenhausen, 2017.
“Tutto, contenuto e fotogenia delle immagini, discorso che le giustifica, mira a sopprimere il peso determinante della Storia: siamo trattenuti alla superficie di una identità, impediti dalla stessa sentimentalità a penetrare in quella zona ulteriore dei comportamenti umani dove l’alienazione storica introduce quelle «differenze» che qui chiameremo molto semplicemente «ingiustizie»”. Così se Roland Barthes parlava di negazione della storia per The Family of Man proprio nell’individuazione delle verità universali, invece cosa presentavano queste mostre a partire dal materiale storico sovietico?
VS: La differenza principale tra le mostre e le fotografie sovietiche e quelle americane è che le immagini sovietiche hanno una dimensione storica. La società e le persone sono sempre esibite in un contesto storico, dunque qualsiasi configurazione sociale risulta un prodotto storico. Invece The Family of Man rappresenta la fratellanza universale umana tramite le caratteristiche antropologiche: siamo tutti uniti perché siamo membri dello stesso genere biologico. L’URSS invece proponeva una visione dell’umanità come il risultato del progresso storico: nello specifico nelle immagini sovietiche troviamo spesso elementi di collage ovvero di interventi dentro le immagini che erano fatti per introdurre la dimensione temporale nelle immagini istantanee, ovvero la fotografia. Nel caso più semplice le immagini con questi elementi mostravano un prima e un dopo. Lo si vede ad esempio nella foto di una studentessa proveniente da una delle repubbliche dell’Asia Centrale in cui l’autore inserisce il suo presunto passato di donna velata. E’ chiaro che questa immagine è molto problematica perché è il risultato della coincidenza dello sguardo che modernizza e quello che colonizza di cui parlo nell’installazione I Left My Heart In Rhodesia che si focalizza sulla presentazione della popolazione delle repubbliche sovietiche. Poi ci sono immagini che mostrano delle rappresentazioni infografiche. Nel caso più complesso invece guardiamo alle mostre in sè dove gli schemi di allestimento definivano una narrativa di inizio e di fine della mostra che ne definiva dunque una temporalità introducendo così la temporalità nella staticità della mostra.
Vladislav Shapovalov. Image Diplomacy. 28’56”, 2017. Film still. Courtesy Vladislav Shapovalov. Produced by V-A-C.
A proposito Reesa Greenberg in Remembering exhibitions ha sottolineato il pericolo dell’ondata di installazioni espositive recenti che hanno cercato di fare una storia delle esposizioni (anche come pratica curatoriale auto-riflessiva) con la tendenza a scivolare nel cliché storico-artistico della canonizzazione, rafforzando il concetto di mostra paradigmatica, invece di mettere in discussione questa forma di storiografia. Come dobbiamo guardare oggi questi materiali?
VS: Probabilmente il rischio c’è e possiamo dire che appare una specie di cliché della pratica curatoriale ed espositiva ma secondo me anche questo cliché può essere produttivo perché l’uso conscio del cliché permette di rinforzare il senso, il significato, il messaggio e creare un discorso riconoscibile. Diversamente da altri progetti curatoriali o artistici che concernono la questione del display e della pratica espositiva, io scelgo come soggetto non tanto l’arte o la mostra d’arte ma le mostre politiche, di propaganda e le rappresentazioni nazionali di un certo “soft power”, che usano la cultura come mezzo per disseminare una visione politica definita. Inoltre cerco di spostare l’attenzione dai media artistici tradizionali, come ad esempio la pittura o la scultura, all’immaginario fotografico che, insieme al cinema, è il vero zeitgeist della politica di massa e il materiale principale nella costruzione dell’immaginario politico del mondo contemporaneo. Concentrandomi sulle immagini fotografiche, il cui potere rappresentativo è stato coinvolto nei processi di articolazione visiva delle principali idee politiche del XX secolo diventandone il loro principale strumento, cerco di avvicinarmi alla comprensione del nostro momento storico in cui la politica diventa sempre più rappresentativa e in cui i media visivi giocano un ruolo di protagonisti. Spero che le opere della mostra Image Diplomacy invitino dunque lo spettatore a confrontare e contrapporre gli esempi storici alla realtà quotidiana di oggi e al funzionamento della politica della rappresentazione e delle immagini nella cultura politica.
Vladislav Shapovalov. Image Diplomacy. 28’56”, 2017. Film still. Courtesy Vladislav Shapovalov. Produced by V-A-C.
Oltre al processo di ricerca e di indagine storica e spaziale hai individuato numerose references: dai testi di Jorge Ribalta sulla storia delle mostre fotografiche di propaganda, uno scritto di Alan Sekula fino ai concetti di “exhibition paradigm” (Benjamin H. D. Buchloh) e della mostra come “contact zone” (Susan Reid in un saggio sulle esposizioni durante la Guerra Fredda), solo per citarne alcuni….questo è molto interessante per ripensare alle mostre come potenziali formazioni discorsive con molteplici campi di possibilità [e non solamente un sottocapitolo della storia dell’arte]….
VS: Tra i numerosi testi scritti di recenti sul soggetto quelli che nomini mi sono sembrati i più rilevanti. In particolare l’ipotesi speculativa, ma a mio avviso produttiva, dell'”exhibition paradigm” di Benjamin H.D. Buchloh che propone una traiettoria di influenze reciproche nei metodi di lavoro sui display basati sulle immagini fotografiche che lui traccia dai primi esperimenti di Lissitzky negli anni ’20 e poi le mostre nazionalsocialiste in Germania degli anni ’30, disegnate da Herbert Bayer e da altri fino a Giuseppe Terragni con la Mostra della Rivoluzione Fascista del 1934 fino alle mostre di Steichen disegnate dallo stesso Bayer, trasferitosi negli Stati Uniti e la mostra The Road to Victory e poi The Family of Man. La mia ricerca aggiunge un passo successivo a questo viaggio di forme espositive ovvero quando The Family of Man andò a Mosca nel 1959 e così il ciclo iniziato da Lissitzky in Germania torna indietro nell’URSS, non come prodotto dall’avanguardia ma già come prodotto culturale della modernità occidentale.
Il concetto di “contact zone” invece, che Susan Raid riprende dalla teorica post-coloniale Mary Louise Pratt, tratta della mostra come spazio di contatto culturale tra diverse culture in modo non unidirezionale ma mutuale. Se normalmente si riteneva che la cultura centrale e dominante ne influenzasse un’altra più “debole”, nell’idea di “contact zone” può essere che sia la cultura marginale a influenzare quella dominante, la quale normalmente misconosce questa influenza. Susan Raid applica questa teoria agli scambi culturali nelle mostre internazionali durante la Guerra Fredda. Io vedo le mostre sovietiche fotografiche all’estero non esclusivamente come un evento orchestrato da un lato, dall’URSS o dall’occidente, ma come un processo mutuale in cui l’occidente era inevitabilmente influenzato dalle visioni di un’altra società.
Nel definire lo statuto dell’immagine (ma anche le forme del display) rispetto all’accezione di valore d’esposizione (e non solo per il legame con i rapporti di produzione capitalistica) Benjamin si è basato sulla pratica della politica: il potenziale, insieme effettivo e discorsivo, dell’arte in un pubblico dominio attraverso l’atto di esibizione. Si potrebbe sostenere (rispetto al paradigma espositivo della modernità e la sua storia) una teatralizzazione della mostra come strumento di comunicazione. L’atto espositivo definisce un regime di rappresentazione ed è uno strumento di potere” in quanto è regolato e disciplinato attraverso la sua visibilità o invisibilità, dallo status politico ed economico di ciò che è stato esposto, così come è stato posizionato lo spettatore. “La storia delle mostre è la storia della politica e non meno dei cambiamenti che hanno avuto luogo nelle fondamenta delle nostre strutture sociali”*. In che termini si può parlare di potere del display nelle mostre di propaganda?
VS: Lo spazio espositivo è sempre uno spazio artificiale, costruito. Nel caso delle mostre sovietiche, questa caratteristica dello spazio espositivo corrisponde alla volontà di rappresentare quelli che Susan Buck-Morss definisce i “dreamwords of modernity”, i tentativi di organizzare, costruire, formare lo spazio sociale e la vita dell’uomo per risolvere una serie di problemi sociali. Nonostante le conseguenze spesso tragiche di questo desiderio di riordinare il mondo non si può rifiutare nemmeno il potenziale emancipatorio e liberatorio di questi tentativi. Parallelamente lo spazio della rappresentazione, privo della dimensione di naturalezza, deve essere apprezzato come un monumento della volontà, capacità dell’uomo di organizzare la conoscenza.
Perché chiudi il film con una frase di Paolo Virno, che significato assume nel tuo lavoro?
VS: Il film si chiude con una domanda “Perché guardiamo al passato?” la risposta la prendo dal libro Il ricordo del presente di Paolo Virno. Virno scrive che le relazioni tra il passato e la sfera del possibile, che tendiamo a collocare nel futuro, sono più vicine di quanto pensavamo una volta. Per me questa frase significa l’importanza degli studi del passato che sono strettamente collegati alla nostra capacità di leggere il contemporaneo e prevedere e costruire il futuro.
Vladislav Shapovalov, Image Diplomacy, veduta dell’esposizione Moscow Museum of Modern Art. Photo Ivan Erofeev, 2017 ©V-A-C Foundation. Courtesy artista.